Marina Mazzei: un profilo etico

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Marina Mazzei: un profilo etico
Saverio Russo
Marina Mazzei: un profilo etico-civile*
di Saverio Russo
Ringrazio quanti hanno collaborato all’organizzazione di questa giornata che,
in corsa, dall’essere la presentazione di uno degli ultimi lavori – non l’ultimo - si è
opportunamente trasformata in una sorta di commemorazione “civile” di Marina.
Ho scritto di mia moglie, brevemente, su «La Gazzetta del Mezzogiorno» edizione
di Capitanata, pochi giorni dopo la sua scomparsa; ho parlato di lei, ancora più
brevemente, allo Sporting di Siponto alla fine di agosto per chiedere solo che la si
ricordi non tanto con targhe e premi alla memoria, ma soprattutto continuando il
suo lavoro e ispirandosi al suo stile.
Non sta a me dire alcunché sul suo profilo scientifico: ringrazio per questo,
oltre che Enzo Lippolis che ne ha parlato stasera, quanti se ne sono occupati finora,
da Giulio Volpe, che di lei, l’otto agosto, ha scritto su «la Repubblica» edizione di
Bari e, su «Archeologia viva», in un fascicolo in corso di stampa, a Stephan
Steingräber che di Marina ha scritto su «Antike Welt», l’equivalente di «Archeo» in
Germania, in una pagina corredata da una tenerissima fotografia di 13 anni fa. Ringrazio, infine, i giornalisti televisivi e della carta stampata che di lei hanno parlato e
scritto.
Al profilo scientifico di Marina, peraltro, sarà dedicata una giornata di studi
nel prossimo mese di maggio, organizzata dalla Facoltà di Lettere della nostra Università e dalla Soprintendenza archeologica per la Puglia.
Dirò, invece, qualcosa sul suo profilo etico-civile, sul suo stile, che è parte
importante della sua eredità e che ha a che fare con la gestione della sua memoria.
Mi pare importante soffermarmi su questo punto, nel momento in cui, da parte di
vari enti, si annuncia l’istituzione di una fondazione per la storia e l’archeologia
della Daunia, che dovrebbe ricordare Marina.
Su questi temi credo di poter intervenire con cognizione di causa, lasciando
ad altre occasioni gli aspetti relativi alle politiche culturali e alle questioni della
*
Si tratta dell’intervento che Saverio Russo, marito di Marina, nonché professore straordinario di Storia
moderna presso la Facoltà di Lettere dell’Università di Foggia e, da almeno venticinque anni, attivo e disinteressato promotore di cultura in Capitanata, ha tenuto il 2 dicembre 2004, a Foggia, nel salone del Tribunale
della Dogana, in occasione della presentazione del volume postumo, Passeggiate archeologiche nella Daunia,
edito da Claudio Grenzi.
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tutela su cui pure io e Marina, in sedi differenti, siamo intervenuti. In fondo ho
incontrato Marina - nel dicembre del 1986, dopo alcuni fuggevoli contatti - perché,
da volontario della politica, di questi temi mi occupavo.
Marina aveva un alto concetto della sua funzione, del suo ruolo di funzionaria
della Soprintendenza e non aveva mai accettato un’idea corrente - sorretta spesso
anche da assurde differenze stipendiali - di una piramide delle istituzioni culturali
al cui vertice ci sarebbe l’Università, con le altre - musei, biblioteche, archivi, soprintendenze - relegate in un ruolo ancillare. Se lo avesse voluto, forse non avrebbe
avuto grandi problemi per passare all’Università, considerata la vastità della sua
produzione scientifica; ma non l’aveva fatto e mai sarebbe andata a piatire, né avrebbe
fatto carte false o solo concesso alcunché dipendente dalle sue funzioni, per avere
una supplenza o un contratto. Per quanto mal pagata - pagata nettamente meno di
me che ho meno responsabilità - era decisa a rimanere in Soprintendenza, certo un
po’ frustrata per le tante occasioni mancate per riconoscere meriti (quando si sono
proposti meccanismi di avanzamento meritocratico, che dovevano selezionare, alla
fine si sono promossi tutti). Ma non se ne faceva un cruccio: in fondo era il mestiere
che aveva sempre sognato di fare.
Aveva un’alta considerazione del suo essere funzionaria di un organo prestigioso
dello Stato, che non è soltanto un ufficio burocratico, ma strumento di tutela e struttura
di ricerca, istituzione culturale per eccellenza che richiede buoni studi preliminari e
continuo aggiornamento. Faceva in modo che qualsiasi cosa scrivesse o facesse, nel più
piccolo comune o nella sede più prestigiosa, si avesse della Soprintendenza un’alta considerazione. Poneva un’attenzione estrema, quando scriveva, nel rileggere più volte il
testo e se doveva usare una lingua straniera, per pubblicazioni o altro, cercava di evitare
che una cattiva traduzione destasse ilarità o gettasse discredito sull’ente.
Ha sempre rifuggito dal provincialismo e dalla esaltazione delle “piccole patrie”. Sapeva bene che, ad esempio, la battaglia per la tutela del nostro patrimonio,
la lotta contro lo scavo clandestino, si potevano vincere solo sensibilizzando gli
ambienti scientifici e il collezionismo internazionale. In questa direzione andavano
le interviste rilasciate al «Boston globe» e alla BBC, nonché la vasta rete che aveva
tessuto su questi problemi tra Svizzera, Germania e Francia.
Non amava il sensazionalismo nella ricerca archeologica, i cercatori dell’eccezionale, i cacciatori di reliquie: sapeva bene quanti danni ha fatto all’indagine
archeologica la ricerca di qualcosa in particolare, che ha portato a distruggere quanto non serviva.
Nonostante si fosse laureata con Antonio Giuliano, più incline alla storia
dell’arte e all’iconografia, era nei fatti più bandinelliana e carandiniana, attenta ai
contesti.
Non amava la pubblicità a tutti i costi, l’annuncio intempestivo, prima che lo
scavo fosse chiuso e messo in sicurezza e se ne fosse garantita la custodia. Si meravigliava però anche dello spazio che le agenzie di stampa e i giornali, senza alcun
vaglio critico, davano ad ogni annuncio – fanfaluche o ipotesi bizzarre, purtroppo
spesso avanzate da chi aveva il dovere della prudenza - e si diceva - lei che era stata
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in contatto con giornalisti esperti autorevoli, come il compianto Giovanni Maria
Pace di «la Repubblica» - come anche quello dei giornalisti fosse un mestiere in
profonda crisi, dove si studia poco e si approfondisce meno. Era un po’ preoccupata per l’eccessiva attenzione mediatica per l’archeologia e preoccupata come me che
nel nostro Mezzogiorno il passato non sia solo archeologia. E spesso, come sappiamo, l’archeologia del vaso, del reperto non contestualizzato, in una spirale perversa
che rende gli oggetti feticci e favorisce il mercato clandestino.
Riteneva indispensabile il lavoro oscuro, quello di cui non si parla, ma che
costituisce la condizione della tutela: i vincoli, gli espropri, oltre che le buone leggi
(di recente aveva più volte inviato al Ministero sue considerazioni sui vari provvedimenti legislativi che tanto hanno allarmato il mondo della cultura).
Aveva un grande senso della misura che non la spingeva a sgomitare per stare
dappertutto, attenta a che nella sua vita il lavoro non prevaricasse sul mondo degli
affetti e che la routine dell’ufficio non le impedisse di studiare.
Non usava mai le relazioni con imprese aggiudicatarie di lavori per chiedere
sponsorizzazioni per sue pubblicazioni o per iniziative dell’ufficio. Aveva un’idea
per nulla “familista” del suo lavoro: ho dovuto insistere molto perché, quando io
avevo un qualche ruolo nel Museo del Territorio, accettasse che le campagne di
scavo previste nell’attività del Museo si svolgessero a Siponto, nel Parco archeologico affidato alla sua Direzione. L’unica trasgressione “familista” consentita riguardava il lavoro di ricerca: ci si scambiava schede e documenti e ci ripromettevamo di
scrivere un lavoro a quattro mani sul collezionismo tra Sette e Ottocento. Ma non
c’è stato tempo e le brevi mie note che compaiono in questo volume, sull’onda dei
ricordi dei paesaggi che avevamo visto insieme – il Gargano che a volte sembra
un’isola da Margherita, le colline allineate l’una dietro l’altra che si scorgono dal
bosco di San Cristoforo – sono quanto resta di questa collaborazione.
Ha cercato di far crescere e valorizzare il lavoro dei giovani, non come talvolta si fa in relazioni asimmetriche, tra chi ha potere e chi no, pubblicando a nome
del “più importante” la ricerca del più giovane, costretto ad “abbozzare” con la
speranza di ottenere un giorno qualcosa. Potrei fare un lungo elenco di laureandi
abbandonati a se stessi dai loro professori o di giovani che aveva incoraggiato e
aiutato a pubblicare le ricerche a lei sottoposte in lettura.
Non amava, come me, la lunga sfilata delle autorità ad ogni iniziativa – anche
scientifica - l’omaggio insistito, il corteggiamento dei rappresentanti del potere:
l’amministratore esercita un ruolo, come uno fa l’archeologo ed un altro il professore. Non dobbiamo ringraziarlo per il fatto di fare il suo dovere. Dobbiamo ringraziarlo se fa bene o se fa più del suo dovere. Ma è ben difficile, in una società,
come la nostra, costruita sulla dipendenza e sul favore, far intendere questo.
Nel rapporto necessario con Enti e istituzioni stava attenta tuttavia a non
farsi spogliare delle sue prerogative, a non cedere sul piano della distinzione dei
ruoli. Dava fiducia non sulla base del colore politico, ma della credibilità personale
e della coerenza, oltre che dello stile, sempre comunque attenta alla tutela dell’interesse pubblico.
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Ma, come nel suo stile, su questo e su altri temi, non faceva proclami o dichiarazioni ideologiche. Sarebbe difficile cercare tra i suoi scritti, editi o inediti,
qualcosa che riassuma la sua filosofia di vita, un diario più o meno privato, pieno di
massime. Faceva, operava e basta. Sperava - forse si illudeva - nell’efficacia dell’esempio. Potremmo dire, come sostengono gli economisti, che purtroppo la moneta cattiva scaccia quella buona. Speriamo - e non abbiamo altra risorsa che la
speranza - che il suo seme possa ancora continuare a dare frutti, che la sua testimonianza, così poco ostentata, non sia stata vana.
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