numero 14 - Finzioni Magazine
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n.14 2 The Godfather Pelham G. Wodehouse di JACOPO CIRILLO L eggere una sceneggiatura come se fosse un libro è una cosa da perderci la testa. Perché la sceneggiatura funziona con la logica secondo la quale tutto quello che succede sulla scena deve essere rilevante, deve portare avanti, anche solo di un passettino, la storia. Le descrizioni, i dialoghi, anche eventuali viaggi mentali alla Scrubs, tutti narrativamente significativi. Ma un libro non funziona così, ci devono essere pause e respiri tra un avvenimento e l’altro, parti superflue per la narrazione in senso stretto ma utilissime per far rifiatare gli occhi. Lunghe annotazioni, interlocuzioni risibili e personaggi secondari a fare da punteggiatura al racconto, dettargli pause e inflessioni. Pelham G. Wodehouse è un genio che è riuscito a dare alle stampe una produzione sterminata di romanzi amplificando magistralmente questa idea. Inglese, trapiantato a Hollywood dopo aver snobbato la seconda guerra mondiale (sic), scrisse novantasei libri accertati in settantacinque anni, talmente tanti che già enumerarne le serie in cui sono stati suddivisi è compito improbo. Visto che qua a Finzioni di improbi non ce ne sono, ci limitiamo a sperticarci in lodi per il ciclo del castello di Blandings, quello di Mr. Mulliner e quello del maggiordomo Jeeves. Nel castello di Blandigs, nello Shropshire, c’è lord Emsworth e l’Imperatrice, la sua enorme scrofa da concorso, più una schiera di parenti vari. Poi c’è Mr. Mulliner che allieta le serate degli avventori dell’Anglers’ Rest con storie incredibili, mentre al Drones Pub di Londra il maggiordomo Jeeves tira sempre fuori dai guai il suo giovane padrone facendo dei gran numeri. Le storie sono articolate ma di elementare comprensione, i personaggi macchiette e il tutto è irrorato da un umorismo inglese talmente paradigmatico da far pensare che sia stato teorizzato per la prima volta su questi libri. E non si riescono a staccare gli occhi dalla pagina: per chi comincia, c’è il serio rischio di sciropparseli tutti e novantasei. Perché sono libri che portano avanti il concetto detto prima su tre livelli distinti: uno, sono zeppi di divagazioni, dialoghi non funzionali alla storia e descrizioni accurate di maiali e zucche; due, i personaggi e gli avvenimenti, in quanto luoghi comuni e macchiette, sono semplici, rilassanti, non necessitano di inferenze o deduzioni e fanno sorridere proprio per questo continuo ritorno a ciò che ti aspetteresti da loro; tre, i libri stessi fungono da distensivo se alternati alla lettura di certi mattoni alla Filippo Pennacchio (vedi p. 11). È il frattale della banalità, l’apologia del clichè o, se preferite, l’eterno ritorno a se stessi. 3 Sommario La citazione del mese Le vite ortogonali Mitomania Pillole di Scienza Trilogie Punizioni Mattoni Me lo copre il prezzo? 5 6 7 8 9 10 11 12 Oh, Scena! 13 Donne & Compressori 14 Megaviaggi! 15 Biografie edulcorate 16 La posta dei lettori 17 Interpretazioni non ufficiali 19 Ghost World 20 Iperboloser 21 Benvenuti su Finzioni numero 14, il numero che esce proprio il giorno dell’esordio italiano ai Mondiali di calcio del Sudafrica. Noi secchioni lettori di libri, anche se può sembrare strano, siamo molto appassionati di sport e siamo talmente tesi per le partite che ormai leggiamo solo la Gazzetta dello Sport. E, ovviamente, questo numero di Finzioni che, oltre a tutto il resto, è anche stato pensato per distrarvi dalle tensioni del Mondiale. smontano allegramente le visioni sedimentate in centinaia di anni di grandi classici della letteratura, ma lo si fa con rigore. Editoriale Poi si parla delle torbide operazioni di marketing delle case editrici, della pupa, secchione e tossico, dei Pooh che convocano Dante all’Inferno e dell’ennesimo Iperboloser francese. E poi basta che qua siamo già in clima mondiale e riprenderemo a leggere libri appena il calendario lo renderà possibile. Per fare questo abbiamo reclutato una nuova penna, Michela Capra, che ci ha portato in dote la trilogia di Dalila Di Lazzaro – proprio così, la trovate in Punizioni! – e una nuova rubrica, Interpretazioni non ufficiali, in cui si La Redazione 4 T ony Pagoda è un eroe del nostro tempo, il più grande personaggio della letteratura italiana contemporanea. Antonio D’Orrico La citazione del mese Hanno tutti ragione, Zia Mame e Il palazzo della mezzanotte di JACOPO CIRILLO T ony Pagoda, protagonista del libro di Paolo Sorrentino Hanno tutti ragione, non è il più grande personaggio della letteratura italiana contemporanea. Ma questo lo sa anche Antonio D’Orrico, nonostante lo abbia scritto sulla fascetta che accompagna l’edizione Einaudi dell’esordio letterario del regista del Divo. Alla fine della fiera, penso che non lo sia proprio, un grande personaggio. O meglio, prova ad esserlo, circondandosi di personaggi molto più divertenti come Alberto Ratto, uomo misterioso che vive nella foresta amazzonica e che, quando si ferma, “nulla più conserva una posizione eretta”. O Gegè Raja, intellettuale napoletano di 83 anni confinato a Roma e dispensatore di pillole di saggezza, che divide la linguistica moderna in “figo” e “non figo”. Ma alla fine della fiera anche questi non sono grandi personaggi. Sono telefonati, fanno e dicono solo delle figate (appunto) e, nonostante l’effettività e la pochezza dell’espe- diente narrativo (anch’io sono uno sborone se ammazzo di botte dieci indigeni a mani nude o se sono un vecchio rincoglionito con idee travolgenti), non riescono comunque a far diventare Tony Pagoda un grande personaggio, neanche di rimbalzo. Ma va bè, il punto è un altro. Le fascette. Non mettermi una frase di D’Orrico così in bella vista sulla copertina, altrimenti mi sfuggono i 18 euro stampati sul retro e magari me lo compro il libro, addirittura con soddisfazione. Il marketing becero lo capisco, per carità, il fastidio è legato alla letteratura e alle opinioni che, con questi modi, ci vengono costruite intorno. Come Zia Mame. Pubblicato da Adelphi lo scorso anno e subito diventato best seller dell’estate, nessuno della casa editrice si è minimamente preoccupato di specificare che è effettivamente una ristampa di un libro che era già culto nel 1955, data reale di pubblicazione. Qui si rischiano figuracce nei salotti, hai letto il nuovo libro 5 di Patrick Dennis? Patrick Dennis è morto 34 anni fa, signora. Un altro numero del genere? Il palazzo della mezzanotte di Carlos Ruiz Zafòn, ai primi posti delle classifiche delle ultime settimane, avvantaggiato dal traino de L’ombra del vento, il best seller precedente. Ecco, questo libro ha una bella copertina dark con un treno che sbuffa in un paesaggio esotico. In cui ci sono Calcutta, ammazzamenti, colpi di scena e orfanelli. Peccato che Mondadori non abbia specificato in nessun modo che il volume, scritto nel 1994, sia un libro per ragazzi, scritto e pensato per ragazzi, lavandosi la coscienza con l’avvertenza/puttanata che il libro è “per bambini dall’età compresa tra 9 e 90 anni”, che vuol dire tutto e niente o, nel migliore dei casi, può servire giusto a rincuorare i componenti dell’ex-famigerata generazione X che ormai hanno 40 anni, sono in crisi di mezz’età, e che non se li calcola più nessuno. Le vite ortogonali Elisabetta II vs Capitano Beatty di JACOPO DONATI P lutarco scrisse una serie di 24 biografie che prese il nome di Vite parallele. Per ognuna prese una figura greca ed una romana, le mise una affianco all’altra e ne cercò le similitudini. Ma qui si parla di finzione, mica di realtà!, e così i miei grandi saranno i personaggi d’inchiostro dei libri. Lavoro ben più umile il mio che, oltre a esaminare solo una parte della vita di questi personaggi, ne sottolineerà le differenze. di Stato che qualunque lettore vorrebbe vedere nel proprio paese: un leader che recita versi alle inaugurazioni, che ama la letteratura in quanto tale e che sembra dare un valore alla cultura e alla sostanza. Quale può essere il compito dello Stato se non quello di spianare le diversità tra i suoi componenti e cancellarne l’infelicità? Per Beatty la cultura era solo un’accozzaglia di storie false che provocava dolore in chi le leggeva e senso di inferiorità in chi non aveva mai aperto libro. Ma ciò di cui il capitano dei vigili del fuoco sembra non rendersi conto è che, assieme alla carta, anche la profondità degli animi dei cittadini va in fumo. Elisabetta II La descrizione iniziale che Alan Bennett fa nella Sovrana lettrice indignerebbe qualunque baronetto inglese. Non è difficile immaginarsi la regina Elisabetta come una persona un po’ vuota, un po’ superficiale; non frivola, ma più simile ad una comparsa o a un personaggio mal delineato. Il silenzio che ha contraddistinto il suo regno non è saggezza, ma mancanza di spirito, e sembra che tutte le persone che la circondano la preferiscano così. Tutta la sua vita cambia, però, grazie ad un ragazzo impiegato nelle cucine, Norman, e a una biblioteca ambulante: Elisabetta ritiene doveroso prendere in prestito un libro da quella biblioteca e da quel momento non potrà più fermarsi. La metamorfosi è così importante che per certi personaggi questa nuova passione della regina sarà motivo di imbarazzo. Capitano Beatty Beatty è capitano dei pompieri e capo di Montag, il protagonista di Fahrenheit 451. Non è solo l’antagonista principale, è il tipo di persona che ha fatto sì che nascesse la distopia descritta da Ray Bradbury. Per Beatty fare il pompiere non è un semplice mestiere: è una missione in cui crede, un lavoro che rispecchia profondamente ciò che pensa. Un tempo avido lettore, ora Beatty ha abbandonato la parola stampata, conscio del male che potrebbe nascerne. Beatty è l’unico personaggio che va contro i libri ma che non sembra essere un burattino nelle mani della società. Elisabetta II si trasforma nel capo 6 Beatty ed Elisabetta II intraprendono due cammini opposti: il primo lesse, ma poi smise preferendo bruciare i libri; la seconda, invece, comincia a leggere per caso, quasi per errore, e capisce poi cosa si è persa in questi anni. Ma ciò che li distingue di più è l’accettare ciò che è positivo e negativo nella lettura, e il considerare la tristezza che può nascere dalle pagine di un libro non come un peso di cui liberarsi, ma come una scossa di vita in un’esistenza piatta. Mitomania Dove si parla delle matte storie inventate dagli antichi Greci e mutuate dai moderni. di VIVIANA LISANTI Medea: Euripide Vs. Christa Wolf Parte prima con alcune prove umanamente insuperabili. Qui entra in gioco Medea, figlia di Eete, che si innamora di Giasone e all’insaputa del padre lo guida nel bosco di Ares, dove grazie all’uso delle sue arti magiche, addormenta il drago e permette all’eroe di prendere il Vello. Q uando ti affibbiano un’etichetta è difficile strapparsela di dosso. Se non ci è riuscito il tuo compagno delle medie che ancora oggi tutti ricordano per l’alito mefitico, figuriamoci quant’è difficile per Medea, la cui nomea di barbara sanguinaria già passava di bocca in bocca da decenni quando, a peggiorare le cose, ci si mise d’impegno pure Euripide con la sua tragedia. E’ proprio l’ adattamento del mito che il drammaturgo ateniese mise in scena per la prima volta nel 431 a.c. a consegnare all’immaginario collettivo il ritratto definitivo della lucida omicida che per vendicarsi del marito massacra i suoi stessi figli: una versione questa che segna una rottura rispetto alle molte altre circolanti all’epoca, distinguendosi principalmente, ma non solo, per il macabro epilogo. Ma facciamo un recap dei misfatti compiuti da Medea per ricordarci di che magnifica criminale stiamo parlando: • il tradimento del padre: Giasone e gli Argonauti giungono in Colchide per recuperare il Vello d’oro custodito dal re Eete. Il sovrano, non avendo alcuna intenzione di accettare la richiesta, finge di acconsentire a patto che Giasone si misuri • Il fratricidio: Argo riparte con a bordo Medea e i Colchi alle calcagna. Cosa fare per toglierseli di torno? Ci pensa Medea: fa a pezzi il fratello Absirto e ne getta le membra una ad una nel mare cosicché il padre, per fermarsi a recuperare il corpo del figlio, rallenti l’ inseguimento. • L’uccisione di Pelia: una volta arrivati a Iolco, Medea che nel frattempo è diventata la moglie di Giasone e ha avuto da lui due figli, pensa di fargli un regalo di nozze. Decide di far fuori Pelia, lo zio di Giasone nonché usurpatore del trono, colui il quale aveva promesso di restituire i diritti regali al legittimo erede una volta posseduto il Vello. L’assassinio porta la firma inconfondibile della principessa barbara: facendo leva sulle sue credenziali da maga convince le figlie di Pelia a sottoporre il padre ad un trattamento di ringiovanimento che, come lei stessa mostra con un montone, con- 7 siste nel fare a pezzi l’animale e cuocerlo in un calderone. Con Pelia però non funziona. • La strage di Corinto: I due sposini, dopo il flop del ringiovanimento, sono costretti a scappare a Corinto presso il re Creonte. Qui Giasone cade su un cliché consolidato: lasciare la moglie per una più giovane e bella, nello specifico Glauce, figlia di Creonte. Chi non reagisce secondo norma è Medea, ma si sa che lei è sempre stata originale. Appresa la notizia del ripudio dal letto nuziale e dalla città, non si limita a recitare la parte della donna umiliata e arrabbiata, che al massimo rompe il vetro della macchina o distrugge la collezione di vinili: finge inizialmente di aver accettato la sorte con filosofia, il giorno dopo a sangue freddo avvelena Creonte e figlia, massacra i suoi due bambini e mentre Giasone impreca e la maledice, si allontana verso nuovi lidi su un carro tirato da draghi alati. Si possono trovare molte attenuanti a Medea, considerato il passaggio repentino dalle stelle alle stalle: nella sua terra era una maga saggia e rispettata nonché di nobili natali e nel giro di un decennio si ritrova esule in una terra straniera e ostile, trattata come una strega e per di più ripudiata dal marito, Ma se come quasi tutte le etichette anche quella di omicida spietata fosse falsa o vera a metà? Se intervenisse qualcuno a ribaltare la storia di Medea dipingendocela come innocente capro espiatorio dei Corinzi e ci sorprendesse dicendoci che non si tratta di un’invenzione letteraria o di una rilettura del mito, bensì di un’antica e attestata versione pre- euripidea? quindi condannata ad una vita da miserabile. E poi come si fa a mantenersi su di un livello civile di discussione quando, di fronte all’ elenco minuzioso di sacrifici compiuti per promuovere la carriera dell’amato, lui ti risponde serafico “Esalti troppo i tuoi benefici: io credo invece che soltanto Cipride tra gli dei e tra gli uomini, mi abbia salvato nella mia impresa”? Continua… Nonostante l’empatia che suscita la sua vicenda, Medea rimane pur sempre una pazza selvaggia e sadica. Si rimane affascinati, non si riesce a solidarizzare fino in fondo. Pillole di scienza La pupa e il secchione. E il tossico. di FABIO PARIS Dopo aver parlato della bellezza della scienza parliamo un po’ delle persone che la fanno. Gli scienziati. Lo stereotipo comune prevede due sterotipi: lo scienziato pazzo ed il secchione noioso. In realtà c’è un altro caso, quasi mai considerato ma molto comune, il genio alcolizzato, drogato e magari sessuomane. Grande genio per grandi bevute, quasi come uno scrittore beat. Il ràs di questa genìa è senz’altro il grandissimo Kary Banks Mullis, biochimico americano e premio Nobel per la scoperta della PRC (Polymerase Chain Reaction), una reazione chimica che viene usata per replicare in provetta il DNA, senza la quale non ci sarebbe stato lo sviluppo delle biotecnologie. Roba seria. Il buon Mullis è un surfista, negli anni '60 a Berkeley era un gran contestatore. Ha scritto un libro dal titolo eloquente Ballando nudi nel campo della mente. Con un titolo così non poteva che farsi di LSD. Infatti il buon Kary si cala della gran LSD. “In quegli anni molta gente prendeva LSD in Berkeley, fu un’esperienza di apertura mentale fantastica, molto più significativa di qualsiasi corso abbia mai seguito”. Intervistato dalla CNN disse che senza LSD molto probabilmente non avrebbe vinto il Nobel. Nonostante sia un grandissimo scienziato, tale da vincere un Nobel appunto, e lasciare un’impronta profonda nella storia dell’umanità con la sua invenzione, Mullis crede nell’astrologia, e una volta definì coloro che non la considerano l’equivalente moderno di chi credeva che la terra fosse piatta. Non è uno scherzo, Mullis ha davvero vinto un Nobel e crede nell’astrologia. 8 Tra le altre facezie Mullis è uno dei più grandi detrattori del legame (provato ed accertato) tra AIDS ed infezione da HIV. Ma nonostante la sua educazione, raccoglie qua e là casi dubbi per formulare delle statistiche assurde che dicono quello che vuole lui. Allo stesso modo dice che non c’è nessun buco dell’ozono e ha seri dubbi sull’effetto antropogenico del riscaldamento globale. Dulcis in fundo: nel suo bel libro dice anche di essere stato rapito dagli alieni in un bosco... Trilogie Joe R. Lansdale – Ciclo del Drive-in di Stefano Fanti S arebbe così semplice non attivare il motorino che spinge in basso il labbro inferiore, in alto quello superiore e muove la lingua forsennatamente, facendo uscire suoni senza un rigore neanche a cercarlo con la luce accecante che qualcuno ha visto – non è uno spoiler, dai! - nel finale di Lost (il finale di Lost, prima o poi ne parleremo). Basterebbe NON farlo. Ma pare che ultimamente, l’obbligo di parlare (a vanvera), sia così pressante da risultare invincibile. Personalmente mi chiedo: il grave problema della non conoscenza, può essere risolto ciarlando meno di cose che non si conoscono? Magari utilizzando quel tempo (perso) per disporsi faccia a faccia con l’ignoto? Ponendomi tali utopiche domande mi rifugio nel mondo furioso di Lansdale, dove le orecchie sanguinano per le urla e non per le idiozie. Se La Notte del Drive-in, primo episodio della trilogia, ci presenta l’Orbit, teatro della mutazione della realtà in corso, ed i protagonisti, scaraventati dentro (e oltre) i film dell’orrore (tutti capolavori) che stavano guardando in un’escalation di violenza e claustrofobica follia, con cristiani fondamentalisti e Re del Popcorn a mietere vittime nei modi più assurdi, La Notte del Drive-in 2 (Non Uno dei Soliti Seguiti) ci trasporta in una terra labirintica dove la realtà (del mondo esterno al Drive-in) ha lasciato il posto alla fantasia sfrenata della penna statunitense, che non lascia nulla al caso tra dinosauri, alberi-vampiro ed assassini di ogni sorta. Il terzo episodio, sottotitolato La Gita per Turisti non è da meno e prosegue spedito sulla strada po- Il Ciclo del Drive-in opera del texano dagli occhi di ghiaccio che risponde al nome di Joe “34000 libri scritti alcuni pazzeschi altri abbastanza inutili” Lansdale, è una pioggia infuocata di caos e perversioni varie. Tre volumi densissimi di situazioni catastrofiche, personaggi sovraumani, convergenza incessante di generi letterari – fantascienza ed horror in primis – ma anche cinema e televisione, compressi in un calderone in cui la pop culture viene devastata da un mondo – quello dove si muovono i nostri protagonisti – surreale e spietato. 9 polata da mostri e umanità deviata (a)varia(ta), simbolo ed allegoria della realtà contemporanea, rappresentata, sopra le righe, da un immaginario tanto fantasy quanto libero. Una trilogia, certamente caotica, a cui a volte è difficile star dietro, ma che non lascia scampo per inventiva, trasversalità ed attitudine. Crudo, ironico nel profondo e fortemente politico, questo è il miglior Lansdale ever. “Ora, se avete mangiato i vostri figli, e pure i cani morti, se avete leccato la merda secca appiccicata alle suole delle vostre scarpe, le mie notizie dovrebbero darvi un brivido di piacere, dovrebbero farvi sentire su di giri. Sono qui per dirvi che il Re del Popcorn è un uomo cordiale…”. Punizioni! La trilogia di Dalila di Lazzaro di Michela Capra M i tocca un compito ingrato, poiché penso che sparare letterariamente a zero su Dalila Di Lazzaro sia amorale. Per una vecchia anarchica come me, farsi problemi morali è ormai l’ultimo baluardo dei paletti interiori da autoimporsi a forza. Venisse a mancare quello, raderei al suolo il 75% dei wannabe letterati odierni a suon di crudeltà verbali e scritte. La punizione che mi infliggerò sarà dunque dedicata ai ghostwriter, editor e pseudogiornalisti che hanno costruito a tavolino la trilogia dell’ex attrice (Il mio cielo, L’angelo della mia vita, Toccami il cuore - tutti bestseller Piemme). Hey there Delilah, mi senti? Come mai hai deciso di affidare a questi prostituti della parola, sciacalli della lacrima facile, analfabeti della subordinata la tua splendida storia? Eh sì, svelo subito il pro del leggere la Di Lazzaro: la sua storia di vita, parliamo infatti di tre biografie romanzate, è meravigliosamente genuina. Il dolore provato dall’attrice, la sua ricerca interiore, la sua lotta quotidiana possono dare uno stupendo esempio a chiunque, lo dico con tutto il cuore che posso metterci. Dalila cresce con una madre che definire anaffettiva è dimostrarsi estremamente affettivi, subisce molestie sessuali e da adolescente partorisce Christian, scomparso in un incidente stradale poco più che ventenne. Una manciata d’anni dopo il lutto, a causa di una buca presa in moto sulle strade romane, Dalila riscontra un trauma alla spina dorsale, che oggi la costringere a duellare con il dolore cronico, contro il quale è diventata un’onesta esponente mediatica. Sembrerebbe che nulla di male si debba dire davanti alla testimonianza positiva di una donna che ha senza dubbio assaggiato la pioggia. È qui che entrano in gioco i cosiddetti professionisti della parola, che hanno assemblato le considerazioni buttate giù di getto dall’attrice. Ecco a voi la fuffa: le oltre 600 pagine dei tre volumi messi insieme potrebbero ridursi a 200 senza sminuire il contenuto. Le ripetizioni non si contano e lo schema è sempre il medesimo (ripetuto per tre libri tre): racconto delle sfortunate vicende, aneddoti a sé stanti della via da star, ripresa delle vicende personali con denuncia del sistema sanitario che nulla fa per gli affetti, numerosi, dal dolore cronico. Diversivi? Nel primo libro non ce ne sono perché le vicende sono nuove al pubblico, nel secondo si prova a rivisitare il polpettone in ottica spirituale. Il vero scandalo si consuma nel terzo, dove si affronta solo una novità: la recente rottura sentimentale di Dalila con un uomo in vista protetto dall’anonimato (per me comunque è Giovanni Terzi), e poi? Poi si ripete la solita solfa di amarcord giovanili conditi di nostalgia e dosi di senso di colpa: tutto grida (ancora) “se avessi fatto diversamente?”. Ci si trova a dover riemergere dalla lettura, non fosse altro per la nausea provocata dalla superficialità di frasi acchiappa consensi, impilate dai miei amici dietro le quinte: “Orfana di questo 10 grande amore avrei dovuto proiettarmi in una nuova vita. Quando hai un figlio la bistecca migliore è per lui. L’amore di un figlio è per sempre”. Giuro che sono in successione così come dico (Il mio cielo, p. 188). A volte riemergi scossa dal dubbio di leggere un Harmony: “Ancora addormentata, sentii Claudio che mi baciava sulle labbra, sul collo, facendomi sentire la sua virilità.[…]Era nudo e, grazie alla penombra, gli vedevo i pettorali e le braccia che mi sorreggevano. Mi sollevò abbracciandomi e mi attirò a sé adagiandomi sul suo petto.” (ivi, p. 80). Insomma, c’è da stupirsi che accenti e punteggiatura siano corretti. Però un appunto lo faccio anche alla Delilah in persona, ovvero colei che Patrizia D’Addario definì “la mia scrittrice preferita”. La signora si sente una scrittice, ma non lo è, perché una scrittrice non è colei che prende una penna e scrive. Lo sarebbe mia madre, visto che da 55 anni compila settimanalmente la lista della spesa. Sarebbe come definire Fiorello un cantante o me stessa una ballerina, perché quando alla radio sento i Doors compio movimenti convulsi che nella mia testa significano ballare. E anche avessi Heather Parisi che mi correggesse, non lo sarei mai e poi mai. Mattoni Charles Brockden Brown, Opere scelte (da me), Peso: dai 2 ai 6 kg a seconda delle edizioni di Licia Ambu e Alessandro Pollini A sterebbe in un ovvio rifiuto, visto e considerato l’alto tasso di tragedia e, in pari misura, di pallosità dei due esemplari romanzeschi in questione. D’altro canto, questo rifiuto trova la sua più naturale spiegazione se concediamo che in letteratura la disperazione si distribuisca secondo una logica ben precisa, eleggendo a propria patria quei testi che elevano l’illegibilità a paradigma. Altrimenti detto, i testi squisitamente tragici – quei romanzi in cui il leggere è consustanziale al piangere – sono o insopportabilmente tediosi e complessi, specie per un sedicenne svezzato a Kafka, Leopardi e Lost, o, più drasticamente, del tutto rimossi dalla nostra coscienza letteraria. lla volta dei sedici anni, ma spesso anche prima, il novanta per cento dei giovani studenti italiani viene introdotto nell’universo finzionale di Franz Kafka e istruito su come, leggendone i romanzi, prendersi male. Del tutto straordinariamente, succede di solito che questa abitudine inculcata in età puberale persista nel tempo, tanto che stupisce poco o punto ritrovarsi anni dopo a conversare con trentenni inclini a credere che le vette supreme di disperazione in letteratura coincidano anzitutto con certi passaggi de La metamorfosi, del Processo o del Castello. Sorvolando sul fatto che quasi nessun professore, docente universitario o studioso abbia spiegato loro, anzi ci abbia spiegato che, del tutto pacificamente, i testi di Kafka possono essere letti superficialmente, ovvero ironicamente – d’altronde è cosa risaputa: leggendo ad alta voce la propria opera, lo scrittore ceco e i suoi amici si facevano grasse risate –, sarebbe interessante sondare la reazione di un giovane lettore posto di fronte anche solo a poche pagine de La lettera scarlatta piuttosto che, poniamo, di Casa desolata. Appartiene senza dubbio alla seconda categoria (ma pure un po’ alla prima) l’opera di Charles Brockden Brown, sarebbe a dire il primo romanziere della storia americana, colui che diede alle stampe per lo meno un paio di capolavori, come da copione colpevolmente misconosciuti, Wieland, o la trasformazione (1798) e Ormond, o il testimonio segreto (1799). O meglio, la reazione sarebbe quanto meno prevedibile e consi- Scrittore fallito, morto a trentanove anni di tubercolosi, conser- 11 vatore, probabilmente omosessuale, incapace a suo dire di cogliere persino la «vivida percezione della sventura», Brown scrisse pagine e pagine che ancora oggi fanno cacare addosso di paura e assieme spalancano abissi di disperazione, roba che in confronto Kafka, che in ogni caso paura non fa, tocca solo di sfuggita. Wieland, per esempio, racconta di un padre che muore per autocombustione, di un delitto che prende forma attraverso la voce di un ventriloquo, di ossessione religiosa, di un probabile incesto tra fratello e sorella; in Ormond e in Arthur Mervyn, invece, un’epidemia di peste gialla che dimezza di netto la popolazione di Filadelfia fa da sfondo alla storia degli omonimi protagonisti, due soggetti psichicamente disastrati, l’uno incline alla violenza – tanto da vendicare l’uccisione dell’amico Sarsefield trucidando cinque uomini per poi esibirne le teste sanguinanti a mo’ di trofeo – l’altro affetto dalla patologia hawthorniana per cui amore e incesto altro non sono che recto e verso della stessa medaglia – «Non stava ella forse in luogo della mia povera mamma?» si chiede Arthur mentre viene impalmato dall’amata Achsa Fielding –; in Edgar Huntly, infine, il protagonista cade preda del sonnambulismo e si risveglia in un pozzo di fronte a una pantera che prima uccide con un tomahawk e poi divora, salvo poi vomitarne le carni (in seguito, percorrendo alcune gallerie sotterranee, scoprirà una ragazza tenuta prigioniera dagli indiani eccetera eccetera). Insomma, storie bellissime e nondimeno terrificanti e tristissime. Dovessero essere lette in età puberale, di certo causerebbero sfaceli emotivi – o forse, più realisticamente, fatta la tara alla dieta mediale cui ci sottoponiamo di questi tempi, annoierebbero a morte. A questo punto, noia per noia, tanto vale scegliere Kafka, almeno La metamorfosi la leggi in un pomeriggio. Me lo copre il prezzo? Buongiorno, ho scritto un libro di LICIA AMBU - Che fortuna però ,così leggi un sacco. - Beh, ho molti libri a disposizione. - Pensa, io se dovessi dire che altro lavoro vorrei fare penso proprio che sarebbe il tuo. Lavorare in una libreria. Io leggo un sacco . Allora sfatiamo questo mito. Un normale bipede senziente che lavora in libreria ha lo stesso monte ore di lettura potenziale a disposizione di chi lavora in un altro negozio. Ha più scelta, questo è vero, ha la scusa che si tratta di lavoro, anche questo è vero, ma comunque lavora in una libreria che va mandata avanti. Probabilmente legge sui mezzi, la sera a letto oppure la domenica, per dire. di grandine intorno ai cinque minuti precedenti la chiusura. - Questa è una libreria indipendente, vero? Si vede, mica è come Feltrinelli, dove nessuno ti considera. Allora, io lavoro in una Libreria molto piccola. Se entrasse un lettore e io non lo prendessi in considerazione, così tanto per proforma, beccherei una randellata in faccia. Dal lettore, che statisticamente è abituè e si chiederebbe che accidenti succede, e da chi intitola la Libreria. E poi è molto più interessante leggere altri lettori, confrontarsi. - Hai letto l’ultimo di…? - No, ancora no. - Beh… devi leggerlo, secondo me è fantastico . Anche il commesso di Feltrinelli ha una vita e magari legge un sacco. Legge un sacco anche la casalinga che mi abita vicino casa. E anche i bambini leggono un sacco. E nessuno di questi esempi lavora in una libreria. Io da grande vorrei fare la maestra, la giardiniera, la veterinaria e la libraia, così leggo quanto voglio. Assunta. Per fortuna fai questo lavoro e puoi leggere, io leggo solo la sera a letto e sono così stanco che non riesco mai a resistere tanto. Anche i dipendenti di una libreria hanno una vita. Eppure leggono. E quando sono al lavoro, come dire, lavorano! Che mica vuol dire leggere… quella è la passione. Io per esempio non ho mai visto un commesso di Feltrinelli leggere sul posto di lavoro. Non ho mai visto nemmeno me, tranne un sabato 12 Oh, Scena! ta di parto e può rivivere un giorno della sua vita e sceglie quello: mamma, guardami, sono io, come sei bella mamma, come sei giovane, ora sei una nonna e tuo nipote è già orfano, George dovrà tirarlo su tutto solo, com'è triste tutto questo, mamma, i vivi non capiscono quanto sono fortunati, i vivi non capiscono proprio niente. Certo che l'amore è una noia di SIMONE ROSSI Piccola città, bastardo posto: a Modena, come finiscono le scuole, le corse degli autobus vengono falcidiate a colpi di AK 47. (nipresa.tumblr.com) A Grover's Corner nei primi del Novecento vanno ancora tutti a cavallo: "Se poi adesso cominciano anche con queste automo... con queste auto-mo-bili, l'unica sarà di restarsene a casa. E dire che io mi ricordo di quando un cane poteva restarci a dormire tutto il giorno, in mezzo alla Main Street, senza che gli succedesse niente”. Il gelataio senza denti mette due immaginari gelati alla fragola nelle mani adolescenti di Emily e George, oh, Emily e George, una storia d'amore talmente normale che la fragola del gelato è l'unico coso rosso in una commedia in bianco e nero. Anzi, no: in grigio, monocroma, monocorde, piaaatta. Buongiorno signora Gibbs, oh, salve, professor Willard, come andiamo? eh, come vuoi che vada, va. Per un atto e mezzo La piccola città di Thornton Wilder è una noia mortale, e sono tre atti in tutto: un villaggio che si saluta e spettegola e parla del tempo e fa le prove del coro per la Messa, e basta. A metà del secondo atto Emily e George si prendono un gelato alla fragola che non esiste e poi si sposano ("Lo sposo è su che si fa la barba... Solo che non ha ancora molta barba da farsi, eh?") e tutta Grover's Corner è in festa e poi Emily muore di parto e tutta Grover's Corner è triste, e la più normale delle storie d'amore tristi diventa straordinaria per un motivo su cui ritorno alla fine. Master of Puppets, oltre a essere il titolo di un disco dei Metallica, è il Narratore Onnisciente, quello che sta contemporaneamente nelle teste di tutti i personaggi e va avanti e indietro nello spazio e nel tempo, perché il Burattinaio fa un po' il cazzo che gli pare, è Dio che fa le corna con due mignoli. Il Burattinaio della Piccola città si chiama Direttore di Scena ed è tipo John Malkovitch che guarda sempre in macchina e racconta la storia come se gli scorresse dietro le spalle in un cinegiornale, un documentario sulla vita in una piccola città del Midwest americano che blablabla. Il telecomando ce l'ha lui e ogni tanto interagisce con gli attori, si toglie il cappello quando entrano le signore, fa la parte del prete e dice: "A questo punto devo fare la predica, perché sto facendo la parte del prete". Ah, l'enunciazione enunciata. Il Direttore di Scena diventa un gelataio senza denti e poi un prete per il matrimonio e il funerale, e a un certo punto dice: "Va bene. 11 febbraio 1899. Un martedì". Il giorno del 12esimo compleanno di Emily, che ora ha 26 anni ed è mor- 13 Che morale spicciola. Che sofferenze ordinarie. Che vita mediocre. Esatto. La Piccola Città di Thornton Wilder canta la mediocrità e la canta benino, sembra il coro della parrocchia diretto da un alcolizzato, ma l'autoreferenza è dichiarata, l'enunciazione è enunciata, e almeno i giochini ci tengono svegli: ci sono libri veramente autoreferenziali e veramente noiosi e non lo dichiarano mai, e invece i cittadini di Grover's Corner lo dicono in continuazione: qua si parla del tempo, e poco altro, non siamo gente intelligente, però, davvero, non rompeteci i maroni, si sta bene a Grover's Corner. A un certo punto devono costruire la nuova sede di una banca, tutta di marmo, e pensano di seppellire insieme alla prima pietra qualche testimonianza per gli archeologi del quarto millennio: ci mettono la Bibbia e la Costituzione, evidentemente, e poi Shakespeare (brrr) e una copia di "Questa commedia", quella che stanno recitando, e io volevo solo dire che non esistono storie straordinarie, e che un buon trucco per far sembrare straordinaria una normale storia d'amore e morte è farla emergere da un fondo di banalità, e se ti guardi intorno trovi tutta la banalità che ti serve, e infatti questa commedia è talmente noiosa che ha vinto il premio Pulitzer nel 1938. Donne & Compressori Week-end con il borderline di ALEX GROTTO L 'impatto del meteorite “Prima Domenica In Spiaggia” con il mio pianeta fatto di sbadigli, sigarette e birre sottomarca sgasate è un cataclisma a cadenza annuale terrificante. Ogni anno vorrei avere a disposizione un Bruce Willis telecomandato da mandare a sacrificarsi sulla suddetta roccia spaziale, evitandomi di indossare i bermuda dell' '84 e la maglietta di Bierhoff che uccidono la poca autostima rimastami. Inforco l'auto per andare nella località balneare a me più vicina, la mitica Rosolina Mare, un ecomostro di alberghi fascisti con contorno di sabbia e mare verdastro a fondale argilloso, che ricorda molto i paesaggi sovietici sul Mar Caspio: mancano solo le piattaforme petrolifere a cento metri dalla riva e i sottomarini nucleari spiaggiati. Ma si sa, lo stereotipo vuole che l'unico passatempo in grado di darci un tono sulla spiaggia sia la lettura, possibilmente a sfondo sentimentalista un po' sporco, perchè è Estate e gli ormoni ballano la Lambada a rotta di collo. Questo mese la lettura da spiaggia, Norwegian Wood di Haruki Murakami (Einaudi, 374 pagine, nove euro e ottanta) me l'ha suggerita Clara, che gestisce una fumetteria, si definisce un' otaku, ha una maglietta autografata da Go Nagai, va pazza per i ramen, ascolta gli Incapacitants e sì, ha questa manifesta fissa per il Giappone. Ammetto per la prima volta, da quando i lettori mi stanno plasmando con i loro consigli, di aver iniziato un libro senza preconcetti: i giapponesi non mi hanno mai tradito. In ambito artistico finiscono spesso bistrattati, considerati degli scoppiati e derisi per la loro strana usanza di vendere materiale pornografico censurato, conseguenza diretta di valutazioni e critiche mosse da una cultura agli antipodi, quindi superflue. Murakami era già affermato in Giappone quando scrisse Norwegian Woods, era già noto come uno di quegli autori new-wave di seconda generazione, con gli occhi e le orecchie rivolte ad Occidente (a differenza dei padri o della generezione tradizionalista precedente), gente che aveva promosso il genere del romanzo in salsa hard-boiled: adolescenze sbagliate, amori malati, sesso violento, lacrime e sangue, incesti. Tutta roba buona e Norwegian Woods è la summa di quasi tutti questi argomenti. C'è il protagonista, Toru Watanabe, un contenitore stereotipato come lo erano Holden o David Copperfield guidato da un senso della morale inamovibile, tranne nel caso in cui si trovi di fronte la macabra Naoko di cui è innamorato e di cui approfitta nei rari momenti di semilucidità mentale di lei, tra un tentativo di suicidio e l'altro. I personaggi marginali a cui ci si affeziona vengono inghiottiti e spariscono nel nulla tra le pagine man mano che la traballante vita amorosa di Watanabe prosegue, lasciandoti quel senso di vuoto e di claustrofobia come solo le cene a casa degli amici con le diapositive delle vacanze. Non c'è una figura 14 sana in tutto il romanzo, non c'è un'ideale pulito o una sola prospettiva positiva, ma tutto è tormentato, morboso, improvviso, catastroficamente inarrestabile come un suicidio o le canzoni dei Beatles che scandiscono il ritmo degli eventi. L'amore tra Watanabe e la sconvolta figura di Naoko, potrebbe essere l'unico elemento veramente in grado di curare l'incurabile, ma riesce addirittura a fare di peggio: non c'è nulla che ricordi più fedelmente gli amori che scoppiano nei villaggi turistici italiani su sordide sedie di vimini tra clienti insoddisfatti dei balli di gruppo. Questa è l'Estate e non è più come le vacanze di Alberto Sordi. Megaviaggi! Ordinare i libri di ALESSANDRO POLLINI «S ette mesi più tardi, il 18 giugno 1941, quando i prodromi del bombardamento tedesco accesero di elettricità i cieli di Trachimbrod, mentre mio nonno raggiungeva il suo primo orgasmo, lei si tagliò le vene con un coltello ormai smussato dopo tante lettere d’amore. Ma lì, adesso, con la testa di lui addormentata contro il suo petto che batteva, non gli rivelò nulla. Non disse: Tu ti sposerai. E non disse: Io mi ucciderò. Ma solamente: Con che criterio ordini i tuoi libri?» Con che criterio si ordinano i libri? Non siamo in Ogni cosa è illuminata (di Jonathan Foer, RL Libri, 327 pp. 5,90 euro), non sto per sposarmi e visto che per certe mie ex il massimo problema è la fine dei saldi all’Oviesse non vedo perchè mai dovremmo trattare argomenti tetri. Discutiamo allora di come si ordinano i libri. C’è chi li sistema per autore, chi per genere, chi per forma e dimensione, chi per colore. A una amica che lavora in libreria una signora ha chiesto una volta un libro che si abbinasse con il vestito. È uscita con un libro qualunque color verde pisello. è anche un feticcio. Ne parla Seneca ne La tranquillità dell’animo (BUR Rizzoli, 144 pp. 8 euro), deridendo, o compatendo, chi spenda cifre enormi in librerie cariche di volumi ma che servono solamente a dare una falsa immagine di sè, se è vero che «per molti ignari anche di sillabari per l’infanzia i libri non rappresentano strumenti di studio ma ornamento delle sale da pranzo». Altro utilizzo ne fa Mario, giovane postino del romanzo di Antonio Skarmeta (Il Postino di Neruda, Einaudi, 116 pp. 9 euro). Lui è tanto avanti che i pescatori dell’isolotto non lo vedono neppure con lo zoom: a malapena sa legge- Uno dei vantaggi dello scrivere su Finzioni, oltre al ristorante gratis ed all’autista, è il numero di lettere d’amore che ricevo quotidianamente. Mi scrive Lucia: “Caro Alessandro, mi sono follemente innamorata di te leggendo i tuoi articoli su Finzioni”. Questo non c’entra nulla con la premessa. Volevo solo tirarmela un poco, del resto mica la posta la può ricevere solo Matteo Bettoli, ma torniamo a noi. Il libro 15 re, ma si compra un libro di Pablo Neruda per appoggiarlo (non il libro) alle ragazze. Alla fine proprio una dedica su un libro bianco ed una poesia di Pablo Neruda, Nuda (Cento sonetti d’amore, Passigli, 239 pp. 9,90 euro), permettono a Mario di sedurre la bella Beatrice. Questo è fighismo senza limitismo, mica Dante e la sua Divina Commedia (Polistampa, 432 pp. 16 euro), cui nessuno vuole togliere nulla in quanto a stile, ma questa donna angelicata... che noia! vignetta: DAVIDE LA ROSA Biografie Edulcorate Non solo: l’amore di Peter era talmente vasto che si è lasciato violare anche dal vizioso Burroughs. Ma, ok, facciamo che arriviamo al sodo: ho sonno e devo pisciare. La curiosità e il (poco) senso di questo astrattismo linguistico è da ricercare nella depressione cronica e nelle canoniche trombate femminili che il nostro si è concesso: malinconica bisessualità? Anche no. Peter Orlovsky di ANDREA MEREGALLI N iente come la dannata morte e, forse, quella commovente fotografia bianca e nera di te e di Allen Ginsberg, pelosi e nudi e, come no, abbracciati, anno del Signore sconosciuto ai più, fine anni cinquanta? Probabilmente sì. Niente come la dannata morte: non ci sarebbero stati epici articoli sui quotidiani nazionali, non ci sarebbero state febbricitanti dita sorprese a digitare P e t e r O r l o v s k y sugli onnipotenti motori di ricerca e non ci sarebbe stata questa biografia edulcorata di dubbissima validità e scritta sotto l’effetto di liquidi malvagi e con Surrealistic Pillow a violentarmi la stanza. Sono necessariamente disperato. Chi, come me, si è beccato uno schiaffo acido dai versi di Ginsberg, di Corso, di Ferlinghetti, dalla prosa dilatata di Kerouac e di Burroughs e dalle cavalcate gonze del mentore Thompson, non può che abominare il resto della propria nottata dinnanzi alla fottuta parata delle dipartite beat. Voglio dire: quanto terrai duro, mister Lawrence? Ehm. Una coppia eterosessuale è un equilibrio imperfetto, è la vana e goffa ricerca della perfezione, è ciò per cui ci affanniamo: la fine di qualcosa, come dire, l’equilibrio, lo stare bene. Una coppia omosessuale è l’equilibrio imperfetto, è l’inutile e disinteressata competizione che manda in pappa i cervelli, è ciò che chiamiamo rischio: a braccia larghe sul filo, come dire, l’equilibrio lo decido io, lo stare male. Ma qui si scrive di Peter Orlovsky e di come dobbiamo elogiarne la pazienza e l’arte del prenderlo nel culo, ovviamente in un solo e poetico senso, dal primeggiante genio di Allen Ginsberg. Sarò sincero: non ho mai letto una sola riga (fino a oggi) partorita da quell’adorabile finocchio di Orlovsky. È che c’è di più. Merda, ho specificato che Peter Orlovsky e Allen Ginsberg sono stati, diciamo, tipo, fidanzati per qualcosa come quaranta (40) primavere? Beh, è così. Nel 1955 si sono giurati un voto nuziale che, per farla breve, li obbligava a sodomizzarsi a vicenda finché la morte non avesse sequestrato la vasellina. Anni luce da anelli, promesse, mutui, mal di testa, chiese, menu di pesce, sarte e altre peculiarità etero. 16 Più, forse, un collante prigioniero proprio malgrado di un ruolo, appunto, appiccicoso e sfigato: il (ehm) lato b: il compagno di, l’aiuto di, il braccio (la mano?) destro(a) di, e che, ogni tanto, di grazia, si è voluto concedere portentose prestazioni da prima ballerina. Vivere di luce riflessa, rubata, imitata e avere del talento, e sapere di avere del talento, deve essere conseguentemente una brutta situazione, una situazione dolorosa. Certo, tutto si spiegherebbe con l’onirica parola amore (se non fossimo negli insopportabili anni zero o poco più). My Gabriel horns, my Gabriel horns: unfold the cheerfulies, my gay jubilation. Peter Orlovsky (1933-2010). La Posta dei Lettori di Matteo Bettoli di MATTEO BETTOLI C aro caro, la perdenteria è la vera alternativa alla vacanza, perché a parte la partenza, di intelligente non pretende di avere niente. Nata negli anni ottanta da colui che si è definito “l'alunno meno dotato nelle prove di orienteering scolastiche”, si è rapidamente diffusa nel pianeta fino ad occupare oggi una parte consistente delle guide Lon-Li Planet (clone cinese delle ben più famose Lon-Lee, giapponesi). La disciplina nasce infatti nel paese dei mandaranci, artefice un giovinotto che - intrigato dall'idea di portare la ragazza in un parchetto romantico nella zona 548 alla periferia di Pechino - si perde a 9 km di distanza dalla meta nel distretto siderurgico, il 584. Confuso ma non disilluso, per non fare brutta figura al primo appuntamento e giocarsi la faccenda finge con la giovine di essere campione intercontinsulare (sic) di perdenteria, sfidando quindi la ragazza a perdersi per poi ritrovarsi dopo due giorni in Piazza Mao (47 km quadri). Unico aiuto concesso, una mappa del Mek-Don-Romuald. La storia ripresa dalle guide Lon-Li mescola fiction e pedissequa riproposizione dei fatti fatti a fette, e appassiona come... forse... neppure i mondiali di football. Ulisse, Taipei C aro Ulisse, sei un piccolo genietto vispo e intelligente a parlarmi di guide Lon-Li e di guide in genere come genere a sé stante, ormai stantio, ma più autorevole di, chessò, il genere dell'or- rore. Orrore me lo fanno le critiche alla perdenteria, unica novità degli ultimi venti anni nel campo delle bagattate da vacanza. Ogni guida Lon-Li descrive ormai itinerari di perdenteria, dai più pesi sulla costiera nera del Titykmenistan alle passeggiate di sollazzo nel deserto dei Gobi. Lati positivi ce ne sono tanti: non serve prenotazione, non serve preparazione, vitto e alloggio la danno i soccorsi se il paese ospitante e la sorte hanno deciso così. Sennò saluti e baci. La perdenteria ha reso ricco il suo inventore, obsoleto il gps appena nato, angustiante l'attesa del viaggio ma appagante la conclusione: se il destino vorrà, se la vacanza non sarà la tomba dell'amore ecco che riabbracciarsi alla fine della vacanza avrà un sapore speciale, in una continua sfida cercando di evitare la sfiga. Volumi di riferimento: Lon-Li 59, Canada e orsi bruni in letargo; Lon-Li 99, Caraibi zona industriale; Lon-Li 3992, Luna e isole. • O hi ohi, estate e città deserte finalmente! Che c'è di meglio che leggersi un volume dalla copertina cartonata, meglio se indigesto e ripudiato pure dall'autore? Per avere qualche consiglio utile in merito segnalo Libri ripudiati dall'autore di Edgar Sofficini, ed. Caromifù, 8 euro, degno seguito del volume Dischi ripudiati dall'autore, stesso editore, stesso prezzo, e precedente a Paesi con- 17 tagiati dall'untore, saga medievistica in cui il Sofficini ha promesso che si dedicherà all'indagine storica unta. Ora io non sono bravo con le parole, come dicono in certi film americani anni 70 certi poliziotti che a cuore aperto si rivolgono ai figliuoli a lungo trascurati. Però nel ripudio dei libri ritrovo grazia e redenzione, piccole opere abbandonate, lasciate sole, dimenticate. Tutti amano i capolavori, perché durante una discussione dire “a me mi piace La luna e i falò” può effettivamente farci apparire più intelligenti, sempre che poi ci si corregga “scherzo eh, so che non si dice *a me mi*”. Ma nelle opere minori e neglette ritroviamo la nostra imperfezione, la nostra bruttura, volendo anche la nostra tristezza. Tristano, Roverino Di Edgar Sofficini ho letto solo Dischi ripudiati dall'autore, che mi ha commosso profondamente. Quanta melanconia! Nella disquisizione su discacci universalmente riconosciuti come buoni giusto per pareggiare il tavolo, vengono tracciate parole gonfie di amore per Self Portrait di Bob Dylan, Le Chat Bleu di Mink DeVille e Sarabanda sconsolata di Rocco Apinja. Quest'ultimo, concept album su un lungo viaggio in Uruguay che si rivelerà pieno di sventure, è stato ripreso da molti critici non più critici e lo stesso Apinja lo ha al fine riaccolto nell'alveare domestico. Sofficini cura queste opere minori come fossero piccole creature sfigate, e riesce a farle apparire perlo- meno degne di una dignitosissima indifferenza. Certo, quando poi mettiamo sul piatto Self Portrait ci chiediamo se Bob Dylan ci stesse piccionando tutti, e la risposta è - Judas! (cit.) - probabilmente sì. Inutile dire che Paesi contagiati dall'untore non c'entrerà niente con il ripudio e che il titolo è stato scelto dall'editore per lucrare sull'infinita fama delle opere di Sofficini. D'altra parte, si è discolpato Giovanni Caromifù, dal 1990 al 1993 ogni commedia con bambini birbanti si è chiamata “Mamma ho [verbo al participio passato] [complemento oggetto]” e dal 2000 al 2005 ogni filmetto commercializzabile come romantico “Se mi [verbo al presente, 2^ persona singolare] ti [verbo al presente, 1^ persona singolare]”. Gondry ne sa qualcosa, è ancora lì che impreca. • E gregio, quando arriva tardi la sera ed ho finito il turno in portineria c'ho un sonno che non ci vedo. Vorrei comunque coltivare la mia passione per l'orto, ma è buio e allora hai voglia a coltivare. Ripiego su letture che mi hanno detto essere antitetiche al sonno: le gesta matte dei neoplatonici. Leggo una pagina e poi crollo, e il giorno dopo non ricordo nulla di quello che ho letto, tanto che non sono nemmeno sicuro di avere letto una pagina, perché come ho appena detto non ricordo. Ora mi rendo conto che neppure la lettura forse sia adatta a me. Ci sono metodi alternativi per coltivare l'orto o la passione per la lettura, magari facendo le due cose insieme? Sarebbe fantastico, ma prima devo risolvere il problema dell'insonnia. Guatemalo, Genova 18 I l Gentile Guatemalo mi prende per i fondelli. Ho infatti subito notato - rapace - che tra le righe della lettera si citano elementi dell'opera prima del peruviano Dondy Doroales, scrittore della scuola beat-book latinoamericana, ultimamente sugli scudi con Dormo. E l'orto? (ed. Yutukan, 13 euri). Doroales narra di un coltivatore diretto delle Ande, alacre lavoratore in pieno stile Chachapoyas fino ai vent'anni, poi colpito dal sonno implacabile della maledizione di Cuzco. Solo con uno sforzo sovrumano e la scoperta del “caffè superstrong miscela robbbusta” riuscirà a vincere il sonnone dei giusti e coltivare il suo orto rendendolo vivido e rigoglioso, ma non prima di avere combattuto le industrie del caffè (responsabili di delitti efferati nel caso si faccia loro qualche sgarro). Ottimo libro da spiaggia, o da città deserta. Interpretazioni non ufficiali di Michela Capra Interpretazioni non ufficiali non è una rubrica, fa finta di esserlo. In realtà è un modo subdolo per rendere giustizia alle menti che non hanno mai trovato ospitalità in casa conformazione. Queste vi guideranno nella cantina dell’immaginario comune, vi faranno avvicinare alla cassapanca e vi inviteranno a prendere in mano un libro. Vi accorgerete, con loro, che la sua interpretazione puzzerà di muffa. Vi ostinerete a scrostarla, sorridendo nel trovarvi sotto un’altra chiave di lettura. N ei circoli intellettuali di oggi chi legge Jane Austen è accolta, quando va bene, da un’alzata di sopracciglio. Perché, diciamocelo, chi legge Jane Austen oggi è demodée. Anzi, diciamocela tutta, chi legge Jane Austen oggi è una sfigata. Ho coniugato al femminile tutte le parti variabili del discorso, perché se contassi sulle dita di una mano quanti uomini hanno letto uno a caso tra i sei romanzi che hanno reso immortale Jane, la mia mano rimarrebbe chiusa a pugno. È un vero peccato. Non che solo le over 30 sovrappeso di provincia leggano oggi Jane, non questo. È un peccato che, oltretutto, lo facciano male. Vado abitualmente a fare la spesa negli ipermercati francesi, quelli con l’uccellino verde e rosso. Un giovedì sera, mentre spingo pigra il carrello verso la corsia dei prodotti per l’igiene, lì, trasalisco. In un espositore laterale, tra shampoo e deodoranti, sono messi in bellavista dei libri. Violento i miei occhi provati da una giornata contro il monitor del pc e li obbligo a mettere a fuoco l’immagine. Copertine rosa, una ventenne vestita da principessa, petali, la scritta: “I classici dell’Amore”. La mia testa stanca si scuote in autonomia, non aspetta nemmeno che le sinapsi del diniego si scontrino tra loro. Il mio corpo tutto dice no all’accorgersi che tra assorbenti e kleenex alberga, scontato all’80%, Orgoglio e Pregiudizio. Sono ancora ferma e stringo ancora il carrello venti minuti dopo il primo avvistmento. Jane Austen non è chick lit. Jane non si accosta alla Kinsella (a.k.a. Mrs Wickham, sarà un caso?), ma alla narrativa del Settecento iniziata da De Sade. Spero che al nome del marquis si associ ancora la sua meravigliosa eroina Justine e non solo le insuperate perversioni o il ricordo vago di una discoteca. Justine e Lizzy cercano un riscatto e lo trovano. Il loro margine di movimento è scarso tra le maglie dell’universo famigliare al quale sono relegate. Quando la Austen scioglie le tensioni tra Lizzy e Darcy, lo fa per tirarci il contentino, perché lei all’Amore non ci crede. Al romanticismo ancora meno. Jane racconta l’endemico immobilismo che in tutte le epoche ha investito e investe la Donna e la sua possibilità di riuscita. Si può essere più ottuse da credere che Darcy sia il liberatore di Eliza? 19 Ciò che davvero Jane mostra è l’inesorabile maturazione psicologica che passa attraverso pochi elementi esterni: è il mondo interiore di Eliza a rapirci, lo farebbe anche senza Darcy. Le protagoniste di Jane vivono delle intense agnizioni, che cambiano loro la vita e alleggeriscono la nostra. Mi stranì quando lessi una nota di Virginia Woolf a Persuasion: “Siamo commossi come se fossimo stati spettatori di una vicenda di suprema importanza”. Ma non è così? Sul vassoio porto da Jane c’è l’interiorità della Donna srotolata, a seconda del libro, in punti diversi. Esiste qualcosa di più importante? In fondo ai Ramsay non accade nulla più di alcuni incontri, con l’altro sì, ma soprattutto con le proprie zone d’ombra. Ok, chick litters? Graphic Novel “Civil War” di Mark Millar e Steve McNiven di MARINA PIERRI Questo mese parliamo di “Civil War”, una raccolta di sette volumi della Marvel che per moltissimi versi esce dalla definizione convenzionale di “romanzo a fumetti” per entrare nel campo dei “fumetti” tout court. Immagino da qui le facce di voi intellettuali lettori di Finzioni: “FUMETTI? NOOO”. E invece si, miei cari, proprio quelli popolati da Iron Man, dall’Uomo Ragno e dagli X-Men, quegli albetti che piacciono ai nerd e sono un vero guilty pleasure - diciamocelo – anche per molti di voi. “Civil War” comunque è un mega-albo in senso figurato e letterario. Da un lato è una specie di graphic novel perché è conchiusa, dall’altro è un “evento Marvel” e rientra a pieno titolo nella categoria scacciafiga del “crossover”. Vi spiego cos’è: una contaminazione tra diverse testate della mitica casa editrice o, più banalmente, una storia in cui tutti i supereroi di sempre si prendono a sberle o si vogliono bene e di solito formano fazioni, vivono grandi avventure e prendono o perdono specifiche posizioni morali. Ed è esattamente questo il nostro caso, perché in questa piccola ma stupenda, scoppiettante minisaga c’è un evento che viene a scuotere la tranquilla (?) vita di vigilantes dei nostri mutanti più amati. Breve sinossi: lo stato dichiara i superoi illegali (è questo è un vero topos di genere) e ovviamente quel lecchino di Tony Stark, Iron Man per gli amici, decide di schierarsi a favore della decisione facendo veramente incazzare Capitan America, che mette assieme una frangia di ribelli riottosissimi perché, beh, crede che il buon Tony non gliela conti giusta. E non ha torto! Infatti Stark assieme all’uomo elastico Tony Reed (quello dei Fantastici 4) ha ideato un mega-carcere nella “zona negativa” (qualunque cosa essa sia) per sbatterci i disobbe- 20 dienti con buona pace del governo americano. Chi vincerà, dunque? I no-global di Cap o i berlusconiani di Iron Man? Scopritelo leggendolo – ne vale davvero la pena – mentre io passo alla mia noiosa analisi strutturale. Lo so che non ci sareste mai arrivati, ma la metafora è tutta americana e certamente legata alla famigerata amministrazione Bush (ma và?). Non è un caso che il governo degli Stati Uniti abbia bandito nell’illegalità proprio Capitan America, l’effige stessa della libertà e della democrazia e si sia invece legato al potere dei soldi, rappresentati dal superoe più gigione e grigio della storia del fumetto, cioè Iron Man. Insomma, udite udite, questo è quanto, ma a parte la sensazione orgasmica di vedere Spiderman rivelare la sua identità al mondo (scena antologica) e vedere i vostri miti di ragazzini interagire in modo epico nella stessa vicenda, “Civil War” è una graphic novel greve e carica di amarezza. Che queste magnifiche creature sovrannaturali possano essere senzienti e controverse è stata la lezione dell’allievo anche per la Marvel e ovviamente parlo di “Watchmen”. Il regalo di Alan Moore al mondo del fumetto è stato davvero inestimabile e “Civil War” ne riflette tutta la pienezza e l’importanza. Così, per rispondere alla vostra esclamazione iniziale (“FUMETTI? NOOO”), l’ “evento Marvel” è molto più di un fumetto: è la fine di un’epoca. C i sono due modi per raccontare storie: la noiosa verità e la mirabolante esagerazione dei fatti. L’esagerazione dei fatti, o iperbole, è bella perché è una caricatura. Wittgenstein (yawn) diceva che fare una caricatura non è altro che privilegiare e mettere l’accento su una parte in rapporto con il tutto, creando dunque, dico io, una sproporzione. O meglio, un’assimmetria. L’asimmetria fa ridere e fa pensare, perché non è regolare, dunque buffa, e va messa a posto gestalticamente con la propria testa. L’iperbole, la storia esagerata, segue esattamente questa dinamica: è divertente e fa lavorare il cervello. Fa ridere e fa pensare. Ci sono poi due ruoli che si al- ternano nelle storie: la banalità dei vincitori e il sorprendente spessore dei perdenti. Le storie dei vincitori sono retroattivamente incastrate nel rasoio di Occam: la soluzione è spesso la più semplice e ovvia. Quando le leggi, sembra che tutto sia andato liscio, che sia successo quello che doveva succedere e niente altro. L’eroe ha vinto perché è buono, la soluzione più semplice è che vinca. Non si scappa. non fuori, come Karate Kid. Solo che loro perdono per costituzione. Le storie dei perdenti invece sono più belle perché i perdenti, per tirare acqua al loro mulino, si raccontano in modo più personale, più soggettivo, si guardano dentro non potendo ovviamente aggrapparsi alla rassicurazione dei fatti oggettivi. Trovano la verità dentro di sé, In questa rubrica accoppieremo felicemente questi due fenomeni, raccontando storie esagerate di grandi perdenti. Quel ganzo di Walter Benjiamin ha detto che la storia è il bottino dei vincitori. L’iperbole, allora, è la risorsa, forse l’ultima, dei perdenti. E la verità soggettiva è infinitamente più interessante: come diceva qualcuno (quel qualcuno era Kierkegaard ma avevo paura di annoiarvi ancora di più), con soggettivo non si intende un attributo relativistico ma una appropriazione della verità in termini esistenziali. La verità per me. Iperboloser Felix Guattari di JACOPO CIRILLO F elix Guattari è un gran campione. Comunista, antistalinista, attivista, psicanalista e chissà cos’altro. Era l’enfant prodige di Parigi, tutti lo rispettavano, lui snobbava i corsi della Sorbona, snobbava Merleau-Ponty (che tanto quando scrive non si capisce niente, semicit.) e si faceva bello con le giovinette dando contro a Freud. Lacan lo prende sotto la sua ala, lui fonda una clinica psichiatrica e, quasi quarantenne, nel 1968, si appresta a diventare il re della rivolta studentesca, che magari si rimedia anche qualcosa di buono. Ma aveva fatto i conti senza l’oste: Gilles Deleuze, il guastafeste o, come dicono a Cesena, lo spezzabolgia. Che gli dice, guarda che per diventare fa- moso ti devi mettere con me, farmi da ghost writer per qualche libro grosso e io, forse, se mi va, posso mettere il tuo nome scritto in piccolo da qualche parte in quarta di copertina. Ma mi devi dare un contributo per la pubblicazione. Guattari si spaventa e inizia a piegarsi, più per fame che per timore, alle angherie di Deleuze che lo tiene fino a notte fonda a scrivere l’anti Edipo. E, intanto che c’è, lo fa pedalare su una cyclette per produrre energia elettrica. E, a fronte di un frugale pasto con un tozzo di pane e un tozzo d’acqua, il filosofo nicciano consuma pranzi luculliani alla faccia del povero Felix, biascicando: scrivi scrivi, che tan- 21 to alla fine la pacchia sarà solo per me.. ehm.. volevo dire per noi. Dopo il grande successo del primo volume di Capitalismo e schizofrenia, Guattari prova a fuggire ma i mesi di stenti e di pulizie di primavera nella soffitta parigina di Deleuze lo avevano stremato, dunque si rassegna a scrivere anche tutto Millepiani mentre il suo angarione si fuma delle gran Gitanes senza filtro e si fa giuoco del fatto che lo schiavo si chiami Felix di nome (come Felix il gatto) e Guattari di cognome (pron. Gattarì), elaborando in panciolle il famoso rovesciamento platonico e la filosofia antirappresentativa partendo proprio da questo simpatico bon mot. Contributi da: Jacopo Cirillo non è mai riuscito a spiegare a sua nonna cosa fa nella vita. Prima per colpa della semiotica, adesso per colpa di una casa editrice. Ha cofondato questa rivista solo per poterle dire: faccio il co-fondatore di una rivista. E anche, ma secondariamente, per poter dire quello che gli pare sui libri che legge. Stefano Fanti è fuggito da Milano e ora vive nella bucolica provincia alessandrina. Scribacchino per varie testate online e non, si occupa principalmente di musica, letteratura ed ambiente. Soffre di una grave dipendenza da serie tv che lo porta a confondere Randy Hickey con Randy Marsh. Ama, tra le altre cose, fantascienza, horror e grindcore. Carlo Zuffa nelle ultime due decadi non ha raggiunto traguardi degni di nota e ritiene che la sua infanzia sia stata traviata dal finale di “Marcellino Pane e Vino”. Ora, di notte nel buio della sua cameretta, studia piani segreti per i COBRA, i quali gentilmente gli hanno concesso un pò di tempo libero per co-fondare Finzioni. Alex Grotto è la conseguenza di un'adolescenza sbagliata fatta di TV spazzatura, fumetti spinti e musica sgangherata. Un eterno precario del buon gusto che ancora non sa come trasformare la sua colta apatia in denaro e affitti pagati, ma cerca di ovviare al problema abitando in una stanza rancida di provincia e scrivendo di musica su Vitaminic. E' sovrappeso, si veste malissimo ed ha occhiali grandi per darsi un tono che non può permettersi. Licia Ambu pensa che avere una sola personalità sia uno spreco di spazio. In fase di definizione a ciclo continuo, ama in ordine sparso (e intercambiabile) un sacco di cose. Attualmente la posizione più quotata per guardare il mondo le sembra a testa in giù. Agnese Gualdrini, 28 anni, ha studiato Filosofia a Bologna. Ora lavora a Roma in una casa editrice abbastanza piccola da non avere un ruolo così definito (oscilla tra l’ufficio dei diritti esteri, la valutazione degli innumerevoli dattiloscritti che ogni giorno invadono la posta e la comunicazione). Adora il caffè amaro, il lungotevere, i libri di Natalia Ginzburg e cantare, anche se violentemente stonata. Matteo Bettoli nasce in epoca reaganiana su un carro di bovini, dal quale eredita la passione per la dinamicità. A 21 anni controlla i principali media di casa: 3 televisioni, 2 computer, l’abbonamento all’Espresso e la radio ricevuta in regalo per la cresima. Decide allora di trasferirsi. Studia a Bologna. Passa diverse giornate in Sud Africa, Austria e Belgio. L'acronino di questi tre paesi è SAAB, che non a caso produce automobili brutte ed è sull'orlo del fallimento. Abita a Roma e si sveglia presto. Viviana Lisanti è laureata in scienze storiche e studia cultura editoriale all’Università Statale di Milano. Momentaneamente si guadagna da vivere spacciandosi per grafica nonostante non possa vantare alcuna conoscenza in merito. Nessuno fin’ora se ne è ancora accorto, quando verrà smascherata sarà costretta a far fruttare una laurea a detta di molti “inutile”. Jacopo Donati studia Filosofia estetica a Bologna. La sua carriera universitaria gli permetterà, al massimo, di suonare l’organetto per strada: conscio di ciò, per non pensarci, passa buona parte del suo tempo a scrivere, a leggere e a inseguire innumerevoli passioni che, per lo più, svaniscono nel giro di pochi giorni lasciando il posto a nuove manie. Edoardo Lucatti. Edo. Ode. Deo. Un essere flesso nell’edibile, nella lirica e in un soprannaturale deodo- n. 14 / Giugno 2010 [email protected] www.finzionimagazine.it 22 medianiche con l'obiettivo di essere invitato a Misteri e conoscere Ruggeri e Bossari con la faccia cattiva. Un giorno diventerà anche un templare così sposerà la figlia di Giacobbo e passeranno la luna di miele in Egitto saltellando allegramente tra le piramidi. rante. Performer di incauta protervia, aruspice della significazione e calciapalle di poca morale. Semiònte per alcuni, semiòta per altri, è una piccola fucina di omaggi al vostro personale sconcerto teoretico. Michele Marcon ama così irrazionalmente le lettere da aver avuto la leggerezza di confessare in famiglia una certa velleità letteraria. Il giorno dopo il padre si presenta a casa con una maglietta del Milan autografa: “Allo scrittore Michele, Kakà”. Nonostante incertezze sull’autenticità, Michele si sente fregato: gli tocca diventare uno scrittore, non è più un affare privato. Per ora è un abile lettore, ma la cosa triste è che tifa Juve praticamente dalla nascita. Marina Pierri ha 28 anni e vive a Milano, dopo dieci gloriosi anni passati a studiare/lavorare/fare radio/ fare la dj in quel di Bologna. Si occupa a tempo pieno del portale musicale Vitaminic.it ma scrive anche su Rolling Stone, PIG Magazine e Blow Up. Ascolta una media di tre nuovi dischi al giorno, legge, guarda un sacco di film e serie televisive americane. Simone Rossi vive alla Casa del Cuculo, “un posto dove ci piove dentro” (cit.). Di giorno scrive, di sera suona, di notte dorme. Tutti e tre troppo poco. Il suo primo libro si chiama La luna è girata strana (Zandegù, 2008). Il suo secondo libro si chiama sbriciolu(na)glio per ragioni che potete pure chiedergliele, ma tanto vi risponde a caso. Il suo gatto invece si chiama Chomsky, ma non si vedono da un po’. Sta abbastanza su internet: tutte le sue cose, sbriciolu(na)glio compreso, sono su http://simonerossi.tumblr.com. Andrea Meregalli è un pensatore di quasi venticinque anni. In questo istante medesimo si arrovella su quesiti del tipo: “Cosa farò da grande?”. Assiduo frequentatore di autostrade nonché massimo esperto in campo internazionale di prodotti quali friggitrici, scalda patate, piastre per panini e salamandre, ama molto abbinare correttamente i boxer con le calze. Passa buona parte della sua giornata a leggere le scritte oscene sulle porte dei cessi nei centri commerciali. Greta Travagliati, semiotica appassionata di arte, Proust e culturalizzazione della merce. Si interessa di tendenze e chincaglierie del contemporaneo anche se avrebbe preferito vivere nell’800. Attualmente vive a Milano dove lavora in un centro ricerche e dove spera aprano presto Starbucks colorati, una pasticceria turca ed un centro di gravità permanente a forma di pera. Fabio Paris nasce impagliato, e così finirà, per evitare che gli amici ballino sulla sua tomba. Zingaro, in accezione monicelliana, ha studiato chimica, seguendo la sua passione per la geopolitica. Ora vive facendo l’inviato da Pittsburgh per Finzioni e spacciandosi per esperto di nanotecnologie. Filippo Pennacchio, già in tenera età plagiato dalla figura di Lee Harvey Oswald, a tutt’oggi suo eroe personale, vive a Milano, dove studia, fa la spesa alla Pam, frequenta concerti di dubbio gusto e beve dei gran birroni. Quando non sa che fare, ammortizza i propri desideri nel sapere, manco fosse un personaggio delilliano, leggendo libri dalle cinquecento pagine e oltre. Di conseguenza, alle volte si annoia tantissimo. Maria Giovanna Ziccardi, laureata in giurisprudenza a Trento nel lontano 2008, sotto una nevicata epocale, ha una spiccata vocazione per i lavori non pagati. Si barcamena tra case editrici, udienze e cronaca locale. Pensa che la matematica sia alla base del declino della civiltà moderna e crede che chi è capace di fare la conversione euro-lira sia dotato di capacità divinatorie. Ama leggere e scrivere, ma non leggere quello che ha scritto. Alessandro Pollini sta sviluppando le proprie capacità Finzioni è disponibile solo su abbonamento. Abbonati o richiedi gli arretrati su http://finzioni.bigcartel.com 23 www.finzionimagazine.it