numero 14 - Finzioni Magazine

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numero 14 - Finzioni Magazine
n.14
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The Godfather
Pelham G. Wodehouse
di JACOPO CIRILLO
L
eggere una sceneggiatura come se fosse un libro è una cosa da perderci la
testa. Perché la sceneggiatura funziona con la logica secondo la quale tutto
quello che succede sulla scena deve essere rilevante, deve portare avanti, anche
solo di un passettino, la storia. Le descrizioni, i dialoghi, anche eventuali viaggi
mentali alla Scrubs, tutti narrativamente significativi. Ma un libro non funziona
così, ci devono essere pause e respiri tra un avvenimento e l’altro, parti superflue
per la narrazione in senso stretto ma utilissime per far rifiatare gli occhi. Lunghe
annotazioni, interlocuzioni risibili e personaggi secondari a fare da punteggiatura al racconto, dettargli pause e inflessioni.
Pelham G. Wodehouse è un genio che è riuscito a dare alle stampe una produzione sterminata di romanzi amplificando magistralmente questa idea. Inglese,
trapiantato a Hollywood dopo aver snobbato la seconda guerra mondiale (sic),
scrisse novantasei libri accertati in settantacinque anni, talmente tanti che già
enumerarne le serie in cui sono stati suddivisi è compito improbo. Visto che qua
a Finzioni di improbi non ce ne sono, ci limitiamo a sperticarci in lodi per il ciclo
del castello di Blandings, quello di Mr. Mulliner e quello del maggiordomo Jeeves.
Nel castello di Blandigs, nello Shropshire, c’è lord Emsworth e l’Imperatrice, la
sua enorme scrofa da concorso, più una schiera di parenti vari. Poi c’è Mr. Mulliner che allieta le serate degli avventori dell’Anglers’ Rest con storie incredibili,
mentre al Drones Pub di Londra il maggiordomo Jeeves tira sempre fuori dai guai
il suo giovane padrone facendo dei gran numeri.
Le storie sono articolate ma di elementare comprensione, i personaggi macchiette e il tutto è irrorato da un umorismo inglese talmente paradigmatico da far
pensare che sia stato teorizzato per la prima volta su questi libri. E non si riescono
a staccare gli occhi dalla pagina: per chi comincia, c’è il serio rischio di sciropparseli tutti e novantasei. Perché sono libri che portano avanti il concetto detto prima su tre livelli distinti: uno, sono zeppi di divagazioni, dialoghi non funzionali
alla storia e descrizioni accurate di maiali e zucche; due, i personaggi e gli avvenimenti, in quanto luoghi comuni e macchiette, sono semplici, rilassanti, non necessitano di inferenze o deduzioni e fanno sorridere proprio per questo continuo
ritorno a ciò che ti aspetteresti da loro; tre, i libri stessi fungono da distensivo se
alternati alla lettura di certi mattoni alla Filippo Pennacchio (vedi p. 11).
È il frattale della banalità, l’apologia del clichè o, se preferite, l’eterno ritorno
a se stessi.
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Sommario
La citazione del mese
Le vite ortogonali
Mitomania
Pillole di Scienza
Trilogie
Punizioni
Mattoni
Me lo copre il prezzo?
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8
9
10
11
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Oh, Scena!
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Donne & Compressori 14
Megaviaggi!
15
Biografie edulcorate
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La posta dei lettori
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Interpretazioni non ufficiali 19
Ghost World
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Iperboloser
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Benvenuti su Finzioni numero 14, il numero che esce
proprio il giorno dell’esordio italiano ai Mondiali di calcio del Sudafrica. Noi secchioni lettori di libri, anche se
può sembrare strano, siamo molto appassionati di sport
e siamo talmente tesi per le partite che ormai leggiamo
solo la Gazzetta dello Sport. E, ovviamente, questo numero di Finzioni che, oltre a tutto il resto, è anche stato
pensato per distrarvi dalle tensioni del Mondiale.
smontano allegramente le visioni sedimentate in centinaia di anni di grandi classici della letteratura, ma lo si
fa con rigore.
Editoriale
Poi si parla delle torbide operazioni di marketing
delle case editrici, della pupa, secchione e tossico, dei
Pooh che convocano Dante all’Inferno e dell’ennesimo
Iperboloser francese. E poi basta che qua siamo già in
clima mondiale e riprenderemo a leggere libri appena il
calendario lo renderà possibile.
Per fare questo abbiamo reclutato una nuova penna,
Michela Capra, che ci ha portato in dote la trilogia di Dalila Di Lazzaro – proprio così, la trovate in Punizioni! – e
una nuova rubrica, Interpretazioni non ufficiali, in cui si
La Redazione
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T
ony Pagoda è un eroe del nostro tempo, il più
grande personaggio della letteratura italiana
contemporanea.
Antonio D’Orrico
La citazione del mese
Hanno tutti ragione, Zia Mame e Il
palazzo della mezzanotte
di JACOPO CIRILLO
T
ony Pagoda, protagonista
del libro di Paolo Sorrentino
Hanno tutti ragione, non è il più
grande personaggio della letteratura italiana contemporanea. Ma
questo lo sa anche Antonio D’Orrico, nonostante lo abbia scritto sulla
fascetta che accompagna l’edizione
Einaudi dell’esordio letterario del
regista del Divo. Alla fine della fiera, penso che non lo sia proprio, un
grande personaggio. O meglio, prova ad esserlo, circondandosi di personaggi molto più divertenti come
Alberto Ratto, uomo misterioso che
vive nella foresta amazzonica e che,
quando si ferma, “nulla più conserva una posizione eretta”. O Gegè
Raja, intellettuale napoletano di 83
anni confinato a Roma e dispensatore di pillole di saggezza, che divide la linguistica moderna in “figo”
e “non figo”.
Ma alla fine della fiera anche
questi non sono grandi personaggi.
Sono telefonati, fanno e dicono solo
delle figate (appunto) e, nonostante
l’effettività e la pochezza dell’espe-
diente narrativo (anch’io sono uno
sborone se ammazzo di botte dieci
indigeni a mani nude o se sono un
vecchio rincoglionito con idee travolgenti), non riescono comunque
a far diventare Tony Pagoda un
grande personaggio, neanche di
rimbalzo.
Ma va bè, il punto è un altro. Le
fascette. Non mettermi una frase di
D’Orrico così in bella vista sulla copertina, altrimenti mi sfuggono i 18
euro stampati sul retro e magari me
lo compro il libro, addirittura con
soddisfazione. Il marketing becero
lo capisco, per carità, il fastidio è legato alla letteratura e alle opinioni
che, con questi modi, ci vengono
costruite intorno. Come Zia Mame.
Pubblicato da Adelphi lo scorso
anno e subito diventato best seller
dell’estate, nessuno della casa editrice si è minimamente preoccupato di specificare che è effettivamente una ristampa di un libro che era
già culto nel 1955, data reale di pubblicazione. Qui si rischiano figuracce nei salotti, hai letto il nuovo libro
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di Patrick Dennis? Patrick Dennis è
morto 34 anni fa, signora.
Un altro numero del genere? Il
palazzo della mezzanotte di Carlos Ruiz Zafòn, ai primi posti delle
classifiche delle ultime settimane,
avvantaggiato dal traino de L’ombra del vento, il best seller precedente. Ecco, questo libro ha una
bella copertina dark con un treno
che sbuffa in un paesaggio esotico.
In cui ci sono Calcutta, ammazzamenti, colpi di scena e orfanelli.
Peccato che Mondadori non abbia
specificato in nessun modo che il
volume, scritto nel 1994, sia un libro
per ragazzi, scritto e pensato per ragazzi, lavandosi la coscienza con
l’avvertenza/puttanata che il libro
è “per bambini dall’età compresa
tra 9 e 90 anni”, che vuol dire tutto
e niente o, nel migliore dei casi, può
servire giusto a rincuorare i componenti dell’ex-famigerata generazione X che ormai hanno 40 anni, sono
in crisi di mezz’età, e che non se li
calcola più nessuno.
Le vite ortogonali
Elisabetta II vs Capitano Beatty
di JACOPO DONATI
P
lutarco scrisse una serie di 24
biografie che prese il nome
di Vite parallele. Per ognuna prese
una figura greca ed una romana, le
mise una affianco all’altra e ne cercò le similitudini. Ma qui si parla
di finzione, mica di realtà!, e così i
miei grandi saranno i personaggi
d’inchiostro dei libri. Lavoro ben
più umile il mio che, oltre a esaminare solo una parte della vita di
questi personaggi, ne sottolineerà
le differenze.
di Stato che qualunque lettore vorrebbe vedere nel proprio paese: un
leader che recita versi alle inaugurazioni, che ama la letteratura in
quanto tale e che sembra dare un
valore alla cultura e alla sostanza.
Quale può essere il compito dello Stato se non quello di spianare
le diversità tra i suoi componenti e
cancellarne l’infelicità? Per Beatty
la cultura era solo un’accozzaglia di
storie false che provocava dolore in
chi le leggeva e senso di inferiorità
in chi non aveva mai aperto libro.
Ma ciò di cui il capitano dei vigili
del fuoco sembra non rendersi conto è che, assieme alla carta, anche la
profondità degli animi dei cittadini
va in fumo.
Elisabetta II
La descrizione iniziale che Alan
Bennett fa nella Sovrana lettrice indignerebbe qualunque baronetto
inglese. Non è difficile immaginarsi
la regina Elisabetta come una persona un po’ vuota, un po’ superficiale; non frivola, ma più simile ad
una comparsa o a un personaggio
mal delineato. Il silenzio che ha
contraddistinto il suo regno non è
saggezza, ma mancanza di spirito,
e sembra che tutte le persone che la
circondano la preferiscano così.
Tutta la sua vita cambia, però,
grazie ad un ragazzo impiegato nelle cucine, Norman, e a una biblioteca ambulante: Elisabetta ritiene
doveroso prendere in prestito un
libro da quella biblioteca e da quel
momento non potrà più fermarsi.
La metamorfosi è così importante che per certi personaggi questa
nuova passione della regina sarà
motivo di imbarazzo.
Capitano Beatty
Beatty è capitano dei pompieri e
capo di Montag, il protagonista di
Fahrenheit 451. Non è solo l’antagonista principale, è il tipo di persona
che ha fatto sì che nascesse la distopia descritta da Ray Bradbury.
Per Beatty fare il pompiere non
è un semplice mestiere: è una missione in cui crede, un lavoro che
rispecchia profondamente ciò che
pensa. Un tempo avido lettore, ora
Beatty ha abbandonato la parola
stampata, conscio del male che potrebbe nascerne. Beatty è l’unico
personaggio che va contro i libri ma
che non sembra essere un burattino
nelle mani della società.
Elisabetta II si trasforma nel capo
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Beatty ed Elisabetta II intraprendono due cammini opposti: il primo lesse, ma poi smise preferendo
bruciare i libri; la seconda, invece,
comincia a leggere per caso, quasi
per errore, e capisce poi cosa si è
persa in questi anni. Ma ciò che li
distingue di più è l’accettare ciò che
è positivo e negativo nella lettura, e
il considerare la tristezza che può
nascere dalle pagine di un libro non
come un peso di cui liberarsi, ma
come una scossa di vita in un’esistenza piatta.
Mitomania
Dove si parla delle matte storie inventate
dagli antichi Greci e mutuate dai moderni.
di VIVIANA LISANTI
Medea: Euripide Vs. Christa Wolf
Parte prima
con alcune prove umanamente insuperabili. Qui entra in
gioco Medea, figlia di Eete,
che si innamora di Giasone e
all’insaputa del padre lo guida
nel bosco di Ares, dove grazie
all’uso delle sue arti magiche,
addormenta il drago e permette all’eroe di prendere il Vello.
Q
uando ti affibbiano un’etichetta è difficile strapparsela di dosso. Se non ci è riuscito il tuo
compagno delle medie che ancora
oggi tutti ricordano per l’alito mefitico, figuriamoci quant’è difficile
per Medea, la cui nomea di barbara
sanguinaria già passava di bocca in
bocca da decenni quando, a peggiorare le cose, ci si mise d’impegno
pure Euripide con la sua tragedia.
E’ proprio l’ adattamento del mito
che il drammaturgo ateniese mise
in scena per la prima volta nel 431
a.c. a consegnare all’immaginario
collettivo il ritratto definitivo della
lucida omicida che per vendicarsi
del marito massacra i suoi stessi figli: una versione questa che segna
una rottura rispetto alle molte altre
circolanti all’epoca, distinguendosi
principalmente, ma non solo, per il
macabro epilogo.
Ma facciamo un recap dei misfatti compiuti da Medea per ricordarci
di che magnifica criminale stiamo
parlando:
•
il tradimento del padre: Giasone e gli Argonauti giungono in
Colchide per recuperare il Vello d’oro custodito dal re Eete.
Il sovrano, non avendo alcuna
intenzione di accettare la richiesta, finge di acconsentire
a patto che Giasone si misuri
•
Il fratricidio: Argo riparte con
a bordo Medea e i Colchi alle
calcagna. Cosa fare per toglierseli di torno? Ci pensa
Medea: fa a pezzi il fratello Absirto e ne getta le membra una
ad una nel mare cosicché il
padre, per fermarsi a recuperare il corpo del figlio, rallenti
l’ inseguimento.
•
L’uccisione di Pelia: una volta
arrivati a Iolco, Medea che nel
frattempo è diventata la moglie di Giasone e ha avuto da
lui due figli, pensa di fargli un
regalo di nozze. Decide di far
fuori Pelia, lo zio di Giasone
nonché usurpatore del trono,
colui il quale aveva promesso
di restituire i diritti regali al
legittimo erede una volta posseduto il Vello. L’assassinio
porta la firma inconfondibile
della principessa barbara: facendo leva sulle sue credenziali da maga convince le figlie
di Pelia a sottoporre il padre
ad un trattamento di ringiovanimento che, come lei stessa
mostra con un montone, con-
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siste nel fare a pezzi l’animale
e cuocerlo in un calderone.
Con Pelia però non funziona.
•
La strage di Corinto: I due sposini, dopo il flop del ringiovanimento, sono costretti a
scappare a Corinto presso il re
Creonte. Qui Giasone cade su
un cliché consolidato: lasciare
la moglie per una più giovane
e bella, nello specifico Glauce,
figlia di Creonte. Chi non reagisce secondo norma è Medea,
ma si sa che lei è sempre stata
originale. Appresa la notizia
del ripudio dal letto nuziale
e dalla città, non si limita a
recitare la parte della donna
umiliata e arrabbiata, che al
massimo rompe il vetro della
macchina o distrugge la collezione di vinili: finge inizialmente di aver accettato la sorte con filosofia, il giorno dopo
a sangue freddo avvelena Creonte e figlia, massacra i suoi
due bambini e mentre Giasone impreca e la maledice, si
allontana verso nuovi lidi su
un carro tirato da draghi alati.
Si possono trovare molte attenuanti a Medea, considerato il passaggio repentino dalle stelle alle
stalle: nella sua terra era una maga
saggia e rispettata nonché di nobili
natali e nel giro di un decennio si
ritrova esule in una terra straniera
e ostile, trattata come una strega
e per di più ripudiata dal marito,
Ma se come quasi tutte le etichette anche quella di
omicida spietata fosse falsa o vera a metà? Se intervenisse qualcuno a ribaltare la storia di Medea dipingendocela come innocente capro espiatorio dei Corinzi e ci
sorprendesse dicendoci che non si tratta di un’invenzione letteraria o di una rilettura del mito, bensì di un’antica e attestata versione pre- euripidea?
quindi condannata ad una vita da miserabile. E poi
come si fa a mantenersi su di un livello civile di discussione quando, di fronte all’ elenco minuzioso di sacrifici
compiuti per promuovere la carriera dell’amato, lui ti
risponde serafico “Esalti troppo i tuoi benefici: io credo
invece che soltanto Cipride tra gli dei e tra gli uomini, mi
abbia salvato nella mia impresa”?
Continua…
Nonostante l’empatia che suscita la sua vicenda, Medea rimane pur sempre una pazza selvaggia e sadica. Si
rimane affascinati, non si riesce a solidarizzare fino in
fondo.
Pillole di scienza
La pupa e il secchione. E il tossico.
di FABIO PARIS
Dopo aver parlato della bellezza
della scienza parliamo un po’ delle
persone che la fanno. Gli scienziati.
Lo stereotipo comune prevede due
sterotipi: lo scienziato pazzo ed il
secchione noioso. In realtà c’è un
altro caso, quasi mai considerato
ma molto comune, il genio alcolizzato, drogato e magari sessuomane.
Grande genio per grandi bevute,
quasi come uno scrittore beat.
Il ràs di questa genìa è senz’altro
il grandissimo Kary Banks Mullis,
biochimico americano e premio
Nobel per la scoperta della PRC
(Polymerase Chain Reaction), una
reazione chimica che viene usata
per replicare in provetta il DNA,
senza la quale non ci sarebbe stato lo sviluppo delle biotecnologie.
Roba seria.
Il buon Mullis è un surfista, negli anni '60 a Berkeley era un gran
contestatore. Ha scritto un libro dal
titolo eloquente Ballando nudi nel
campo della mente. Con un titolo
così non poteva che farsi di LSD.
Infatti il buon Kary si cala della
gran LSD. “In quegli anni molta
gente prendeva LSD in Berkeley, fu
un’esperienza di apertura mentale
fantastica, molto più significativa
di qualsiasi corso abbia mai seguito”. Intervistato dalla CNN disse
che senza LSD molto probabilmente non avrebbe vinto il Nobel.
Nonostante sia un grandissimo
scienziato, tale da vincere un Nobel appunto, e lasciare un’impronta
profonda nella storia dell’umanità
con la sua invenzione, Mullis crede nell’astrologia, e una volta definì coloro che non la considerano
l’equivalente moderno di chi credeva che la terra fosse piatta. Non è
uno scherzo, Mullis ha davvero vinto un Nobel e crede nell’astrologia.
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Tra le altre facezie Mullis è uno
dei più grandi detrattori del legame
(provato ed accertato) tra AIDS ed
infezione da HIV. Ma nonostante la
sua educazione, raccoglie qua e là
casi dubbi per formulare delle statistiche assurde che dicono quello
che vuole lui. Allo stesso modo dice
che non c’è nessun buco dell’ozono
e ha seri dubbi sull’effetto antropogenico del riscaldamento globale.
Dulcis in fundo: nel suo bel libro
dice anche di essere stato rapito dagli alieni in un bosco...
Trilogie
Joe R. Lansdale – Ciclo del Drive-in
di Stefano Fanti
S
arebbe così semplice non attivare il motorino che spinge
in basso il labbro inferiore, in alto
quello superiore e muove la lingua
forsennatamente, facendo uscire
suoni senza un rigore neanche a
cercarlo con la luce accecante che
qualcuno ha visto – non è uno spoiler, dai! - nel finale di Lost (il finale
di Lost, prima o poi ne parleremo).
Basterebbe NON farlo.
Ma pare che ultimamente, l’obbligo di parlare (a vanvera), sia così
pressante da risultare invincibile.
Personalmente mi chiedo: il grave
problema della non conoscenza,
può essere risolto ciarlando meno
di cose che non si conoscono? Magari utilizzando quel tempo (perso) per disporsi faccia a faccia con
l’ignoto? Ponendomi tali utopiche
domande mi rifugio nel mondo furioso di Lansdale, dove le orecchie
sanguinano per le urla e non per le
idiozie.
Se La Notte del Drive-in, primo
episodio della trilogia, ci presenta
l’Orbit, teatro della mutazione della realtà in corso, ed i protagonisti,
scaraventati dentro (e oltre) i film
dell’orrore (tutti capolavori) che
stavano guardando in un’escalation di violenza e claustrofobica
follia, con cristiani fondamentalisti
e Re del Popcorn a mietere vittime
nei modi più assurdi, La Notte del
Drive-in 2 (Non Uno dei Soliti Seguiti) ci trasporta in una terra labirintica dove la realtà (del mondo esterno
al Drive-in) ha lasciato il posto alla
fantasia sfrenata della penna statunitense, che non lascia nulla al caso
tra dinosauri, alberi-vampiro ed assassini di ogni sorta.
Il terzo episodio, sottotitolato
La Gita per Turisti non è da meno
e prosegue spedito sulla strada po-
Il Ciclo del Drive-in opera del
texano dagli occhi di ghiaccio che
risponde al nome di Joe “34000 libri scritti alcuni pazzeschi altri
abbastanza inutili” Lansdale, è una
pioggia infuocata di caos e perversioni varie. Tre volumi densissimi
di situazioni catastrofiche, personaggi sovraumani, convergenza
incessante di generi letterari – fantascienza ed horror in primis – ma
anche cinema e televisione, compressi in un calderone in cui la pop
culture viene devastata da un mondo – quello dove si muovono i nostri
protagonisti – surreale e spietato.
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polata da mostri e umanità deviata
(a)varia(ta), simbolo ed allegoria
della realtà contemporanea, rappresentata, sopra le righe, da un
immaginario tanto fantasy quanto
libero.
Una trilogia, certamente caotica,
a cui a volte è difficile star dietro,
ma che non lascia scampo per inventiva, trasversalità ed attitudine.
Crudo, ironico nel profondo e fortemente politico, questo è il miglior
Lansdale ever. “Ora, se avete mangiato i vostri figli, e pure i cani morti, se avete leccato la merda secca
appiccicata alle suole delle vostre
scarpe, le mie notizie dovrebbero
darvi un brivido di piacere, dovrebbero farvi sentire su di giri. Sono
qui per dirvi che il Re del Popcorn è
un uomo cordiale…”.
Punizioni!
La trilogia di Dalila di Lazzaro
di Michela Capra
M
i tocca un compito ingrato,
poiché penso che sparare letterariamente a zero su Dalila
Di Lazzaro sia amorale. Per una
vecchia anarchica come me, farsi
problemi morali è ormai l’ultimo
baluardo dei paletti interiori da autoimporsi a forza. Venisse a mancare quello, raderei al suolo il 75% dei
wannabe letterati odierni a suon
di crudeltà verbali e scritte. La punizione che mi infliggerò sarà dunque dedicata ai ghostwriter, editor
e pseudogiornalisti che hanno costruito a tavolino la trilogia dell’ex
attrice (Il mio cielo, L’angelo della
mia vita, Toccami il cuore - tutti
bestseller Piemme).
Hey there Delilah, mi senti? Come
mai hai deciso di affidare a questi
prostituti della parola, sciacalli della lacrima facile, analfabeti della
subordinata la tua splendida storia?
Eh sì, svelo subito il pro del leggere
la Di Lazzaro: la sua storia di vita,
parliamo infatti di tre biografie romanzate, è meravigliosamente genuina. Il dolore provato dall’attrice,
la sua ricerca interiore, la sua lotta
quotidiana possono dare uno stupendo esempio a chiunque, lo dico
con tutto il cuore che posso metterci. Dalila cresce con una madre che
definire anaffettiva è dimostrarsi
estremamente affettivi, subisce
molestie sessuali e da adolescente
partorisce Christian, scomparso
in un incidente stradale poco più
che ventenne. Una manciata d’anni
dopo il lutto, a causa di una buca
presa in moto sulle strade romane,
Dalila riscontra un trauma alla spina dorsale, che oggi la costringere a
duellare con il dolore cronico, contro il quale è diventata un’onesta
esponente mediatica.
Sembrerebbe che nulla di male
si debba dire davanti alla testimonianza positiva di una donna che
ha senza dubbio assaggiato la pioggia. È qui che entrano in gioco i cosiddetti professionisti della parola,
che hanno assemblato le considerazioni buttate giù di getto dall’attrice. Ecco a voi la fuffa: le oltre 600
pagine dei tre volumi messi insieme
potrebbero ridursi a 200 senza sminuire il contenuto. Le ripetizioni
non si contano e lo schema è sempre il medesimo (ripetuto per tre
libri tre): racconto delle sfortunate
vicende, aneddoti a sé stanti della
via da star, ripresa delle vicende
personali con denuncia del sistema
sanitario che nulla fa per gli affetti,
numerosi, dal dolore cronico. Diversivi? Nel primo libro non ce ne
sono perché le vicende sono nuove
al pubblico, nel secondo si prova a
rivisitare il polpettone in ottica spirituale. Il vero scandalo si consuma
nel terzo, dove si affronta solo una
novità: la recente rottura sentimentale di Dalila con un uomo in
vista protetto dall’anonimato (per
me comunque è Giovanni Terzi),
e poi? Poi si ripete la solita solfa
di amarcord giovanili conditi di
nostalgia e dosi di senso di colpa:
tutto grida (ancora) “se avessi fatto
diversamente?”. Ci si trova a dover
riemergere dalla lettura, non fosse
altro per la nausea provocata dalla superficialità di frasi acchiappa
consensi, impilate dai miei amici
dietro le quinte: “Orfana di questo
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grande amore avrei dovuto proiettarmi in una nuova vita. Quando
hai un figlio la bistecca migliore
è per lui. L’amore di un figlio è per
sempre”. Giuro che sono in successione così come dico (Il mio cielo,
p. 188). A volte riemergi scossa dal
dubbio di leggere un Harmony:
“Ancora addormentata, sentii Claudio che mi baciava sulle labbra,
sul collo, facendomi sentire la sua
virilità.[…]Era nudo e, grazie alla
penombra, gli vedevo i pettorali e
le braccia che mi sorreggevano. Mi
sollevò abbracciandomi e mi attirò
a sé adagiandomi sul suo petto.”
(ivi, p. 80). Insomma, c’è da stupirsi
che accenti e punteggiatura siano
corretti.
Però un appunto lo faccio anche
alla Delilah in persona, ovvero colei che Patrizia D’Addario definì “la
mia scrittrice preferita”. La signora
si sente una scrittice, ma non lo è,
perché una scrittrice non è colei
che prende una penna e scrive. Lo
sarebbe mia madre, visto che da
55 anni compila settimanalmente
la lista della spesa. Sarebbe come
definire Fiorello un cantante o me
stessa una ballerina, perché quando alla radio sento i Doors compio
movimenti convulsi che nella mia
testa significano ballare. E anche
avessi Heather Parisi che mi correggesse, non lo sarei mai e poi mai.
Mattoni
Charles Brockden Brown,
Opere scelte (da me),
Peso: dai 2 ai 6 kg a
seconda delle edizioni
di Licia Ambu e Alessandro Pollini
A
sterebbe in un ovvio rifiuto, visto e
considerato l’alto tasso di tragedia
e, in pari misura, di pallosità dei
due esemplari romanzeschi in questione. D’altro canto, questo rifiuto
trova la sua più naturale spiegazione se concediamo che in letteratura
la disperazione si distribuisca secondo una logica ben precisa, eleggendo a propria patria quei testi che
elevano l’illegibilità a paradigma.
Altrimenti detto, i testi squisitamente tragici – quei romanzi in cui
il leggere è consustanziale al piangere – sono o insopportabilmente
tediosi e complessi, specie per un
sedicenne svezzato a Kafka, Leopardi e Lost, o, più drasticamente,
del tutto rimossi dalla nostra coscienza letteraria.
lla volta dei sedici anni, ma
spesso anche prima, il novanta per cento dei giovani studenti
italiani viene introdotto nell’universo finzionale di Franz Kafka e
istruito su come, leggendone i romanzi, prendersi male. Del tutto
straordinariamente, succede di solito che questa abitudine inculcata
in età puberale persista nel tempo,
tanto che stupisce poco o punto
ritrovarsi anni dopo a conversare
con trentenni inclini a credere che
le vette supreme di disperazione
in letteratura coincidano anzitutto
con certi passaggi de La metamorfosi, del Processo o del Castello. Sorvolando sul fatto che quasi nessun
professore, docente universitario o
studioso abbia spiegato loro, anzi ci
abbia spiegato che, del tutto pacificamente, i testi di Kafka possono
essere letti superficialmente, ovvero ironicamente – d’altronde è cosa
risaputa: leggendo ad alta voce la
propria opera, lo scrittore ceco e i
suoi amici si facevano grasse risate
–, sarebbe interessante sondare la
reazione di un giovane lettore posto
di fronte anche solo a poche pagine
de La lettera scarlatta piuttosto che,
poniamo, di Casa desolata.
Appartiene senza dubbio alla
seconda categoria (ma pure un
po’ alla prima) l’opera di Charles
Brockden Brown, sarebbe a dire il
primo romanziere della storia americana, colui che diede alle stampe
per lo meno un paio di capolavori,
come da copione colpevolmente
misconosciuti, Wieland, o la trasformazione (1798) e Ormond, o il
testimonio segreto (1799).
O meglio, la reazione sarebbe
quanto meno prevedibile e consi-
Scrittore fallito, morto a trentanove anni di tubercolosi, conser-
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vatore, probabilmente omosessuale, incapace a suo dire di cogliere
persino la «vivida percezione della
sventura», Brown scrisse pagine e
pagine che ancora oggi fanno cacare addosso di paura e assieme
spalancano abissi di disperazione,
roba che in confronto Kafka, che in
ogni caso paura non fa, tocca solo
di sfuggita. Wieland, per esempio,
racconta di un padre che muore per
autocombustione, di un delitto che
prende forma attraverso la voce di
un ventriloquo, di ossessione religiosa, di un probabile incesto tra
fratello e sorella; in Ormond e in
Arthur Mervyn, invece, un’epidemia di peste gialla che dimezza di
netto la popolazione di Filadelfia fa
da sfondo alla storia degli omonimi
protagonisti, due soggetti psichicamente disastrati, l’uno incline
alla violenza – tanto da vendicare
l’uccisione dell’amico Sarsefield
trucidando cinque uomini per poi
esibirne le teste sanguinanti a mo’
di trofeo – l’altro affetto dalla patologia hawthorniana per cui amore
e incesto altro non sono che recto e
verso della stessa medaglia – «Non
stava ella forse in luogo della mia
povera mamma?» si chiede Arthur
mentre viene impalmato dall’amata Achsa Fielding –; in Edgar Huntly,
infine, il protagonista cade preda
del sonnambulismo e si risveglia
in un pozzo di fronte a una pantera
che prima uccide con un tomahawk
e poi divora, salvo poi vomitarne le
carni (in seguito, percorrendo alcune gallerie sotterranee, scoprirà
una ragazza tenuta prigioniera dagli indiani eccetera eccetera).
Insomma, storie bellissime e
nondimeno terrificanti e tristissime. Dovessero essere lette in età
puberale, di certo causerebbero
sfaceli emotivi – o forse, più realisticamente, fatta la tara alla dieta mediale cui ci sottoponiamo di questi
tempi, annoierebbero a morte. A
questo punto, noia per noia, tanto
vale scegliere Kafka, almeno La metamorfosi la leggi in un pomeriggio.
Me lo copre il prezzo?
Buongiorno, ho scritto un libro
di LICIA AMBU
- Che fortuna però ,così leggi un
sacco.
- Beh, ho molti libri a disposizione.
- Pensa, io se dovessi dire che altro
lavoro vorrei fare penso proprio che
sarebbe il tuo. Lavorare in una libreria. Io leggo un sacco .
Allora sfatiamo questo mito. Un
normale bipede senziente che lavora in libreria ha lo stesso monte ore
di lettura potenziale a disposizione
di chi lavora in un altro negozio. Ha
più scelta, questo è vero, ha la scusa
che si tratta di lavoro, anche questo è vero, ma comunque lavora in
una libreria che va mandata avanti.
Probabilmente legge
sui mezzi, la sera a letto oppure la domenica,
per dire.
di grandine intorno ai cinque minuti precedenti la chiusura.
- Questa è una libreria indipendente, vero? Si vede, mica è come Feltrinelli, dove nessuno ti considera.
Allora, io lavoro in una Libreria
molto piccola. Se entrasse un lettore e io non lo prendessi in considerazione, così tanto per proforma,
beccherei una randellata in faccia.
Dal lettore, che statisticamente è
abituè e si chiederebbe che accidenti succede, e da chi intitola la Libreria. E poi è molto più interessante leggere altri lettori, confrontarsi.
- Hai letto l’ultimo di…?
- No, ancora no.
- Beh… devi leggerlo, secondo me
è fantastico .
Anche il commesso di Feltrinelli
ha una vita e magari legge un sacco.
Legge un sacco anche la casalinga
che mi abita vicino casa. E anche i
bambini leggono un sacco. E nessuno di questi esempi lavora in una
libreria.
Io da grande vorrei fare la maestra, la giardiniera, la veterinaria e
la libraia, così leggo quanto voglio.
Assunta.
Per fortuna fai questo lavoro e puoi leggere, io leggo solo la
sera a letto e sono così
stanco che non riesco
mai a resistere tanto.
Anche i dipendenti
di una libreria hanno
una vita. Eppure leggono. E quando sono al
lavoro, come dire, lavorano! Che mica vuol
dire leggere… quella
è la passione. Io per
esempio non ho mai
visto un commesso di
Feltrinelli leggere sul
posto di lavoro. Non
ho mai visto nemmeno
me, tranne un sabato
12
Oh, Scena!
ta di parto e può rivivere un giorno della sua vita e sceglie quello:
mamma, guardami, sono io, come
sei bella mamma, come sei giovane, ora sei una nonna e tuo nipote
è già orfano, George dovrà tirarlo
su tutto solo, com'è triste tutto questo, mamma, i vivi non capiscono
quanto sono fortunati, i vivi non
capiscono proprio niente.
Certo che l'amore è
una noia
di SIMONE ROSSI
Piccola città, bastardo posto: a
Modena, come finiscono le scuole,
le corse degli autobus vengono falcidiate a colpi di AK 47.
(nipresa.tumblr.com)
A
Grover's Corner nei primi
del Novecento vanno ancora tutti a cavallo: "Se poi adesso
cominciano anche con queste automo... con queste auto-mo-bili,
l'unica sarà di restarsene a casa. E
dire che io mi ricordo di quando un
cane poteva restarci a dormire tutto
il giorno, in mezzo alla Main Street,
senza che gli succedesse niente”. Il
gelataio senza denti mette due immaginari gelati alla fragola nelle
mani adolescenti di Emily e George, oh, Emily e George, una storia
d'amore talmente normale che la
fragola del gelato è l'unico coso
rosso in una commedia in bianco e
nero. Anzi, no: in grigio, monocroma, monocorde, piaaatta. Buongiorno signora Gibbs, oh, salve,
professor Willard, come andiamo?
eh, come vuoi che vada, va.
Per un atto e mezzo La piccola
città di Thornton Wilder è una noia
mortale, e sono tre atti in tutto: un
villaggio che si saluta e spettegola
e parla del tempo e fa le prove del
coro per la Messa, e basta. A metà
del secondo atto Emily e George
si prendono un gelato alla fragola
che non esiste e poi si sposano ("Lo
sposo è su che si fa la barba... Solo
che non ha ancora molta barba da
farsi, eh?") e tutta Grover's Corner è
in festa e poi Emily muore di parto
e tutta Grover's Corner è triste, e
la più normale delle storie d'amore
tristi diventa straordinaria per un
motivo su cui ritorno alla fine.
Master of Puppets, oltre a essere
il titolo di un disco dei Metallica,
è il Narratore Onnisciente, quello
che sta contemporaneamente nelle teste di tutti i personaggi e va
avanti e indietro nello spazio e nel
tempo, perché il Burattinaio fa un
po' il cazzo che gli pare, è Dio che
fa le corna con due mignoli. Il Burattinaio della Piccola città si chiama Direttore di Scena ed è tipo John
Malkovitch che guarda sempre in
macchina e racconta la storia come
se gli scorresse dietro le spalle in
un cinegiornale, un documentario
sulla vita in una piccola città del
Midwest americano che blablabla.
Il telecomando ce l'ha lui e ogni
tanto interagisce con gli attori, si
toglie il cappello quando entrano le
signore, fa la parte del prete e dice:
"A questo punto devo fare la predica, perché sto facendo la parte del
prete". Ah, l'enunciazione enunciata.
Il Direttore di Scena diventa un
gelataio senza denti e poi un prete per il matrimonio e il funerale,
e a un certo punto dice: "Va bene.
11 febbraio 1899. Un martedì". Il
giorno del 12esimo compleanno di
Emily, che ora ha 26 anni ed è mor-
13
Che morale spicciola. Che sofferenze ordinarie. Che vita mediocre.
Esatto. La Piccola Città di Thornton
Wilder canta la mediocrità e la
canta benino, sembra il coro della
parrocchia diretto da un alcolizzato, ma l'autoreferenza è dichiarata,
l'enunciazione è enunciata, e almeno i giochini ci tengono svegli:
ci sono libri veramente autoreferenziali e veramente noiosi e non lo
dichiarano mai, e invece i cittadini
di Grover's Corner lo dicono in continuazione: qua si parla del tempo,
e poco altro, non siamo gente intelligente, però, davvero, non rompeteci i maroni, si sta bene a Grover's
Corner.
A un certo punto devono costruire la nuova sede di una banca, tutta
di marmo, e pensano di seppellire
insieme alla prima pietra qualche
testimonianza per gli archeologi
del quarto millennio: ci mettono
la Bibbia e la Costituzione, evidentemente, e poi Shakespeare (brrr)
e una copia di "Questa commedia",
quella che stanno recitando, e io
volevo solo dire che non esistono
storie straordinarie, e che un buon
trucco per far sembrare straordinaria una normale storia d'amore e
morte è farla emergere da un fondo
di banalità, e se ti guardi intorno
trovi tutta la banalità che ti serve, e
infatti questa commedia è talmente
noiosa che ha vinto il premio Pulitzer nel 1938.
Donne & Compressori
Week-end con il borderline
di ALEX GROTTO
L
'impatto del meteorite “Prima Domenica In Spiaggia”
con il mio pianeta fatto di sbadigli,
sigarette e birre sottomarca sgasate
è un cataclisma a cadenza annuale
terrificante. Ogni anno vorrei avere
a disposizione un Bruce Willis telecomandato da mandare a sacrificarsi sulla suddetta roccia spaziale,
evitandomi di indossare i bermuda
dell' '84 e la maglietta di Bierhoff
che uccidono la poca autostima rimastami. Inforco l'auto per andare
nella località balneare a me più vicina, la mitica Rosolina Mare, un
ecomostro di alberghi fascisti con
contorno di sabbia e mare verdastro a fondale argilloso, che ricorda
molto i paesaggi sovietici sul Mar
Caspio: mancano solo le piattaforme petrolifere a cento metri dalla
riva e i sottomarini nucleari spiaggiati. Ma si sa, lo stereotipo vuole
che l'unico passatempo in grado
di darci un tono sulla spiaggia sia
la lettura, possibilmente a sfondo
sentimentalista un po' sporco, perchè è Estate e gli ormoni ballano la
Lambada a rotta di collo.
Questo mese la lettura da spiaggia, Norwegian Wood di Haruki
Murakami (Einaudi, 374 pagine,
nove euro e ottanta) me l'ha suggerita Clara, che gestisce una fumetteria, si definisce un' otaku, ha una
maglietta autografata da Go Nagai,
va pazza per i ramen, ascolta gli Incapacitants e sì, ha questa manifesta fissa per il Giappone. Ammetto
per la prima volta, da quando i lettori mi stanno plasmando con i loro
consigli, di aver iniziato un libro
senza preconcetti: i giapponesi non
mi hanno mai tradito. In ambito artistico finiscono spesso bistrattati,
considerati degli scoppiati e derisi
per la loro strana usanza di vendere
materiale pornografico censurato,
conseguenza diretta di valutazioni
e critiche mosse da una cultura agli
antipodi, quindi superflue.
Murakami era già affermato in
Giappone quando scrisse Norwegian Woods, era già noto come uno
di quegli autori new-wave di seconda generazione, con gli occhi e
le orecchie rivolte ad Occidente (a
differenza dei padri o della generezione tradizionalista precedente),
gente che aveva promosso il genere
del romanzo in salsa hard-boiled:
adolescenze sbagliate, amori malati, sesso violento, lacrime e sangue, incesti. Tutta roba buona e
Norwegian Woods è la summa di
quasi tutti questi argomenti. C'è il
protagonista, Toru Watanabe, un
contenitore stereotipato come lo
erano Holden o David Copperfield
guidato da un senso della morale
inamovibile, tranne nel caso in cui
si trovi di fronte la macabra Naoko
di cui è innamorato e di cui approfitta nei rari momenti di semilucidità mentale di lei, tra un tentativo di
suicidio e l'altro.
I personaggi marginali a cui ci
si affeziona vengono inghiottiti e
spariscono nel nulla tra le pagine
man mano che la traballante vita
amorosa di Watanabe prosegue,
lasciandoti quel senso di vuoto e
di claustrofobia come solo le cene a
casa degli amici con le diapositive
delle vacanze. Non c'è una figura
14
sana in tutto il romanzo, non c'è
un'ideale pulito o una sola prospettiva positiva, ma tutto è tormentato,
morboso, improvviso, catastroficamente inarrestabile come un suicidio o le canzoni dei Beatles che
scandiscono il ritmo degli eventi.
L'amore tra Watanabe e la sconvolta figura di Naoko, potrebbe essere
l'unico elemento veramente in grado di curare l'incurabile, ma riesce
addirittura a fare di peggio: non c'è
nulla che ricordi più fedelmente gli
amori che scoppiano nei villaggi
turistici italiani su sordide sedie di
vimini tra clienti insoddisfatti dei
balli di gruppo. Questa è l'Estate e
non è più come le vacanze di Alberto Sordi.
Megaviaggi!
Ordinare i libri
di ALESSANDRO POLLINI
«S
ette mesi più tardi, il 18
giugno 1941, quando i
prodromi del bombardamento tedesco accesero di elettricità i cieli
di Trachimbrod, mentre mio nonno
raggiungeva il suo primo orgasmo,
lei si tagliò le vene con un coltello
ormai smussato dopo tante lettere
d’amore. Ma lì, adesso, con la testa
di lui addormentata contro il suo
petto che batteva, non gli rivelò
nulla. Non disse: Tu ti sposerai. E
non disse: Io mi ucciderò. Ma solamente: Con che criterio ordini i tuoi
libri?» Con che criterio si ordinano
i libri? Non siamo in Ogni cosa è illuminata (di Jonathan Foer, RL Libri, 327 pp. 5,90 euro), non sto per
sposarmi e visto che per certe mie
ex il massimo problema è la fine dei
saldi all’Oviesse non vedo perchè
mai dovremmo trattare argomenti
tetri. Discutiamo allora di come si
ordinano i libri. C’è chi li sistema
per autore, chi per genere, chi per
forma e dimensione, chi per colore.
A una amica che lavora in libreria
una signora ha chiesto una volta un
libro che si abbinasse con il vestito.
È uscita con un libro qualunque color verde pisello.
è anche un feticcio. Ne parla Seneca ne La tranquillità dell’animo
(BUR Rizzoli, 144 pp. 8 euro), deridendo, o compatendo, chi spenda
cifre enormi in librerie cariche di
volumi ma che servono solamente
a dare una falsa immagine di sè,
se è vero che «per molti ignari anche di sillabari per l’infanzia i libri
non rappresentano strumenti di
studio ma ornamento delle sale da
pranzo». Altro utilizzo ne fa Mario, giovane postino del romanzo
di Antonio Skarmeta (Il Postino di
Neruda, Einaudi, 116 pp. 9 euro).
Lui è tanto avanti che i pescatori
dell’isolotto non lo vedono neppure
con lo zoom: a malapena sa legge-
Uno dei vantaggi dello scrivere su Finzioni, oltre al ristorante
gratis ed all’autista, è il numero di
lettere d’amore che ricevo quotidianamente. Mi scrive Lucia: “Caro
Alessandro, mi sono follemente innamorata di te leggendo i tuoi articoli su Finzioni”. Questo non c’entra
nulla con la premessa. Volevo solo
tirarmela un poco, del resto mica
la posta la può ricevere solo Matteo
Bettoli, ma torniamo a noi. Il libro
15
re, ma si compra un libro di Pablo
Neruda per appoggiarlo (non il libro) alle ragazze. Alla fine proprio
una dedica su un libro bianco ed
una poesia di Pablo Neruda, Nuda
(Cento sonetti d’amore, Passigli, 239
pp. 9,90 euro), permettono a Mario
di sedurre la bella Beatrice. Questo
è fighismo senza limitismo, mica
Dante e la sua Divina Commedia
(Polistampa, 432 pp. 16 euro), cui
nessuno vuole togliere nulla in
quanto a stile, ma questa donna angelicata... che noia!
vignetta:
DAVIDE LA ROSA
Biografie
Edulcorate
Non solo: l’amore di Peter era talmente vasto che si è lasciato violare
anche dal vizioso Burroughs.
Ma, ok, facciamo che arriviamo
al sodo: ho sonno e devo pisciare.
La curiosità e il (poco) senso di
questo astrattismo linguistico è da
ricercare nella depressione cronica
e nelle canoniche trombate femminili che il nostro si è concesso: malinconica bisessualità? Anche no.
Peter Orlovsky
di ANDREA MEREGALLI
N
iente come la dannata morte e, forse, quella commovente fotografia bianca e nera di te
e di Allen Ginsberg, pelosi e nudi e,
come no, abbracciati, anno del Signore sconosciuto ai più, fine anni
cinquanta? Probabilmente sì.
Niente come la dannata morte:
non ci sarebbero stati epici articoli sui quotidiani nazionali, non ci
sarebbero state febbricitanti dita
sorprese a digitare P e t e r O r l o v
s k y sugli onnipotenti motori di ricerca e non ci sarebbe stata questa
biografia edulcorata di dubbissima
validità e scritta sotto l’effetto di liquidi malvagi e con Surrealistic Pillow a violentarmi la stanza.
Sono necessariamente disperato.
Chi, come me, si è beccato uno
schiaffo acido dai versi di Ginsberg,
di Corso, di Ferlinghetti, dalla
prosa dilatata di Kerouac e di Burroughs e dalle cavalcate gonze del
mentore Thompson, non può che
abominare il resto della propria
nottata dinnanzi alla fottuta parata
delle dipartite beat.
Voglio dire: quanto terrai duro,
mister Lawrence?
Ehm.
Una coppia eterosessuale è un
equilibrio imperfetto, è la vana e
goffa ricerca della perfezione, è ciò
per cui ci affanniamo: la fine di
qualcosa, come dire, l’equilibrio, lo
stare bene.
Una coppia omosessuale è l’equilibrio imperfetto, è l’inutile e disinteressata competizione che manda
in pappa i cervelli, è ciò che chiamiamo rischio: a braccia larghe sul
filo, come dire, l’equilibrio lo decido io, lo stare male.
Ma qui si scrive di Peter Orlovsky
e di come dobbiamo elogiarne la
pazienza e l’arte del prenderlo nel
culo, ovviamente in un solo e poetico senso, dal primeggiante genio di
Allen Ginsberg.
Sarò sincero: non ho mai letto
una sola riga (fino a oggi) partorita
da quell’adorabile finocchio di Orlovsky. È che c’è di più.
Merda, ho specificato che Peter
Orlovsky e Allen Ginsberg sono
stati, diciamo, tipo, fidanzati per
qualcosa come quaranta (40) primavere?
Beh, è così.
Nel 1955 si sono giurati un voto
nuziale che, per farla breve, li obbligava a sodomizzarsi a vicenda
finché la morte non avesse sequestrato la vasellina. Anni luce da
anelli, promesse, mutui, mal di testa, chiese, menu di pesce, sarte e
altre peculiarità etero.
16
Più, forse, un collante prigioniero proprio malgrado di un ruolo,
appunto, appiccicoso e sfigato: il
(ehm) lato b: il compagno di, l’aiuto
di, il braccio (la mano?) destro(a) di,
e che, ogni tanto, di grazia, si è voluto concedere portentose prestazioni da prima ballerina.
Vivere di luce riflessa, rubata,
imitata e avere del talento, e sapere di avere del talento, deve essere
conseguentemente una brutta situazione, una situazione dolorosa.
Certo, tutto si spiegherebbe con
l’onirica parola amore (se non fossimo negli insopportabili anni zero o
poco più).
My Gabriel horns, my Gabriel
horns: unfold the cheerfulies, my gay
jubilation.
Peter Orlovsky (1933-2010).
La Posta dei Lettori di
Matteo Bettoli
di MATTEO BETTOLI
C
aro caro, la perdenteria è
la vera alternativa alla vacanza, perché a parte la partenza, di intelligente non pretende
di avere niente. Nata negli anni
ottanta da colui che si è definito
“l'alunno meno dotato nelle prove di orienteering scolastiche”, si
è rapidamente diffusa nel pianeta
fino ad occupare oggi una parte consistente delle guide Lon-Li
Planet (clone cinese delle ben più
famose Lon-Lee, giapponesi). La
disciplina nasce infatti nel paese
dei mandaranci, artefice un giovinotto che - intrigato dall'idea di
portare la ragazza in un parchetto
romantico nella zona 548 alla periferia di Pechino - si perde a 9 km
di distanza dalla meta nel distretto siderurgico, il 584. Confuso ma
non disilluso, per non fare brutta
figura al primo appuntamento e
giocarsi la faccenda finge con la
giovine di essere campione intercontinsulare (sic) di perdenteria,
sfidando quindi la ragazza a perdersi per poi ritrovarsi dopo due
giorni in Piazza Mao (47 km quadri). Unico aiuto concesso, una
mappa del Mek-Don-Romuald. La
storia ripresa dalle guide Lon-Li
mescola fiction e pedissequa riproposizione dei fatti fatti a fette, e
appassiona come... forse... neppure i mondiali di football.
Ulisse, Taipei
C
aro Ulisse, sei un piccolo
genietto vispo e intelligente a parlarmi di guide Lon-Li e di
guide in genere come genere a sé
stante, ormai stantio, ma più autorevole di, chessò, il genere dell'or-
rore. Orrore me lo fanno le critiche
alla perdenteria, unica novità degli
ultimi venti anni nel campo delle
bagattate da vacanza. Ogni guida
Lon-Li descrive ormai itinerari di
perdenteria, dai più pesi sulla costiera nera del Titykmenistan alle
passeggiate di sollazzo nel deserto
dei Gobi. Lati positivi ce ne sono
tanti: non serve prenotazione, non
serve preparazione, vitto e alloggio
la danno i soccorsi se il paese ospitante e la sorte hanno deciso così.
Sennò saluti e baci. La perdenteria
ha reso ricco il suo inventore, obsoleto il gps appena nato, angustiante
l'attesa del viaggio ma appagante
la conclusione: se il destino vorrà,
se la vacanza non sarà la tomba
dell'amore ecco che riabbracciarsi
alla fine della vacanza avrà un sapore speciale, in una continua sfida
cercando di evitare la sfiga. Volumi
di riferimento: Lon-Li 59, Canada e
orsi bruni in letargo; Lon-Li 99, Caraibi zona industriale; Lon-Li 3992,
Luna e isole.
•
O
hi ohi, estate e città deserte
finalmente! Che c'è di meglio che leggersi un volume dalla
copertina cartonata, meglio se
indigesto e ripudiato pure dall'autore? Per avere qualche consiglio
utile in merito segnalo Libri ripudiati dall'autore di Edgar Sofficini,
ed. Caromifù, 8 euro, degno seguito del volume Dischi ripudiati
dall'autore, stesso editore, stesso
prezzo, e precedente a Paesi con-
17
tagiati dall'untore, saga medievistica in cui il Sofficini ha promesso
che si dedicherà all'indagine storica unta. Ora io non sono bravo con
le parole, come dicono in certi film
americani anni 70 certi poliziotti
che a cuore aperto si rivolgono ai
figliuoli a lungo trascurati. Però
nel ripudio dei libri ritrovo grazia
e redenzione, piccole opere abbandonate, lasciate sole, dimenticate. Tutti amano i capolavori,
perché durante una discussione
dire “a me mi piace La luna e i falò”
può effettivamente farci apparire
più intelligenti, sempre che poi
ci si corregga “scherzo eh, so che
non si dice *a me mi*”. Ma nelle
opere minori e neglette ritroviamo
la nostra imperfezione, la nostra
bruttura, volendo anche la nostra
tristezza.
Tristano, Roverino
Di Edgar Sofficini ho letto solo
Dischi ripudiati dall'autore, che
mi ha commosso profondamente.
Quanta melanconia! Nella disquisizione su discacci universalmente riconosciuti come buoni giusto
per pareggiare il tavolo, vengono
tracciate parole gonfie di amore
per Self Portrait di Bob Dylan, Le
Chat Bleu di Mink DeVille e Sarabanda sconsolata di Rocco Apinja.
Quest'ultimo, concept album su
un lungo viaggio in Uruguay che si
rivelerà pieno di sventure, è stato
ripreso da molti critici non più critici e lo stesso Apinja lo ha al fine
riaccolto nell'alveare domestico.
Sofficini cura queste opere minori
come fossero piccole creature sfigate, e riesce a farle apparire perlo-
meno degne di una dignitosissima
indifferenza. Certo, quando poi
mettiamo sul piatto Self Portrait
ci chiediamo se Bob Dylan ci stesse piccionando tutti, e la risposta
è - Judas! (cit.) - probabilmente sì.
Inutile dire che Paesi contagiati
dall'untore non c'entrerà niente con
il ripudio e che il titolo è stato scelto
dall'editore per lucrare sull'infinita
fama delle opere di Sofficini. D'altra parte, si è discolpato Giovanni
Caromifù, dal 1990 al 1993 ogni
commedia con bambini birbanti si
è chiamata “Mamma ho [verbo al
participio passato] [complemento
oggetto]” e dal 2000 al 2005 ogni
filmetto commercializzabile come
romantico “Se mi [verbo al presente, 2^ persona singolare] ti [verbo
al presente, 1^ persona singolare]”.
Gondry ne sa qualcosa, è ancora lì
che impreca.
•
E
gregio, quando arriva tardi
la sera ed ho finito il turno in
portineria c'ho un sonno che non
ci vedo. Vorrei comunque coltivare la mia passione per l'orto, ma è
buio e allora hai voglia a coltivare.
Ripiego su letture che mi hanno
detto essere antitetiche al sonno:
le gesta matte dei neoplatonici.
Leggo una pagina e poi crollo, e il
giorno dopo non ricordo nulla di
quello che ho letto, tanto che non
sono nemmeno sicuro di avere
letto una pagina, perché come ho
appena detto non ricordo. Ora mi
rendo conto che neppure la lettura
forse sia adatta a me. Ci sono metodi alternativi per coltivare l'orto
o la passione per la lettura, magari
facendo le due cose insieme? Sarebbe fantastico, ma prima devo
risolvere il problema dell'insonnia.
Guatemalo, Genova
18
I
l Gentile Guatemalo mi prende per i fondelli. Ho infatti
subito notato - rapace - che tra le
righe della lettera si citano elementi dell'opera prima del peruviano
Dondy Doroales, scrittore della
scuola beat-book latinoamericana,
ultimamente sugli scudi con Dormo. E l'orto? (ed. Yutukan, 13 euri).
Doroales narra di un coltivatore
diretto delle Ande, alacre lavoratore in pieno stile Chachapoyas fino
ai vent'anni, poi colpito dal sonno
implacabile della maledizione di
Cuzco. Solo con uno sforzo sovrumano e la scoperta del “caffè superstrong miscela robbbusta” riuscirà
a vincere il sonnone dei giusti e coltivare il suo orto rendendolo vivido
e rigoglioso, ma non prima di avere
combattuto le industrie del caffè
(responsabili di delitti efferati nel
caso si faccia loro qualche sgarro).
Ottimo libro da spiaggia, o da città
deserta.
Interpretazioni
non ufficiali
di Michela Capra
Interpretazioni non ufficiali non
è una rubrica, fa finta di esserlo. In
realtà è un modo subdolo per rendere giustizia alle menti che non
hanno mai trovato ospitalità in casa
conformazione. Queste vi guideranno nella cantina dell’immaginario
comune, vi faranno avvicinare alla
cassapanca e vi inviteranno a prendere in mano un libro. Vi accorgerete, con loro, che la sua interpretazione puzzerà di muffa. Vi ostinerete a
scrostarla, sorridendo nel trovarvi
sotto un’altra chiave di lettura.
N
ei circoli intellettuali di oggi
chi legge Jane Austen è accolta, quando va bene, da un’alzata
di sopracciglio. Perché, diciamocelo, chi legge Jane Austen oggi è
demodée. Anzi, diciamocela tutta,
chi legge Jane Austen oggi è una
sfigata.
Ho coniugato al femminile tutte
le parti variabili del discorso, perché se contassi sulle dita di una
mano quanti uomini hanno letto
uno a caso tra i sei romanzi che
hanno reso immortale Jane, la mia
mano rimarrebbe chiusa a pugno.
È un vero peccato. Non che solo le
over 30 sovrappeso di provincia
leggano oggi Jane, non questo. È un
peccato che, oltretutto, lo facciano
male.
Vado abitualmente a fare la spesa negli ipermercati francesi, quelli con l’uccellino verde e rosso. Un
giovedì sera, mentre spingo pigra il
carrello verso la corsia dei prodotti per l’igiene, lì, trasalisco. In un
espositore laterale, tra shampoo e
deodoranti, sono messi in bellavista dei libri. Violento i miei occhi
provati da una giornata contro il
monitor del pc e li obbligo a mettere a fuoco l’immagine. Copertine
rosa, una ventenne vestita da principessa, petali, la scritta: “I classici
dell’Amore”. La mia testa stanca si
scuote in autonomia, non aspetta
nemmeno che le sinapsi del diniego si scontrino tra loro. Il mio corpo
tutto dice no all’accorgersi che tra
assorbenti e kleenex alberga, scontato all’80%, Orgoglio e Pregiudizio.
Sono ancora ferma e stringo ancora
il carrello venti minuti dopo il primo avvistmento.
Jane Austen non è chick lit. Jane
non si accosta alla Kinsella (a.k.a.
Mrs Wickham, sarà un caso?), ma
alla narrativa del Settecento iniziata da De Sade. Spero che al nome
del marquis si associ ancora la sua
meravigliosa eroina Justine e non
solo le insuperate perversioni o
il ricordo vago di una discoteca.
Justine e Lizzy cercano un riscatto e lo trovano. Il loro margine di
movimento è scarso tra le maglie
dell’universo famigliare al quale
sono relegate. Quando la Austen
scioglie le tensioni tra Lizzy e Darcy, lo fa per tirarci il contentino,
perché lei all’Amore non ci crede. Al
romanticismo ancora meno. Jane
racconta l’endemico immobilismo
che in tutte le epoche ha investito e
investe la Donna e la sua possibilità
di riuscita. Si può essere più ottuse
da credere che Darcy sia il liberatore di Eliza?
19
Ciò che davvero Jane mostra è
l’inesorabile maturazione psicologica che passa attraverso pochi elementi esterni: è il mondo interiore
di Eliza a rapirci, lo farebbe anche
senza Darcy. Le protagoniste di
Jane vivono delle intense agnizioni,
che cambiano loro la vita e alleggeriscono la nostra. Mi stranì quando lessi una nota di Virginia Woolf
a Persuasion: “Siamo commossi
come se fossimo stati spettatori di
una vicenda di suprema importanza”. Ma non è così? Sul vassoio porto da Jane c’è l’interiorità della Donna srotolata, a seconda del libro, in
punti diversi. Esiste qualcosa di più
importante? In fondo ai Ramsay
non accade nulla più di alcuni incontri, con l’altro sì, ma soprattutto
con le proprie zone d’ombra.
Ok, chick litters?
Graphic Novel
“Civil War” di Mark Millar
e Steve McNiven
di MARINA PIERRI
Questo mese parliamo di “Civil
War”, una raccolta di sette volumi
della Marvel che per moltissimi
versi esce dalla definizione convenzionale di “romanzo a fumetti”
per entrare nel campo dei “fumetti” tout court. Immagino da qui le
facce di voi intellettuali lettori di
Finzioni: “FUMETTI? NOOO”. E
invece si, miei cari, proprio quelli
popolati da Iron Man, dall’Uomo
Ragno e dagli X-Men, quegli albetti che piacciono ai nerd e sono un
vero guilty pleasure - diciamocelo
– anche per molti di voi.
“Civil War” comunque è un
mega-albo in senso figurato e letterario. Da un lato è una specie di
graphic novel perché è conchiusa,
dall’altro è un “evento Marvel” e
rientra a pieno titolo nella categoria scacciafiga del “crossover”. Vi
spiego cos’è: una contaminazione
tra diverse testate della mitica casa
editrice o, più banalmente, una storia in cui tutti i supereroi di sempre
si prendono a sberle o si vogliono
bene e di solito formano fazioni, vivono grandi avventure e prendono
o perdono specifiche posizioni morali. Ed è esattamente questo il nostro caso, perché in questa piccola
ma stupenda, scoppiettante minisaga c’è un evento che viene a scuotere la tranquilla (?) vita di vigilantes dei nostri mutanti più amati.
Breve sinossi: lo stato dichiara i
superoi illegali (è questo è un vero
topos di genere) e ovviamente quel
lecchino di Tony Stark, Iron Man
per gli amici, decide di schierarsi
a favore della decisione facendo
veramente incazzare Capitan America, che mette assieme una frangia
di ribelli riottosissimi perché, beh,
crede che il buon Tony non gliela
conti giusta. E non ha torto! Infatti Stark assieme all’uomo elastico
Tony Reed (quello dei Fantastici 4)
ha ideato un mega-carcere nella
“zona negativa” (qualunque cosa
essa sia) per sbatterci i disobbe-
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dienti con buona pace del governo
americano. Chi vincerà, dunque? I
no-global di Cap o i berlusconiani
di Iron Man? Scopritelo leggendolo – ne vale davvero la pena – mentre io passo alla mia noiosa analisi
strutturale.
Lo so che non ci sareste mai arrivati, ma la metafora è tutta americana e certamente legata alla
famigerata amministrazione Bush
(ma và?). Non è un caso che il governo degli Stati Uniti abbia bandito nell’illegalità proprio Capitan
America, l’effige stessa della libertà
e della democrazia e si sia invece legato al potere dei soldi, rappresentati dal superoe più gigione e grigio
della storia del fumetto, cioè Iron
Man. Insomma, udite udite, questo
è quanto, ma a parte la sensazione
orgasmica di vedere Spiderman
rivelare la sua identità al mondo
(scena antologica) e vedere i vostri
miti di ragazzini interagire in modo
epico nella stessa vicenda, “Civil
War” è una graphic novel greve e
carica di amarezza. Che queste magnifiche creature sovrannaturali
possano essere senzienti e controverse è stata la lezione dell’allievo
anche per la Marvel e ovviamente
parlo di “Watchmen”. Il regalo di
Alan Moore al mondo del fumetto è
stato davvero inestimabile e “Civil
War” ne riflette tutta la pienezza e
l’importanza. Così, per rispondere
alla vostra esclamazione iniziale
(“FUMETTI? NOOO”), l’ “evento
Marvel” è molto più di un fumetto:
è la fine di un’epoca.
C
i sono due modi per raccontare storie: la noiosa verità e la mirabolante esagerazione
dei fatti. L’esagerazione dei fatti, o
iperbole, è bella perché è una caricatura. Wittgenstein (yawn) diceva
che fare una caricatura non è altro
che privilegiare e mettere l’accento su una parte in rapporto con il
tutto, creando dunque, dico io, una
sproporzione. O meglio, un’assimmetria. L’asimmetria fa ridere e fa
pensare, perché non è regolare,
dunque buffa, e va messa a posto
gestalticamente con la propria testa. L’iperbole, la storia esagerata,
segue esattamente questa dinamica: è divertente e fa lavorare il cervello. Fa ridere e fa pensare.
Ci sono poi due ruoli che si al-
ternano nelle storie: la banalità dei
vincitori e il sorprendente spessore
dei perdenti. Le storie dei vincitori
sono retroattivamente incastrate
nel rasoio di Occam: la soluzione
è spesso la più semplice e ovvia.
Quando le leggi, sembra che tutto
sia andato liscio, che sia successo quello che doveva succedere e
niente altro. L’eroe ha vinto perché
è buono, la soluzione più semplice è
che vinca. Non si scappa.
non fuori, come Karate Kid. Solo
che loro perdono per costituzione.
Le storie dei perdenti invece sono
più belle perché i perdenti, per tirare acqua al loro mulino, si raccontano in modo più personale, più
soggettivo, si guardano dentro non
potendo ovviamente aggrapparsi
alla rassicurazione dei fatti oggettivi. Trovano la verità dentro di sé,
In questa rubrica accoppieremo
felicemente questi due fenomeni,
raccontando storie esagerate di
grandi perdenti. Quel ganzo di Walter Benjiamin ha detto che la storia
è il bottino dei vincitori. L’iperbole,
allora, è la risorsa, forse l’ultima,
dei perdenti.
E la verità soggettiva è infinitamente più interessante: come diceva qualcuno (quel qualcuno era
Kierkegaard ma avevo paura di annoiarvi ancora di più), con soggettivo non si intende un attributo relativistico ma una appropriazione
della verità in termini esistenziali.
La verità per me.
Iperboloser
Felix Guattari
di JACOPO CIRILLO
F
elix Guattari è un gran campione. Comunista, antistalinista, attivista, psicanalista e
chissà cos’altro. Era l’enfant prodige di Parigi, tutti lo rispettavano,
lui snobbava i corsi della Sorbona,
snobbava Merleau-Ponty (che tanto
quando scrive non si capisce niente, semicit.) e si faceva bello con le
giovinette dando contro a Freud.
Lacan lo prende sotto la sua ala,
lui fonda una clinica psichiatrica e,
quasi quarantenne, nel 1968, si appresta a diventare il re della rivolta
studentesca, che magari si rimedia
anche qualcosa di buono. Ma aveva
fatto i conti senza l’oste: Gilles Deleuze, il guastafeste o, come dicono
a Cesena, lo spezzabolgia. Che gli
dice, guarda che per diventare fa-
moso ti devi mettere con me, farmi
da ghost writer per qualche libro
grosso e io, forse, se mi va, posso
mettere il tuo nome scritto in piccolo da qualche parte in quarta di
copertina. Ma mi devi dare un contributo per la pubblicazione.
Guattari si spaventa e inizia a
piegarsi, più per fame che per timore, alle angherie di Deleuze che
lo tiene fino a notte fonda a scrivere
l’anti Edipo. E, intanto che c’è, lo fa
pedalare su una cyclette per produrre energia elettrica. E, a fronte
di un frugale pasto con un tozzo di
pane e un tozzo d’acqua, il filosofo
nicciano consuma pranzi luculliani alla faccia del povero Felix,
biascicando: scrivi scrivi, che tan-
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to alla fine la pacchia sarà solo per
me.. ehm.. volevo dire per noi.
Dopo il grande successo del primo volume di Capitalismo e schizofrenia, Guattari prova a fuggire ma i
mesi di stenti e di pulizie di primavera nella soffitta parigina di Deleuze lo avevano stremato, dunque
si rassegna a scrivere anche tutto
Millepiani mentre il suo angarione si fuma delle gran Gitanes senza filtro e si fa giuoco del fatto che
lo schiavo si chiami Felix di nome
(come Felix il gatto) e Guattari di
cognome (pron. Gattarì), elaborando in panciolle il famoso rovesciamento platonico e la filosofia antirappresentativa partendo proprio
da questo simpatico bon mot.
Contributi da:
Jacopo Cirillo non è mai riuscito a spiegare a sua
nonna cosa fa nella vita. Prima per colpa della semiotica, adesso per colpa di una casa editrice. Ha cofondato
questa rivista solo per poterle dire: faccio il co-fondatore di una rivista. E anche, ma secondariamente, per
poter dire quello che gli pare sui libri che legge.
Stefano Fanti è fuggito da Milano e ora vive nella bucolica provincia alessandrina. Scribacchino per varie
testate online e non, si occupa principalmente di musica, letteratura ed ambiente. Soffre di una grave dipendenza da serie tv che lo porta a confondere Randy
Hickey con Randy Marsh. Ama, tra le altre cose, fantascienza, horror e grindcore.
Carlo Zuffa nelle ultime due decadi non ha raggiunto traguardi degni di nota e ritiene che la sua infanzia
sia stata traviata dal finale di “Marcellino Pane e Vino”.
Ora, di notte nel buio della sua cameretta, studia piani
segreti per i COBRA, i quali gentilmente gli hanno concesso un pò di tempo libero per co-fondare Finzioni.
Alex Grotto è la conseguenza di un'adolescenza sbagliata fatta di TV spazzatura, fumetti spinti e musica
sgangherata. Un eterno precario del buon gusto che
ancora non sa come trasformare la sua colta apatia in
denaro e affitti pagati, ma cerca di ovviare al problema
abitando in una stanza rancida di provincia e scrivendo
di musica su Vitaminic. E' sovrappeso, si veste malissimo ed ha occhiali grandi per darsi un tono che non può
permettersi.
Licia Ambu pensa che avere una sola personalità sia
uno spreco di spazio. In fase di definizione a ciclo continuo, ama in ordine sparso (e intercambiabile) un sacco
di cose. Attualmente la posizione più quotata per guardare il mondo le sembra a testa in giù.
Agnese Gualdrini, 28 anni, ha studiato Filosofia a Bologna. Ora lavora a Roma in una casa editrice abbastanza piccola da non avere un ruolo così definito (oscilla tra
l’ufficio dei diritti esteri, la valutazione degli innumerevoli dattiloscritti che ogni giorno invadono la posta e la
comunicazione). Adora il caffè amaro, il lungotevere, i
libri di Natalia Ginzburg e cantare, anche se violentemente stonata.
Matteo Bettoli nasce in epoca reaganiana su un carro
di bovini, dal quale eredita la passione per la dinamicità. A 21 anni controlla i principali media di casa: 3 televisioni, 2 computer, l’abbonamento all’Espresso e la
radio ricevuta in regalo per la cresima. Decide allora di
trasferirsi. Studia a Bologna. Passa diverse giornate in
Sud Africa, Austria e Belgio. L'acronino di questi tre paesi è SAAB, che non a caso produce automobili brutte ed è
sull'orlo del fallimento. Abita a Roma e si sveglia presto.
Viviana Lisanti è laureata in scienze storiche e studia cultura editoriale all’Università Statale di Milano.
Momentaneamente si guadagna da vivere spacciandosi
per grafica nonostante non possa vantare alcuna conoscenza in merito. Nessuno fin’ora se ne è ancora accorto,
quando verrà smascherata sarà costretta a far fruttare
una laurea a detta di molti “inutile”.
Jacopo Donati studia Filosofia estetica a Bologna. La
sua carriera universitaria gli permetterà, al massimo, di
suonare l’organetto per strada: conscio di ciò, per non
pensarci, passa buona parte del suo tempo a scrivere, a
leggere e a inseguire innumerevoli passioni che, per lo
più, svaniscono nel giro di pochi giorni lasciando il posto a nuove manie.
Edoardo Lucatti. Edo. Ode. Deo. Un essere flesso
nell’edibile, nella lirica e in un soprannaturale deodo-
n. 14 / Giugno 2010
[email protected]
www.finzionimagazine.it
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medianiche con l'obiettivo di essere invitato a Misteri
e conoscere Ruggeri e Bossari con la faccia cattiva. Un
giorno diventerà anche un templare così sposerà la figlia di Giacobbo e passeranno la luna di miele in Egitto
saltellando allegramente tra le piramidi.
rante. Performer di incauta protervia, aruspice della significazione e calciapalle di poca morale. Semiònte per
alcuni, semiòta per altri, è una piccola fucina di omaggi
al vostro personale sconcerto teoretico.
Michele Marcon ama così irrazionalmente le lettere
da aver avuto la leggerezza di confessare in famiglia una
certa velleità letteraria. Il giorno dopo il padre si presenta a casa con una maglietta del Milan autografa: “Allo
scrittore Michele, Kakà”. Nonostante incertezze sull’autenticità, Michele si sente fregato: gli tocca diventare
uno scrittore, non è più un affare privato. Per ora è un
abile lettore, ma la cosa triste è che tifa Juve praticamente dalla nascita.
Marina Pierri ha 28 anni e vive a Milano, dopo dieci
gloriosi anni passati a studiare/lavorare/fare radio/ fare
la dj in quel di Bologna. Si occupa a tempo pieno del portale musicale Vitaminic.it ma scrive anche su Rolling
Stone, PIG Magazine e Blow Up. Ascolta una media di
tre nuovi dischi al giorno, legge, guarda un sacco di film
e serie televisive americane.
Simone Rossi vive alla Casa del Cuculo, “un posto
dove ci piove dentro” (cit.). Di giorno scrive, di sera
suona, di notte dorme. Tutti e tre troppo poco. Il suo
primo libro si chiama La luna è girata strana (Zandegù,
2008). Il suo secondo libro si chiama sbriciolu(na)glio
per ragioni che potete pure chiedergliele, ma tanto vi
risponde a caso. Il suo gatto invece si chiama Chomsky,
ma non si vedono da un po’. Sta abbastanza su internet:
tutte le sue cose, sbriciolu(na)glio compreso, sono su
http://simonerossi.tumblr.com.
Andrea Meregalli è un pensatore di quasi venticinque
anni. In questo istante medesimo si arrovella su quesiti
del tipo: “Cosa farò da grande?”. Assiduo frequentatore
di autostrade nonché massimo esperto in campo internazionale di prodotti quali friggitrici, scalda patate,
piastre per panini e salamandre, ama molto abbinare
correttamente i boxer con le calze. Passa buona parte
della sua giornata a leggere le scritte oscene sulle porte
dei cessi nei centri commerciali.
Greta Travagliati, semiotica appassionata di arte,
Proust e culturalizzazione della merce. Si interessa di
tendenze e chincaglierie del contemporaneo anche se
avrebbe preferito vivere nell’800. Attualmente vive a
Milano dove lavora in un centro ricerche e dove spera
aprano presto Starbucks colorati, una pasticceria turca
ed un centro di gravità permanente a forma di pera.
Fabio Paris nasce impagliato, e così finirà, per evitare
che gli amici ballino sulla sua tomba. Zingaro, in accezione monicelliana, ha studiato chimica, seguendo la
sua passione per la geopolitica. Ora vive facendo l’inviato da Pittsburgh per Finzioni e spacciandosi per esperto
di nanotecnologie.
Filippo Pennacchio, già in tenera età plagiato dalla
figura di Lee Harvey Oswald, a tutt’oggi suo eroe personale, vive a Milano, dove studia, fa la spesa alla Pam, frequenta concerti di dubbio gusto e beve dei gran birroni.
Quando non sa che fare, ammortizza i propri desideri
nel sapere, manco fosse un personaggio delilliano, leggendo libri dalle cinquecento pagine e oltre. Di conseguenza, alle volte si annoia tantissimo.
Maria Giovanna Ziccardi, laureata in giurisprudenza
a Trento nel lontano 2008, sotto una nevicata epocale, ha
una spiccata vocazione per i lavori non pagati. Si barcamena tra case editrici, udienze e cronaca locale. Pensa
che la matematica sia alla base del declino della civiltà
moderna e crede che chi è capace di fare la conversione
euro-lira sia dotato di capacità divinatorie. Ama leggere
e scrivere, ma non leggere quello che ha scritto.
Alessandro Pollini sta sviluppando le proprie capacità
Finzioni è disponibile
solo su abbonamento.
Abbonati o richiedi gli arretrati su
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