I limiti della moltitudine
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I limiti della moltitudine
nlr_DEF 16-03-2007 16:16 Pagina 15 MALCOLM BULL* I limiti della moltitudine (settembre-ottobre 2005) Come può una moltitudine cieca, che spesso non sa cosa vuole… affrontare un’impresa ardua e di ampio respiro come un sistema legislativo? Jean-Jacques Rousseau, Il Contratto sociale La peggiore delle moltitudini ha fatto qualcosa per il bene comune Bernard de Mandeville, L’alveare scontento Nella politica radicale contemporanea ci sono molte questioni che hanno numerose risposte possibili e una per la quale non c’è risposta. Per un futuro utopistico esistono innumerevoli progetti che sono, in gradi diversi, egualitari, cosmopoliti, ecologicamente sostenibili e localmente rispondenti, ma non c’è nessuna soluzione per il problema più arduo: chi ne sarà l’artefice? Quasi tutti gli agenti politici che hanno contribuito ai * Insegna alla Ruskin School of Drawing and Fine Art dell’Università di Oxford. È autore di Seeing Things Hidden: Apocalypse, Vision and Totality (2000) e The Mirror of the Gods: Classical Mythology in Renaissance Art (2005). Ha all’attivo numerose pubblicazioni di filosofia e scienze sociali. 15 nlr_DEF 16-03-2007 16:16 Pagina 16 Malcolm Bull cambiamenti del XX secolo sono scomparsi o si sono notevolmente indeboliti. Fra questi, il più potente era lo Stato comunista, che da un lato ha esercitato una feroce repressione sulle società contadine e dall’altro ne ha accresciuto notevolmente il benessere. Nelle nazioni industrializzate, i partiti comunisti e socialdemocratici – e per un certo periodo anche il Partito democratico negli Stati Uniti – sono riusciti saltuariamente a realizzare importanti riforme sociali ed economiche, delle quali lo Stato assistenziale è l’eredità più durevole. In quest’ambito, i partiti sono stati aiutati dai sindacati, che hanno contribuito a determinare una parziale ridistribuzione della ricchezza. A loro volta i partiti e i sindacati hanno fornito (spesso involontariamente) la matrice istituzionale e teorica a movimenti sociali molto più ambiziosi e innovativi, anche se più instabili. Dare oggi un giudizio sulle conquiste di quelle organizzazioni è in un certo senso superfluo perché hanno smesso tutti di essere degli agenti politici efficaci. Lo Stato comunista non esiste più; i partiti politici di sinistra in pratica non si distinguono più da quelli di destra né per la loro politica né per la base sociale dell’elettorato e le fonti di finanziamento (due aspetti ancor più gravi del primo); i sindacati sono destinati a un lento declino, e i movimenti per la pace e l’uguaglianza fra le razze e i sessi si sono esauriti, non perché si sono rivelati incapaci di realizzare i loro obiettivi a lungo termine, ma perché non sono stati in grado di mobilitare le masse. Senza queste organizzazioni, solo due forze sembrano in grado di modellare il mondo contemporaneo: la globalizzazione del mercato, di cui i governi e le corporazioni multinazionali sono i propulsori, e il populismo che cerca di affermare la sovranità della nazione o della comunità. Su entram16 nlr_DEF 16-03-2007 16:16 Pagina 17 I limiti della moltitudine be queste forze hanno spesso agito i medesimi attori, oscillando tra le manifestazioni spettacolari ma sporadiche della volontà collettiva – come la protesta per il petrolio in Gran Bretagna nel 2000; l’11 settembre; l’invasione statunitense dell’Afghanistan; le dimostrazioni in tutto il mondo contro la guerra in Iraq; il voto contrario alla Costituzione europea – e la persistenza di pratiche sociali ed economiche che ne minano l’efficacia – quali l’insaziabile bisogno di petrolio che ne fa salire il prezzo; la sete di tecnologia moderna che erode i valori tradizionali; la protesta fiscale e l’obiezione di coscienza che azzoppano la politica estera USA, proprio come l’obbedienza civile indebolisce la campagna contro la guerra e i quotidiani scambi economici all’interno della Ue attenuano il No alla Costituzione. In realtà i due aspetti sono collegati, in quanto è in primo luogo il rifiuto delle popolazioni di accettare le caratteristiche emergenti del proprio comportamento abituale che spinge necessariamente verso proteste plateali. Tutti gli attori in gioco – e cioè il mercato da una parte e i nazionalismi e fondamentalismi incipienti, che cercano di controllarlo, dall’altra – sembrano intrappolati all’interno di un ciclo in cui si sommano effetti non voluti e intenti non realizzati. La moltitudine contro il popolo In questo panorama, si è messo in luce un nuovo soggetto politico – una potenziale alternativa sia al mercato globale sia alle reazioni populiste a detto mercato. Secondo Michael Hardt e Toni Negri, la sola base da cui partire oggi per realizzare «un’azione politica che miri alla trasformazione e alla 17 nlr_DEF 16-03-2007 16:16 Pagina 18 Malcolm Bull liberazione» è la moltitudine, intesa come l’insieme di tutti «coloro che lavorano sotto il comando del capitale e dunque, almeno in potenza, come la classe di tutti coloro che rifiutano il comando del capitale».1 Tuttavia la moltitudine non si contraddistingue anzitutto per il suo rifiuto del mercato ma per la sua distanza dalle unità fittizie del populismo: La moltitudine è una molteplicità, un insieme di individualità, un complesso di relazioni, che non è omogenea e identica al suo interno e mantiene un rapporto indistinto e inclusivo con chi ne sta fuori. Il popolo invece tende all’identità e all’omogeneità interne pur affermando la propria differenza da chi ne sta fuori ed escludendolo. Mentre la moltitudine è un insieme di rapporti non conclusi e da realizzare, il popolo è una sintesi realizzata pronta per la sovranità. Nel popolo sono presenti una sola volontà e un solo agire indipendente da e spesso in conflitto con le molteplici volontà e i molteplici agire della moltitudine. Ogni nazione deve trasformare la moltitudine in popolo.2 Paolo Virno presenta la riaffermazione delle potenzialità della moltitudine come un’inversione della sconfitta storica della moltitudine nelle lotte del XVII secolo, quando la differenza fra «popolo» e «moltitudine» si era «forgiata al fuoco di violenti scontri». La moltitudine era stata la «parte perdente» e lo Stato borghese si era fondato sulla sua repressione. Moltitudine e popolo diventano così due possibilità che si escludono a vicenda: «se c’è il popolo non c’è la moltitudine; e se c’è la moltitudine non c’è il popolo».3 Alla schiera di coloro che condividono quest’analisi (fra cui, pur in maniera diversa, troviamo Balibar e Montag) appartiene anche Hobbes che si segnala come «il Marx della 18 nlr_DEF 16-03-2007 16:16 Pagina 19 I limiti della moltitudine borghesia», talmente «ossessionato dalla paura delle masse e della loro tendenza naturale alla sovversione» da arrivare a «detestare» la moltitudine.4 Per Hobbes la moltitudine è poco più di «un rigurgito dello “stato naturale” nella società civile». La moltitudine «rifiuta l’unità politica, oppone resistenza all’autorità, non stringe accordi duraturi, non raggiunge mai lo status di persona giuridica perché non trasforma mai i propri diritti naturali in sovranità».5 Sulla scia di Hobbes, Rousseau ha formulato una teoria dello Stato contro la moltitudine, basandosi sul presupposto che «il popolo può raggiungere l’unità solo attraverso un’operazione di nomina dei rappresentanti che lo differenzi dalla moltitudine».6 Contrario a questa tradizione vincente, è solo Spinoza nella cui opera non troviamo «nulla di Hobbes o Rousseau» e che si «oppone a quasi tutti i punti della dottrina hobbesiana».7 Per Hobbes «l’unanimità è l’essenza della macchina politica… Per Spinoza l’unanimità è un problema».8 Secondo Spinoza «la moltitudine è una pluralità che rimane tale… senza convergere nell’Uno… una forma permanente e non episodica o interstiziale».9 La sua idea di moltitudine pertanto «bandisce la sovranità dalla politica», mettendo al suo posto «una politica di rivoluzione permanente… in cui la stabilità sociale deve essere sempre ri-creata tramite una costante riorganizzazione della vita materiale, per mezzo di una perpetua mobilitazione di massa».10 Popolo o fazione Alla base di questa teoria rivoluzionaria c’è una lettura attenta ma molto tendenziosa di opere politiche del XVII se19 nlr_DEF 16-03-2007 16:16 Pagina 20 Malcolm Bull colo. È vero, infatti, che Hobbes distingue fra popolo e moltitudine, ma si tratta di una distinzione del tutto peculiare che solleva problemi che egli non è in grado di risolvere del tutto. Come lui stesso riconosce, entrambe le parole sono potenzialmente ambigue: La parola popolo ha un doppio significato. Può indicare un certo numero di uomini, che si distinguono per il luogo in cui abitano… ossia la moltitudine di persone particolari che vivono in una certa regione. Oppure può riferirsi alla gente comune, a un gruppo, nella cui volontà è coinvolta o inclusa la volontà di ciascuno in particolare.11 Analogamente: Si intende che moltitudine, in quanto termine collettivo, significa molte cose, per cui una moltitudine di uomini è lo stesso che molti uomini. Ma lo stesso termine, essendo di numero singolare, significa una cosa sola, cioè una sola moltitudine.12 Hobbes cerca di risolvere il problema usando il termine moltitudine in riferimento a una pluralità di individui di uno stesso luogo, e il termine popolo per indicare la persona dello Stato. Tuttavia la sua distinzione è più ambigua di quanto possa sembrare, poiché popolo e moltitudine non sono forze distinte e opposte, bensì forze composte dagli stessi individui: «la natura di uno Stato è tale che una moltitudine di cittadini esercita il potere e al contempo è soggetta ad esso, ma in un diverso senso». Quando, esercitando il potere, «la moltitudine si unisce in un corpo politico, allora è un popolo»; ma quando a fare qualcosa è «un popolo come somma di 20 nlr_DEF 16-03-2007 16:16 Pagina 21 I limiti della moltitudine soggetti» allora questo qualcosa è fatto «da molti individui contemporaneamente», ossia da una moltitudine.13 Questa definizione prende in considerazione gli attori. Per Hobbes la distinzione fondamentale consiste nel determinare se un’azione è compiuta da una moltitudine di individui che agiscono separatamente o da un popolo che agisce collettivamente come una persona sola. Ciò non dipende né dalla natura dell’azione, né dal numero o dall’identità di chi la compie (che in entrambi i casi possono essere identici), ma dipende piuttosto dall’attore al quale può essere attribuita. Una moltitudine «non può promettere, fare patti, acquistare e trasferire diritti, fare, avere, possedere, e simili, se non singolarmente e individualmente».14 Al contrario, «il popolo è un che di uno, che ha una volontà unica, a cui si può attribuire un’azione unica».15 Secondo Hobbes, sebbene gli individui di una moltitudine possano agire individualmente, non si può dire che agiscano collettivamente a meno che la loro azione non sia frutto di un accordo preventivo. Di qui la necessità di un contratto fra gli individui che costituiscono la moltitudine. Le loro azioni possono contare soltanto come atto di una persona «ma la stessa moltitudine diviene persona unica, se i suoi componenti concludono uno per uno il patto di tenere per volontà di tutti la volontà di un uomo, o le volontà concordi della maggior parte di loro».16 Nel Leviatano, Hobbes paragona questo accordo a quello che una persona stipula quando agisce come rappresentante legale di un’altra persona. La moltitudine diventa un popolo nel momento in cui ogni individuo si accorda con gli altri per incaricare la stessa persona (sia essa un individuo o un gruppo) di rappresentarla legalmente. «Una moltitudine di uomini, diventa una persona, quando è rappresentata da 21 nlr_DEF 16-03-2007 16:16 Pagina 22 Malcolm Bull un solo uomo, o da una sola persona… Quando gli uomini si fanno rappresentare da una persona e le conferiscono autorità, devono riconoscere tutte le azioni che il loro rappresentante compie».17 Per Hobbes tuttavia la moltitudine esiste in tre momenti distinti: prima del contratto, quando c’è una moltitudine ma non un popolo; durante il contratto, in cui la moltitudine diventa popolo decidendo a chi attribuire la sovranità; e dopo il contratto, quando designa un rappresentante, e il rappresentante designato è il popolo, mentre la stessa moltitudine è ancora una volta soltanto moltitudine. Moltitudine e popolo esistono fianco a fianco soltanto in uno di questi momenti. Prima che si formi lo Stato, il popolo non esiste; poi, durante il contratto, dal momento che la moltitudine è il popolo, la moltitudine non esiste (e viceversa); solo dopo che la moltitudine, in quanto popolo, ha trasferito il potere sovrano, ritorna a essere «una moltitudine dispersa», mentre il popolo diventa il rappresentante individuale o collettivo al quale è stato trasferito il potere.18 Pertanto: Il popolo regna in ogni Stato, perché anche nelle monarchie il popolo comanda: infatti, il popolo vuole attraverso la volontà di un solo uomo. La moltitudine invece sono i cittadini, cioè i sudditi. Nella democrazia e nell’aristocrazia, i cittadini sono la moltitudine, ma la curia è il popolo. E nella monarchia, i sudditi sono la moltitudine e (per quanto sia un paradosso) il re è il popolo.19 Tuttavia, se la moltitudine non designasse un rappresentante e tutti diventassero membri di un governo democratico, allora la moltitudine continuerebbe a essere popolo in 22 nlr_DEF 16-03-2007 16:16 Pagina 23 I limiti della moltitudine quanto organo sovrano e moltitudine in quanto somma di soggetti. Non è corretto dire che la moltitudine, in Hobbes, rifiuta l’unità politica, oppone resistenza all’autorità o non stringe accordi duraturi. Secondo Hobbes, sono proprio gli individui che compongono la moltitudine a stringere accordi duraturi per creare il popolo. La moltitudine non può «rifiutare di diventare popolo», dato che nei suoi caratteri costitutivi è già popolo in potenza. Hobbes non è contrario alla moltitudine, ma al simulacro del popolo rappresentato dalla fazione, una moltitudine che si considera popolo e invece non lo è: Chiamo fazione una moltitudine di cittadini uniti da patti intercorsi fra di loro, o dalla potenza di qualcuno, senza l’autorizzazione di colui o di coloro che hanno il potere supremo. Così la fazione è come uno Stato nello Stato: come lo Stato nasce dall’unione degli uomini nello stato naturale, così da una nuova unione dei cittadini nasce la fazione.20 Questi paragoni sono troppo sintetici per essere chiari. Popolo e fazione sono praticamente la stessa cosa, la sola differenza fra loro è che mentre il primo è costituito dalla moltitudine allo stato naturale, la seconda è costituita dalla moltitudine come somma di cittadini. Non c’è niente che distingua una fazione da un popolo salvo il fatto che il popolo esiste già, e in democrazia un popolo, in quanto opposto alla moltitudine, continua a esistere «solo fino a quando viene pubblicamente stabilito e reso noto il giorno e il luogo determinati in cui potranno riunirsi tutti quelli che lo vorranno».21 Non ci si deve stupire se Hobbes nei suoi Elementi disapprova che gruppi di persone con la stessa mentalità siano 23 nlr_DEF 16-03-2007 16:16 Pagina 24 Malcolm Bull inclini ad «attribuire il nome di popolo alla moltitudine della propria fazione».22 Res publica, res populi Benché non sia possibile evincerlo dai lavori di Negri, Balibar, Montag o Virno, la distinzione che Hobbes propone fra popolo e moltitudine non è affatto originale. Nel De repubblica di Cicerone, Scipione dice che lo Stato è «proprietà di un popolo» [res publica, res populi]. Ma egli continua: «Non è popolo ogni moltitudine di uomini riunitasi in modo qualsiasi, bensì una società organizzata che ha per fondamento l’osservanza della giustizia e la comunanza d’interessi».23 Agostino riprende questo concetto nel libro 19 del De civitate Dei, dove si legge: «Cicerone definisce popolo un’assemblea numerosa di persone unite da un comune senso del diritto e dalla comunità di interessi».24 Lo Stato romano rispondeva a entrambi questi criteri? Secondo la definizione di Cicerone, la moltitudine riunita doveva avere due proprietà perché la si potesse definire popolo: il consensus iuris, il consenso in merito alla legge, e la communio utilitatis, l’interesse comune. Agostino si concentra sul primo. Il consensus iuris dovrebbe significare che tutti ricevono ciò che è loro dovuto, ma se il vero Dio non riceve ciò che gli è dovuto non c’è giustizia, e se non c’è giustizia non c’è nessun popolo, e «se non c’è nessun popolo, non c’è la condizione di popolo, ma una moltitudine indefinita [qualiscumque multitudinis] indegna del nome di popolo». Per sua stessa definizione, lo Stato romano non è mai esistito: non c’era nessun popolo, solo una plebe. L’impero 24 nlr_DEF 16-03-2007 16:16 Pagina 25 I limiti della moltitudine e le moltitudine erano la stessa cosa: il solo vero popolo era il populus Dei. Dopo questa precisazione, Agostino fa una distinzione meno netta fra popolo e moltitudine: «Un popolo è un’assemblea numerosa [coetus multitudinis] di esseri razionali uniti dall’intesa sugli oggetti del loro amore».25 Benché indegno come lo erano gli oggetti della sua venerazione, forse il popolo romano dopo tutto era esistito. Altrove Agostino dà una definizione ancor più generica: «Dove c’è un punto di unità esiste un populus; se l’unità viene tolta c’è il volgo [turba]. Cos’è infatti il volgo se non una confusa moltitudine [multitudo turbata]?»26 La distinzione fra populus e multitudo e il ruolo dello ius e dell’utilitas nella formazione di un populus erano temi frequenti nella teoria politica medievale, in particolare dopo la traduzione della Politica di Aristotele apparsa nel XIII secolo.27 Nel terzo libro Aristotele fa una distinzione fra i governi virtuosi che mirano all’interesse comune e quelli corrotti che si preoccupano solo del proprio interesse privato. Così, «quando è la moltitudine a governare lo Stato in vista del comune vantaggio», si ha un governo definito ‘politico’, o come precisano Tommaso d’Aquino e Pietro d’Alvernia, una respublica, che è l’opposto di una democrazia che governa nell’interesse della plebe.28 Sebbene non abbia influito direttamente sulla definizione di Stato fornita da Cicerone e Agostino, la Politica di Aristotele ha contribuito a spostare l’accento dallo ius all’utilitas e dalla distinzione fra l’uno e i molti a quella fra molti e pochi. Visto da questa prospettiva, il potenziale politico della moltitudine risulta più promettente. Secondo Aristotele, il governo della moltitudine è, per alcuni aspetti, preferibile a 25 nlr_DEF 16-03-2007 16:16 Pagina 26 Malcolm Bull quello dei pochi, e Marsilio da Padova afferma che «l’utilità comune di una legge viene capita meglio dall’intera moltitudine».29 A quanto pare nessuno si chiese se l’unità necessaria per il consensus iuris era essenziale anche per la communio utilitatis, e ciò nonostante i termini del dibattito fossero cambiati e la domanda discendesse dai suoi sviluppi. L’unità Qual è l’essenza dello Stato? Quando una moltitudine è un popolo e quando non lo è? Sono due interrogativi propri dell’alchimia della politica, e nella tradizione derivata da Cicerone e Agostino la risposta è sempre l’unità. Moltitudine e popolo sono due termini che si escludono a vicenda per il solo motivo che rappresentano potenzialità differenti nella storia costituzionale della stessa aggregazione di persone. Se c’è unità, non c’è pluralità; se c’è pluralità, non c’è unità. Per Spinoza non c’è mai differenza fra popolo e moltitudine. Egli non fa distinzione fra populus e multitudo né nel Tractatus theologico-politicus né nel Tractatus politicus, anche se l’opposizione fra pluralità e unità è comune a entrambi e in entrambi i casi. Spinoza insiste sulla necessità dell’unità per la formazione e il mantenimento dello Stato. Nel Tractatus theologico-politicus descrive un contratto sociale di tipo hobbesiano nel quale «ciascun individuo trasferisce tutto il suo potere al corpo politico», che a quel punto «entra in possesso del diritto naturale sovrano su ogni cosa».30 Nel Tractatus politicus tuttavia egli non parla di questo trasferimento, e la moltitudine conserva il proprio diritto naturale. Invece di avere origine da un singolo corpo sovrano, il diritto dello 26 nlr_DEF 16-03-2007 16:16 Pagina 27 I limiti della moltitudine Stato «è determinato dal potere della moltitudine che è guidata come da una sola mente».31 È attraverso questa unità di mente che la moltitudine ottiene il consensus iuris: «quando gli uomini hanno iura communia e sono tutti guidati come da una sola mente».32 Si potrebbe osservare che, nonostante la moltitudine sia guidata da una sola mente, è pur sempre una moltitudine e pertanto il diritto dello Stato è determinato dall’insieme dei diritti di molteplici individui piuttosto che dalla loro unità. Ma Spinoza si preoccupa di sottolineare che esiste una distinzione fra uomini che agiscono insieme come individui, nel qual caso il loro diritto collettivo è la somma dei diritti individuali, e uomini che si accordano diventando una cosa sola, nel qual caso possiedono più della somma dei loro diritti individuali, poiché «se due uomini si accordano e uniscono le forze, hanno insieme più potere, e di conseguenza hanno un diritto sulla natura maggiore di quello di ciascuno separatamente».33 Analogamente, finché gli uomini rimangono allo stato naturale, il loro diritto naturale è puramente ipotetico, ed è solo quando si uniscono, come fossero una sola mente, che si forniscono reciprocamente la sicurezza materiale collettiva che permette loro di avere il diritto naturale in quanto individui: «e se questa è la ragione per cui gli scolastici vogliono chiamare l’uomo animale sociale – poiché gli uomini allo stato naturale difficilmente possono essere indipendenti – non ho niente da obiettare».34 La tradizione cui Spinoza si riferisce discende da Aristotele, il quale affermava: Per natura lo Stato è anteriore alla famiglia e a ciascuno di noi perché il tutto dev’essere necessariamente anteriore alla par27 nlr_DEF 16-03-2007 16:16 Pagina 28 Malcolm Bull te… È evidente dunque che lo Stato esiste per natura e che è anteriore a ciascun individuo: difatti, se non è autosufficiente, ogni individuo separato sarà nella stessa condizione delle altre parti rispetto al tutto…35 Spinoza evidenzia anche la priorità del tutto rispetto alla parte quando fa una distinzione fra una molteplicità di individui che agiscono come tali e la moltitudine che agisce come una sola mente. Benché si riferisca alla prima come individui e alla seconda come moltitudine (al contrario di Hobbes che chiama moltitudine la prima e popolo la seconda), la distinzione è sostanzialmente la stessa: «il diritto delle autorità supreme non è altro che il diritto naturale, limitato dal potere, non soltanto di ogni individuo, ma anche della moltitudine, guidata come da una sola mente».36 In altre parole, non è la somma dei diritti naturali individuali che limita (e, implicitamente, costituisce) il diritto dello Stato. È la moltitudine in quanto unità, non la moltitudine in quanto insieme di individui, che costituisce e limita tale diritto. Il tema è trattato in modo simile a proposito del microcosmo, quando in seguito Spinoza descrive il funzionamento di una società aristocratica nella quale la sovranità è detenuta da un consiglio di patrizi: L’autorità suprema è nelle mani del consiglio nel suo insieme, non in quelle di ciascuno dei suoi membri (altrimenti non sarebbe altro che l’aggregazione di una moltitudine disordinata [nam alias coetus esset inordinatae multitudinis]. È pertanto necessario che i patrizi siano vincolati dalle leggi in modo da formare come un solo corpo governato da una sola mente.37 28 nlr_DEF 16-03-2007 16:16 Pagina 29 I limiti della moltitudine Come per Cicerone e Agostino, anche per Spinoza, il coetus multitudinis non è il possessore del diritto a meno che non sia unito, non sia una veluti mente. Invece di sostenere che la «moltitudine è una molteplicità» o una «pluralità che persiste come tale», Spinoza le attribuisce un ruolo politico positivo quando è una, ossia quando è un popolo non solo di nome. Egli non attribuisce il diritto dello Stato al potere della moltitudine in quanto pluralità di volontà individuali, ma al potere della moltitudine «guidata come da una sola mente». E il diritto dello Stato diminuisce proporzionalmente all’incapacità di mantenere questa unità. Senza unità, la moltitudine potrebbe anche possedere un diritto limitato a livello di individui, ma in presenza della molteplicità tutto sarebbe perduto, poiché la molteplicità è indice di debolezza più che di forza, di incapacità di agire più che di potenza di agire. Per Hobbes, la caratteristica essenziale della moltitudine è sempre la sua pluralità, poiché quando è unita e sovrana essa cessa di essere moltitudine e diventa popolo. Per Spinoza, una moltitudine è sempre moltitudine, anche quando è unita e sovrana. Ma il fatto che egli non faccia una distinzione fra i termini non significa che neghi alla moltitudine le qualità che secondo Hobbes la rendono popolo. Se Spinoza avesse usato questi termini avrebbe concluso che il popolo è un momento della moltitudine, un momento che egli desidera duri per sempre. La ragione La differenza principale fra Hobbes e Spinoza non risiede tanto nel diverso approccio alla questione della pluralità e 29 nlr_DEF 16-03-2007 16:16 Pagina 30 Malcolm Bull dell’unità in relazione alla sovranità, ma piuttosto nell’analisi delle condizioni che rendono possibile l’unità. Spinoza afferma ripetutamente che la moltitudine può essere una soltanto se è guidata dalla ragione: Il diritto dello Stato è determinato dal potere della moltitudine che è guidata come da una sola mente. Ma questa unità di menti non può essere concepita in nessun modo, a meno che lo Stato non persegua soprattutto quello che la giusta ragione insegna essere vantaggioso [utile] per tutti gli uomini.38 La sovranità è impossibile senza unità, e l’unità è impossibile senza la ragione, quindi «per una moltitudine è impossibile essere guidata come da una sola mente, come è richiesto sotto un dominio, a meno che non abbia leggi stabilite in base al dettato della ragione».39 In questo caso, Spinoza continua a seguire la logica della parte e del tutto. Come spiega in una lettera del 1665, «circa la questione del tutto e delle parti, considero le cose parti di un tutto finché le loro nature si adattano reciprocamente in modo da stabilire legami più solidi possibili».40 Applicata all’umanità, questa affermazione implica che gli uomini sono parte di un tutto sociale soltanto se seguono la ragione poiché, come Spinoza spiega nell’Etica, «in quanto gli uomini sono soggetti alle passioni, non si può dire che concordino per natura», e «solo nella misura in cui gli uomini vivono sotto la guida della ragione, concordano sempre necessariamente per natura».41 Qui però emerge un problema apparentemente insuperabile, perché «chi è convinto che la moltitudine… può essere indotta a vivere secondo il solo dettato della ragione è pro30 nlr_DEF 16-03-2007 16:16 Pagina 31 I limiti della moltitudine babile che stia sognando la mitica età dell’oro o un mondo fantastico»42. In realtà, come Spinoza osserva nel Tractatus theologico-politicus, «la volubile tendenza della moltitudine spinge chi ne fa esperienza alla disperazione, poiché essa è governata unicamente dalle emozioni e non dalla ragione».43 E infatti non è mai la ragione a spingere gli uomini ad andare alla ricerca dell’unione, dal momento che «una moltitudine si unisce e desidera essere guidata come da una sola mente, non perché spinta dalla ragione ma perché spinta da qualche passione comune» – speranza, paura o vendetta.44 È quindi possibile che la «moltitudine volubile», governata dalle passioni, si unisca in nome della ragione? Il problema era già stato affrontato da Aristotele e dai suoi commentatori medievali. Secondo Pietro d’Alvernia, la moltitudine ha due facce. Da un lato, c’è una moltitudine bestiale in cui la ragione è del tutto assente; dall’altro, una moltitudine dove tutti possiedono alcune quote di ragione e quindi sono anche suscettibili di persuasione razionale. Nel primo caso, la moltitudine non è adatta a governare, nel secondo il suo governo è migliore di quello di pochi individui saggi.45 Aristotele aveva spiegato che, essendo la moltitudine coerente, le passioni individuali si annullano reciprocamente e i giudizi razionali prevalgono. Mentre «il singolo è dominato dall’ira e da un’altra passione del genere… è difficile che tutti siano nello stesso tempo soggetti all’ira e all’errore». Quindi «ciascuno, singolarmente, sarà sì giudice inferiore ai competenti, ma raccolti tutti insieme saranno superiori o non inferiori».46 Per Aristotele, questo è il principale argomento in favore della tesi secondo cui «la massa debba essere sovrana dello Stato a preferenza dei migliori, che pur sono pochi… Può darsi in effetti che i molti, pur se singolarmente non ec31 nlr_DEF 16-03-2007 16:16 Pagina 32 Malcolm Bull cellenti, qualora si raccolgano insieme, siano superiori a loro, non presi singolarmente, ma nella loro totalità… In realtà, essendo molti, ciascuno ha una parte di virtù e di saggezza e come quando si raccolgono insieme, in massa, diventano un uomo con molti piedi, con molte mani, con molti sensi, così diventano un uomo con molte eccellenti doti di carattere e d’intelligenza».47 Spinoza riprende l’argomento nel Tractatus theologico-politicus, dove afferma che in una democrazia i provvedimenti irrazionali sono meno temibili che in altre forme di governo perché «è quasi impossibile che la maggioranza di un popolo, specialmente se è vasta, approvi un progetto irrazionale». In realtà, secondo Spinoza questo principio è intrinseco alla natura della democrazia, poiché «il fondamento e il fine di una democrazia consistono nell’abolire i desideri irrazionali e nel portare gli uomini il più possibile sotto il controllo della ragione».48 Nel Tractatus politicus, Spinoza vede in questo argomento la base logica per l’allargamento di un’assemblea decisionale: «il potere conferito a un’assemblea abbastanza grande è assoluto, o si avvicina il più possibile all’assoluto. In realtà, se un potere assoluto esiste, è quello che l’intera moltitudine possiede».49 Il suo argomento a favore dell’allargamento dell’organismo decisionale per accogliere l’intera moltitudine irrazionale è una prova non del suo rispetto per il giudizio degli individui che costituiscono la moltitudine, ma della convinzione che quanti più individui sono coinvolti, tanto più influente sarà la ragione e quindi tanto più possibile l’unità. Quando solo alcuni decidono in base alle proprie passioni, la libertà e il bene comune vanno perduti. Infatti le facoltà naturali degli uomini sono troppo deboli per poter capire subito 32 nlr_DEF 16-03-2007 16:16 Pagina 33 I limiti della moltitudine tutto; ma se gli uomini si consultano, ascoltano e discutono, le loro facoltà diventano più acute e consentono loro di trovare alla fine le soluzioni che hanno a lungo cercate, su cui tutti sono d’accordo ma alle quali nessuno avrebbe pensato prima.50 La moltitudine diventa una sola mente non grazie all’imitazione affettiva, ma solo quando è guidata dalla ragione. Ed è attraverso la sua aggregazione che la ragione prevale. L’utilità Secondo Hobbes, esistono società che «si governano in moltitudine» e sono stipulate da un contratto come quello descritto da Spinoza,51 ma queste non sono società umane bensì animali. Aristotele elenca fra gli animali che chiama politici non solo l’uomo, ma anche molti altri, come la formica, l’ape, ecc., che, pur privi di ragione, per mezzo della quale stringere patti e sottomettersi a un governo, tuttavia, consentendo, cioè desiderando e fuggendo le stesse cose, dirigono le loro azioni a un fine comune, in modo tale che le loro aggregazioni non sono Stati, né questi animali devono essere detti politici, perché il loro governo non è altro che il consenso, ovvero molte volontà tendenti a un unico oggetto: non (come è necessario nello Stato) una volontà unica.52 Secondo Hobbes, le api e le formiche si accordano unicamente perché «desiderano e rifiutano le stesse cose», come gli antichi romani che, a detta di Agostino, hanno realizzato una 33 nlr_DEF 16-03-2007 16:16 Pagina 34 Malcolm Bull forma statuale per il fatto che apprezzavano le stesse cose. Quello che manca agli animali sociali è l’unità della volontà. Segue da ciò che il consenso di molti (che consiste solo in questo, che tutti dirigono le loro azioni a uno stesso fine, e al bene comune), cioè una società soltanto di aiuto reciproco, non procura a coloro che consentono, o soci, la sicurezza nell’esercitare fra di loro le leggi di natura. Invece, si deve fare qualcosa di più, affinché a coloro che hanno consentito per una volta alla pace e all’aiuto reciproco, in vista del bene comune, sia proibito con la paura di cadere nuovamente nel dissenso, quando un loro bene privato divergerà dal bene comune.53 Qui Hobbes afferma che la communio utilitatis non è sufficiente. Anche quando coopera per il bene comune, la moltitudine ha bisogno del consensus iuris per risolvere i contrasti che sorgono inevitabilmente ogni qual volta l’interesse privato non coincide con il bene pubblico. Sotto questo aspetto, le formiche e le api sono diverse dagli esseri umani perché «fra queste creature l’interesse comune coincide con quello privato, ed essendo per natura inclini a perseguire il proprio interesse, ne consegue che fanno anche quello della comunità».54 Per Hobbes è soltanto l’assenza di ragione che consente al bene pubblico e a quello privato di coincidere poiché, a differenza degli esseri razionali, gli animali sociali non sono portati a confrontare se stessi con gli altri e a chiedersi quale sia realmente l’interesse comune. Spinoza sostiene invece che gli uomini sono incapaci di trovare un accordo finché si lasciano dominare dalle passioni e che il bene pubblico e quello privato coincidono per mezzo della ragione. Questa tesi è 34 nlr_DEF 16-03-2007 16:16 Pagina 35 I limiti della moltitudine espressa con maggior chiarezza nell’Etica, dove si afferma: «Poiché la ragione nulla esige che sia contro natura, essa dunque esige che ognuno ami se stesso, ricerchi il proprio utile, ciò che davvero è utile», e «quando ogni uomo cerca per se stesso il proprio utile in sommo grado, allora gli uomini sono utili gli uni agli altri in sommo grado».55 Per questo motivo l’uomo è veramente un animale sociale e si unisce come in una sola mente, cosa che Spinoza ribadisce più volte nel Tractatus politicus: Gli uomini non possono desiderare per la conservazione del proprio essere niente di più eccellente se non che tutti concordino in tutto, in modo che le Menti e i Corpi formino una sola Mente e un solo Corpo, e tutti si sforzino insieme, per quanto possono, di conservare il proprio essere, e tutti insieme cerchino per sé l’utile comune.56 All’affermazione di Hobbes secondo cui l’uomo è homini lupus, Spinoza risponde che «l’uomo è dio verso l’uomo», ma solo perché, al pari del lupo, è un «animale sociale». Il paradosso deriva dal fatto che la filosofia politica di Spinoza differisce da quella di Hobbes in quanto egli ha rimaneggiato tre argomenti aristotelici: l’uomo è un animale sociale ed è sempre parte di un tutto; i molti sono più razionali dei pochi; lo Stato è un’unione finalizzata al bene comune. Mentre in Aristotele questi temi non sono connessi, Spinoza incomincia a trattarli insieme. Poiché l’uomo è un animale sociale, gli uomini tendono ad associarsi; tramite l’associazione raggiungono un livello di razionalità che non possiedono come individui o come piccoli gruppi; la razionalità è la fonte dell’utile comune, infatti «solo nella misura in cui 35 nlr_DEF 16-03-2007 16:16 Pagina 36 Malcolm Bull gli uomini vivono sotto la guida della ragione, concordano sempre necessariamente per natura».57 Le passioni favoriscono la socialità, la socialità favorisce la razionalità e la razionalità favorisce l’utile. Ne discende necessariamente che, se lo Stato è governato dalla moltitudine (la quale, in virtù del numero, ha più probabilità di personificare la ragione), il bene privato tende maggiormente a confondersi con il bene pubblico. In questa analisi, Spinoza non menziona mai il contratto, né ha bisogno di menzionarlo. Benché in entrambi i suoi trattati insista sull’unità, in un momento intermedio fra i due deve essersi reso conto che per l’analisi sulla ragione presente nell’Etica il contratto era superfluo, poiché la moltitudine poteva essere come una sola mente senza averlo deciso. In tal modo egli aveva aperto involontariamente la strada a una teoria sullo Stato che poteva fare a meno non solo del contratto, ma anche dell’unità razionale degli individui. La mano invisibile Questa teoria ha trovato presto un sostenitore in Bernard de Mandeville. La sua tesi che «la peggiore delle moltitudini ha fatto qualcosa per il bene comune» è, come oggi appare in modo chiaro, doppiamente provocatoria. Che i membri peggiori della società possano contribuire al suo benessere è ovviamente sorprendente, ma l’affermazione che la moltitudine in quanto tale agisce per il bene comune mina addirittura la lunga tradizione per la quale a favorire il bene comune era, per definizione, il popolo e non la moltitudine. 36 nlr_DEF 16-03-2007 16:16 Pagina 37 I limiti della moltitudine Tuttavia Mandeville fornisce una sua versione paradossale della distinzione popolo/moltitudine: Spero che il lettore sappia che per società intendo un corpo politico, nel quale l’uomo… è diventato una creatura disciplinata che può trovare il proprio scopo nel lavorare per gli altri, e nel quale sotto un solo capo o altre forme di governo si rende sottomesso al tutto, e tutti gli uomini, grazie a un governo capace, agiscano come una persona sola. Se per società intendiamo soltanto un certo numero di persone unite tra loro ma prive di norme e di governo, spinte unicamente dall’attaccamento naturale ai propri simili o dal desiderio di compagnia, come una mandria di mucche o un gregge di pecore, allora non c’è al mondo un essere meno adatto dell’uomo ad associarsi.58 Qui, la distinzione implicita è fra gli animali che sono realmente politici e quelli che semplicemente si aggregano. Mandeville però non sostiene che i primi costituiscono un corpo politico perché hanno stipulato un contratto fra loro. Al contrario, trova ridicola l’idea che «due o trecento selvaggi… possano formare una società, e unirsi in un solo corpo». La società, nel suo insieme, è nata da forme preesistenti di socialità, che sono il prodotto non «delle qualità buone e amabili dell’uomo, ma di quelle cattive e odiose».59 La tesi di Mandeville è che la socialità è in realtà una proprietà imprevista dell’individualismo, e il corpo politico una conseguenza imprevista del vizio. L’umanità non potrebbe rimanere un gregge privo di guida neanche se lo volesse. Ma alla ragione spinoziana, egli sostituisce l’orgoglio come strumento attraverso il quale l’individuo desidera accordarsi per 37 nlr_DEF 16-03-2007 16:16 Pagina 38 Malcolm Bull l’interesse comune. Non esiste «nessun’altra qualità altrettanto benefica», poiché gli uomini «quanto più mostrano di essere orgogliosi e vanitosi… tanto più devono essere capaci di formare società ampie e numerose». La peggiore delle moltitudini non fa soltanto qualcosa per il bene comune, addirittura fa il massimo.60 L’esempio preferito di Mandeville è quello dello sfarzo dei pochi che fornisce lavoro ai molti, una tesi che Adam Smith riprenderà in Teoria dei sentimenti morali: con «il loro egoismo e la loro avidità naturali», i ricchi, il cui solo fine è «l’appagamento della propria vanità e dei propri desideri», forniscono lavoro a migliaia di uomini, e guidati «da una mano invisibile… senza averne l’intenzione e senza saperlo, fanno l’interesse della società».61 Non i ricchi imprudenti, ma, come Smith precisa in La ricchezza delle nazioni, altri soggetti economici, ad esempio i mercanti che preferiscono fare investimenti in patria invece che all’estero e in questa loro scelta «come in molti altri casi, sono guidati da una mano invisibile per raggiungere uno scopo che non era nelle loro intenzioni».62 Lo stesso Smith sembra non aver dato troppa importanza al termine, ma altri si sono resi conto che la «mano invisibile» offriva potenzialmente una spiegazione non solo riguardo al sistema economico della società, ma anche a quello politico: I governi che si sono visti nel mondo fino a oggi non sono mai nati da progetti politici elaborati con cura e ponderazione. In ogni stadio della società, la moltitudine ha in genere agito sotto l’impulso immediato della passione oppure sotto la pressione dei suoi desideri o interessi; pertanto quello che si suole 38 nlr_DEF 16-03-2007 16:16 Pagina 39 I limiti della moltitudine chiamare sistema politico deriva, almeno in larga misura, dalle passioni e dai desideri degli uomini oltre che dalle circostanze; in altre parole è il prodotto della saggezza della natura. In realtà, le passioni e le circostanze agiscono in modo da favorire i piani della natura e, come insegna la storia, spingono invariabilmente gli uomini a trovare soluzioni vantaggiose, sicché è difficile credere che il fine verso cui tendono non sia previsto. Anche nei periodi più duri, quando gli uomini, come gli animali inferiori, agiscono ciecamente sotto l’impulso dell’istinto, sono guidati da una mano invisibile e contribuiscono a realizzare un piano, di cui non conoscono la natura e i vantaggi. Le operazioni che l’ape compie quando incomincia a costruire la sua cella ci fanno pensare agli sforzi dell’uomo primitivo che cerca di darsi un governo.63 Hayek? No, Dugald Stewart, allievo e biografo di Smith, nonché il primo a riconoscere il debito di Smith nei confronti di Mandeville. Qui, l’interrogativo di Rousseau sulla «moltitudine cieca» trova una risposta – una risposta che Spinoza non avrebbe potuto non approvare. L’intelletto generale contro la volontà generale Per chi come Rousseau pensa che, nonostante l’interesse privato e quello pubblico talvolta coincidano, non possa esserci fra i due un’armonia duratura, sarà sempre necessario distinguere fra la volontà di tutti (intesa come somma degli interessi privati) e la volontà generale (ossia l’interesse comune).64 Ma per chi riconosce l’intervento di una mano invisibile, questa dicotomia rappresenta una «falsa alternativa fra il 39 nlr_DEF 16-03-2007 16:16 Pagina 40 Malcolm Bull governo di uno solo e il caos».65 Per Rousseau la volontà di tutti può essere «una cacofonia incoerente», ma in quanto «espressione molteplice dell’intera popolazione» è, come sostengono Hardt e Negri, più simile a «un’orchestra priva di direttore – un’orchestra che tramite una comunicazione costante determina il proprio ritmo e può essere riportata all’ordine e messa in riga soltanto se un direttore, dal centro, impone la propria autorità».66 Al pari dei loro predecessori, Hardt e Negri attingono il modello di «intelligenza collettiva che può emergere dalla comunicazione e collaborazione di varie molteplicità» dal mondo della natura. Prendendo «l’idea di sciame dal comportamento collettivo degli animali sociali, come le formiche, le api e le termiti», per analizzare i sistemi di intelligenza ripartiti fra molti individui, passano poi ad analizzare «l’intelligenza dello sciame» connaturata alla moltitudine; la sua capacità di fare «musica» senza un direttore o qualcuno che dal centro dia gli ordini.67 A questo proposito: Proprio come la moltitudine produce in comune – e producendo in comune produce il comune – essa può prendere decisioni politiche… La moltitudine non produce soltanto beni e servizi, ma anche – e soprattutto – cooperazione, comunicazione, forme di vita e relazioni sociali. La produzione economica da parte della moltitudine, in altri termini, non è soltanto un modello di decisione politica, ma tende anche a diventare decisione politica proprio in quanto produzione economica.68 Secondo Virno questa produzione comune si manifesta nell’opposizione fra volontà generale e intelletto generale: «l’Uno della moltitudine, non è l’Uno del popolo. La molti40 nlr_DEF 16-03-2007 16:16 Pagina 41 I limiti della moltitudine tudine non converge in una volonté générale per la semplice ragione che ha già accesso a un intelletto generale».69 Partendo da Marx che nei Lineamenti fondamentali di critica dell’economia politica accenna al momento in cui «la conoscenza sociale generale è diventata una forza diretta di produzione»,70 Virno descrive l’intelletto generale come «l’insieme di conoscenze si cui poggia la produttività sociale… [il che] non implica necessariamente il complesso di conoscenze acquisito dalle specie, bensì la facoltà di pensare nella sua dimensione potenziale, al di là delle sue innumerevoli realizzazioni».71 Se questa osservazione ricorda in modo sospetto la «tacita conoscenza» di cui parlano Michael Polanyi e Friedrich Hayek, si tratta di una somiglianza non sorprendente perché la moltitudine stessa è ciò che essi avrebbero definito «un ordine policentrico» al cui interno «le azioni sono determinate dalle relazioni e dagli accordi reciproci fra gli elementi che la compongono».72 Per Hardt, come per Negri, il modello di tale ordine è il cervello, dove «non c’è uno solo che prende decisioni… ma piuttosto uno sciame, una moltitudine che agisce di concerto».73 In entrambi i casi, i modelli che ne risultano sono le tecniche accumulate dalla specie per risolvere i problemi, «le nostre usanze e abilità, i nostri comportamenti emotivi, i nostri strumenti, e le nostre istituzioni», oppure, come dice Virno, la nostra «immaginazione, le tendenze etiche, la struttura mentale» e «i giochi linguistici».74 Per Hardt e Negri, «l’usanza è ciò che è normale nella pratica: ciò che produciamo normalmente di continuo e che serve come base alle nostre azioni».75 Se la moltitudine è un organismo policentrico, l’intelligenza dello sciame una mano invisibile e l’intelletto genera41 nlr_DEF 16-03-2007 16:16 Pagina 42 Malcolm Bull le una forma di tacita conoscenza, non siamo in presenza di somiglianze coincidenti (oppure di prodotti derivanti da un prestito complessivo da Hayek), ma del risultato diretto dell’adesione di Negri a quegli aspetti del pensiero spinoziano che si discostano da Hobbes. Da Cicerone in poi, è sempre stato assiomatico che una moltitudine diventa agente politico soltanto quando si unifica in un popolo. Spinoza non dissente in linea di principio, anche se intreccia vari temi aristotelici per giungere a un’interpretazione articolata di unità che non dipenda dall’accordo consapevole di tutti coloro che sono coinvolti. Laddove differisce da quello di Hobbes, il pensiero spinoziano conduce a Mandeville, Smith, Stewart e Hayek. La moltitudine non è un nuovo soggetto politico inventato da Spinoza né il soggetto uscito perdente dalle battaglie politiche del XVII secolo; è da sempre la materia prima della politica. La sola domanda è come possa la moltitudine diventare un organismo agente. La tradizione di cui Spinoza fa parte e all’interno della quale il suo pensiero segna una svolta importante fornisce solo due risposte: o la moltitudine è unita e agisce come un organismo singolo oppure, pur rimanendo divisa e scoordinata, agisce collettivamente per intervento di una mano invisibile. I difensori contemporanei della moltitudine restano intrappolati in questa storia, su posizioni che non sono né hobbesiane né hayekiane. Cercando la strada che li faccia uscire dall’impasse del mercato globale e delle sue forme reattive di populismo, hanno ripercorso il cammino a ritroso. La difficoltà nasce quando si parte dalla moltitudine come aggregazione di individui e poi si teorizza una dicotomia fra l’uno e i molti. In tal caso si pone una scelta fra volontà 42 nlr_DEF 16-03-2007 16:16 Pagina 43 I limiti della moltitudine generale e intelletto generale, fra Stato e società. Invece di essere un soggetto dalle potenzialità illimitate, la moltitudine finisce col limitare le opzioni politiche allo Stato garantista e al libero mercato. Nella politica contemporanea, il problema dell’organismo agente richiede una soluzione più complessa. 1. Michael Hardt e Antonio Negri, Moltitudine: guerra e democrazia nel nuovo ordine imperiale, Rizzoli, Milano 2004, p. 130. 2. Moltitudine, cit. 3. Paolo Virno, Grammatica della moltitudine: per un’analisi delle forme di vita contemporanee, Derive/Approdi, Roma 2002. 4. Antonio Negri, L’anomalia selvaggia: saggio su potere e potenze in Baruch Spinoza, Feltrinelli, Milano 1981; Etienne Balibar, Razza, nazione, classe: le identità ambigue, Edizioni Associate, Roma 1991; Virno, Grammatica della moltitudine, cit. Vedi anche Warren Montag, Bodies, Masses, Power, London 1999 e Negri, Spinoza sovversivo: variazioni (in)attuali, Pellicani, Roma 1992; Balibar in Spinoza e la politica, Manifestolibri, Roma 1996, fa un’analisi più equilibrata. 5. Virno, Grammatica della moltitudine, cit. 6. Moltitudine, cit. 7. Negri, L’anomalia selvaggia, cit.; Montag, Bodies, cit., p. 92. 8. Balibar, Razza, nazione, classe, cit. 9. Virno, Grammatica della moltitudine, cit. 10. Moltitudine, cit. e Montag, Bodies, cit., p. 92. 11. Hobbes, Elementi di legge naturale e politica [1650] 21.11, a cura di Arrigo Pacchi, La Nuova Italia, Firenze 1968. 12. Hobbes, De Cive [1642], a cura di Tito Magri, Editori Riuniti, Roma 1979, 6.1. 13. Elementi, 21.11 e De Cive 6.1. 14. De Cive 6.1. 15. Ivi, 12.8. 43 nlr_DEF 16-03-2007 16:16 Pagina 44 Malcolm Bull 16. Ivi, 6.1. 17. Hobbes, Leviathan [1651], a cura di Richard Tuck, Cambridge 1991, p. 114. 18. De Cive 7.11. 19. Ivi, 12.8. 20. Ivi, 13.13. 21. Ivi, 7.5. 22. Elementi, 27.4. 23. Cicerone, De Republica, 1.25., a cura di Anna Resta Barile, Zanichelli, Bologna 1992. 24. Agostino, De civitate Dei, 19.21. 25. Ivi, 19.24. 26. Agostino, Sermo 103, citato in J.D. Adams, The «Populus» of Augustine and Jerome: a study in the patristic sense of community, New haven 1971, p. 35. 27. Vedi M.S. Kempshall, «De re publica 1.25 in Medieval and Renaissance Political Thought», in J.G.F. Powell e J.A. North, a cura di, Cicero’ Republic, London 2001, pp. 99-135. 28. Aristotele, Politica, 1279a, a cura di Renato Laurenti, Laterza, Bari 1993; Tommaso d’Aquino, In libros politicorum Aristotelis expositio, a cura di Raimondo Spiazzi, Roma 1951, p. 139. 29. Marsilio da Padova, Defensor Pacis [1324], 1.12.4, Il difensore della pace, a cura di C. Vasoli, Utet, Torino 1960. 30. Spinoza, Teologico-Political Treatise [1670], trad. di R.H.M. Elwes, New York 1951, p. 205. 31. Spinoza, Tractatus politicus [1677], 3.7. Balibar analizza le interpretazioni di questa frase (apparsa la prima volta in 3.2), «Potentia multitudinis, quae una veluti mente dicitur», in Marcel Senn e Manfred Walther, a cura di, Ethik, Recht und Politik bei Spinosa, Zürich 2001, pp. 105-37. 32. Tractatus politicus, 2.16. 33. Ivi, 2.13. 34. Ivi, 2.15. 35. Aristotele, Politica, 1253a. 36. Tractatus politicus, 3.2. 37. Ivi, 8.19. 38. Ivi, 3.7. 44 nlr_DEF 16-03-2007 16:16 Pagina 45 I limiti della moltitudine 39. Ivi, 2.21. 40. Spinoza, Lettere, XXXII. 41. Spinoza, Etica [1677], 4.P32 e 4.P35, a cura di R. Cantoni e F. Fergnani, Utet, Torino 1972. 42. Tractatus politicus, 1.5. 43. Teologico-Political Treatise, cit., p. 216. 44. Tractatus politicus, 6.1. 45. Tommaso d’Aquino, In libros politicorum, p. 151. Il commento di Tommaso (che il suo allievo Pietro d’Alvernia menziona alla fine di 3.6) era stato pubblicato nel XVII secolo con la traduzione latina della Politica (l’edizione parigina del 1645). Probabilmente Spinoza, che aveva letto Aristotele in latino, era venuto a conoscenza della Politica attraverso quell’edizione. 46. Aristotele, Politica, 1286a e 1282a. Per un’analisi contemporanea di questo fenomeno, vedi James Surowiecki, The Wisdom of Crowd, London 2004. 47. Aristotele, Politica, 1281a-b. Nell’edizione latina citata sopra la frase è stata tradotta così: «et fieri congregatorum quasi unum hominem multitudinem multorum pedum et multarum manuum et multos sensus habentem sic et quae circa mores et circa intellectus», p. 146. 48. Teologico-Political Treatise, p. 206. 49. Tractatus politicus, 8.3. 50. Ivi, 9.14. 51. Elementi, 19.5. 52. De Cive, 5.5. 53. Ivi, 5.4. 54. Leviathan, cit., p. 119. 55. Etica, 4.PI8s, e 4P35C2. 56. Ivi, 4.PI8s; cfr. Aristotele, Politica, 1281° e nota 47 sopra. 57. Ivi, 4.P35. 58. Bernard de Mandeville, The Fable of the Bees [1714], Oxford 1924, vol. 1, p. 347. 59. Mandeville, Fable, vol. 2, p. 132; vol. 1, p. 344. 60. Ivi, vol. 1, pp. 124, 346-7. 61. Adam Smith, The Theory of Moral Sentiments [1759], London 1976, pp. 184-5. 62. Smith, La ricchezza delle nazioni, Libro 4, capitolo 2. 45 nlr_DEF 16-03-2007 16:16 Pagina 46 Malcolm Bull 63. 64. 65. 66. 67. 68. 69. 70. 71. 72. 73. 74. 75. Dugald Stewart, Collected Works, vol. 2, Edinburgh 1854, p. 248. Rousseau, Contratto sociale, 2.1 e 2.3. Moltitudine, cit. Ibidem. Ibidem. Ivi, p. 390. Virno, Grammatica della moltitudine, cit. Marx, Lineamenti fondamentali di critica dell’economia politica, Einaudi, Torino 1976. Virno, Grammatica della moltitudine, cit. Friedrich Hayek, Studies in Philosophy, Politics and Economics, London 1967, p. 73. Moltitudine, cit. Hayek, The Constitution of Liberty, London 1960, p. 26; Virno, Grammatica della moltitudine, cit. Moltitudine, cit. 46