Beata Gioventù
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Beata Gioventù
1 “BEATA GIOVENTÙ? ISTRUZIONI PER L’USO” Il titolo, volutamente provocatorio, del volume che avete tra le mani, è lo stesso di un convegno, organizzato dall’Associazione Nuova Civiltà, il 12 ottobre del 2002. La richiesta di raccogliere tutti gli interventi di quell’interessantissimo incontro in un libro, partì non tanto dai relatori, ma quanto dal pubblico che intervenne in quell’occasione, con un interesse e una partecipazione tanto ampia che, confessiamolo, stupì gli stessi organizzatori del convegno. Memore dei tanti congressi soporiferi che chi scrive ha dovuto “subire” nel corso della sua formazione, “Beata gioventù?” partiva da un’idea che intendeva coniugare cinema, psicologia e sociologia, grazie all’uso di otto differenti clip, tratte da film riguardanti il disagio giovanile, che introducevano i vari interventi dei relatori presenti al convegno. Grazie all’uso del CD – Rom (allegato alla pubblicazione), l’idea originaria è stata mantenuta, ma come potrete notare se andrete avanti nella lettura, il volume non vuole essere una mera trascrizione degli atti del convegno. “Beata gioventù?” è infatti suddiviso in due differenti parti: nella prima, Nuova Civiltà, viene presentata la nostra associazione attraverso tre interventi, tanto differenti tra loro quanto lo sono gli autori che li hanno scritti. Nel primo capitolo, Don Giuseppe Anzalone, alla luce della sua trentennale esperienza nel lavoro coi minori, fa un interessante excursus dei mutamenti avvenuti nelle generazioni di giovani, dagli anni ‘60 fino ad oggi. Il secondo capitolo, di stampo più tecnico, illustra tutte le attività portate avanti fino ad oggi dall’associazione, riservando una piccola parte ai cosiddetti “progetti per il futuro” e ai “sogni nel cassetto” (come vedete non siamo superstiziosi!). Il terzo intervento, scritto dal regista dell’associazione, Giuseppe Violo, ci regala un particolarissimo “racconto” di quanto avvenuto negli ultimi anni, dando voce direttamente ai volontari che hanno messo in piedi il “Villaggio Rahamim”. “Riflessioni sul disagio giovanile, tra psicologia, sociologia e cinema” è il titolo della seconda parte del libro, quella che 2 raccoglie gli interventi dei relatori al convegno, scritti che però, è bene precisarlo, sono stati ampiamente riveduti, arricchiti e approfonditi da tutti gli scrittori dei vari capitoli. Due sono le caratteristiche che accomunano i vari autori: la prima è che si tratta di esperti, di chiara fama, provenienti da gran parte della Sicilia, operanti in vari ambiti e a vario titolo nel settore del disagio minorile; la seconda caratteristica è che nessuno degli autori si limita ad essere un semplice “esperto”, ma ognuno di essi lavora direttamente “sul campo” e a diretto contatto coi giovani. Piero Cavaleri, che chi scrive considera come un vero e proprio “Maestro”, è l’autore del quarto capitolo che, con brevi pennellate, riesce a dare interessanti risposte e, merito ancor più grande, a suscitare nuove domande su quale sia la direzione verso cui la “mente umana” e l’identità giovanile sta evolvendo nelle nuove generazioni. Nel quinto capitolo Michele Lipani, partendo da dati statistici inquietanti, col suo inguaribile ottimismo riesce a dare un interessantissimo quadro sui “giovani” d’oggi che, lo apprendiamo con gioia, nelle ultime ricerche sulla società post – industriale, sono considerabili tali fino ai 34 anni. Daniela Rossini Oliva, psicologa con esperienze transcontinentali, nel sesto capitolo ci ricorda che, se è vero che l’adolescenza in Italia rischia ormai di trascinarsi fino alla pensione, lo stesso non si può affermare per i paesi del cosiddetto “terzo mondo”, dove si rischia di essere adulti prima ancora di aver compiuto 10 anni! Il settimo, l’ottavo e il nono capitolo, riproducono fedelmente un coinvolgente dibattito creatosi nel corso del convegno: Dario Caggia introduce interessanti riflessioni che partono dalla sua decennale esperienza presso l’Istituto Penitenziario Minorile “Malaspina” di Palermo, riflessioni che trovano quasi il loro ideale completamento nelle vitali e “sanguigne” affermazioni di Padre Enrico Schirru, che coi detenuti, giovani e meno giovani , lavora quotidianamente ormai da moltissimo tempo. La risposta dell’Istituzione non tarda ad arrivare grazie a Caterina Chinnici, Procuratore della Repubblica presso il Tribunale per i Minorenni di Caltanissetta, che con un intervento filtrato alla luce della sua personalissima esperienza, riesce a fornire alcuni “punti fissi” nel difficile panorama del sistema giudiziario minorile. 3 Dopo aver “girovagato” per il mondo, toccando aspetti variegati del disagio giovanile, il volume non poteva che concludersi con un ritorno a San Cataldo, paese natio di Nuova Civiltà, grazie al decimo capitolo scritto da Bianca Lo Bianco, che del nostro territorio sa molto, essendo lei stessa una vera “combattente in prima linea”. Un sentito ringraziamento va al sindaco di San Cataldo, Dr. Raimondo Torregrossa, e all’Assessore Regionale al Bilancio, On. Alessandro Pagano, che con due brevi introduzioni scritte col cuore, ci hanno fatto l’onore di aprire il presente volume. Venendo agli stretti collaboratori, un altro grande grazie va al Dr. Michele Genna, “obiettore di coscienza scelto”, che col suo paziente e amorevole lavoro di rilettura, mi ha dato una grossa mano nel portare a termine il lavoro. E infine permettetemi di fare un ultimo ringraziamento all’instancabile Alessandro Amico, il vero “motore pulsante” della nostra associazione, che senza mai mettersi in mostra né apparire (dote rarissima nel nostro nuovo millennio!), riesce a trainare tutte le innumerevoli iniziative che sorgono nel nostro “Villaggio nascente”. Conoscendolo so già che non approverà di essere stato citato in questa sede, ma se non fosse stato per lui, oggi non mi troverei nemmeno qui, per cui lo ripeto: grazie Alessandro! 4 PRIMA PARTE: NUOVA CIVILTÀ 5 “NUOVA CIVILTÀ: UNA FORESTA CRESCE SILENZIOSA” di Giancarlo TIRENDI Un po’ di storia tra riflessioni e ricordi Il titolo di questo breve scritto è tratto da una raccolta di poesie, “Stagione Desnuda” (vincitrice del “Premio Quasimodo” 2003), di cui è autore Don Giuseppe Anzalone: compositore, cantautore, poeta, scrittore, padre Anzalone, da tutti chiamato col solo nome di battesimo, è soprattutto un Prete, di quelli con la “P” maiuscola che, ormai quasi venti anni fa, ebbe l’idea di “comporre” l’Associazione Nuova Civiltà. Chi scrive ha avuto la fortuna di conoscerlo nell’ormai lontano (sic!) 1988, in un incontro svolto nella propria classe di liceo: Giuseppe venne da noi, adolescenti in parte inquieti, in parte annoiati, senz’altro foruncolosi, a parlarci di quella associazione che aveva creato alcuni anni prima, ma venne soprattutto ad ascoltarci, facendoci mettere tutti in cerchio, come se, per un attimo, quella classe si fosse trasformata in quello che (lo scoprii solo dopo che si chiamavano così) era il prototipo di un “gruppo di auto – aiuto”. Da quell’incontro cambiarono, certamente, molte cose nella mia vita: innanzitutto iniziai a frequentare quella strana associazione che non rassomigliava a nulla di quanto avessi visto fino ad allora (non era un gruppo religioso, né un gruppo politico, non era un’associazione culturale, né tanto meno un ente di beneficenza/ volontariato….o forse era tutte queste cose assieme e anche qualcosa di più). In secondo luogo, alcuni anni dopo, decisi di iscrivermi al corso di laurea in psicologia e di iniziare il percorso di formazione che mi avrebbe poi portato a diventare uno dei “responsabili” di Nuova Civiltà. Nuova Civiltà, come difficilmente si sarà capito dalle confuse elucubrazioni personali riferite più sopra (possono essere ordinati i ricordi emotivamente pregnanti?), è nata come associazione che si occupava, e tutt’oggi si occupa, di prevenzione alle “devianze” minorili e alle tossicodipendenze, avendo per obbiettivo la promozione della cosiddetta “cultura della vita”. Caratteristica 6 saliente dei gruppi, portati avanti sin dal lontano 1985, è pertanto quella di configurarsi come spazi di ascolto e di riflessione per i più giovani, spazi in cui gli adolescenti, (tutti gli adolescenti e non solo quelli “a rischio”), hanno la possibilità di mettere in discussione la propria vita, i propri valori, le proprie idee al fine di riscoprire, grazie ai “gruppi di auto – aiuto”, il proprio mondo emotivo sommerso da maschere e corazze caratteriali. Tutto questo potrebbe “suonare” come similare ad una psicoterapia e potrebbe indurre a credere che la nostra associazione sia rivolta a soli soggetti “devianti”, ma la riflessione di Padre Anzalone parte proprio dal capovolgimento del concetto di rischio: quali segnali, infatti, ci dicono “chi” o “che cosa” si possa considerare a rischio di una futura tossicodipendenza o di un altro genere di patologia, magari meno appariscente, ma comunque altrettanto dannosa e dolorosa? Detto in altri termini, non è possibile fare una scelta “a priori”, selezionando una sola popolazione target su cui intervenire, quando è ormai chiaro a tutti che il malessere giovanile è ampiamente diffuso, se pur in modo sottile e silente, in tutta la popolazione. Un malessere che ha portato, nell’ultimo decennio, ad un’impennata nel numero di suicidi tra la popolazione giovanile, oltre che ad una vera e propria epidemia di quelli che vengono definiti “disturbi alimentari”(senza contare gli episodi di violenza intrafamiliare di cui i telegiornali vanno particolarmente ghiotti). Per tali ragioni Nuova Civiltà è nata come associazione che si rivolge a tutti i giovani, considerati “a rischio” proprio perché si trovano in una delicata fase di crescita quale è quella adolescenziale, giovani che, peraltro, si ritrovano a vivere in una città come San Cataldo, che ha “il vanto” di essere uno dei principali centri regionali di smistamento della droga. Nuova Civiltà si è posta come obiettivo quello di intervenire sulla prevenzione primaria, nella convinzione che agire preventivamente possa essere molto più utile ed efficace (oltre che “economico”) di un intervento messo in atto nella cosiddetta fase di “recupero” (quando, cioè il disagio ha già trovato delle forme patologiche per esprimersi). 7 Il Villaggio “Rahamim” L’agire nel settore della prevenzione primaria (molto meno “spettacolare” e “appariscente” rispetto a quello del recupero e della riabilitazione) ha portato Nuova Civiltà a svilupparsi in maniera “silenziosa”, attraverso i suoi “Centri di Solidarietà” di San Cataldo, Caltanissetta e Sommatino sempre pronti ad accogliere le esigenze dei giovani e delle loro famiglie, centri che, a giudicare dalle anonime intimidazioni ricevute negli anni dalla malavita locale, hanno comunque dato un certo “fastidio” a chi è abituato ad operare incontrastato in un territorio come il nostro. Nel 1997, dopo dodici anni di attività, la Regione ha voluto premiare l’associazione consentendo che la stessa venisse iscritta all’Albo degli Enti Ausiliari della Regione Siciliana, in qualità di Associazione di Volontariato. Ma è stato il 1999 che ha segnato quello che potremmo definire come “l’anno della svolta” di Nuova Civiltà: il Consiglio di Amministrazione dell’Ente Morale Fascianella, presieduto dal Vescovo di Caltanissetta, in quell’anno ha infatti affidato all’associazione la gestione degli immensi locali dell’Ente, così da consentire che le attività portate avanti fino ad allora potessero estendersi ad ulteriori ambiti rispetto a quelli cui l’organizzazione si dedicava in precedenza. Rimettere “in sesto” una struttura imponente quale è quella dell’Ente Morale Fascianella non è stato facile: al loro arrivo i volontari dell’associazione si sono trovati di fronte una struttura tanto bella quanto deteriorata dagli anni. L’edificio, oggi ribattezzato con il nome di “Villaggio Rahamim”, sorge infatti su una superficie coperta di oltre 4000 metri quadrati, senza contare la foresteria, il boschetto che lo circonda e il campo di calcio (all’epoca fatiscente) che sono annessi alla struttura. Coloro i quali oggi arrivano in visita presso il villaggio hanno difficoltà a comprendere come sia stato possibile realizzare senza alcun contributo pubblico il un nuovo campo di “calcio a sette”, la nuovissima palestra in parquet, il laboratorio artistico dotato di forno per ceramica e soprattutto il grande auditorium polivalente che è dotato di tutte le attrezzature necessarie per lo svolgimento di attività teatrali, cinematografiche, musicali e di intrattenimento. 8 In effetti può sembrare incredibile e sono certo che molti, mentre in questo momento leggono queste righe, non crederanno che quanto ho appena affermato possa essere vero: come è possibile, infatti, realizzare opere murarie tanto imponenti senza ricevere alcun finanziamento pubblico? La risposta è più semplice di quanto non si creda: grazie all’infaticabile opera di alcuni giovani che hanno trovato mille piccoli modi per reperire i fondi per auto – finanziare l’associazione, volontari che per tre anni hanno lavorato senza alcuna retribuzione e soprattutto senza calcolare né le ore di lavoro, né i giorni festivi sul calendario (spesso sono stati impegnati anche a Natale, per Capodanno, a Pasqua) e, francamente, credo che solo chi non è pagato per farlo può essere tanto “folle” da lavorare così tanto e per così tante ore! Oggi il Villaggio Rahamim ospita, ogni giorno, al suo interno non meno di duecento giovani impegnati nelle attività più varie (che saranno meglio descritte più in basso) e mentre scrivo queste righe mi è impossibile nascondere l’orgoglio e la soddisfazione di aver partecipato alla rinascita di un luogo tanto bello, nato per venire incontro alle esigenze dei ragazzi, un luogo che per tanti anni è stato, specifichiamolo, ottimamente gestito dai Salesiani che al suo interno hanno ospitato migliaia di minori. Il Villaggio, che l’associazione ha l’onere e il piacere di gestire, è comunque aperto al territorio e a tutte le agenzie operanti su di esso: per tale ragione, in linea con tale principio ispiratore, al suo interno sono oggi ospitati l’Associazione “Teatro Insieme”, la “Protezione Civile” di San Cataldo, il Ser. T. di San Cataldo (che all’interno del Villaggio svolge alcune delle sue attività), il Club Alcologico locale, il gruppo “Moai Tai”. La Comunità Alloggio “Alba” Il “Villaggio Rahamim”, in linea con la filosofia di Nuova Civiltà, è nato come spazio sempre aperto all’esigenze dei giovani e delle loro famiglie. Per tale ragione si è pensato di finalizzare una piccola parte della grande struttura dell’Ente Morale Fascianella alla realizzazione di una comunità alloggio. 9 La comunità alloggio “ALBA”, è stata ufficialmente inaugurata il 4 novembre del 2001, e accoglie, in forma convittuale, fino a un massimo di nove minori di sesso femminile di età compresa tra gli 8 e i 18 anni. Obiettivo principale della comunità è quello di offrire ai minori, temporaneamente affidati alle cure degli operatori, una vita serena, in un clima il più possibile vicino a quello familiare. Obiettivo finale è quello di facilitare, ove possibile, i rapporti tra il minore e i genitori sostenendo il reinserimento di questo presso il nucleo familiare di origine. L’ALBA vuole porsi come alternativa ai tradizionali istituti educativi grazie alla sua struttura basata su un modello di tipo familiare, divenendo espressione di una politica centrata sul riconoscimento della soggettività di cui il minore, insieme alla sua famiglia, si fa portatore. I minori ospiti della comunità, inoltre, hanno la possibilità di usufruire non solo degli spazi interni alla comunità stessa, ma anche delle innumerevoli opportunità offerte dall’intero Villaggio Rahamim (solo per citarne alcune, l’ampio auditorium/cinema, la sala giochi e la scuola di danza). All’interno della comunità opera un’equipe multidisciplinare, diretta da un responsabile con esperienza pluriennale nel settore, composta da sei educatori professionali, uno psicologo e un assistente sociale. In questi due anni di intenso lavoro, la comunità ha ospitato molte minori, quasi tutte in età adolescenziale, tutte con storie familiari estremamente difficili, se non addirittura tragiche, alle spalle. Le strutture comunitarie, in quanto tali, non sono ovviamente la panacea per tutti i mali e non potranno mai sostituire l’ambiente familiare in cui un giovane dovrebbe crescere e maturare. Cionostante, vista la fascia di età ospitata, è comunque possibile affermare che la comunità resta una buona alternativa alla famiglia e, alle volte, diventa l’unica alternativa possibile per molte delle ragazze ospitate che, altrimenti, rischierebbero di finire vittime della strada e dei suoi inevitabili pericoli. Inserendosi nella tradizione “gruppale” di Nuova Civiltà, che da sempre, come si diceva sopra, si è occupata della fascia adolescenziale/giovanile, anche in comunità si è inoltre deciso di 10 adottare lo strumento dei “gruppi di confronto” e dei “gruppi di auto – aiuto” che, affiancati ai colloqui individuali svolti con lo psicologo, stanno cominciando a dare i primi frutti, specie dal punto di vista della crescita personale attraverso il confronto tra pari (che, come a tutti noto, è un elemento essenziale nella crescita dell’adolescente). Un capitolo a parte merita invece la “questione lavoro”, fronte sul quale la comunità “Alba” si sta, vista l’età delle minori, inevitabilmente trovando impegnata, con l’obiettivo di trovare un inserimento occupazionale stabile per le ragazze ospiti della comunità, una volta divenute maggiorenni. Certamente tale obiettivo potrebbe apparire più una “impresa disperata” che una reale possibilità, specie in un territorio come il nostro così avaro di opportunità anche per i giovani laureati e per quelli comunque abbondantemente formati, ma grazie ad un recente partenariato stipulato con alcune agenzie formative, ad alcuni progetti in cantiere e soprattutto grazie alla buona rete strutturata in questi anni da Nuova Civiltà e alla sensibilità dimostrata dalla popolazione sancataledese, la comunità sta già riuscendo in tale impresa ed infatti, già oggi, alcune delle minori ospiti sono regolarmente collocate presso alcune imprese commercali locali. Il Progetto “Villaggio Rahamim” Elaborato e presentato in collaborazione con l’Assessorato Regionale alla Sanità, il Progetto “Villaggio Rahamim” ha preso il via in data 07/10/2002. Finanziato per il triennio 2002 – 2005 ai sensi del D.P.R. 09/10/1990 n°309, il progetto, attualmente in corso, si articola in quattro differenti ambiti di attività: 1.Centro di aiuto e sostegno allo studio: rivolto a minori “a rischio di devianza” di età compresa tra gli 11 e i 14 anni (tutti segnalati dalle scuole medie inferiori e dalle varie agenzie sociali operanti sul territorio), comprende al suo interno attività che vanno dal doposcuola all’animazione mediante laboratori ludico/formativi e attività sportive di vario genere. 11 2.Movimento famiglie: realizzato in collaborazione con il Ser. T. di San Cataldo, il movimento ha la finalità principale di coinvolgere i sistemi familiari dei minori inseriti all’interno del progetto, così da realizzare un intervento che conosca e identifichi i bisogni dei genitori, promuovendone nel contempo le risorse e le capacità genitoriali. 3.Centro ascolto: in un contesto sociale come quello sancataldese e nisseno, piuttosto refrattario a mettere a nudo le situazioni problematiche, il Centro Ascolto si propone come luogo di riferimento per le necessità dei più giovani, in quanto perennemente sintonizzato con l’esterno e con la strada. 4.Centro di aggregazione per adolescenti: grazie alle grandi risorse messe a disposizione dal Villaggio Rahamim, il servizio si propone di rispondere, attraverso la promozione della cultura della vita, a tutti quegli adolescenti che sentono il bisogno di crescere, acquisire autonomia e soprattutto un’identità adulta. Il centro di aggregazione opera in stretto concerto con l’unità di strada dell’Associazione, formata da operatori e volontari esperti, avente la funzione di calamitare i giovani a rischio di età compresa tra i 14 e i 18 anni, verso le proposte dell’associazione. Sempre nell’ambito del centro vengono inseriti ragazzi con problematiche legate al mondo della devianza, segnalati dal Tribunale per i Minori di Caltanissetta e dall’Ufficio di Servizio Sociale per i Minorenni, agenzie con le quali l’Associazione collabora ormai da anni. 12 Il laboratorio Cinematografico All’interno del progetto “Villaggio Rahamim”, sono stati avviati, come accennato più sopra, laboratori di vario genere. Tra essi, una citazione a parte, meritano il laboratorio Cinematografico, quello Cine – Televisivo e quello Teatrale. Il Laboratorio Cinematografico, diretto da Giuseppe Violo, ha visto tra i suoi tanti obiettivi, quello di consentire, attraverso l’uso della recitazione, che i giovani partecipanti potessero superare blocchi psicologici quali la timidezza o la paura di mettersi in mostra, blocchi che tanto spesso finiscono per portare il giovane verso un’acritica e pericolosa adesione alle regole del “gruppo dei pari”; tale adesione, come a molti noto, non permette al giovane di sviluppare ed esprimere la propria personalità e, nei casi più gravi, è alla base di molte patologie fra le quali, spiccano, quelle connesse alle tossicodipendenze. Il successo riscosso dal laboratorio è stato superiore alle nostre più rosee aspettative: centinaia sono stati i giovani coinvolti, a vario titolo, nella realizzazione dei tre lungometraggi fino ad oggi prodotti. Il primo di essi, “Maschere”, è stato realizzato nel 1997 ed affrontava, con toni drammatici ed evocativi, la tematica della tossicodipendenza all’interno di una famiglia incapace di ascoltarsi e più in generale di comunicare efficacemente. Realizzato con pochissimi mezzi, il lungometraggio ha comunque avuto un forte impatto sulla popolazione locale, promovendo un grosso dibattito sull’argomento droga e fungendo da stimolo di riflessione per gli studenti delle scuole e le loro famiglie. Il secondo, “Come una finestra nel muro”, è stato completato nel 1999 e narrava le vicende di una comunità alloggio per minori, con tutte le problematiche relative a tale difficile mondo. Diretto, come il primo e il terzo lungometraggio, da Giuseppe Violo, il film è stato realizzato col solo ausilio di personale volontario ed è riuscito a coinvolgere un numero di minori ancora maggiore rispetto al precedente “Maschere”. “I have a dream” è il titolo del terzo e (fino ad oggi) ultimo lungometraggio, ed è stato realizzato con un piccolo contributo della Comunità Europea (19 milioni di lire): il film si colloca ad un livello superiore rispetto ai due precedenti, sia per le 13 attrezzature utilizzate (telecamere e montaggio digitali), sia per la qualità artistiche del lungometraggio in sé. Di stampo più marcatamente “autobiografico” (il film narrava le vicissitudini di un’associazione di volontariato che si occupa di minori a rischio, tra le mille difficoltà di ogni giorno), “I have a dream” ha partecipato con discreto successo a vari festival cinematografici nella sezione “Esordienti”, riscuotendo un discreto successo e classificandosi nono al Festival di Merano. In merito alla “risonanza” avuta a livello locale, non possiamo non sottolineare, con grande orgoglio, che alla prima del film presso il cinema – teatro Bauffremont di Caltanissetta, accorse un pubblico superiore alle mille persone e oltre trecento rimasero all’esterno del cinema che, per motivi di sicurezza, non poteva contenere ulteriori spettatori! Ma come si sa “l’appetito vien mangiando”, ed è forse per tale ragione che, a dicembre del 2003, avranno inizio le riprese del quarto film dell’associazione, sempre per la regia di Giuseppe Violo. Al momento siamo autorizzati solo a comunicare (come si usa fare a Hollywood!) che il titolo del film sarà “L’opera più grande” e, nonostante l’attuale mancanza di qualsivoglia contributo, è comunque possibile garantire che il lungometraggio non farà rimpiangere i precedenti, grazie anche alla presenza (quasi certa), di alcuni attori siciliani di fama nazionale che, viste le finalità del lungometraggio, si sono dimostrati entusiasti di partecipare, in piccoli “camei”, alla realizzazione del film. Il laboratorio Cine – Televisivo Nell’ambito delle attività previste all’interno del “Laboratorio Cinematografico”, lo scorso anno è nata una nuova sezione che è stata battezzata come “Laboratorio Cine – televisivo”. Il laboratorio, sorto anche grazie ad una convenzione stipulata tra l’Associazione Nuova Civiltà e l’emittente televisiva Tele Oasi e.t.r., ha tra i suoi obiettivi principali quello di coinvolgere i giovani in un’attività assolutamente unica nel suo genere, quale è quella connessa alla realizzazione di programmi televisivi. Lo 14 scorso anno, a tal proposito, è stata realizzata una trasmissione televisiva dal titolo “L’ora di Buco”, un quiz che ha coinvolto oltre 220 giovani provenienti da 10 scuole superiori di San Cataldo e Caltanissetta. In un mondo sempre più caratterizzato dalla strapotenza dei mass – media, che oramai influenzano pesantemente i processi decisionali ed evolutivi, soprattutto dei soggetti più giovani, i ragazzi si trovano molto spesso impreparati e inermi di fronte a dei messaggi che sono volutamente ambigui e astutamente mirati ad un condizionamento occulto. Nonostante quanto detto, però, l’atteggiamento utilizzato in passato dalle agenzie educative, che per molto tempo hanno tentato di demonizzare la televisione tentando di mostrarne gli aspetti più deleteri, è risultato assolutamente sterile e, alle volte, addirittura controproducente, specie di fronte al soverchiante potere di un mezzo che è ormai prepotentemente entrato nella vita quotidiana sin nei suoi più piccoli meandri, influenzando la strutturazione cognitiva della nuova generazione, totalmente cresciuta di fronte al “malefico elettrodomestico”. Basandosi su una strategia antitetica a quella sopra esposta, il laboratorio Cine - televisivo di Nuova Civiltà ha posto tra i suoi obiettivi primari quello di sviluppare nei minori un’adeguata capacità critico – valutativa rispetto al mezzo televisivo. La strategia messa in campo parte dal presupposto che solo chi fa televisione è realmente in grado di comprendere come essa sia strutturata, per cui l’idea sulla quale è fondato il laboratorio è quella che corrisponde ad una frase del celebre conduttore televisivo Gianfranco Funari, secondo il quale “La televisione è meglio farla che guardarla”. Il laboratorio, ad oggi, è una creatura appena nata, ed è quindi difficile prevederne gli sviluppi, ma è innegabile che, alle spalle di esso, si celi un sogno (forse un po’ folle) che speriamo un giorno di riuscire a realizzare: creare una televisione locale tutta gestita e realizzata dai nostri ragazzi, una televisione differente rispetto a quelle cui siamo, purtroppo, attualmente assuefatti, una TV insomma che possa essere uno spazio in cui poter davvero crescere e maturare, creando, oltretutto, nuove e differenti 15 possibilità occupazionali per i giovani del nostro territorio che, come a tutti noto, ne avrebbero un grande bisogno. Il laboratorio Teatrale “Nuova Civiltà” non è solo il nome della nome della nostra associazione, ma è anche il titolo di uno dei tanti musical, scritti (e composti) da don Giuseppe Anzalone: fin dalle sue origini, quindi, la nostra organizzazione ha visto fiorire al suo interno delle attività teatrali che, con gli anni, si sono strutturate in un vero e proprio “Laboratorio teatrale”. Obiettivo ultimo del laboratorio (oggi inserito nell’ambito delle attività previste nel Progetto “Villaggio Rahamim”) è, ovviamente, quello di coinvolgere un ampio numero di giovani in un’attività ricreativo – formativa che porti avanti i valori propri di Nuova Civiltà che, in un’unica espressione, potremmo riassumere come collegati alla cosiddetta “Civiltà della bellezza” (n.d.r. per comprendere meglio di cosa si stia parlando consigliamo un’attenta lettura del capitolo scritto da Padre Anzalone in questo stesso volume). Il laboratorio, diretto da Eugenio Sorce, ha realizzato negli anni svariati copioni teatrali e alcune rassegne di cabaret, che hanno dato, a molti giovani talenti locali, la possibilità di esprimere tutte le loro capacità di fronte ad un grande pubblico. Tra le altre manifestazioni vanno menzionate “Il Teatro di quartiere”, consistente in una serie di rappresentazioni teatrali realizzate in alcuni quartieri di San Cataldo accomunati da un alto numero di minori “a rischio” (Mimiani, Borgata Palo, Cristo Re,ecc.) ed in altre città della Sicilia (Enna, Caltanissetta, Alimena e Villarosa). Le attività teatrali, oltre gli obbiettivi sopra esposti, in alcune occasioni hanno inoltre avuto un obiettivo “solidaristico”, come in occasione della raccolta fondi per la Comunità per tossicodipendenti di “Porto Velho” (Brasile), durante la quale l’associazione ebbe il piacere di avere tra i suoi ospiti Enrico Guarneri, in arte “Litterio”, comico la cui fama ha ormai valicato i confini della nostra regione. Al fine di “inaugurare” degnamente il nuovissimo auditorium realizzato presso il Villaggio Rahamim, sono state organizzate una 16 “Rassegna Teatrale Regionale” che ha coinvolto compagnie semi – professionistiche provenienti da Vittoria, Sciacca, Castelvetrano, Grotte, Campobello di Licata, Enna, Campofranco ed una “Rassegna Jazz”, con ospiti di livello internazionale, tra i quali è necessario menzionare Dado Moroni, Adrian West, Enzo Randisi, Fabrizio Bosso, Giovanni Mazzarino. In ogni caso, in questa sede, sarebbe comunque troppo lungo citare tutti gli spettacoli messi in scena in questi quasi venti anni di attività, ma sicuramente è necessario ancora ricordare la manifestazione “Il Ficodindia”, realizzata in estate per vari anni consecutivi, che è riuscita a radunare, grazie ad una formula liberamente ispirata alla “Corrida” di Corrado Mantoni, migliaia di persone in piazza. Sempre nell’ambito del laboratorio, a partire da quest’anno, è stato inoltre istituito un Laboratorio di Cabaret denominato “Felix…quasi meglio di Zelig!”: la finalità sarà quella di coinvolgere un ampio numero di giovani provenienti dalle scuole superiori e dalla città di San Cataldo in genere, con l’obbiettivo ultimo di realizzare delle manifestazioni di piazza e, se tutto andrà come previsto, anche una trasmissione televisiva da trasmettere su un’emittente locale. Le scuole di danza Successivamente alla completa ristrutturazione della palestra interna al Villaggio Rahamim, sono state avviate due differenti scuole di danza: la prima, denominata “Xòros” è diretta da Chiara Vancheri, una ballerina con pluriennale esperienza nel settore della danza classica e moderna. La scuola, aperta alle ragazze della comunità alloggio “Alba” oltre che a tutti coloro i quali ne fanno richiesta, coinvolge oggi quasi settanta ragazze, che si trovano spesso impegnate non solo nel tipico (e tradizionale) “saggio di fine anno”, ma anche in molte altre opportunità teatrali, cinematografiche e televisive, grazie al suo operare in strettissima sinergia con gli altri laboratori attivati. Oltre alla scuola di danza è stata inoltre avviata, già ormai da tre anni, una “Scuola di balli latino – americani di gruppo”, diretta da Luisa Meli. La scuola, che è arrivata a contare fino a 120 iscritti, è 17 ormai divenuta un valido punto di aggregazione per moltissime persone (in prevalenza di sesso femminile), che grazie ad essa riescono a trascorrere piacevolmente alcune ore del pomeriggio, apprendendo, peraltro, i più attuali balli di gruppo da esibire, successivamente, in discoteca. Il progetto “Obiettivo” Quelle descritte fino ad ora sono alcune delle molte attività che vengono svolte all’interno del “Villaggio Rahamim”. Ma Nuova Civiltà non è un’associazione che si limita ad operare sui territori di San Cataldo e Caltanissetta. Nel novembre del 2002 è stata infatti avviato, presso la città di Palermo, un innovativo intervento, di carattere sperimentale, che è stato denominato “Progetto Obiettivo”. Ideato e realizzato in stretta cooperazione con il Centro di Prima Accoglienza “F. L. Morvillo” e con l’Ufficio di Servizio Sociale per i Minorenni di Palermo, sotto la supervisione e con il patrocinio del Centro per la Giustizia Minorile, il progetto è stato finanziato dal Comune di Palermo, ai sensi della Legge 285/97, per il triennio compreso tra il 2002 e il 2005. Il progetto ha la sua sede operativa a Palermo in Via Cilea angolo Via Perosi, in una struttura messa a disposizione dal Centro per la Giustizia Minorile. Destinatari dell’intervento sono dieci minori della cosiddetta “area penale”, di età compresa tra i 14 e i 17 anni, tutti segnalati dal Centro di Prima Accoglienza, sottoposti alle misure cautelari delle “Prescrizioni” o della “Permanenza in casa”. Normalmente i minori sottoposti a tali misure vengono seguiti, prevalentemente, dalle sole assistenti sociali dell’U.S.S.M., che hanno il compito di seguire una grossa mole di casi, attivando per ognuno di essi tutte le risorse già presenti nei vari territori di appartenenza (sempre che di risorse ce ne siano) e realizzando, laddove possibile (e qualora il minore sia disponibile), un programma di “messa alla prova” che il ragazzo dovrà seguire per ottenere la cancellazione del reato. Il carattere sperimentale del Progetto Obiettivo, che non si sostituisce, ma affianca e potenzia il lavoro portato avanti dall’U.S.S.M., è dato dal fatto che ad ogni minore viene assegnato 18 un educatore domiciliare che ha il compito di operare direttamente sul territorio di appartenenza del ragazzo, attivando tutte le risorse presenti nella rete familiare e amicale del minore e realizzando, assieme a quest’ultimo, tutta una serie di attività ricreativo/ formative, con lo scopo finale di promuovere processi di crescita a partire dalla tragica esperienza del reato. L’opera dell’educatore domiciliare è inoltre affiancata da un’equipe di psicologi, assistenti sociali, counselor e pedagogisti, che hanno il compito di operare non solo sul minore stesso, ma anche sul sistema familiare e sulla rete di appartenenza del minore. Le attività dell’equipe, insieme a tutta una serie di altre attività, sono svolte presso un centro diurno, denominato “Centro di rete”, frequentato dai minori in alcuni giorni della settimana Nel dettaglio i settori nei quali è suddivisa l’operatività del progetto: 1. Centro di Rete: si tratta di un centro di sostegno e prevenzione aperto al territorio, rivolto principalmente ai minori afferenti al Progetto Obiettivo e ad altri minori (facenti parte della rete del ragazzo, ma non solo). Al suo interno si svolgono attività formative di gruppo (come nella tradizione di Nuova Civiltà), attività di animazione, sportive, ricreative e laboratori di vario genere. 2. Educativa domiciliare e di strada: le attività all’interno del Centro di rete sono sinergicamente connesse con quelle svolte direttamente sul campo grazie all’azione svolta dagli educatori domiciliari. 3. Sportello di orientamento e ascolto a minori e famiglie: una particolare attenzione è rivolta alla famiglia in quanto soggetto significativo della rete primaria del minore. All’interno dello sportello le attività sono suddivise in “gruppi famiglia”, “spazi di ascolto” e “servizio di consulenza”, tutte tenute da uno staff composto da psicologi, assistenti sociali ed educatori. L’Oasi “Shalom” Circa quindici anni fa venne donata a Padre Anzalone, da una famiglia vicina all’associazione, un appezzamento di terra in 19 contrada San Leonardo Zubbi (nel territorio di Caltanissetta) con un piccolo rustico di casa ad un piano. Per molti anni, con i pochissimi mezzi di cui l’associazione disponeva, i volontari hanno lavorato improvvisandosi muratori, imbianchini, falegnami, così da ottenere quella che, alcuni anni dopo, è stata ribattezzata come “Oasi Shalom”. L’Oasi, che negli anni è divenuta una graziosa villetta immersa nel verde, con un adiacente campetto in terra battuta, oggi è utilizzata come “Centro di formazione” per gli operatori di Nuova Civiltà e per tutti coloro i quali ne fanno richiesta. Molte sono le attività che si svolgono all’Oasi Shalom: incontri di spiritualità, laboratori ecologici, Meeting tematici con i ragazzi frequentanti l’associazione, ma l’attività principale svolta al suo interno è certamente quella costituita dai “Gruppi N.I.P.”. N.I.P. è l’acronimo di New Identity Process, un percorso di crescita, di stampo umanistico e di origine americana, ideato da Dan Casriel: l’obbiettivo di tale percorso, proposto a tutti gli operatori di Nuova Civiltà, è quello di consentire che l’individuo si riappropri della propria parte emotiva liberandosi dalla corazza caratteriale che non gli consente di esprimere liberamente il suo vero essere e il suo sé (n.d.r. per una descrizione più precisa del N.I.P. confrontare, su questo stesso volume, il capitolo di Don Giuseppe Anzalone). Gli obiettivi futuri Le attività già in atto sono tante, ma la bellezza e la grandezza dei locali affidati da Monsignor Alfredo Maria Garsia a Nuova Civiltà e l’entusiasmo che si è diffuso e continua a pervadere i vecchi e i nuovi volontari che quotidianamente affollano l’associazione, ha spinto i responsabili della stessa a progettare a medio - lungo termine le attività che verranno realizzate all’interno della struttura nei prossimi cinque anni. Pensare a lungo termine si è inoltre rivelato indispensabile vista le complessità connesse alla gestione dei locali dell’Ente Fascianella e i lavori di ristrutturazione necessari per rimettere in piedi il “Villaggio”. Quelle che andremo di seguito ad elencare, costituiscono pertanto le principali linee di sviluppo che l’Associazione intende portare 20 avanti nei prossimi anni, con l’obiettivo finale di realizzare un piccolo “sogno”, ovvero creare uno spazio nel quale i ragazzi del nostro tormentato territorio potranno crescere e divertirsi, trovando nel contempo un senso alla loro vita. Gli interventi strutturali I locali dell’Ente Fascianella sono stati edificati a cavallo tra la fine degli anni cinquanta e i primi anni 60. Da allora ad oggi pochi sono stati gli interventi di manutenzione straordinaria attuati sulla struttura che, al momento della stipula della convenzione tra l’Associazione Nuova Civiltà e l’Ente Fascianella, risultava sprovvista di servizi igienici efficienti e di impianti adeguati alle normative vigenti in materia di sicurezza. Dei moltissimi lavori di ristrutturazione, messi in atto in questi quattro anni dall’associazione Nuova Civiltà , abbiamo già accennato più sopra. Ma è proprio quando un sogno comincia a realizzarsi che viene voglia di portarlo a termine così da renderlo sempre più reale. Per tale ragione, con l’aiuto della Provvidenza, nei prossimi anni speriamo di poter realizzare i seguenti interventi strutturali: Realizzazione di una piscina semi – olimpionica, da collocare all’interno del boschetto facente parte del villaggio, così da consentire ai giovani della nostra città di poter fruire di una grande struttura acquatica senza doversi recare al di fuori del paese. Creazione di spazi verdi attraverso la sistemazione del boschetto annesso alla struttura che verrà dotato di percorsi rustici, panchine, e tavoli da picnic. Ripristino della foresteria adiacente al boschetto: ampia circa 500 mq, la struttura necessita di interventi radicali di rifacimento. La stessa sarà successivamente adibita a molteplici attività, come ad esempio una “ludoteca ecologica” per bambini. Utilizzo degli ampi spazi verdi annessi alla struttura dell’Ente attraverso la creazione di nuovi campi di pallavolo, tennis, basket, squash. Creazione di una piccola tipografia gestita solo ed esclusivamente dai minori afferenti all’associazione, con lo 21 scopo di formare gli stessi ad una nuova professionalità e dare loro la possibilità di creare una “micro – impresa”. Potenziamento della biblioteca (che attualmente già conta più di un migliaio di volumi) tramite l’acquisto di nuovi testi, l’informatizzazione della stessa e la creazione di una “fumettoteca”. I progetti futuri Le idee da realizzare e i bisogni da soddisfare sono tantissimi: alcuni dei progetti sotto elencati sono già stati presentati e si spera vengano finanziati attraverso fondi comunali, regionali o nazionali. Altri sono ancora soltanto dei sogni, delle idee in gestazione che, ce lo auguriamo, forse un giorno diverranno dei servizi concreti da offrire ai giovani della nostra regione. Il progetto “Go On!” Nato da un partenariato stipulato con il Comune di San Cataldo, l’Ufficio di Servizio Sociale per i Minorenni di Caltanissetta, l’IALCISL Sicilia, l’Associazione Antiracket ed Antiusura della Provincia di Caltanissetta e il Ser.T. di San Cataldo, il Progetto “Go On” intende venire incontro ad un’esigenza fortemente sentita dalla totalità delle comunità alloggio che ospitano soggetti adolescenti (ovvero strutture omologhe alla Comunità “Alba” gestita dall’associazione). Il Progetto “Go On!” si propone infatti di creare un Gruppo – appartamento che ospiterà fino ad un massimo di 5 giovani di sesso femminile, di età compresa tra i 18 e i 25 anni, tutte provenienti da passate esperienze di istituzionalizzazione, con un sufficiente livello di autonomia, ma nel contempo carenti di risorse familiari e non ancora in grado di auto – gestirsi, perché prive di adeguate risorse finanziarie/relazionali e di un’occupazione lavorativa stabile. L’appartamento ospiterà giovani di sesso femminile e di qualsiasi nazionalità: la scelta di accogliere anche soggetti extra – comunitari nasce dall’esperienza accumulata in questi anni dall’Associazione Nuova Civiltà nella gestione della Comunità 22 Alloggio “Alba”. La comunità, infatti, molto spesso, si è trovata ad ospitare minori straniere arrivate in Italia attraverso i circuiti malavitosi legati al mondo dello sfruttamento della prostituzione, minori che sono ormai state tristemente ribattezzate come le “schiave del terzo millennio”. Spesso, dopo un'esperienza di comunità alloggio, la stessa comunità può diventare "stretta", non rispondere più ai bisogni del ragazzo divenuto maggiorenne, capace di esprimere autonomia personale e desideroso di autogestirsi, ma non ancora in grado di vivere da solo. Il "Gruppo appartamento" del progetto “Go On!” sarà pertanto una "comunità residenziale" prevalentemente autogestita e sarà organizzata come una "comunità alloggio di secondo livello”, un luogo dove le autonomie acquisite nelle precedenti esperienze comunitarie si concretizzeranno nell'organizzazione della casa, del tempo libero, dell'autonomia personale. Gli utenti del gruppo – appartamento saranno tutti inseriti su segnalazione dei servizi sociali, delle organizzazioni del terzo settore, del Tribunale per i Minorenni e da parte di tutti gli altri organi che, a vario titolo, si occupano di soggetti della fascia di età interessata dal progetto. Prerequisito fondamentale alla buona riuscita dell’intervento sarà quello relativo alla volontarierà della scelta, da parte dell’utente, di vivere all’interno della casa, in quanto, viste le premesse da cui parte l’intervento, solo una diretta presa di responsabilità da parte dei giovani protagonisti del progetto, potrà assicurare il successo dello stesso e sviluppare un adeguato grado di autonomia nei soggetti coinvolti. I partner di progetto garantiranno, inoltre, la buona riuscita dell’intervento dal punto di vista dell’inserimento occupazionale stabile dei giovani utenti i quali, grazie agli accordi presi, al termine del periodo di residenza nella casa, avranno raggiunto un adeguato livello di autonomia da tutti i punti di vista. Il progetto In viaggio In...sieme Omologo del Progetto “Obiettivo”, attualmente in fase di svolgimento a Palermo, il Progetto “In viaggio In..sieme” si rivolgerà ad un numero di nove minori di entrambi i sessi entrati 23 nel circuito penale, segnalati dall’Ufficio Servizio Sociale per i Minorenni di Caltanissetta, di età compresa tra i 14 ed i 18 anni non compiuti. Tale utenza, appartenente ad un sistema familiare complesso e multiproblematico, presenta un basso livello di scolarità e risulta frequentemente deprivata affettivamente e cognitivamente. “L’utenza indiretta” sarà quindi costituita dalle figure significative della rete familiare e sociale del minore. La premessa epistemologica, dalla quale muove il progetto, scaturisce da importanti riflessioni e dall’esperienza accumulata dall’Associazione Nuova Civiltà in questi anni di attività coi minori, oltre che nella gestione del Progetto “Obiettivo” nella città di Palermo. L’idea di partenza è infatti quella secondo cui è necessario, tutte le volte in cui è possibile, agire direttamente sul territorio di appartenenza dei minori e, più precisamente, sulla “strada”, luogo privilegiato di aggregazione e unico spazio nel quale i giovani riescono a manifestare la loro identità più completa. Tale premessa include anche l’istituzione di un centro diurno al quale appoggiarsi per riflettere, riunirsi, preparare, organizzare, incontrarsi e far incontrare. Tale centro, però, lungi dal configurarsi come unico luogo di svolgimento delle attività, sarà invece visto come vero e proprio “Centro di rete”, ossia come base operativa dalla quale fare partire tutte le attività che saranno, successivamente, promosse sul campo e come luogo di incontro delle reti primarie dei ragazzi e delle reti dei Servizi che gravitano sinergicamente attorno ad essi. Partner di progetto sono: il Comune di Caltanissetta, il Comune di San Cataldo, il Comune di Serradifalco, l’Ufficio di Servizio Sociale per i Minorenni di Caltanissetta, il Centro di Prima Accoglienza “F.L. Morvillo” di Palermo, il Centro Giustizia Minorile di Palermo, il Ser. T. di San Cataldo. Il progetto “Child” L’istituzione di un “Centro per famiglie multiproblematiche” finalizzato alla cura e al recupero delle famiglie maltrattanti/ abusanti è il fine ultimo del Progetto Child. La problematica dell’abuso, oggi più di ieri, tocca ripetutamente l’insieme delle esperienze passate e presenti di tutti coloro i quali 24 lavorano a stretto contatto con i bambini: insegnanti delle scuole elementari e medie, assistenti sociali, operatori sanitari, operatori del mondo della giustizia ed altri. Ciononostante, l’unico centro specialistico relativo a tali problematiche, attualmente esistente, si trova nella Sicilia occidentale, a Palermo, e risulta largamente insufficiente per soddisfare tutte le richieste presenti in una regione grande come la nostra. Il “Centro per Famiglie Multiproblematiche” proposto dall’Associazione Nuova Civiltà attraverso il Progetto “Child” intende pertanto colmare una grave lacuna, soddisfando nel contempo un’esigenza ormai sempre più pressante e non ulteriormente ignorabile da parte delle istituzioni. Il Centro opererà in stretta collaborazione con la Comunità Alloggio “Alba”, permettendo alle minori ospitate di poter rientrare quanto prima, laddove la terapia avrà buon esito, all’interno del proprio nucleo familiare d’origine. A tal proposito non si può fare a meno di sottolineare l’entusiastica accoglienza riscossa dall’idea progettuale, quando la stessa è stata sottoposta agli operatori sociali operanti nella Provincia di Caltanissetta; congiuntamente altre adesioni sono state raccolte a Palermo e a Messina presso esperti di terapia familiare che hanno espresso una loro piena disponibilità a collaborare all’intervento in qualità di supervisori – esperti. Progetto Anorexia Negli ultimi anni le problematiche connesse ai cosiddetti “disturbi alimentari” (anoressia, bulimia ecc.) hanno avuto una diffusione, a dir poco, allarmante tanto da far pensare a una vera e propria “epidemia”, specie tra le adolescenti di sesso femminile. Molte sono le tecniche di cura approntate per cercare di combattere questi disturbi che, nei casi più gravi, possono anche avere un esito mortale. Gli studi più recenti hanno comunque confermato che di fatto non esiste una sola possibile cura che possa sconfiggere tale male, preferendo affrontare il problema con una pluralità di terapie che, da caso a caso, possono includere il trattamento farmacologico, la terapia familiare, la terapia di gruppo e molto altro ancora. 25 Tra le tecniche di cura più innovative vi è da annoverare il ricovero del soggetto ammalato presso una comunità terapeutica (comunità che, solo a titolo esemplificativo, potremmo paragonare a quelle ben più diffuse nel settore del recupero dei tossicodipendenti). Il momentaneo allontanamento del soggetto affetto da disturbi alimentari dal proprio nucleo familiare, può infatti spesso essere un’utile misura terapeutica, specie nel caso di pazienti sofferenti di anoressia e bulimia che, sovente, intrattengono rapporti fortemente invischiati e patogeni con gli altri membri appartenenti al proprio sistema familiare. Attualmente in Italia esiste un’unica comunità terapeutica, nel Veneto, rivolta a soggetti affetti da disturbi alimentari. Uno dei progetti (o forse dovremmo dire dei sogni) che Nuova Civiltà intende realizzare nei prossimi anni è, per l’appunto, quello di aprire una comunità terapeutica che possa accogliere ragazze afflitte da questa gravissima malattia. A tal proposito sono già stati presi i primi contatti con psichiatri e terapeuti già operanti presso le A.S.L. del nostro territorio, oltre che con i responsabili della struttura sopra citata che hanno dichiarato di essere pienamente disponibili a collaborare nelle attività di supervisione della futura comunità. Conclusioni…? Ci sarebbero ancora mille altri progetti ed idee di cui parlare, senza contare le tante piccole attività che ogni giorno vengono svolte presso il nostro Villaggio e che in questo capitolo, per ragioni di spazio, sono state volutamente omesse. Scopo di questo scritto era quello di illustrare le principali attività svolte dalla nostra associazione, nella speranza di poter suscitare la curiosità in chi legge e soprattutto la voglia di venirci a trovare o, meglio ancora, quella di collaborare con noi nelle attività già in cantiere o con nuove idee verso le quali siamo sempre apertissimi. Personalmente posso solo aggiungere che, quando Alessandro Amico mi chiamò tre anni fa per venire a collaborare con l’Associazione, mi trovai di fronte ad un difficile dilemma: in quel periodo lavoravo a Palermo presso una ditta, ero stato assunto a tempo indeterminato, e godevo di tutte le sicurezze (e le noie) che 26 sono la delizia (e la croce) di ogni normale impiegato; Nuova Civiltà rappresentava l’incertezza… Ma la nostra associazione e il Villaggio Rahamim sono come una visione, un sogno da potere costruire, un giorno dopo l’altro, attraverso la volontà, i sacrifici e gli sforzi di tante persone unite verso un unico ideale. Suona un po’ retorico, lo so, ma è la pura verità! E, fino ad oggi, non mi sono mai pentito della scelta fatta….. LA STORIA DI UN GERME CONTAGIOSO di Giuseppe VIOLO Per raccontare questa storia dovrò parlare, dal punto di vista dei volontari, di quattro anni della nostra vita. In pratica dal Gennaio del 1999, quando all’Associazione Nuova Civiltà fu affidata la gestione dell’Istituto “Casa del Fanciullo Notar Luigi Fascianella”. Per fare questo dovrò raccogliere la memoria di un esiguo, risicato, manipolo di volontari, che con grande VOLONTÀ, ha dato vita ad un sogno. Rispettando, oltretutto, gli impegni presi verso coloro che hanno dato fiducia all’Associazione Nuova Civiltà. Uomini e donne che hanno costruito un Villaggio “Rahamim”, che da un progetto sulla carta quale era, si è trasformato in una realtà tangibile da toccare con mano. Dando la possibilità soprattutto ai giovani, ma non solo a loro, di potersi esprimere al loro interno, attraverso le proprie emozioni, fatte di speranze, umori diversi, 27 credi diversi, gioia, dolore, voglia di vivere ed a volte di spegnere tutto. In ogni caso, ruotando sempre all’interno di un caleidoscopio d’immagini dove ognuno ha la possibilità di tirare fuori, le proprie capacità, raffinandone le potenzialità attraverso percorsi che privilegiano l’amore per la vita. Tutto questo per trovarsi come compagine attiva nel nostro tessuto sociale, in modo da potere esprimere quella VOLONTÀ positiva, che può aiutare la nostra società a fare dell’uomo la sua priorità assoluta. “VOLONTÀ”, proprio così, si tratta semplicemente di scoprire il significato profondo di questa parola, perché risiede in essa il senso delle scelte di questi nostri amici, di cui andrò adesso a raccontare attraverso la storia di un “germe contagioso” che li ha infettati irrimediabilmente. Un gruppo d’amici che, attraverso la VOLONTÀ, esercita quella facoltà che risiede nella mente e nel cuore degli uomini, di scegliere e di portare a termine concretamente, un atteggiamento atto al raggiungimento di determinati fini. È attraverso l’intelligenza però, che si crea e si sviluppa un connubio perfetto, che pone l’individuo e le sue scelte su di un piano discrezionale, che fa della VOLONTÀ strumento perfetto per raggiungere la fine del percorso scelto. Intelligenza come facoltà della ricerca della verità, quindi giudizio sulla realtà percepita, attraverso le cose e gli eventi che ci circondano e che mutano, susseguendosi su di un tracciato, scelto o impostoci dagli eventi stessi. Ecco che a questo punto la VOLONTÀ, viene fuori prepotentemente, come atto concreto del bene universale e perfetto. Un principio che muove, non in senso assoluto, ma dando priorità all’essere spirituale che si proietta verso la conquista di quei valori, che gli diano quella perfezione, in linea di principio all’essere stesso e quindi in prospettiva delle sue finalità, che altro non sono, che la ricerca del bene assoluto e della felicità. Detto questo, andiamo a scoprire dove muovono i loro passi i nostri amici. Quattro mila metri quadri di struttura, decine e decine di stanze, lunghissimi corridoi, che s’intersecano e sì perdono tra un piano e 28 l’altro. Quasi ci si perde, angoli bui, stanze che nascondono chissà quali sorprese, quadri elettrici ad ogni angolo, che comandano chissà cosa. Un locale caldaia enorme, pieno di manometri e pulsanti, ma qual è quello che fa avviare tutto, difficile da scoprire. Una cucina industriale, con fornelli enormi e pentoloni che ricordano le vignette umoristiche dei cannibali che cucinano gli esploratori. Sul tetto una distesa di pannelli solari, per scaldare cosa non si sa, perché è difficile trovare la caldaia! Tre piani in tutto, al pianoterra un salone utilizzato in passato come refettorio, adesso pieno di macchine per un laboratorio di meccanica. All’ingresso, la statua della Madonna che quasi sembra dirci “Io sono qui per proteggervi, ma ragazzi datevi da fare ”. Un corridoio principale dove si affacciano decine di aule, un altro corridoio si interseca al primo e un altro ancora si unisce a quello successivo, che a sua volta arriva ad una prima rampa di scale, che unisce altri corridoi ed altri ancora. Insomma, sembra di stare sul grande raccordo anulare di Roma. Con una differenza: sul gran raccordo c’è un traffico enorme, mentre sul nostro non circola quasi nessuno. Tranne che per qualche ora della mattina e solo in due ali della struttura, si nota un movimento causato da due scuole ospiti, una di formazione e una di ragioneria privata. Per il resto della giornata il silenzio assoluto, solo qualche rumore sinistro si ode provenire da punti non meglio precisati. Alcune voci percorrono questi corridoi un po’ spaesate e, alzando il tono della voce, cercano di farsi compagnia a vicenda. GLI AMICI: “Sentite, ehi ! Dico a voi Alessandro e Giuseppe, questo posto è enorme, c’è un infinità di spazio ma è un disastro, molti locali sono fatiscenti, qui bisogna risistemare tutto.” “Scusa Angelo, ti ascolto ma stavo parlando con Alessandro: forse tu non hai ancora visto i complessi dei bagni!! Bagni! Insomma quello che ne resta, per essere più precisi niente, c’è da rifare tutto nuovo. Ho paura che occorreranno svariati milioncini per rimettere tutto a posto.” 29 “E come dobbiamo fare? Però! ……… quante cose potremo fare con tutti questi spazi, io già m’immagino un villaggio pieno di vita, che brulica di attività, laboratori, teatro, sport, sostegno scolastico, gruppi di formazione, centro ascolto, casa famiglia e ……….” “E si, sogna! Caro Alessandro, qui occorreranno anni prima di iniziare a concretizzare qualcosa, tanto più, che in questo momento non abbiamo nessun progetto avviato, nessun sostegno esterno e neanche all’orizzonte s’intravede niente.” “Si va beh! Poi ci pensiamo a questo, piuttosto dobbiamo farci spiegare come funziona la cucina di giù, bisogna scoprire dove sono i contatori del gas, acqua e luce, poi serve ……..” “Poi serve! ……. Servono tante cose, aspetta! Ci siamo persi Francooooooo, era giù che controllava le chiusure delle porte, gli avevo detto di raggiungerci, ma non si sente più, conoscendolo sarà in cucina a controllare se può rimediare qualcosa da sgranocchiare. Vediamo di raggiungerlo, Franco! ….” “Ascolta , tu vai da Franco se ti ricordi come si arriva giù, mentre io vado a prendere Carmen che sta pulendo l’Oasi, perché domani ci sono le Comunità Neocatecumenali. Ricordati di telefonare a Padre Giuseppe, per firmare la convenzione con l’Ente e quant’altro serve. Non scordarti di ricordare a Franco che c’è da fare la spesa e quando scendete per il Corso vedi se c’è quello che porta l’acqua con l’autobotte perché all’Oasi è quasi finita, se no domani diventa un problema.” Amici che parlano nei corridoi, uomini e donne che mentre usano le mani, per preparare attività di sostegno all’Associazione, proiettano la loro mente verso un futuro che li attende, impietoso e splendido allo stesso tempo. 30 Uomini e donne che sostengono Padre Giuseppe, che ha riposto in loro fiducia e speranza per realizzare il loro progetto: la nascita del villaggio “Rahamim”. Un sogno che per anni ha accomunato tutti quanti, ma che esplode all’improvviso come una bomba che squarcia i cuori di chi ha creduto nel sogno stesso. All’improvviso bisogna essere operativi, non c’è tempo da perdere, il lavoro è tanto e gli impegni incalzano. Si è come storditi, frastornati, si vorrebbe fare tutto in fretta, ma per ogni cosa anche la più piccola e banale diventa un problema da risolvere. GLI AMICI: “Da dove iniziamo? Questo sì che è un bel problema, calma, bisogna affrontare una cosa alla volta. Adesso la priorità è sistemare il pianterreno, perché come tu ben sai la scuola che c’è va via e presto dovremo accogliere le classi delle scuole elementari e materne del Comune di San Cataldo.” “E va beh, qual è il problema? “ “ Qual’è il problema? Qui bisogna rifare tutto, aule, bagni, riscaldamenti e la cosa più simpatica è che tutto deve essere a norma, nel pieno rispetto della legislazione vigente, quindi ti lascio immaginare.” Come un tornado si abbatté sui nostri amici un’infinità d’impegni burocratici e pratici, presto si diventò ingegneri, idraulici, muratori, etc…. GLI AMICI: “Angelo, passami il trapano, poi prendi i tasselli per fissare questi paraspigoli.” “Io vado sopra a preparare i nuovi paraspigoli, sperando che la spugna basti.” 31 “Sentite ragazzi, io aiuto Giuseppe ad incollare i paraspigoli, poi passo a pulire le altre stanze.” “No Carmen! Lascia stare, sale Salvatore ad aiutare Giuseppe, tu occupati di sistemare quelle stanze così andiamo concludendo. Voci che si rincorrono nelle stanze e tra i corridoi, occhi, che si cercano per avere conferma di quella VOLONTÀ che li accomuna. Tra i loro sguardi, tra i passi che li uniscono, attimo dopo attimo, nei loro cuori, nella loro mente, esplode il Dinamismo dell’essere spirituale, che appartiene a quella VOLONTA’ che come un germe positivo li sta coinvolgendo in pieno. È sorprendente vedere come esso tocchi e contagi anche le persone che stanno accanto al manipolo di scellerati, idealisti, che si arrabattano in decine di cose. La sera i respiri si fanno affannosi, si è stanchi, fa molto freddo, i riscaldamenti sono spenti costano troppo. Non c’è calore nelle stanze, ma c’è energia, non bisogna arrendersi, né farsi prendere dallo sconforto. Così i cuori e l’anima dei nostri amici sprigionano un fluido vitale che gli dà quell’energia per farsi trasportare consciamente e, perché no, a volte inconsciamente all’obiettivo che appare ora vicino e a volte lontano, ma che sempre resta a portata di mano, basta non mollare ed avere fiducia nella Provvidenza. GLI AMICI: “Dobbiamo iniziare la costruzione dell’Auditorium, troveremo certamente, un modo per fare fronte ai nostri impegni, vedrai la Provvidenza ci aiuterà. D’altronde noi dobbiamo darle una mano, se non abbiamo il coraggio di iniziare e di investire non otterremo niente.” “Sono d’accordo con te e poi non scordiamoci che tutto ciò che realizzeremo, sarà in funzione del nostro obbiettivo. Dare spazi vitali alla nostra città e a quanti vorranno venire. Specialmente verso i minori di cui ci occupiamo, con tutti i disastri che tu sai 32 benissimo. A proposito! Guarda che Carmen è rimasta da sola a fare il doposcuola ai ragazzi, certo, progetti che diano qualche base economica al momento non c’è ne sono e purtroppo non tutti hanno la nostra stessa costanza, ma anche questo è comprensibile! “E lo so ! Ma che ci possiamo fare adesso, ci vuole dedizione nel fare le cose, pazienza andremo avanti lo stesso.” “Comunque, per questi ultimi mesi quella testarda di Carmen non molla, così i ragazzi potranno essere seguiti fino alla fine.” “Senti ! Peppe, qui a questo punto bisogna concentrare tutti i nostri sforzi per riuscire nel nostro intento. Io sono già oberato e caricato da mille cose.” “Ti capisco, ma qui siamo io mammeta e tu, ed ho l’impressione che ci sarà da sgobbare più di quanto potevamo immaginare.” “A me non spaventa tutto questo, anzi le sfide mi piacciono. Quando la mattina mi alzo e so che mi attendono diversi impegni più o meno pesanti, diventano per me stimoli, che mi spronano ad andare avanti per la mia strada.” “Contento tu! Facciamoci del male.” “Certo non dobbiamo mai sbagliare perché, come dice mio padre, anche se avrai fatto migliaia di cose buone e ne sbagli una, se pure in buona fede, si ricorderanno solo di quella sbagliata e, puntandoti l’indice addosso, ti faranno un processo!” “Tuo padre dall’alto della sua esperienza certamente non si sbaglia, però noi…..” “Si noi! Siamo a posto con la nostra coscienza per questo andiamo avanti per la nostra strada senza avere timori di nessuno.” “Alessandro ascolta, sono d’accordo con quello che dici ma nonostante la nostra integrità morale, va beh Santi non siamo, 33 piuttosto un po’ imbecilli, perché solo un imbecille si butta in quest’avventura senza mezzi. Però quello che volevo dirti è che bisogna avere destrezza nel misurarsi con chi fa dell’invidia una ragione di vita.” “Cosa vuoi dire di preciso?” “Voglio dire che bisogna difendersi, senza allontanare nessuno con questo, ma cercando di stare molto attenti verso coloro che distruggerebbero ogni cosa solo per far prevalere inutili disquisizioni o principi che capeggiano solo nell’ipocrisia. Sai come la vedo io l’ipocrisia, è come un fiume in piena che scorre nel cuore di alcuni uomini, i quali per non farsi notare che ne sono schiavi, camminano all’ombra dei lampioni, per evitare che chiunque scorga il loro viso possa intravedere la falsità che sovrana li comanda.” C’è polvere adesso nei corridoi, mattoni che cadono, pareti nuove che vengono innalzate. Fervono i lavori, sogni che lentamente prendono forma reale, sorrisi che si scambiano tra sguardi emozionati, come fanciulli che scoprono la bellezza della vita. Ma dietro questo c’è la collaborazione di quanti stanno prestando la loro opera per costruire, materialmente, ogni cosa sapendo di potersi fidare solo sulla parola, di due tre persone che li hanno coinvolti in questa avventura. GLI AMICI: “Tiziano ascolta, potremo pagarti a partire dall’anno prossimo……” “Se avrete pazienza sarete pagati, intanto montiamo tutti gli strumenti, con l’accordo che s’inizia a pagare tra sei sette mesi……” “Bisogna usare materiale ignifugo, però vedo che il tuo preventivo è piuttosto alto, non puoi stringere ancora? …..” 34 Un continuo, vedremo, forse, stiamo aspettando, ma nonostante questo le risposte furono: GLI AMICI: “ Non preoccupatevi, andiamo avanti poi si vedrà, ora pensiamo a fare il palco e a colorare le pareti, piuttosto ne avete già parlato con Padre Giuseppe…….” “Gli strumenti li montiamo poi pian piano si vede …….” “Come tendaggi sono belli e perfettamente a norma, per i pagamenti se non ho pressione da parte dei fornitori, possiamo allungare il più possibile……” E cosi via, mentre tanti altri consensi arrivavano, Franco S. preparava il quadro per l’inaugurazione dell’Auditorium, intitolato al Notar Luigi Fascianella. Tiziano sul ponte con la spatola in mano faceva rivivere le pareti, con colori nuovi che li accendevano, per misurarsi, con lo stupore e le critiche di chi le vedeva. Centinaia di metri di stoffa scivolavano come onde per prendere forme in tende, sipario e quinte. Così ogni cosa veniva illuminata da piccole luci che accendendosi schiarivano tutto. Curvo per terra il signor Vicari modellava le pietre per dare forma all’altare della nuova Cappella che si stava realizzando. Suoni ed immagini facevano ingresso nella sala. Tutto questo scivolava senza sosta come un treno che veloce corre lungo i binari, dove ad ogni stazione che passa diventa sempre più lungo perché un altro vagone si è agganciato a lui. Mentre suoni e colori prendevano vita, altri suoni provenivano dal basso, dalla cucina, mani intende a lavoro si consumavano sotto l’acqua fredda o a stringere un bastone per strofinare per terra. Qualcun altro si scottava prendendo la pentola bollente o si tagliuzzava le dita cercando di fare lo chef professionista. Erano certamente suoni diversi, ma indispensabili, per dare vita alla creatura che lentamente stava nascendo. I soliti ignoti, che in silenzio e tra un non ce la faccio più e forza che ci guadagniamo il 35 Paradiso, si occupavano di ospitare le Comunità Neocatecumenali che pregavano e pranzavano lì. Domenica dietro Domenica, Capodanni, Natali, Sabato sera e qualunque altro giorno, erano buoni per raggranellare qualcosa. Non esisteva più il riposo ma solo la consapevolezza di andare avanti, forti e certi che la loro VOLONTÀ, rappresentava, il motore che vigoroso dava spinta alle loro azioni. Ma il germe della positività, stava coinvolgendo altre persone, così nei corridoi la sera cominciavano ad echeggiare altre voci, nuovi amici stavano rimboccandosi le maniche e altri nomi si univano al manipolo. Voci nuove che come meteore si proiettano immediatamente, per espandere l’universo Nuova Civiltà, ognuno mettendo in moto le proprie capacità per dare il meglio di se. Cosi Giancarlo T. si catapulta per lo studio e la preparazione di progetti rivolti ai minori, diventando quasi una tipografia che stampa a ciclo continuo. Si realizza anche un lungometraggio che coinvolge per circa un anno sessanta ragazzi, grazie alla preziosa collaborazione di Giancarlo M. che insieme alla banda di matti capeggiata da Giuseppe, Carmen, Eugenio e grazie anche alla collaborazione di tante altre persone, amici nuovi e vecchi, mettono su e realizzano “I have a dream” Si tratta sempre di Volontari che incuranti dei rischi da correre, dal germe della positività si lasciano trascinare dolcemente, quasi storditi dalla voglia di fare, senza chiedersi perché. Forse perdendo un tantino di rispetto di se stessi, ma acquisendo in cambio quella sofferenza che aiuta a maturare ed a cogliere, quei tratti della vita che fino ad ieri sembravano del tutto sconosciuti. Dedizione, coraggio, fiducia in se stessi, rispetto degli altri, voglia di fare, ma anche fifa, stress, dubbi, angosce, insonnia. Insomma un cocktail che metterebbe a dura prova chiunque, compresi i più furbi e gli onnipotenti di turno. GLI AMICI: 36 “Io vado da Peppe e Liliana, vediamo che dobbiamo combinare con la scenografia del Ficodindia, considera che più tardi saremo qua, perché ci sono le prove con i concorrenti.” “Eugenio, mentre vai da Liliana passa dal forno a prendere le pizzette, per la festa che stasera abbiamo organizzato con i ragazzi.” “ Ragazzi, vi va bene per venerdì sera la riunione di coordinamento? A proposito per i gruppi abbiamo pensato come coinvolgere i ragazzi, Leo tu ci sei?……” “ La prevenzione non si fa a parole, ma dobbiamo avere strumenti che ci permettano di dialogare con i ragazzi, proponendo anche cose nuove lontane da quelle di tutti i giorni. I concerti jazz che stiamo organizzando, certo non saranno popolari, ma dobbiamo tentare d’alzare il livello culturale per scuotere dall’abulia di tutti i giorni.” “ Si ! tu dici bene, ma stasera abbiamo l’esperimento della discoteca alternativa, occorrerà la collaborazione di tutti per controllare la situazione, proporre musica e divertimento ai ragazzi senza alcol ed altre porcherie varie non è semplice. Ma se riusciamo caspita che successo!! “ “ Poco fa ho parlato con Angelo, che mi ha detto che veniva ad aiutarci, anche Giancarlo M. se rientra in tempo ci sarà, poi siamo tu, io Eugenio, Franco, altri ragazzi verranno a darci una mano, insomma non dovrebbero esserci problemi.” “ I bimbi, dove sono i bimbi?……….” ( è in arrivo una tempesta senza precedenti, fulmini, saette, terremoti, eruzioni vulcaniche, uragani, carestie, ecc. sono nulla di fronte a …… “NON APRITE QUELLA PORTA” Al di là della soglia c’è Francesca, un concentrato di simpatia, energia incontrollabile, gioia e voglia d’affetto. Impossibile non 37 restarne contagiati. Nasce la comunità alloggio Alba, Francesca è la prima bimba ospite. “Arianna dov’è Peppe Sciarantino?” “ Dopo viene, adesso dobbiamo fare il bagnetto, che dopo andiamo a comprare i vestitini nuovi, stai ferma, mamma mia peggio di una pallina pazza sei, ma sento che già ti voglio irrimediabilmente bene.” E così un’altra parte della struttura prende vita, presto altre ragazze si aggiungeranno a Francesca dando vita ad una nuova famiglia, che inizia il suo cammino all’interno del Villaggio. GLI AMICI: “Arianna tu e Peppe ci siete per capodanno? …. Bene!! Eugenio c’è, Carmen, Franco, Daniela Giuseppe, ed io va beh! Speriamo di farcela abbiamo soltanto 180 ospiti.” “ Alessandro: e comprala ‘sta carta stagnola ed un mestolo di legno….” “ Mi dovete consumare voi a me!!”. “Eugenio ti occupi tu di organizzare la rassegna teatrale a livello regionale” “ Ho già contattato parecchie compagnie e la cosa è fattibile.” “ Angelo!! Sposta la camera , allarga, allarga, ecco abbiamo perso l’immagine.” “ Non vi sento, in cuffia non vi sento…..” “ Che sta dicendo quello, che gesticola con le mani, Giancarlo M. con te parlo!” 38 “ Si! Ho capito ma qui non funziona niente, vagl’a dire a Giancarlo T. di fermarsi sbrigati Peppe….” Niente paura era solo in corso la registrazione del programma televisivo l’Ora di buco che ha coinvolto numerose classi di vari istituti scolastici, un’altra occasione per lavorare sui giovani proponendo attraverso il mezzo televisivo, un’occasione per un divertimento sano e nello stesso tempo dando spunti di riflessione. “ Attenzione! Attenzione! Notiziario informativo dalla Direzione, brevi sul traffico, su tutti i piani i corridoi sono affollati da ragazzi che svolgono varie attività. Doposcuola laboratori ecc. Le previsioni del traffico dicono che sarà più inteso verso sera, con tutte le palestre operative, da quelle di ballo a quella di …….. ingorghi si prevedono lungo la scala esterna che dà sul campetto, in concomitanza dell’inizio del torneo di calcio, con la scuola di ballo nel salone. Ultimissima, giunge adesso notizia, che Francesca lanciata a folle velocità, inseguita invano dalle volanti degli operatori con l’ausilio degli obbiettori, individuata la figura di Padre Giuseppe, lo ha investito in pieno con un abbraccio caloroso. Lo sventurato ha riportato la rottura del menisco: sono in corso indagini da parte degli inquirenti. Notizie rosa, fiocco azzurro in comunità è arrivato Salvatore subito soprannominato affettuosamente Poldo, la mamma felice ne dà l’annunzio. Un momento ci chiedono la linea, si è appena consumata una tragedia. Dal nostro inviato all’Oasi <<Buona sera a tutti, purtroppo abbiamo appena appreso della scomparsa del decespugliatore, si teme per la sua vita, abbiamo tentato di sentire Salvatore T. , ma è stato tutto inutile, il poveretto dilaniato dal dolore, si è chiuso in un rigoroso e composto silenzio per il caro scomparso. Dal vostro inviato all’oasi è tutto a voi la linea.>> Quanto appena sentito è terribile, queste sono notizie che non vorremmo mai dare. Andiamo avanti con il nostro notiziario. Eventi in cartellone: presto inizierà la produzione di un nuovo lungometraggio, quanti fossero interessati potranno rivolgersi presso la nostra sede. Segnalazioni importanti, è sempre attivo il centro ascolto curato dalle nostre figure professionali, Padre Giuseppe sta curando personalmente un gruppo di crescita con i 39 giovani: invitiamo tutti i ragazzi a partecipare. Novità, nel corridoio est del primo piano, si è insediata nostra ospite la protezione civile, rimane invariata la sede di Teatro Insieme che staziona al secondo piano. Chiudiamo con le notizie commerciali, Dario al bar ha finito le patatine Più Gusto, dopo la protesta dei consumatori che hanno inscenato un sit in davanti al bar il nostro Dario si è detto fiducioso, che ciò non accadrà più e, per farsi perdonare, per domenica ha promesso che ci saranno i panini.” Non siamo diventati tutti matti, ma i nostri amici adesso sono circondati da tante persone, e tantissimi ragazzi, i sogni cominciano a prendere forma reale. Istinto ed appetito sensitivo sono i propulsori della vita inferiore, che si fronteggiano con l’appetito spirituale della sfera intellettiva. Ecco che la VOLONTÀ diventa principio supremo della perfezione dell’uomo in quanto soggetto. Questo per affermare che quelle voci che echeggiavano sole nei corridoi, ora sono azioni concrete che si confrontano quotidianamente, con problematiche diverse che ogni giorno investono la nostra società, dove si espande e matura l’universo Nuova Civiltà. Proteso con vigore a combattere il disamore per la vita e a promuovere, attraverso i gesti e il cuore, la speranza tra i giovani e le famiglie, che sono in continua ricerca di ambienti e punti di riferimento che diano certezze positive ai propri figli. Nel frattempo, mentre tutto questo turbinio di immagini e di emozioni corre veloce tra i nostri amici, essi proseguono il loro cammino dentro e fuori le mura del villaggio, un cammino che è affiancato, sempre dallo stesso prete che ha dato con la sua persona la possibilità di trovare la breccia nel muro, per passare oltre e trovare la strada giusta per affrontare questo lungo cammino. Un uomo idealista e sognatore, che si sposa con i principi della VOLONTÀ in senso assoluto. GLI AMICI: 40 “Sono stanca, non ce la faccio più, mi sento male, ho bisogno di riposo. Ultimamente le mie condizioni fisiche non mi permettono più di tenere questi ritmi, dopo l’operazione spero di ritornare quella che ero.” “Carmen è arrivata all’osso, il suo cuore e la sua mente sono sempre con noi, ma fisicamente non ce la fa più. La scorsa Domenica si è quasi ammazzata, ma non è facile piegare la sua volontà. Adesso che poi sopra è nata la comunità alloggio, lei è proiettata anima e corpo con le ragazze e anche se non le può seguire attivamente non riesce a staccare i suoi pensieri da loro, rompendomi l’anima in continuazione.” “Lei deve pensare a curarsi e a stare bene che per tutto il resto problemi non ce ne” “Sai, cosa mi ha detto a proposito di te, che devo starti il più possibile vicino, per aiutarti a non mollare. In quanto a me sa che sono un idealista che non molla mai, ma in cuor suo sono certo che lei vorrebbe essere sempre presente quasi come un portafortuna che ci permetta sempre di andare avanti.” Si muovono persone nei corridoi, figure nuove e vecchie entrano ed escono dalle stanze. GLI AMICI: “Guarda chi arriva, l’impiegato regionale, ciao Eugenio.” “Guarda che belli, frik e frok” “Di chi parli Eugenio” “Di Giuseppe ed Alessandro, guarda che so belli ! Avanti che ce da fare, pigliatevi una cosa.” “Ragazzi io me ne vado, torno da Palermo, sono stanco morto, ho fatto pure i colloqui con i ragazzi, basta sono stanco, me ne vado a casa “ 41 “Dove vai bimbo, c’è la relazione e il rendiconto da fare prima.” “Peppe mi vieni a lasciare a casa” “Oh! Guarda chi arriva, Totò T., se non fosse per te, qui potremmo chiudere, vero Salvatore” “Carissimi……..” “Oh! Il Giancarlo M.” “Pio Pio terroni agricoli” “Angelino P., siediti” “Peppe telefona a Franchis e digli che abbiamo solo un giorno per preparare il progetto per la variazione….” “Aspetta che prima c’è da aprire il campo, poi c’è Chiara e Luisa che non so cosa volevano….” “Eugenio, chiudi tu stasera? Però domani ricordati che c’è da accompagnare Valentina e Il piccolo Salvatore all’ospedale, poi mercoledì ci va Peppe.” “Domenica la partita è su Sky o gioco calcio…….” “Mandaci l’obiettore….” “Digli all’operatrice sopra in comunità, che le ragazze prima delle 18:00 non devono scendere…..come non detto Francesca è già scesa” “Alessandro, ti devo dire una cosa……” “Francesca, non si saluta” 42 “Ho salutato” “Come mi chiamo io? “ “”Michele Cocuzza….Scherzavo, scherzavo, Giancarlo M.” “Francesca vai sopra” “Alessandro ci sono delle persone che ti devono parlare” “Peppe ci pensi tu a quelli che provano dentro l’Auditorium?” Voci, decine, centinaia di voci adesso echeggiano durante tutto il giorno e fino a sera tardi, nei corridoi che non sono più grigi ma pieni di colori come l’allegria e le urla che corrono da un piano all’altro. Adesso è il momento del dinamismo, che coinvolge quella stessa VOLONTÀ, che prima era racchiusa dentro ogni volontario, ma che adesso attraverso la comunicazione emerge fuori dell’individuo. Fa del bene posseduto strumento mediante il quale l’essere spirituale inserisce se stesso nel mondo, affermando i propri valori, nei limiti concettuali di se stesso. Ma rilanciando nello stesso tempo attraverso la propria sfera d’influenza, le proprie possibilità, oggetto di quella VOLONTÀ che interagisce, tra ragione, spirito e capacità d’espressione. Un Manipolo di Volontari che trova esatta collocazione come una stella che si posiziona nell’emisfero celeste attraverso la VOLONTÀ, che nel suo aspetto più dinamico, si scopre prima nel suo appetito più sensitivo delle sue passioni, poi dall’alto dell’intelletto propone il fine ultimo. Organizzando i propri mezzi il più coerentemente e funzionalmente possibili, per il conseguimento del fine stesso. Che per gli amici del manipolo altro non è che il bene per l’uomo attraverso l’amore che risiede in ognuno di noi. “Che fatica però!! Ma sì! Alla fine ne vale proprio la pena! .” 43 Il manipolo, che oggi fiducioso va avanti: Alessandro Amico, Giuseppe Violo, Carmen Vitale, Francesco La Magna, Daniela Urso, Giancarlo Tirendi, Eugenio Sorce, Salvatore Temporale, Giancarlo Mogavero, Angelo Pilato ed altri che in passato furono ma che in futuro potranno riesserlo. “Cosa?” VOLONTARI IRRIMEDIABILMENTE CONTAGIATI DAL GERME POSITIVO. “Ehi!! Ehi!! Ci sono anch’io!” “Scusa non ti avevo visto, ma tu chi sei? Non ti conosco e poi, senti, hai idea di quello che significa stare con il gruppo?” “No!!” “Ah! Va bene, allora puoi venire, ragazzi c’è un nuovo amico…. come si chiama? Ancora non lo so.” 44 SECONDA PARTE: RIFLESSIONI SUL DISAGIO GIOVANILE TRA PSICOLOGIA, SOCIOLOGIA E CINEMA 45 L’EMPATIA CHE NON C’È: MENTI CHE NON LEGGONO LE MENTI di Pietro Andrea CAVALERI Considerazioni introduttive Svolgendo da molti anni il mio lavoro di psicologo presso diversi consultori familiari del territorio nisseno, ho notato una costante che sempre più marcatamente caratterizza i giovani di oggi. Essa riguarda la loro crescente difficoltà ad essere consapevoli delle loro stesse emozioni, dei loro sentimenti, ma anche delle emozioni e dei sentimenti degli altri. In modo sintetico, potremmo dire che i nostri giovani non solo hanno difficoltà a organizzare la loro vita emotiva, ma sperimentano anche la difficoltà di capire quella degli altri, di “leggere” le menti dei loro interlocutori. Il cervello di ogni uomo, fin dalla nascita, ha in sé il potenziale genetico per esprimere una “mente umana”. Ma perché ciò avvenga è necessario che il bambino venga posto, fin dai primi giorni della sua vita, in un contesto relazionale che lo “alimenti”, che lo “nutra” adeguatamente sul piano affettivo. Senza un tale “nutrimento” non possiamo essere certi che da un “cervello umano” scaturisca una “mente umana”. Contrariamente a ciò che si può pensare, la capacità di organizzare le proprie emozioni, i propri stati psichici, o di riconoscere i vissuti degli altri, le menti altrui, non è una abilità naturale (innata o “scontata”) ma il frutto incerto di un cervello umano che è affettivamente alimentato da un contesto relazionale capace di cogliere le istanze del bambino e di farsene carico. Purtroppo i bambini di oggi nascono in famiglie spesso problematiche, con coppie genitoriali inadeguate, con figure adulte fortemente “narcisiste”, ripiegate sulla propria autorealizzazione, incapaci di dare spazio e attenzione alle istanze affettive dei figli. In tali contesti può accadere che un bambino non si senta “riconosciuto” e, dunque, non impari 46 a”riconoscersi” (ad avere cioè consapevolezza di sé, delle sue emozioni) o a “riconoscere” l’altro (a capire i bisogni, le emozioni, la mente altrui), a porsi nei suoi panni. Il brano selezionato dal film “L’odio” di M. Kassowitz (cfr. CD – Rom allegato) riporta lo scontro fra due poliziotti e un gruppo di adolescenti molto aggressivi. Dalle immagini si può cogliere, palpabile, la difficoltà che i ragazzi mostrano nel capire le ragioni dell’altro, nel “leggere” cioè la mente dei poliziotti. Forse abbiamo fatto crescere le ultime generazioni nella convinzione che l’altro è qualcosa che si può disconoscere, ignorare, e di cui, in ultima analisi, si può fare a meno. In realtà, come vedremo più avanti, l’altro-da-me è anche altro-di-me. Egli, cioè, in qualche modo mi “fonda”, mi permette di esprimere le mie potenzialità, mi svela a me stesso, “mi fa essere”. Questo fondamentale ruolo che l’altro ha nella vita di ogni essere umano è stato posto in rilievo non solo da molti pensatori contemporanei, ma anche da autorevoli ricercatori che studiano la mente umana e i suoi processi di sviluppo. La relazione con l'altro nel pensiero contemporaneo. Nel corso della seconda metà del '900, l'altro e l'alterità sono stati molto spesso al centro della riflessione filosofica (cfr. Cicchese, 1999). Gadamer, ad esempio, esprimendo alcune sue considerazioni sul futuro dell'Europa, sottolinea che l'altro non è soltanto l'altro da me, cioè l'assolutamente e il radicalmente altro, ma anche l'altro di me, cioè colui il quale partecipa della stessa mia umanità e del quale, in vario modo, io sono responsabile. Lèvinas, da parte sua, pone in rilievo il forte nesso che unisce l'identità stessa dell'io con la responsabilità per altri. A suo giudizio, infatti, la possibilità che ogni essere umano ha di definire l'identità del proprio io è legata non solo alla relazione con l'altro, ma soprattutto all'assunzione, da parte dell'io, di una responsabilità etica nei confronti dell’altro (cfr. Lèvinas, 1990). Anche Ricoeur esplora in modo originale la dialettica del sé e dell'altro da sé, affermando che l'uomo trova il proprio senso e la propria costituzione nel rapporto con l'altro. Egli sostiene, a questo riguardo, che l'altro non si "aggiunge dal di fuori" 47 all'identità di ognuno, ma esso (l'altro) contribuisce a fondare, a costituire e a dare senso all'identità stessa (cfr. Ricoeur, 1993). Più di recente il filosofo cattolico Marion sottolinea come l'amore costituisca l'unica e più autentica possibilità di individuazione dell'altro, permettendoci di "raggiungerlo nella sua insostituibile particolarità". L'amore, che l'autore coglie da una prospettiva essenzialmente fenomenologica, non è un aspetto periferico e secondario dell'esistenza umana, ma ne è il centro. La soggettività individuale, a suo parere, non nasce da un’istanza conoscitiva (cosa posso conoscere?), ma da un bisogno relazionale (c'è qualcuno che mi ama?) (cfr. Marion, 2001). Da queste riflessioni, solo appena accennate, emerge con evidenza, pur nella differenza dei toni, un modello antropologico che pone l'accento sulla dimensione relazionale dell'uomo. Non è l'individuo, ma l'essere con, l'incontro con l'altro, l'aspetto che viene posto in maggiore evidenza. In questa prospettiva, l'apertura all'altro e il "riconoscimento" di esso, individuati come aspetti centrali e salienti dell'esperienza intersoggettiva, divengono elementi originari e costitutivi per ogni uomo. Ciascun sé, infatti, è "rivelato" a se stesso dall'altro e viceversa. La possibilità che il sé ha di definirsi, di emergere, di "individuarsi", è legata inequivocabilmente alla concreta e reale presenza dell'altro. L'incontro e il confronto con il mistero racchiuso in questa presenza permette al sé di aprirsi al mistero di se stesso e a quello della comune origine (cfr. Cicchese, 1999). Si profila, in tal modo, un legame sé-altro contraddistinto dalla reciprocità e dalla co-appartenenza, tanto da rendere ancora più comprensibile l'affermazione di Gadamer, prima ricordata, secondo cui l'altro è anche e soprattutto l'altro di me. A questo fecondo e autorevole filone del pensiero contemporaneo occorre riconoscere l'innegabile merito di avere restituito all'altro e all'incontro con esso una dignità ontologica e un rilievo antropologico che sembravano definitivamente sfuggiti alla cultura occidentale del nostro tempo. Tuttavia, mi sembra di poter affermare che, riscoperta e "riabilitata" l'alterità, sia necessario adesso una più adeguata e specifica attenzione alla dimensione della relazionalità in quanto tale. Lo spazio che intercorre tra la realtà dell'io e la realtà 48 dell'altro costituisce, infatti, una realtà terza verso la quale occorre forse esprimere una riflessione ancora più attenta e approfondita. Quali sono le caratteristiche di questa realtà terza, sia sul piano fenomenologico che psicologico? Quale ruolo essa riveste nella genesi, nell’ evoluzione e nella maturazione di ogni essere umano? Quali elementi qualitativi devono contraddistinguerla perché essa possa adeguatamente costituire l'interfaccia in grado di farci "raggiungere" l'altro e di "svelarci" a noi stessi? Negli ultimi decenni la ricerca in ambito psicologico ha espresso alcune delle sue migliori intuizioni nel tentativo di rispondere proprio a questi non facili interrogativi, mostrando, in tal modo, di considerare la relazione (la realtà terza appunto) come la dimensione fondante e costituiva della vita psichica umana. Nata sotto l'influsso della cultura moderna, anche la psicologia, nel suo tentativo di comprendere la persona umana, è stata fortemente segnata dall'enfasi posta sull'individuo e dalla centralità accordata al paradigma della soggettività. Il mio intervento si prefigge adesso di descrivere l’emergere, all'interno della psicologia contemporanea, di un nuovo paradigma ermeneutico, il paradigma della relazionalità, che indubbiamente ha segnato una svolta storica nel modo stesso di concepire sia la salute che il disagio mentale. Le origini "individualistiche" della psicologia. La psicologia è divenuta oggi una scienza di dimensioni estremamente vaste. Risulta, dunque, arduo, se non impossibile, il tentativo di integrare tutti i vari indirizzi psicologici e le varie scuole in questa nostra breve riflessione. Ci pare opportuno, però, iniziare facendo riferimento al padre della psicologia del profondo, Sigmund Freud. Il grande merito di Freud ci sembra sia stato quello di aver posto al centro della sua attenzione la singola persona e di avere capito che spesso “l’uomo non è padrone nella propria casa”, è cioè costretto a vivere in modo alienato. Nella prospettiva freudiana l'essere umano si scopre non di rado privo della sua libertà ed impegnato a spendere gran parte della sua energia per risolvere i 49 suoi conflitti inconsci o per soddisfare inconsciamente le attese altrui. A motivo di ciò la psicoanalisi di Freud (alla quale si rifanno tuttora in modo più o meno esplicito la maggioranza delle psicoterapie, almeno quelle orientate a risolvere i conflitti inconsci) mira alla individuazione, ha cioè come finalità manifesta quella di aiutare la persona a diventare libera, ad essere quello che veramente è. Alla base della psicoanalisi freudiana si pone una teoria conflittuale secondo la quale vi è un passato, una famiglia o un ambiente che impediscono alla persona di essere veramente se stessa. Pervenire ad una adeguata individuazione significa staccarsi da questi contesti alienanti. La persona, cioè, diventa se stessa nella misura in cui riesce a liberarsi da rapporti che la condizionano. Tale teoria conflittuale può essere pienamente colta nel dilaniante conflitto vissuto da Edipo. Egli, per raggiungere i suoi scopi e diventare se stesso, deve tragicamente uccidere il proprio padre, liberarsi, quindi, da quell’altro al quale deve la sua propria esistenza. Questa origine individualistica-individualizzante della psicologia influenza tuttora fortemente la prassi psicoterapeutica. Le varie psicoterapie, in fondo, non fanno altro che cercare di aiutare la persona a diventare se stessa. Il concetto centrale di questo approccio alla persona è quello della autorealizzazione. La persona deve realizzare se stessa e lo fa distinguendosi dagli altri. Il superamento delle origini "individualistiche" e la scoperta dell’altro. L’origine individualistica della psicologia rimane tuttora influente, valida ed importante. Nonostante questo, sono però emerse, all’interno della psicologia stessa (e da altre scienze in dialogo con essa, come la filosofia), delle critiche ad una posizione unilateralmente individualistica. Si sono fatti vari tentativi per superare tale posizione o per aprirla ad una visione più relazionale della realtà. Le proposte in questa direzione sono molteplici e variegate. 50 Un importante superamento viene dalla scoperta che l’inconscio stesso possiede una direzionalità, ossia una intenzionalità teleologica. E’ stata in questo contesto particolarmente importante la famosa lettura e critica di Freud avanzata da Paul Ricoeur. Il filosofo francese riesce a dimostrare che l’inconscio (ossia il “desiderio”) non è chiuso in se stesso, proteso solo alla soddisfazione delle pulsioni. L’inconscio possiede, invece, una struttura relazionale. Il desiderio inconscio cerca sempre un altro, è aperto alla relazione: “Il desiderio ha il suo Altro” (Ricoeur, 1965). Non possiamo non ricordare, poi, l’approccio sistemico che riprende, sul versante specifico della psicologia, tanti elementi della cibernetica e viene sviluppato inizialmente nella terapia familiare. Tale approccio, in un secondo tempo, sarà ulteriormente elaborato per comprendere anche strutture e organizzazioni più complesse. Centrale, nella prospettiva sistemica, è il concetto secondo cui non è possibile comprendere la persona e risolvere le sue difficoltà a prescindere del sistema sociale e relazionale nel quale essa vive. Una tendenza molto simile a quella appena accennata è emersa anche nell'ambito della psicologia dello sviluppo, che ha cercato di cogliere i processi evolutivi della persona a partire dalle sue relazioni primarie. A questo riguardo, è diventata famosa l’affermazione di D.W. Winnicott: “Il bambino non esiste” (Winnicott 1965). Secondo questa massima il bambino non esiste mai come essere indipendente, ma sempre in un rapporto di dipendenza da un'altra persona. Autori come Winnicott, Klein, Mahler, Fairbain e Kernberg (e altri rappresentanti della Teoria delle relazioni oggettuali) descrivono di conseguenza lo sviluppo della persona come un progredire da una iniziale dipendenza simbiotica e totale verso una sempre maggiore indipendenza dagli altri. E’ importante sottolineare come questi autori si pongano in una prospettiva, teorica-metodologica, nella quale il rapporto con l’altro continua ad essere considerato soprattutto un derivato, un prodotto dello sviluppo libidico o dell’Io. 51 Oltre “identità” e “alterità”: verso un paradigma di reciprocità. Nonostante i suoi grandi meriti, sono chiaramente visibili anche i non pochi limiti dell’approccio classico freudiano. Esso si basa, infatti, su una visione troppo riduzionistica della persona. Quest'ultima, contrariamente a quanto emerge dall'antropologia psicoanalitica, non vive solo per sé stessa e per la soddisfazione dei suoi bisogni inconsci, non è "sganciata" da ogni forma di rapporto, ma si pone all’interno di una rete sociale che una comprensione integrale della persona non può non riconoscere. Detto sinteticamente, in questo approccio "classicoindividualistico" manca del tutto il concetto dell’altro. I vari approcci prima elencati hanno cercato di superare tale riduzionismo. Questi tentativi sembrano costituire una risposta molto positiva e offrono una varietà di spunti estremamente utili, anche in vista di una riflessione psicologica sulla relazione di reciprocità. Tuttavia, sembrano delinearsi, anche qui, dei limiti. Emerge, ad esempio, un certo "romanticismo relazionale", che finisce a volte per negare di fatto la conflittualità dei rapporti e non riesce a cogliere gli aspetti disfunzionali che caratterizzano alcune tipologie di relazione. In alcune elaborazioni teoriche, poi, l'uomo non sembra essere altro che un "prodotto" del sistema in cui vive, perdendo in tal modo le sue caratteristiche individuali e quindi la sua dignità di persona unica e distinta. Detto anche qui in modo sintetico, manca un concetto forte di persona, di identità, di individualità. A fronte di tali incongruenze, ci pare di poter affermare che si profilino oggi in psicologia alcuni studi capaci di poter superare la dicotomia fra identità e alterità, interno ed esterno, individuo e sistema. Tali studi riguardano soprattutto la psicologia dello sviluppo, ma hanno ripercussione anche in altri campi (ad esempio in quello della psicoterapia). Guarderemo, quindi, un po’ più da vicino a tre specifiche aree di ricerca della psicologica contemporanea: a) l’altro come regolatore del Sé; b) lo sviluppo della relazione intersoggettiva; c) lo sviluppo dei processi mentali (mentalization). a. L’altro come regolatore del Sé. 52 Molti autori, fra cui Winnicott (1965) e Mahler (1975), attribuiscono grande importanza all’esperienza dell’”essere con la madre”. Come già accennato sopra, essi partono, però, dal presupposto che il bambino non è in grado di differenziare il Sé dall’altro, vivendo così in uno stato fusionale-simbiotico, dal quale solo successivamente e in modo graduale emergerebbero un Sé e un altro separati. Da questo punto di vista l’Io del bambino sarebbe essenzialmente un “Noi” e il suo essere “totalmente sociale”. Al contrario, le ricerche di Stern (1985) portano alla conclusione che le esperienze di “essere con un altro” vanno considerate, fin dall’inizio, “modalità attive di integrazione”, risultato cioè di una interazione attiva fra due entità distinte, il Sé e l’altro. L’interazione dà origine nel bambino ad una esperienza del Sé fatta di stati d’animo (eccitazione, gioie, paura, attesa, ecc.) difficilmente sperimentabili fuori da un contesto di autentica reciprocità. Egli è co-protagonista di una relazione nella quale l’altro “regola” in lui l’esperienza del Sé, è per lui “l’altro regolatore del Sé”. Negli ultimi venti anni, con il contributo di Stern e di molti altri ricercatori (fra cui Lichtenberg 1983, Dornes 1993, 1997, Beebe Lachmann 1998) la psicologia dell’età evolutiva ha cambiato decisamente direzione, individuando nel rapporto del Sé con l’altro, nel senso del Sé e dell’altro, il principio organizzatore primario dello sviluppo infantile. Nella teoria evolutiva di Stern la comparsa di ogni nuovo senso di Sé implica, in modo coerente, il contemporaneo delinearsi anche di un nuovo senso dell’altro e il configurarsi di un nuovo tipo di relazione con caratteristiche diverse dalla precedenti. Ci troviamo di fronte ad una originale concezione dello sviluppo, nella quale non trova più spazio l’ipotesi di un iniziale stato evolutivo indifferenziato. Già la teoria dell’attaccamento (Bowlby 1969) aveva evidenziato il ruolo fondamentale che l’altro riveste nella regolazione della sicurezza. L’attaccamento, però, non può essere considerato solo indice della relazione madre-bambino. L’altro, infatti, regola una molteplicità di esperienze del Sé, come ad esempio l’attenzione, la curiosità, la conoscenza. Queste molteplici esperienze non sono, però, esperienze di “fusione”. Sono, piuttosto, esperienze reali di essere con qualcuno, che in vario modo regola e modifica i 53 sentimenti riguardanti il Sé. Durante questa esperienza reale, il Sé non perde mai i suoi confini e l’altro continua ad essere percepito come distinto. In altri termini, benché l’esperienza del Sé dipenda dall’altro, essa tuttavia appartiene interamente al Sé (Stern 1987). Il bambino, dunque, appare inserito in una sorte di matrice sociale che scaturisce dal suo mondo soggettivo, dal mondo soggettivo della madre e dagli episodi di interazione ai quali entrambi partecipano distintamente e con intensità diverse. Tale interazione costituisce una interfaccia, una esperienza condivisa, uno spazio comune fra due mondi soggettivi distinti. Nel loro incalzante succedersi, gli episodi di interazione funzionano come un “ponte” fra il mondo soggettivo del bambino e della madre, permettendo ad essi di correlarsi reciprocamente senza per questo confondersi. b. La relazione intersoggettiva L’“essere con l’altro” non si esaurisce negli aspetti di cui si è già parlato e che sono inerenti alla mutua regolazione dell’esperienza, ma riguarda anche altre dimensioni della relazione, come la condivisione dell’esperienza soggettiva stessa, cioè l’esperienza intersoggettiva. Secondo le ricerche di Trevarthan e Hubley (1978) l’intersoggettività compare quando, tra i sette e nove mesi, il bambino mostra di ricercare una “deliberata”, e quindi intenzionale, partecipazione ad esperienze concernenti eventi e oggetti. Inizialmente le esperienze soggettive, che egli è in grado di condividere, sono quelle che non richiedono il ricorso al linguaggio. Da queste elementari esperienze di condivisione non verbali hanno poi origine, intorno ai nove mesi, le prime forme del linguaggio e della comunicazione intenzionale. Il grande rilievo che l’intersoggettività assume sul piano evolutivo ha spinto alcuni autori a ritenerla una capacità umana innata, presente sin dai primi mesi di vita, anche se in forma arcaica. Per Bråten (1998) il bambino nasce con un “altro virtuale (virtual other) nella mente” che permette di entrare in una interazione con un altro reale. L’altro esterno e reale entra, per così dire, in uno spazio psichico già preparato dall’altro virtuale. Questo spazio non deve essere creato, ma esiste già ed è piuttosto il presupposto che permette di fare l’esperienza dell’altro reale. 54 Bråten e altri autori come Dornes e Trevarthan delineano quindi una teoria dialogica che interpreta il protodialogo, la risonanza affettiva e altri fenomeni di reciprocità nell’infanzia non come incontro fra due monadi, ma assume che il bambino è già diadicamente prestrutturato. Questa è la base ontogenetica sulla quale Trevarthan, come anche Bråten, sviluppa poi la sua assunzione di una “intersoggettiva primaria”. La relazione intersoggettiva, infatti, appare con sempre maggiore evidenza come bisogno psicologico primario, nella quale si rintraccia il DNA delle relazioni umane, la chiave di lettura necessaria per comprendere, al contempo, lo sviluppo umano, la capacità di empatia e di altruismo, ma anche il disagio psichico, e il significato autentico dei rapporti sociali. È significativo come anche nella psicoanalisi, che da sempre ha focalizzato la sua attenzione soprattutto sull’esperienza soggettiva individuale, oggi si cominci a delineare una “teoria psicoanalitica intersoggettiva” (Stolorow – Atwood 1992, Orange – Atwood – Stolorow 1997). Anche in passato Vygotskij (1966) aveva già parlato di “intermentale” e Sullivan (1953) aveva teorizzato l’esistenza di un campo interpersonale, ma sembra che solo di recente si sviluppi nel mondo psicoanalitico una ampia attenzione alle basi intersoggettive della vita psichica (Gill 1994). Ci si accorge che, oltre al Sé e all’altro, esiste un terzo elemento nel lavoro terapeutico: Uno spazio intersoggettivo, un “terzo analitico” (Ogden 1994), che offre quell’orizzonte ermeneutico senza il quale l’esperienza dei due soggetti in dialogo non possono essere compresi (Cavell 1993). Da tutto ciò si evince che, così come tra bambino e madre, anche tra Sé ed altro, tra individuo e società, si delinea una dimensione terza per lungo tempo trascurata: la relazione di reciprocità. Quest’ultima costituisce un paradigma relazionale, ben definito, con caratteristiche qualitative sue proprie, che lo differenziano e lo contraddistinguono da ogni altro tipo di relazione. Essa non è la relazione vista in funzione dell’individuo (dell’Io, dell’interno, dell’organismo ecc.) o in funzione dell’altro (della società, dell’esterno, del sistema ecc.), ma è la relazione in quanto tale, considerata come dimensione reale a sè stante, distinta dalle altre due, fra le quali si frappone come ineliminabile interfaccia. Essa è 55 lo spazio in cui si producono le differenze ed è possibile la loro accoglienza; è il luogo in cui le due parti in causa possono, a vicenda, riconoscersi e prendersi cura, sperimentando l’altro come termine di riferimento coessenziale alla propria stessa esistenza e al proprio disvelarsi. c. Sviluppo dei processi mentali Un altro interessante filone di ricerca, utile al prosieguo della nostro riflessione, è quello che riguarda lo sviluppo mentale del bambino e la comparsa in lui del linguaggio. Bruner, riprendendo un precedente confronto fra Piaget e Vygotskij, descrive come la mente umana matura la propria organizzazione proprio attraverso l’interazione reciproca con gli altri, con menti diverse. Il riconoscimento reciproco è considerato da Bruner (1992) come uno dei processi psicologici più importanti per l’elaborazione e lo sviluppo del Sé. Senza il riconoscimento reciproco non è possibile il linguaggio, la negoziazione dei significati, lo scambio di interpretazioni; non è, cioè, possibile produrre segni comunicabili, capaci di rendere riconoscibili le intenzioni sottese alle azioni. Dalle ricerche di Bruner emerge un modello antropologico molto utile alla nostra riflessione. In esso l’altro, il contesto sociale e culturale, non sono antagonisti del singolo individuo, non lo contraddicono, ma al contrario costituiscono i termini essenziali di un processo attraverso il quale egli sviluppa la propria mente, si appropria di se stesso e delle sue potenzialità più nascoste. Dunque, non una relazione di insanabile conflitto, quella che unisce l’individuo alla società (l’io all’altro), ma un rapporto di reciproca implicazione, in cui l’uno risulta indispensabile alla vita dell’altro. Questo orientamento trova interessanti riscontri anche nell’ambito della psicobiologia (Oliverio, 1999) e dalla neurobiologia (Damasio 1995, 2000; Siegel 2001). A dispetto di un luogo comune, che vuole nettamente contrapposti “natura” e “cultura” (nature and nurture), approccio organicistico-biologico e approccio relazionale-sociale, nell’ultimo decennio si sono susseguiti numerosi studi tendenti a dimostrare l’esatto contrario. Sembra, infatti, che le relazioni interpersonali abbiano il potere di influenzare in modo significativo lo sviluppo delle strutture 56 cerebrali nel corso dell’intera esistenza umana e in particolare nei primi anni di vita. Le relazioni con gli altri, le quotidiane esperienze interpersonali, cioè, possono contribuire a plasmare il cervello umano, “provocando l’attivazione di determinati circuiti, consolidando collegamenti preesistenti e inducendo la creazione di nuove sinapsi. Al contrario, l’assenza di esperienza può portare a fenomeni di morte cellulare, in base a quello che è stato definito come processo di ‘potatura’ (pruning), che favorisce l’eliminazione degli elementi che non vengono utilizzati: lo sviluppo del cervello è quindi un processo ‘esperienzadipendente’” (Siegel 2001, 13). Siegel teorizza in questo contesto l’esistenza di una “mente relazionale” e di una “neurobiologia interpersonale”. Anche in questo ambito della ricerca, è stato dimostrato che le relazioni interpersonali più adeguate e funzionali allo sviluppo del cervello sono quelle che creano momenti di corrispondenza, che hanno cioè carattere di “reciprocità”. Le funzioni cerebrali e lo sviluppo della mente vengono attivati meglio da interazioni nelle quali l’adulto e il bambino sono in grado di riconoscersi e influenzarsi reciprocamente (Fonagy – Target 2001). Al contrario, un mancante o distorto riconoscimento reciproco provoca “mentalizzazioni” disfunzionali e sembra essere una delle cause di disturbi gravi di personalità (Gergely – Fonagy – Target 2002). Attraverso questi contributi, che vengono in prevalenza dalle neuroscienze e dalla psicologia infantile, troviamo dunque una ulteriore conferma non solo al legame che unisce lo sviluppo della mente alla relazione con l’altro, ma soprattutto all’esistenza di un paradigma relazionale specifico, la relazione di reciprocità, che è alla base dei più importanti processi di integrazione e di evoluzione della mente umana. Verso una conclusione. Ho cercato, fin qui, di porre in evidenza quale sia lo spazio e l’attenzione riservati dalla psicologia contemporanea alla relazione con l’altro, soprattutto sotto l’aspetto cardine della reciprocità. Essa emerge come l'elemento nodale e come la 57 condizione indispensabile per lo sviluppo della mente e per la crescita individuale. La contrapposizione fra io e altro, fra individuo e società, è sicuramente innegabile e perenne, ma l’attenzione alla “qualità” della relazione, che fra essi intercorre, può rendere in ogni momento il conflitto sanabile e fonte di crescita vitale per entrambi. Svilupparsi, diventare una persona matura comporta aprirsi ad un'altra persona, riconoscere ed accogliere l’altro. Il bambino (così come l’adulto che ha bisogno di riprendere uno sviluppo interrotto) può fare questo nella misura in cui sperimenta, a sua volta, l’esistenza di relazioni nelle quali può essere riconosciuto e accolto. Tra una realtà sociale, come quella passata, interamente centrata sull’autorità, sulle imposizioni esterne e una società, come quella attuale, del tutto frammentata dall’autoreferenzialità narcisistica, esiste una comunità umana diversa, centrata sulla relazione e ancora tutta da costruire. Soltanto nella misura in cui riusciremo a costruire questo nuovo tipo di società, sapremo anche evitare una catastrofe epocale dagli effetti inimmaginabili: la scomparsa della mente umana. Bibliografia Beebe B. – Lachmann F.M. (1988) Mother-infant mutual influence and precursors of psychic structure, in: Goldberg, A. (Hg.): Frontiers in Self Psychology, The Analytic Press: Hillsdale 1988, 3-25. Bowlby J. (1969) Attaccamento e perdita, Boringhieri: Torino 1976 (orig.: Attachment and loss, Vol. 1, Basic Books: New York 1969. Bråten S. (ed.) (1998) Intersubjective Communication and Emotion in Early Ontogeny, Cambridge University Press: Cambridge 1998. Bruner J.S. (1992) La ricerca del significato, Bollati Boringhieri: Torino 1992. 58 Cavell M. (1993) The Psychoanalytic Mind. From Freud to Philosophy, Harvard University Press: Cambridge 1993. Damasio A.R. (1995) L’errore di Cartesio, Adelphi: Milano 1995. Damasio A.R. (2000) Emozione e coscienza, Adelphi: Milano 2000Dornes M. 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È un impresa ardua tentare di definire le “tante condizioni giovanili”, i tanti percorsi verso la vita adulta, anche perché si è dilatata a dismisura la categoria sociale e soprattutto esistenziale di “giovane”. Il quinto rapporto IARD [Buzzi, C. et al. (a cura di) “Giovani del nuovo secolo”. Il Mulino, Bologna, 2002] sulla condizione giovanile, pubblicato qualche mese fa e al quale farò costante riferimento nel tracciare le linee del mio intervento, evidenzia nettamente questa trasformazione. È già molto significativo l’innalzamento della soglia di età del campione. Le rilevazioni svolte negli anni ’80 si basavano su campioni di ragazzi in età fra i 15 e i 24 anni; negli anni ’90 il limite più alto è stato portato fino ai 29 anni; in quest’ultima rilevazione l’inchiesta è stata dilatata fino ai 34 anni d’età. Evidentemente era utile considerare il giovane fino a 34 anni per osservare il superamento delle ultime Tappe della transizione all’età adulta. 61 I parametri che l’indagine IADR ha assunto per valutare tale transizione riguardano in linea di massima cinque tappe evolutive: 1.l’uscita dal circuito formativo; 2.l’inserimento stabile nel mondo del lavoro; 3.l’uscita dalla famiglia d’origine; 4.la formazione di una nuova famiglia; 5.la nascita dei figli. La quarta e la quinta tappa non sono indispensabili per il raggiungimento dello status di adulto, ma lo sono per la sopravvivenza della società. La comprensione delle componenti psicologiche e delle forme di disagio che accompagnano il mondo giovanile non può prescindere dall’analisi di fattori storici, economici e culturali che lo condizionano. In questa sede mi limiterò a considerarne solo qualcuno che ha un’immediata ricaduta psicologica sulla percezione di sé, sulla percezione del mondo, delle sue risorse e dei suoi limiti. In tale cornice, accanto ad una maggioranza di giovani che comunque “se la cava” e riesce a pilotare in qualche modo la sua vita, vi sono ovviamente coloro che incontrano difficoltà e che esprimono la loro fragilità con forme di disagio psicologico tipiche del nostro tempo. È ormai evidente nella nostra società una duplice tendenza che se da un lato restringe il periodo dell’infanzia, dall’altro prolunga l’adolescenza e il tempo di passaggio all’età adulta. La famiglia è sempre più caratterizzata dalla abnorme permanenza dei figli nella casa dei propri genitori. Certamente il processo di affrancamento dalla famiglia di origine è rallentato da difficoltà strutturali: la carenza delle opportunità di lavoro, la difficoltà a trovare casa e a pagare affitti spesso troppo elevati, il guadagnare troppo poco per poter essere economicamente autonomi, ecc. Ma non è solo questo: sembrano intervenire anche variabili culturali che inibiscono la scelta anche quando questa risultasse possibile. In altri termini molti giovani “scelgono” e non “subiscono” la permanenza in famiglia. 62 D’altra parte la vita in famiglia non è più soffocata da vincoli e limitazioni. I giovani hanno un’ampia libertà: possono per esempio ospitare amici, oppure il partner, possono andare in vacanza con chi vogliono e rimanere fuori di casa più giorni, ecc. Tutto sembra rendere più vantaggioso rimanere in famiglia piuttosto che assumersi gli oneri e le responsabilità tipiche della condizione adulta. Gli scontri tra genitori e figli che caratterizzavano le generazioni precedenti sembrano lontani anni luce. I legami familiari si stanno trasformando, la famiglia offre aiuto e protezione in cambio di una dipendenza relativa e quasi formale. I rapporti familiari soddisfano bisogni economici, culturali e psicologici, mentre i genitori sono sempre più restii ad incoraggiare i figli a rendersi indipendenti. Naturalmente questa “famiglia lunga” paga anche un prezzo che non è solo di tipo sociale, contribuendo per esempio al calo delle nascite, ma anche psicologico, perché il dilatarsi temporale della condizione di dipendenza può accompagnarsi ad un carente concetto di sé, a sfiducia nelle proprie risorse, ad inquietudine, ecc. La progressiva centralizzazione della famiglia si affianca al crescente valore che i giovani affidano alle relazioni interpersonali, in particolare a quelle amicali e affettive. I sociologi sottolineano che il sistema di valori dei giovani sta evolvendo verso la sfera della “socialità ristretta” e della vita privata, a scapito soprattutto dell’impegno collettivo; le battaglie della generazione del ‘68 sembrano storia antica. Le indagini più recenti osservano una diminuzione dell’impegno religioso e una caduta libera dell’interesse per l’attività politica. Guadagnano spazio le relazioni amicali e l’importanza attribuita allo svago nel tempo libero. Nonostante ciò non si può dire che si sta andando verso un preoccupante individualismo. Il mondo giovanile sembra accettare la nuova identità territoriale che gli si chiede: un’identità aperta e composita, che intrecci la dimensione urbana, l’identità nazionale incorniciata in chiave europea e addirittura proiettata in senso cosmopolita. Bisogna coniugare cioè il locale, il nazionale e il globale. I giovani diventano allora molto sensibili su tematiche come la 63 democrazia, la globalizzazione, l’uguaglianza e la solidarietà: tutti i valori che hanno sì una matrice collettiva, ma che vengono applicati alla cerchia ristretta. Vorrei adesso accennare ad un aspetto secondo me importante che interviene nel processo di strutturazione della “percezione di sé” nel mondo giovanile di oggi. Come sappiamo l’esperienza che ciascuno fa di se stesso è correlata ovviamente all’insieme delle nostre esperienze relazionali e produce come distillato gli elementi di base del concetto di sé. Questo, insieme alla nostra visione del mondo che ci circonda, influenza i nostri comportamenti e le scelte di vita. Per esempio, se sviluppo il senso di inadeguatezza, se penso di essere privo di valore o poco desiderabile, in un ambiente poco capace di sostenermi, posso bloccare il mio agire, posso abbandonare i miei obiettivi di realizzazione personale e professionale, posso chiudermi di fronte a nuove relazioni e ciò non mi espone al disagio, alla sofferenza psicologica. La realtà socio-economica e culturale nella quale vivono gli adolescenti pone molta enfasi sulla flessibilità e sul cambiamento: ai giovani viene chiesto di essere disponibili a modificarsi, a spostarsi da un lavoro all’altro, da un luogo all’altro. Sono ormai irrimediabilmente lontane le garanzie che il titolo scolastico apra porte sicure; trovare un lavoro non significa più la certezza di svolgerlo per tutta la vita. Questa situazione di “insicurezza”, che sembra riguardare tutte le classi sociali e tutte le zone del nostro Paese, porta con sé naturalmente particolari variabili psicologiche e può favorire anche l’emergere, in alcuni casi, di certe forme di disagio. Vivere in una realtà quotidiana che esalta l’instabilità e la discontinuità, non solo lavorativa, ma a volte anche relazionale e affettiva, chiede all’individuo lo sforzo di ripensarsi e soprattutto di attrezzarsi, anche psicologicamente, in modo di gestire situazioni in cui il rischio è dimensione quotidiana e in cui non si sa mai qual è la scelta garantita o il percorso più opportuno. Tuttavia questa vita all’insegna della precarietà non necessariamente è accompagnata da catastrofi psicologiche. 64 Anzi, ho l’impressione che nella maggioranza dei casi i giovani hanno imparato a muoversi in una condizione di incertezza. Vivono il presente con un desiderio di esplorare opportunità e di mantenere il futuro aperto a più possibilità. Ciò è possibile solo se possono sviluppare un concetto di sé positivo e se riescono a percepire adeguate risorse nelle relazioni che li circondano. Sembra addirittura che tra i giovani sia in crescita il livello di soddisfazione della propria vita: i giovani sembrano più adatti e sintonici con il “mondo”. Anche se gravi fatti di cronaca ci indurrebbero ad essere catastrofisti, credo sia molto cresciuta la qualità dei rapporti tra genitori e figli, con punti di contatto e di accordo inimmaginabili fino a pochi decenni fa. L’enfasi che la nostra società pone sulla flessibilità si correla anche ad un cambiamento dell’atteggiamento dei giovani nei confronti del futuro. Si tende a dare molto più rilievo alle esperienze interessanti nel presente, piuttosto che pianificare il futuro. Questa tendenza a presentificare la propria esistenza non significa rinunciare a mettersi al centro della propria vita, ma è chiara la difficoltà di prefigurare i propri percorsi futuri. È stato obliterato ormai il valore della pianificazione razionale a lungo termine: si sta radicando l’accento che i contesti produttivi aziendali pongono sugli obiettivi a breve termine. Viene premiata cioè la capacità di “navigare a vista”. Rimane centrale il continuare a darsi obiettivi, ma sapendo che possono modificarsi nel tempo, anzi da un momento all’altro. Per alcuni però diventa difficile gestire l’incertezza senza farsi travolgere dal senso di precarietà. Il disagio si esprime con la sfiducia nella possibilità di tenere il timone della propria vita, o con un vissuto di inadeguatezza e di impotenza. La sfiducia nei confronti delle proprie forze interne non è solo un fatto individuale; non è comprensibile infatti se non la correliamo alla sfiducia nella affidabilità delle persone che li circondano, sia coetanei che adulti: è difficile contare su se stessi se non si può contare su nessuno. 65 Senza entrare nell’ambito delle psicopatologia, il disagio può assumere molteplici forme che investono in primo luogo la percezione di sé e delle proprie caratteristiche personali. Il primo indicatore è il senso di inadeguatezza in rapporto alle aspettative sociali e ai modelli che vengono abitualmente proposti. Gli elementi alla propria identità che sembrano vacillare più frequentemente sono l’adeguatezza del proprio corpo e la valutazione delle proprie capacità. Le ragazze sviluppano una maggiore autocritica rispetto ai loro coetanei. Sono spesso più inquiete e scontente per le difficoltà nell’affermazione della loro autonomia, della loro capacità decisionale e nel controllo delle emozioni e dei sentimenti. È ormai fin troppo noto come la percezione del proprio corpo sia un altro altare sacrificale nel travaglio adolescenziale. Molto spesso il proprio aspetto fisico viene valutato come inadeguato nel confronto con un ideale da cui ovviamente ci si può sentire dolorosamente lontane. Mentre il corpo maschile “deve” essere prestante e pronto all’azione, al corpo femminile si chiede di essere “bello”, fatto per essere guardato. Per entrambi si alimenta cosi la paura del giudizio altrui e su tale paura si innesta un disagio molte volte sottovalutato dagli adulti. Su questi aspetti il periodo psicologicamente più travagliato è sotto i 20 anni, con picchi di maggiore criticità fra i 18-20 anni. Nello stesso periodo si chiede ai giovani di prendere decisioni importanti per il proprio futuro (per esempio la scelta lavorativa oppure universitaria), si aggiunge cosi la paura della confusione, che può frastornare e sfiancare. Credo siano più di quanto immaginiamo i giovani che si sentono preda di un’inquietudine che prende la forma di confusione e di ansia, spesso accompagnate da sentimenti di tristezza e paura, non ultima la paura delle critiche e del giudizio. I più giovani possono sentire di perdere la testa e di non farcela, mentre un nemico pericoloso e sempre in agguato è quella insidiosa forma di noia che non motiva ad essere più creativi, ma che paralizza la capacità di fare progetti e pianificare l’agire, lasciando troppo scarto tra la fantasia, le aspettative e la realtà. 66 Via via molte di queste inquietudini si attenuano: ci si sente più stabili, più capaci di gestire la propria vita, ma a sorpresa troviamo un altro snodo critico che espone al disagio intorno ai 25 anni. Fino a quell’età sembra che il non essere indipendente non influisce sulla sensazione di padronanza della propria vita; superata però la soglia dei 25 anni, chi non ha ancora imboccato la strada dell’autonomia, fatica a sentirsi protagonista della propria vita. È come se vi fosse un’età critica oltre la quale la nascita sociale non può più essere rimandata, pena la perdita dell’autostima. A volte può aggiungersi, sempre intorno ai 25 anni, la fatica nelle relazioni, soprattutto nelle relazioni affettivamente più significative. È vero che molti non vivono problemi rilevanti nel rapporto con i genitori, con i quali sono minime le situazioni conflittuali, ma a ciò fa da contrappeso la frequente problematica delle relazioni con i coetanei, specie con il partner. Può cosi aumentare il numero di coloro che sentono di non poter contare sull’aiuto di qualcuno, di non essere apprezzati e soprattutto cresce la sensazione di solitudine. Sintetizzando, con l’attraversare dell’età giovanile si afferma per i più l’idea che è possibile influire sulla propria vita, che ha senso continuare a fare progetti, anche se la realtà circostante ha i segni della precarietà, della frammentazione, dell’impossibilità di elaborare obiettivi a lungo termine. È però necessario compiere alcuni passi verso la nascita sociale, i più importanti sono l’inserirsi nel mondo del lavoro e l’uscire dalla casa dei genitori. Infine, non può essere trascurato il senso di solitudine che a volte si amplifica nell’ultima fase dell’età giovanile. Se si è ridotta la problematicità della presenza affettiva dei genitori, e in generale degli adulti, è invece aumentata la necessità che gli adulti facciano da guida, da sostegno di fronte all’incertezza. 67 DE SUR A SUR: MODELLI D’INTERVENTO SUI MINORI E CULTURE A CONFRONTO di Daniela ROSSINI OLIVA Le immagini che è possibile vedere nel video (n.d.r. vedi CD – Rom allegato) sono tratte da un documentario girato da ASPEM, una ONG (Organizzazione Non Governativa) con la quale sono stata in Perù circa tre anni fa. Si tratta di un documentario sul Perù e sulle principali istituzioni che si occupano della difesa dei diritti 68 dei minori descrivendone alcune metodologie d’intervento. Il titolo del documentario è “Queremos carino”, titolo piuttosto significativo poiché vuol dire “desideriamo, vogliamo essere voluti bene”. L’ASPEM (Associazione Solidarietà Paesi Emergenti) è una ONG cattolica nata a Cantù nel 1974 da una esperienza di comunità cristiana con un forte impegno sociale e civile, che identifica nella solidarietà tra i popoli del nord e del sud uno dei temi decisivi per la costruzione di un futuro di giustizia e di pace. Il presente intervento nasce da varie esperienze che ho avuto la possibilità di fare in alcuni paesi dell’America Latina (Perù, Brasile, Bolivia..), esperienze che mi hanno dato la possibilità di fare alcune riflessioni. Ritengo sia possibile individuare un parallelismo tra le diverse realtà di disagio giovanile e tra i modelli di intervento messi in atto. Ciò ci permette di confrontare quello che è il disagio giovanile da noi e come può essere vissuto in un altro “sud” del mondo. In Perù sono stata per alcuni mesi “in appoggio” a due progetti: Il progetto di Aspem sulla prevenzione e l’intervento sulla violenza in generale, e su quella intrafamiliare in particolare (abuso, maltrattamento, etc.), finanziato dal MAE (Ministero Affari Esteri italiano). Il progetto di una ONG locale, CEAPAZ, di intervento sui minori cosiddetti “jovenes infractores” (giovani che hanno infranto la legge), che prevedeva un’attenzione “integral” (psicologica, legale, educativa) per quei giovani entrati nel circuito penale. Non è stato facile decidere su quale fosse il “taglio” più adeguato da dare a questo breve scritto: una prima possibilità poteva essere quella di illustrare la metodologia di intervento usata in un altro contesto culturale, quale appunto il Perù o il Brasile, così da confrontare le differenti esperienze e discutere della metodologia usata da CEAPAZ con “los jovenes infractores” (metodo che risulta particolarmente efficace in quanto prevede un intervento a 360 gradi). Ma alla fine la scelta è ricaduta, anche per ragioni di spazio, sul focalizzare l’attenzione su due riflessioni principali. 1.La prima riguarda il concetto e l’importanza della cultura dove si colloca il disagio: non si può, infatti, non tenere conto del contesto sociale e culturale nel quale il disagio è vissuto. 69 2.La seconda riflessione riguarda il concetto stesso di disagio e di trauma. Innanzitutto è necessario chiedersi perché sia necessario approfondire il concetto di cultura: è chiaro che, se cerchiamo di confrontare alcune situazioni, alcuni fenomeni come il disagio o la devianza minorile, e le relative metodologie di intervento e modalità operative, possiamo individuare delle analogie così come delle differenze tra una cultura e l’altra, che però vanno lette all’interno del contesto socioculturale in cui si manifestano. Rispetto a questo devo dire che una delle maggiori difficoltà che ho sperimentato andando a lavorare come psicologa in un contesto culturale diverso è proprio quella di riuscire veramente a coglierne il significato. La tendenza è di ricercare le somiglianze e ciò non aiuta. In tal senso il peso della formazione, dell’origine, del proprio background culturale è fortissimo. Ricordo le visite ad alcune comunità dove andavo sempre ricercando le somiglianze con le nostre, piuttosto che valorizzarne le differenze. A proposito di somiglianze, faccio l’esempio dei cosiddetti “meninos de rua”. Proviamo, in questo confronto, a vedere e capire se ad esempio tale fenomeno dei “bambini di strada” (così forte in Brasile, Perù, India, etc..) esista con le stesse caratteristiche anche in Sicilia. Parto dal lavoro svolto sul campo in Sud America, confrontandolo con quello che ho la fortuna ed il piacere di svolgere abitualmente in Sicilia, sia per conto del Servizio Sociale del Comune di Alcamo (dove lavoro come psicologa), che presso una Comunità Alloggio per minori (“Lo scrigno dei sogni”) a Castellammare Del Golfo. Si tratta quindi di esperienze dirette, vissute (nel caso del lavoro in America Latina) con la difficoltà di chi, oltre a capire se stesso nel rapporto con il minore, deve anche comprendere il contesto culturale all’interno del quale questa relazione è vissuta. La prima cosa che bisogna fare è operare un cambiamento di prospettiva, vedere i “minori” non tanto come semplici oggetti di interventi educativi e legislativi, riducibili a un insieme di dati numerici, quanto piuttosto come soggetti portatori di diritti, di desideri e di domande che meritano risposte, come portatori di uno sguardo diverso sul mondo. 70 Il termine “bambini di strada” è la traduzione letterale del portoghese “meninos de rua”, una delle espressioni più usate per parlare del dramma dell’infanzia povera ed abbandonata. Si tratta in realtà di un termine molto generico per parlare di un fenomeno molto più complesso e composito. Per questa ragione da alcuni anni la maggior parte degli operatori sociali preferiscono usare due termini diversi, che tendono ad individuare due grandi tipologie di situazioni esistenziali: - meninos “na” rua (bambini “nella” strada) - meninos “de” rua (bambini “di” strada). Il primo termine descrive una situazione di vita che riguarda decine di milioni di bambini dei paesi del sud del mondo; si tratta di minori che trascorrono intere giornate nella strada: per vagabondare, giocare, vendere, lavorare ed altro ancora. Per molti di loro continua però ad esistere un punto di riferimento adulto: una casa per la sera, un letto dove dormire, un padre, una madre, dei fratelli, etc. la strada, cioè, pur costituendo uno degli elementi fondamentali del percorso esistenziale del minore non rappresenta ancora l’unico spazio vitale. Con il termine di “meninos de rua”, si fa invece preciso riferimento alla situazione di quei bambini che stabilmente vivono sulla e della strada. Per la gran parte di questi ragazzi si sono interrotti i rapporti con la famiglia e non c’è, se non raramente, ritorno a casa. La strada è diventata progressivamente la casa e gli altri “meninos” del gruppo la loro famiglia. Stando a questa distinzione nel nostro paese non assistiamo, se non in pochi casi isolati, a questo tipo di fenomeno. Esistono invece “meninos na rua”. Rispetto a ciò individuiamo delle similitudini con i nostri “ragazzi di strada”. Mi viene in mente a tal proposito un progetto (“Progetto Tam Tam”), cui ho lavorato alcuni anni fa, realizzato da una società palermitana (“Agronica”) per il recupero e l’inserimento occupazionale di minori a rischio di alcune aree marginali della città di Palermo. Il profilo dei minori che ne veniva fuori è pressappoco uguale a quello che emerge dalla ricerca fatta a Lima da CEAPAZ: si tratta della messa a punto di un “diagnostico” per individuare il profilo di personalità dei “jovenes infractores”. Da tale profilo è infatti emerso che si tratta per lo più di giovani di età compresa tra i 12 e 71 15 anni, più di sesso maschile che femminile, provenienti da zone marginali, con scarsa cultura, cresciuti in famiglie multiproblematiche dove spesso non hanno potuto continuare o completare gli studi. Uguale è anche la loro incapacità di pensare in termini progettuali. Per loro non esiste un futuro da iniziare a progettare, ma solo il presente da vivere nella sua quotidianità. Si tratta di giovani che non vedono davanti a loro molte alternative, tant’è che una domanda che questa estate spesso facevo ai ragazzi brasiliani era: perché la strada? È una scelta forzata da una situazione terribile: i bambini non scelgono di vivere in strada, ne sono costretti dalla loro disastrosa condizione familiare e sociale. In questa drammatica situazione, la strada rappresenta una buona scelta perché li aiuta: vanno in strada perché è l’unica alternativa alla realtà disumana a livello affettivo, morale ed economico in cui vivono, spesso è l’unica alternativa ad una vita di stenti, perché alla fine un modo per sopravvivere lo trovi. La risposta di molti minori a come mai scelgono la strada è perché essa li accoglie, sempre, così per come sono: brutti, cattivi, che rubano, che fumano, ecc. Inoltre nella strada incontrano altri bambini nella loro stessa condizione e hanno la possibilità di creare con questi una relazione di fiducia, di protezione e sicurezza. Si tratta di situazioni dove la famiglia esiste ma non si preoccupa molto di loro, non possono andare a scuola perché molti non hanno la possibilità di frequentarla, non hanno possibilità di trovare un lavoro perché di lavoro ce n’è poco ed il salario è molto basso. Allora la strada è una alternativa, direi l’alternativa alla disperazione. I bambini in strada poi si organizzano e cominciano a sentirsi forti, fanno gruppo, diventano spesso violenti. La strada ha le sue regole da seguire, i suoi capi cui ubbidire, invidie e vendette. Loro non programmano niente perché il futuro è un’incognita. Queste sono le analogie che possiamo riscontrare con la situazione del nostro paese. In questo scenario un altro elemento compare come tratto comune: la violenza. Assistiamo complessivamente ad un aumento della violenza agita dai minori e ad un espandersi della conoscenza sulla violenza subita. Ciò che è diverso confrontato con il Brasile o il Perù è 72 l’intensità e le forme in cui si esprime nei due lati del pianeta. In Brasile e Perù sui “meninos de rua” si opera una vera e propria politica di sterminio, ossia sono spesso uccisi. Da questo punto di vista non esiste comparazione con la nostra situazione locale. Questo non significa però che non esista un problema di violenza sui minori qui da noi, ma che viene esercitata in forme diverse (psicologica, fisica, sessuale…). Dati che ci accomunano riguardano invece l’aumento, anche in Italia, della devianza giovanile congiuntamente ad un abbassamento dell’età di esordio dei comportamenti devianti: a New York, come a Lima, a Rio come a Bombay. Altre grosse analogie fra situazioni del Sud e del Nord del pianeta le possiamo rintracciare laddove ci aspetteremmo di meno: cioè dal lato delle strategie di intervento ed educative di risposta al problema. Soprattutto la pressione internazionale spinge da alcuni anni ad un moltitudine di micro - progetti di intervento promossi e gestiti principalmente dalle ONG locali con la cooperazione di molti paesi europei. Contemporaneamente negli ultimi dieci/ quindici anni quasi tutti i paesi industrializzati si sono trovati a dover cercare risposte al crescente fenomeno del disagio giovanile (devianza, criminalità, tossicodipendenze, etc). Nonostante l’enorme disparità di mezzi e la differenza dei problemi da affrontare, molti operatori si stanno oggi incontrando sull’importanza di una metodologia VICINA al mondo dei ragazzi. In questo senso troviamo oggi educatori di strada e progetti di strada sia qui che lì, ed è proprio in tal senso che abbiamo parecchio da imparare. Se queste sono le analogie, le differenze più grandi invece riguardano il contesto culturale. Quando noi parliamo di disagio vediamo che esso cambia da un paese all’altro. Se cerchiamo la parola disagio sul vocabolario vediamo che vuol dire “privazione, mancanza, scarsità di cose necessarie”. Bisogna allora capire cosa è mancante, carente, e ciò è fortemente influenzato dalla cultura. Pensare alla connotazione culturale è molto importante perché poi ciò ha una ricaduta sul modo in cui pensiamo un intervento. Qualsiasi intervento nel sociale non ha alcuna possibilità di successo se non tiene conto e se prescinde da un’attenta e 73 scrupolosa lettura e conoscenza del contesto in cui si interviene. Cos’è la cultura? È un insieme di norme, di comportamenti, valori accettati da un certo popolo. È la stessa cultura che legittima certi comportamenti o altri. Ad esempio nella cultura andina l’uso ed il ricorso ad azioni violente è molto diffuso come legittimo modello educativo. Le stesse modalità di accudimento, le pratiche di allevamento, variano da una cultura all’altra. A tal proposito vi è un testo molto interessante dal titolo “Dal dolore alla violenza, le origine traumatiche dell’aggressività”, che sottolinea la forte relazione tra violenza, disagio giovanile, sistema sociale e culturale. È l’approvazione culturale che crea le condizioni per l’aumento o la riduzione di un certo comportamento o fenomeno. Occorre vedere in un certo contesto quanta violenza socialmente accettata esiste. Un’interessante ricerca condotta negli USA rileva che i paesi dove il ricorso alla violenza per scopi socialmente convalidati (guerre, pena di morte, violenza razziale) è molto alto, sono proprio quei paesi dove si assiste ogni anno ad un forte aumento della violenza da parte dei minori. È la cultura che definisce cosa è normale e cosa patologico, molti comportamenti diventano pratiche legittime, normali in una certa cultura, patologiche in un'altra (es. l’infibulazione). Di tutto ciò dobbiamo ovviamente e necessariamente tenere conto quando poi progettiamo un intervento sociale e pensiamo alle metodologie da utilizzare perché possano avere maggiore successo. Non esiste, infatti, “la” metodologia di intervento sul problema del disagio giovanile o dei minori a rischio, ma essa va assolutamente calibrata e modulata rispetto al contesto di intervento. La seconda riflessione del mio intervento riguarda, come detto all’inizio, il concetto stesso di trauma. Questa riflessione nasce dalle esperienze vissute in Sud America e dai tanti racconti sentiti dai ragazzi, ma anche dal lavoro svolto in Sicilia. Ascoltando diverse storie di vita, spesso mi chiedevo e mi continuo a chiedere perché per alcuni ragazzi taluni episodi sembrano essere così normali e naturali, e per altri traumatici. Ma allora: chi stabilisce cosa è traumatico? Il soggetto o gli altri? A volte gli altri dicono che un soggetto ha vissuto un’esperienza traumatica, ma bisogna riflettere su ciò. Questo non per negare drammaticità o dolore ad 74 una certa vicenda, ma perché altrimenti ci perdiamo, non teniamo conto della percezione che di esso ne ha il soggetto che la vive. Lo stesso vale per il concetto di disagio. Allora bisogna sapere in primo luogo ascoltare i giovani che ci parlano. Spesso, purtroppo, si danno molte, troppe cose per scontate, mentre un evento, per quanto doloroso, non ci autorizza subito ad attribuire a chi lo vive vissuti e significati da noi predefiniti da ciò che per noi è la violenza, il trauma, o il disagio. Il rischio maggiore di ciò è che ci perdiamo l’altro e non capiremo mai perché ha scelto una strada e non quella giusta dove noi volevamo condurlo. Credo che questo è l’insegnamento più grande che mi hanno dato e continuano a darmi tutti i ragazzi (siciliani, peruviani, boliviani, non credo che ciò importi) che finora ho incontrato e che hanno deciso di narrarmi le loro vicende non sempre fortunate. 75 IL CATTIVO TENENTE di Dario CAGGIA Il mio intervento vuole essere una breve riflessione sul concetto di devianza che è altro rispetto all’essere identificati come i cattivi e dunque con il “male”. Il male è l’elemento caratterizzante sia nel film Arancia Meccanica di Kubrick (cfr. il CD - Rom allegato) che nel film Il Cattivo Tenente di Abel Ferrara, da cui ho preso in prestito il titolo per il presente scritto. E comunque i due film sono in interazione reciproca come se, da due angolature diverse, uno confermasse i contenuti dell’altro. Il personaggio di Alex in Arancia Meccanica, presentato con feroce ironia dal regista, è un cattivo giovinastro di una comunissima famiglia borghese. Egli farà esperienza di come la propria cattiveria è soltanto una pallida idea del genere, se confrontata con il cinismo dei politici e dell’assistente sociale deluso perché ferito nel suo narcisismo professionale, con la violenza della polizia impersonata dai suoi precedenti compagni di “avventura” rimasti impuniti, la vendetta degli anziani a loro tempo malmenati, la perversione terapeutica dei cosiddetti scienziati del recupero sociale, esperti in violenza psicologica e potrei andare avanti… A questo desolante panorama presentato dal regista, come dicevamo, con grottesca ironia fa da contraltare la discesa agli inferi e l’inaspettata redenzione tutta interiore di un tenente di polizia nel film di Abel Ferrara. Il cattivo tenente Harvey Keitel utilizza il suo “potere di ufficio” per violare impunemente ogni regola, quasi in una sfida con se stesso. Si fa di coca, ruba soldi alle vittime di reato, occulta prove per interesse personale, compie atti di libidine ai danni di due ragazze minorenni, truffa, gioca d’azzardo, intrattiene rapporti d’affari con la criminalità organizzata. Interessante è il confronto tutto interiore tra il sé e la sua immagine deviante. In questa discesa negli inferi trova la forza per risalire, folgorato dalla forza d’animo e la bontà di una suora che violentata riesce a perdonare i giovinastri responsabili. Combattuto tra eliminarli fisicamente o aiutarli decide di farli 76 fuggire dandogli dei soldi, quelli prestatigli da un boss di New York e non più restituiti. Viene ucciso proprio per questo qualche minuto dopo aver aiutato a fuggire i due giovani violentatori. Storie di cattiveria, intesa come il male che si impossessa di noi e ci fa scendere in un vortice dove ogni azione negativa ci spinge sempre più giù. In termini criminologici questo male-violenza etero ed auto indirizzato è in ognuno di noi, il rischio c’è sempre, bastano il contesto e l’occasione giusta e tanta indifferenza da parte del mondo circostante. Ma tutto questo non si può confondere con la devianza intesa come disagio. Il minore deviante non è un cattivo al quale contrapporre la società buona, il minore deviante ha una sua storia che lo ha portato, consapevole o meno, sino a lì. Spesso la sua vita è costellata di esperienze negative che lo hanno allontanato da un sé sano e positivo. Come il cattivo tenente il nostro giovane ha conosciuto la violenza, le brutture della vita e passo passo è stato tirato giù da questo mondo. Quindi diciamo che la devianza intesa come disagio non è altro che un lento essere tirati giù in un inseguirsi di esperienze sempre più grigie… e le Istituzioni purtroppo forse inconsapevolmente non fanno spesso che accelerarne la sequenzialità. Il suo interagire con la società non è lontano da quello di Alex del film di Kubrick, con una semplice differenza: Alex è un cattivo puro che incontrerà una cattiveria più cinica e dura; il nostro giovane deviante non è un cattivo, è uno che spesso cerca di sopravvivere e per far questo compie azioni balorde, ma non peggiori di quelle commesse da altri soggetti che non hanno disagio esistenziale e non sono etichettati come devianti. La devianza, dunque, è intesa come disagio esistenziale, in un passaggio generazionale dove si eredita un pesante legame con la povertà, l’emarginazione, il dolore. Esemplare in tal senso la storia di emarginazione e sofferenza di una famiglia, la famiglia dello zio Charlie di Brooklyn raccontata dal nipote fotografo. La sorella dello zio Charlie era riuscita a uscire dall’ambiente imposto dal padre, piccolo boss di quartiere, che gestiva scommesse e gioco d’azzardo. Ma lui non era riuscito ad affrancarsi dalla sua famiglia e dal grigiore esistenziale che la permeava. Lo zio Charlie era stato un alunno modello, il suo nome era stato iscritto persino negli elenchi d’onore della 77 Comunità. Poi aveva conosciuto una donna, malata di diabete ed “attaccata alla bottiglia”, e aveva avuto cinque figli, ma ben presto a causa della depressione aveva perso il suo lavoro di meccanico. Da allora aveva smesso di uscire da casa. Se ne stava in una stanza buia, proprio come era accaduto a suo padre, che per dieci anni, prima di morire era rimasto seduto dietro una finestra, capace solo di fissare la strada. La moglie aveva deciso di andarsene perché non poteva più sopportare quella vita. I figli li aveva lasciati al marito, un terremoto per il nucleo familiare di Charlie. Charles, il più grande dei figli, per un certo periodo aveva cercato di prendere il posto del padre sempre più depresso, ma era crollato sotto il peso delle responsabilità, e la sua esperienza di capo famiglia si era conclusa con una settimana di internamento in un ospedale psichiatrico. Zio Charlie aveva avuto un moto di reazione, si era rimesso in circuito, aveva ripreso contatti con il quartiere, si era trovato un’altra donna, purtroppo dipendente dal crack. Lui le pagava la droga e insieme si facevano. Da quel momento tutto era andato sempre peggio, il figlio Brian aveva cominciato a bere, l’altro Joe, sposato con due figli, aveva scoperto di avere contratto l’aids. Appena il tempo di regolarizzare la sua famiglia per garantirgli l’assistenza sociale, moriva di lì a poco. Charlie voleva far seppellire il figlio vicino alla tomba del nonno ma gli altri figli si erano opposti, come in un ultimo vano tentativo di uscire dalla spirale che li aveva trascinati verso il basso… Charlie non era così riuscito a fare altro che a chiudersi di nuovo in casa… e a sedersi dietro la finestra proprio come suo padre. Questa, in sintesi, è la storia che volevo raccontarvi, splendido articolo del supplemento “D” di Repubblica. Cosa dire rispetto al dramma esistenziale della famiglia dello zio Charlie, un destino che si tramanda di generazione in generazione, con i “ben pensanti” pronti ad additare chi sbaglia e ha violato la legge. Ad un membro di una famiglia di questo tipo che si trova coinvolto in un fatto di reato cosa volete che importi quello che dice l’operatore sociale o il Giudice. Spesso il reato con il quale conosciamo il ragazzo non è altro che una parentesi abbastanza insignificante in un mare magnum di problematiche dove noi operatori sociali veniamo percepiti come una presenza quando non sgradevole comunque 78 evanescente. Questo non vuol dire che non si possa lavorare per rimotivare questi soggetti, sarebbe però importante eliminare le contraddizioni. Questa situazione limite, che in realtà rappresenta solo una minoranza di casi, è dunque utile per riflettere. Non bisogna identificare il reo, che proviene da un simile inferno, come il cattivo… Il cattivo tenente, come Alex, siamo tutti no; c’è poi chi viola la legge e va punito in quanto ha violato la legge ma che non rappresenta il “Male” e noi il “Bene”… Così le contraddizioni dell’intervento sociale e pedagogico nei confronti dei minori che commettono reati, lo sdegno dell’opinione pubblica dovrebbero rientrare in un quadro di maggiore consapevolezza e di maggiore comprensione della complessità e della sofferenza che fanno, spesso, da sfondo alla devianza. 79 CHE C’ENTRA LA DEMOCRAZIA? di Enrico SCHIRRU La devianza è ricerca di senso L’attenzione per il comportamento “deviante” nell’ambito minorile-adolescenziale diventa sempre più un argomento di convergenza tra studiosi ed operatori del disagio evolutivo dei ragazzi dei nostri giorni. Le analisi e le risposte dello Stato (vedi diverse leggi in ambito infantile-adolescenziale), del privato sociale e del volontariato si intrecciano, nel ricercare una sempre più fattiva collaborazione nel confronto culturale e nell’operatività. La ricerca scientifica si è arricchita (tesi di laurea, testi, riviste, ecc.) nell’analisi degli interventi istituzionali e non. Si alternano attivismo interventistico e momenti di sfiducia e/o disinteresse. Dopo una breve presentazione del fenomeno, vedremo le risposte legislative, anche se non del tutto attuate nelle loro potenzialità innovative ed infine la devianza in rapporto alla società. Il fenomeno Negli anni ’90 sono quattro i film usciti sulla problematica del carcere minorile e del recupero e reinserimento dei giovani che hanno avuto a che fare con il penale e l’amministrazione della giustizia: “Mary per sempre”, “Ragazzi fuori”di Marco Risi e poi “Vite perdute”di Giorgio Castellani, mentre a Napoli uscì 80 “Scugnizzi”di Nanni Loy. Questa nuova attenzione al sociale degli anni ’90 ha coinvolto anche la Chiesa che, nella scelta preferenziale degli ultimi, ha considerato ultimi anche gli uomini del carcere. La Chiesa deve pensare la giustizia non più in termini retributivi o afflittivi ma con la “sconcertante” logica del perdono. Nel Vangelo ritroviamo la logica del perdono; dobbiamo pensare anche il penale in modo diverso, non solo in termini retributivi di colpa e pena ma anche di recupero e reinserimento. Il carcere è nato di recente e non è detto che debba esistere per sempre. Voglio immaginare un nuovo millennio senza carceri e mi aspetto dal legislatore maggiore fantasia nel propinare le pene. Parliamo di diritto penale perché ad ogni colpa, ad ogni comportamento deviante, ad ogni reato, l’ordinamento giuridico non ha altre modalità di risposta se non la pena, quantificata, giusta, certa, mentre quelle che chiamano pene alternative al carcere sono un po’ una favola, non vengono applicate. Esiste, però, una legislazione in tal senso: la legge Gozzini e l’attualissima legge Simeone, ma generalmente non vengono applicate, sia perché i servizi sociali, incaricati di redigere la relazione di sintesi insieme alla psicologo e agli educatori del carcere, sono oberati di lavoro, sia perché le fedine penali, le informative fornite al tribunale di sorveglianza dai carabinieri, dalla polizia del territorio su quel pregiudicato risalgono al tempo del reato e quindi il giudice, giustamente, non ha elementi nuovi per adottare le misure alternative al carcere. Inoltre, per il detenuto è molto difficile reperire un foglio di assunzione da un qualsivoglia datore di lavoro che gli permetta di usufruire di tali misure. Solo una nuova etica della responsabilità può fondare una nuova giustizia. Non si risponde alla violenza con altrettanta violenza. La pena deve tendere alla rieducazione del reo (Costituzione art. 27). Il fine della pena è redimere e recuperare il reo per reinserirlo nel tessuto sociale come autentico cittadino. Faccio il cappellano in carcere da 13 anni, dal 1991 al minorile Malaspina e, da quando è stato aperto, al Pagliarelli (entrambi siti in Palermo n.d.r.); negli ultimi tre anni opero presso la casa di reclusione di San Cataldo e vi posso assicurare che il carcere non 81 educa: non educa quello degli adulti e non educa quello dei minori. Secondo la norma costituzionale la pena deve tendere alla rieducazione del reo e, se qualche speranza di recupero c’è, è possibile proprio con i minori: bisogna scommetterci, investire e progettare a loro favore. Il film di Marco Risi (vedi sequenza nel Cd – Rom allegato n.d.r.), in particolare, parla di “ragazzi fuori”, ragazzi che hanno commesso un reato, hanno sbagliato, escono e vogliono cercare di risolvere la loro vita, vogliono provare a lavorare, e la risposta del vigile, in rappresentanza delle istituzioni è: “Che c’entra la Democrazia?”. Le forze dell’ordine chiudono gli occhi su tante altre cose ma non sulla licenza di quel ragazzo! Ma poi, nello stesso film, c’è una scena ancora più cruda: un poliziotto che vede rubare lo stereo da una macchina, insegue alla Vucciria il ragazzo autore del furto, chiamato King Kong, uccidendolo e l’amico che lo piange dice “Cu c’ù dici a so matri?” “Chi glielo dice ora a sua madre?” per dire che, senza dubbio, non si può rispondere così alla devianza e alla violenza. Non si può rispondere alla violenza con altrettanta violenza. La violenza richiama altra violenza. L’autore e la vittima del reato sono ambedue vittime. I tentativi di mediazione penale adottati per i minori hanno portato alla riconciliazione: tentare vie nuove, anche se è necessaria la giustizia retributiva e riparativa, ci fa pensare la pena non più come strumento afflittivo e punitivo anche quando si è cagionata una sofferenza. Mediazione vuol dire uscire dalla logica di chi vince e di chi perde, se la logica della lotta alla criminalità finisce con la vittoria dello Stato o dei criminali non cambia niente. Si deve invece dialogare e trovare l’accordo per superare i conflitti. Escludere il reo dalla vita sociale vuol dire ritardare la sua crescita e il suo cambiamento, “mettere dentro” gli individui pericolosi non risolve il problema ma lo rinvia. Il drogato, il ladro, il pedofilo erano tali prima di entrare in carcere e il carcere non risolve il problema anzi, così come funziona oggi, non educa, né quello dei minori né tanto meno quello degli adulti. La vittima del reato non è felice se l’autore del delitto si fa più anni di carcere, ma è felice se si emenda del male fatto, si pente e si recupera. Bisogna riparare al male commesso operando il bene. 82 Il carcerato è un uomo ed è un cittadino e in quanto tale va bandita la mentalità di vendetta personale o sociale verso chi ha sbagliato, bisogna invece tenere alla dignità di ogni essere umano e fare il possibile perché ogni cittadino sia accolto e perdonato dallo Stato che è padre. La mediazione serve per aprire le porte della speranza, serve per fornire una risposta soprattutto alla vittima che nel nostro Ordinamento non è tenuta in alcun conto, perché il fine del diritto è la giustizia e la pace sociale. Il nostro Ordinamento, invece, ricerca solo il colpevole e non si cura della vittima e della pena, vuole che il reo paghi, il resto non conta. Il problema è sociale, il problema è culturale. Se cambia la cultura cambia la società. Il male non sta solo in carcere, il male abita fuori. Fa comodo a tutti pensare che i cattivi stanno là dentro, così noi siamo tutti buoni. Ma non è così, entrano i ladri di polli e la fanno franca gli evasori fiscali! È urgente educare alla legalità per giungere alla mediazione penale e al perdono. L’amnistia non è perdono, è favorire qualcuno; perdono è gratuità, impegno, è per tutti, è modo di vivere con gli altri che ci fa sentire una famiglia dove la vittima perdona il reo e il reo la vittima e se stesso per giungere ad una vera e profonda riconciliazione. Il codice stesso sostiene che la pena deve portare alla riconciliazione con la parte lesa. Mentre mi accingo a chiudere questo mio scritto mi giunge notizia che è stata approvata la legge sull’indultino: circa 9.000 detenuti usufruiranno di questo gesto di clemenza e potranno ricominciare una nuova vita, con la condizione che se nei prossimi cinque anni compiono un reato pagheranno anche i due anni condonati. Pensare la pena in questi termini ci avvicina al sistema penale anglosassone dove il giudice ha la libertà di propinare la pena adatta al caso singolo e intervenire in maniera immediata per il recupero e il reinserimento del reo. Sarebbe interessante che anche in Italia il giudice prevedesse pene socialmente utili. Per entrare nella logica del perdono, con cui Dio perdona ogni creatura che si pente di cuore nel profondo, devo parlare di colpa e di pena, fermo restando che la Chiesa condanna il peccato e non il peccatore che è sempre capace di redenzione e riconciliazione. Il tuo peccato appartiene al passato, non c’è più, ora tu sei una creatura nuova. Con la colpa si evidenzia la responsabilità della 83 creatura nelle sue scelte di non comunione con Dio e con le altre creature. Con la pena si esprimono le conseguenze derivanti da tali scelte, essa implica una sofferenza che è espiatoria e redentiva. Ai detenuti dico che loro che scontano la pena quaggiù non dovranno farsi il Purgatorio e ripenso alle parole di Gesù che afferma che i ladri e le prostitute ci precederanno nel Regno dei Cieli. E a loro piace tanto sapere che il primo santo canonizzato da Gesù è il ladrone pentito (e non collaborante!) che per primo entra in Paradiso. Capisco che non si possono imporre alla società le esigenze della Misericordia che è valore tipicamente evangelico, comprensibile a pieno solo nella prospettiva della fede. Come Cristiano posso, perciò, solo proporre con delicatezza e rispetto delle posizioni altrui questo atteggiamento di com-passione e di perdono: io sono chiamato a realizzarlo in prima persona ma non ho il diritto di pretenderne la condivisione, specialmente da chi non crede. Le istanze della carità non rinnegano ma superano quelle della giustizia: “se amate quelli che vi amano che merito ne avrete? Amate i vostri nemici” (Gesù). Quando propongo un’azione di rilevanza sociale generale, chiedo il rispetto pieno dei valori di giustizia che tutti siamo chiamati a rispettare, a prescindere dal nostro credo. La pena deve comunque rispondere alle ineliminabili istanze di prevenzione generale per la difesa dei beni giuridici attraverso cui si realizza la difesa e la pace sociale che mette il condannato nella condizione di non nuocere. La privazione della libertà personale è un male necessario da considerare però come extrema ratio per i reati più gravi. La rieducazione attraverso il trattamento non è un’aspirazione utopistica, ma è il dovere più pressante di tutti noi che, a vario titolo, operiamo nel sistema penitenziario. Dobbiamo utilizzare tutti quegli strumenti che la legislazione prevede per perseguire il recupero del reo e l’umanizzazione della pena. Le insufficienze del sistema carcerario sono enormi e ognuno ha il dovere di denunciare le carenze e le inadempienze della amministrazione penitenziaria. Bisogna sempre difendere i diritti dei deboli, degli altri, mai i propri. Nel codice di Teodosio la funzione dell’assistente ecclesiastico nelle galere era di riferire al principe le lesioni dei diritti dei ristretti e le gravi inadempienze 84 verso la loro dignità. Quello che voglio dire è: 1) che la pena non deve avere la natura di castigo, corrispondente al male morale del reato; 2) che la retribuzione non è più un’assoluta necessità come nella legge del taglione dove “occhio per occhio e dente per dente” stabiliva il minimo richiesto dalla legge penale; 3) che non bisogna andare oltre il danno subito. I traumi e i tempi e le angherie della detenzione, invece, vanno molto oltre. Lo Stato deve riconoscere che non spetta a lui quel giudizio profondo del cuore umano, dove risiede la colpa, e pertanto neppure la pretesa di rimediare a tale colpa. Se c’è un giudizio bisogna lasciarlo solamente a Colui che solo può leggere nel profondo del nostro animo e nella nostra responsabilità morale. Con un male che è la pena non si può cancellare un altro male che è il reato: aggiungere male al male non è giusto, non è utile a nessuno. Nei casi di processi dubbi in cui non si riscontra un colpevole certo è preferibile che ci sia un reo libero piuttosto che un innocente in carcere. Aspetti normativi: il DPR 448/88. Principi ispiratori ed approccio educativo E’ il primo codice dell’Italia repubblicana che risponde all’orientamento della Carta Costituzionale e alle norme delle Convenzioni Internazionali ratificate dall’Italia, relative ai diritti della persona e al processo penale. Il nuovo processo penale minorile si è ispirato alle “Regole minime per l’amministrazione della giustizia minorile” approvate dal VI Congresso delle Nazioni Unite del Novembre 1985. Proprio alla luce delle “Regole minime”, il nuovo processo penale minorile si articola nelle varie parti e nella creazione di nuovi “istituti”, senza perdere mai di vista l’interesse, i bisogni e i diritti del minore, specie quello all’educazione. È all’art. 1 comma I, che sancisce il principio generale, la filosofia sottostante tutto il processo “ […] tali disposizioni sono applicate in modo adeguato alla personalità e alle esigenze educative del minore”. Il minore, non più in posizione passiva di fronte ad altri che giudicano e decidono, ma protagonista con i bisogni dell’età 85 evolutiva, non perde neanche nel processo penale il suo fondamentale diritto all’educazione sancito dalla Costituzione. Al comma II, art. 1: “Il giudice illustra all’imputato il significato delle attività processuali che si svolgono in sua presenza, nonché il contenuto e le ragioni anche etico-sociali delle decisioni”. L’art. 1 (nei due commi) traccia la nuova “mentalità”, oserei dire pedagogica, di tutta la procedura penale minorile. Ad una società che dovrebbe essere tutta “educante” nei confronti di chi è in piena fase evolutiva e formativa (come l’adolescente tra i 14 e i 18 anni) non può sottrarsi neanche l’amministrazione della giustizia, proprio perché la prima giustizia o il fondamento stesso di ogni “giustizia” è il diritto di tutti a diventare “uomini” cioè soggetti capaci di autonomia e responsabilità. L’adolescente che è in “difficoltà”, lo è proprio perché “qualcosa” o “molte cose” … di quell’insostituibile sostegno psicoaffettivo e psico-sociale gli sono venute a mancare impedendo la formazione di una personalità armonica capace di non soccombere di fronte alle “difficoltà” proprie della fase evolutiva che sta attraversando. L’art. 19, comma II, ribadisce la prospettiva di fondo, la costante esigenza di “non nuocere”: “ […] nel disporre le misure il giudice tiene conto […] dell’esigenza di non interrompere i processi educativi in atto”. O, ancora in termini più diretti, all’art. 27 relativo alla “sentenza di non luogo a procedere per irrilevanza del fatto […]” viene ribadito che “il pubblico ministero chiede al giudice il non luogo a procedere […] quando l’ulteriore corso del procedimento pregiudica le esigenze educative del minore”, e questo quando durante le indagini preliminari risultasse la “tenuità del fatto e l’occasionalità del comportamento”. È questo un processo sicuramente frutto del dibattito scientifico, psicologico e pedagogico, giuridico e criminologo, che pone gli operatori della giustizia e degli Enti Locali di fronte a problematiche che si muovono intorno a una sempre più definita depenalizzazione ed ad una conseguente residualità della risposta detentiva. L’interesse del minore viene continuamente richiamato dal nuovo processo e considerato prioritario nel rispetto delle sue esigenze educative: evitare possibili nocività e rischi del processo e delle sue lungaggini; tutelare la personalità (fragile e in fase evolutiva) nel contesto processuale; favorire una rapida 86 definizione della sua posizione giudiziaria; privilegiare soluzioni che favoriscano lo sviluppo autonomo e responsabile della sua personalità. Elemento innovativo e di significativa valenza pedagogica, nel nuovo processo, è il configurarsi di una forma di “contrattazione” tra giudice e minore imputato; tale forma di “contrattazione” è finalizzata all’individuazione di risposte responsabilizzanti, che riprendano i processi educativi interrotti … o forse mai avviati. Attraverso l’istituto delle “prescrizioni”(regole di comportamento tendenti a strutturare livelli di responsabilizzazione e favorire processi di crescita e socializzazione) si apre una possibile interazione continua e significativa fra magistratura e operatori dei servizi per offrire al minore risposte adeguate “alla personalità e alle sue esigenze educative”. Il privilegiare un’impostazione educativa nella ricerca di ogni soluzione, con l’eccezionalità di un intervento penale, si evidenzia con chiarezza da alcuni “istituti” che intervengono sia in fase istruttoria e processuale, sia in fase di esecuzione penale, quali: prescrizioni (art. 20), permanenza in casa (art. 21), collocamento in comunità (art. 22), sospensione del processo e messa alla prova (art. 28), sanzioni sostitutive (art. 30), misure di sicurezza alternative al riformatorio giudiziario ( 36-41). Quale approccio educativo? Se tutto il nuovo processo è fondato su un “alto livello di comunicazione tra i soggetti in esso chiamati ad operare” (così scrive F. Palomba nel suo libro “Il sistema del nuovo processo penale minorile”, edito da Giuffrè nel 1989) nonché su una interazione tra le attività del processo e il sistema di relazioni sociali, altrettanto forte deve essere il grado di circolarità delle relazioni in cui il ragazzo va inserito. Non quindi una pedagogia centrata sul “ragazzo-problema” come un ente a sé, ma interventi che si propongono di riattivare reti relazionali interrotte, in particolar modo quelle relative alla famiglia, alla scuola, al mondo del lavoro, al gruppo dei pari. Un approccio pedagogico “relazionale-sistemico” che la stessa normativa penale sembra privilegiare: art. 21/2, permanenza in casa del minore che si può allontanare dalla propria abitazione per compiere le attività educative predisposte dal giudice; art. 22/1 prevede l’affido del minore ad una comunità alloggio con 87 specifiche prescrizioni inerenti alle attività di studio o di lavoro ovvero ad altre attività utili per la sua educazione; art. 30/1 “[…] sanzioni sostitutive alla pena detentiva […] tenuto conto della personalità e delle esigenze di lavoro o di studio del minorenne nonché delle sue condizioni familiari, sociali e ambientali”. Riattivare, quindi, reti di relazioni, circolarità di interazioni tra ragazzo ed agenzie educative, restituendo il ragazzo al “sistema formativo sociale”, dove tutta la collettività è chiamata ad essere “società educante” per ridare, a chi è finito nella marginalità deviante, opportunità educative, dove il ragazzo si senta accolto e valorizzato per recuperare l’autostima. Devianza e comunità: quali risposte? Quando Orlando aprì a Palermo il nuovo centro per assistenti sociali, con 105 assistenti sociali, io andai per la benedizione … tavolino, computer, telefono. Dissi “No, non le devi mettere in ufficio col telefono, mandale per strada, compra il cellulare, costerà di più la telefonata, ma mandale per la strada ”. Nel Vangelo la parola strada c’è 113 volte, tutte la volte che Gesù incontra la gente, la incontra per strada. Lo psicologo è normalmente alla ricerca ed in attesa di un rapporto uno a uno, invece bisogna andare a cercare la pecorella smarrita. In questo senso è significativa la parabola del samaritano: un sacerdote e un levita passavano per una strada. Sul lato opposto c’era un emarginato che aveva bisogno di aiuto ma i due non si fermarono, del resto camminavano dall’altra parte della strada…l’emarginato non si guarda, si va dall’altra parte. Invece un mercante, che faceva quella strada per lavoro, scende da cavallo. Ma secondo me non scende, è disarcionato dal cavallo. Cade dal cavallo perché quel poveraccio che era rimasto sul ciglio della strada malmenato chiede aiuto, ha bisogno di aiuto. E lui allora lo accoglie: bisogna prendersi cura dell’altro. Da un po’ di tempo sto scoprendo un filosofo, Emanuel Levinas, che dice che il tempo è dell’altro, che dovremmo partire dall’altro, finora siamo partiti dall’Io, da me stesso, ora, nel prossimo secolo, proviamo a partire dall’altro e pensare proprio partendo dall’altro non da me stesso. 88 In tante carceri mi sono reso conto che la devianza non dipende dalla Vucciria, da Ballarò, o dal territorio. La devianza è ricerca di senso, sia nei quartieri ricchi che nei quartieri poveri. Solo che se in un carcere minorile in prima accoglienza entra il ragazzo dei quartieri ricchi si applica la misura della messa alla prova, mentre nel caso di un ragazzo povero, siccome il padre è in carcere, la mamma ha cinque - sei figli e deve fare la vita, il territorio non è attrezzato per un recupero, un reinserimento del minore che viene da queste zone già disagiate, già sfortunate. In dieci anni non ho mai visto al Malaspina un ragazzo figlio di ricchi. Un quattordicenne, figlio di una famiglia “perbene”, durante una festa con altri amici aveva violentato una compagna. L’ho incontrato al Malaspina al Centro di prima accoglienza, ma poi non è entrato in carcere. Così come in tantissimi altri casi, furti, spaccio nei quartieri ricchi dei ragazzi bene di Palermo….. credo che la 448 privilegi chi ha una famiglia: se c’è una famiglia significativa alle spalle il ragazzo si recupera, ed è giusto, però non possiamo non denunciare che i territori già malfamati, già abbandonati anche dalle istituzioni, non hanno dei centri di aggregazione al di là della parrocchia che fa quello che può, non sono attrezzati con dei centri sociali per offrire a questi ragazzi un valido aiuto. Dico queste cose sicuro perché la Chiesa non deve perdere il suo spirito di profezia, e soprattutto il suo spirito di denuncia per la difesa degli ultimi. Le risposte delle comunità locali già presenti negli anni ottanta, sono state potenziate dai finanziamenti statali previsti dalla legge n. 216 del 1991 sui “Primi interventi a favore dei minori soggetti a rischio di coinvolgimento in attività criminose”. Questa legge è nata come risposta agli accertamenti sulla delinquenza minorile in Italia svolti nel 1990 dalla Commissione Parlamentare Antimafia. La grave diffusione del fenomeno e, soprattutto, il crescente impiego strumentale dei minori da parte dei gruppi malavitosi, ha portato il Parlamento a formulare questa legge (anche se con limitata copertura finanziaria) come risposta di emergenza pur nell’ottica di interventi di prevenzione: a) prevenzione primaria, di carattere socioculturale, per favorire il diritto alla crescita dei minori; offrire loro opportunità di 89 socializzazione e di maturazione individuale, soprattutto per soggetti mai entrati nell’area penale (art. 1 e 2); b) prevenzione secondaria, indirizzata ai ragazzi già entrati nell’area penale e/o a forte rischio di devianza con progetti di recupero e sostegno per ragazzi già segnalati per comportamento trasgressivo. Diverse sono le modalità di intervento previste dalla legge e attuabili da associazioni e cooperative sociali e organismi di volontariato, oltreché dalle aziende sanitarie locali, dalle province e dai comuni. Quattro i principali ambiti operativi: 1) Comunità alloggio: per ragazzi già segnalati e con forti necessità di relazioni educative significative nel rapporto individuale con gli educatori; 2) Interventi a sostegno della famiglia: aiutandola a superare incapacità di gestire la relazione educativa e le soluzioni di problemi economico-abitativi; 3) Centri di aggregazione nei quartieri: creare spazi di incontro, spazi educativi per i minori e le loro famiglie; 4) Utilizzo di strutture scolastiche: negli orari in cui non sono utilizzate nell’attività didattica vengono messe a disposizione dei ragazzi per attività di sviluppo e crescita individuale-comunitaria. Diverse (anche se insufficienti) sono le risposte della comunità locale, dei comuni, delle associazioni, delle cooperative. Nei primi cinque anni (91-95) la legge ha finanziato, per i soli artt. 1 e 2, oltre 1.700 progetti. Pur nei suoi limiti di finanziabilità annuale e di insufficienza di fondi, si è creata una cultura di prevenzione e di impegno socio-educativo nei comuni. Oggi c’è uno strumento nuovo costituito dalle ONLUS e, a livello regionale, è stata recepita la legge nazionale n.328/00 “ Legge sul sistema integrato dei servizi sociali”. Diventa sempre più chiaro che la risposta più efficace al disagio adolescenziale, e prima infantile, va data da tutta la società nelle sue varie componenti e non solo dagli “addetti ai lavori”. La risposta è prevalentemente pedagogica: sostenere il diritto alla crescita, allo sviluppo armonioso e sano della personalità creando opportunità, spazi e relazioni che lo permettano. Iniziando dalla famiglia e proseguendo con la scuola, il mondo 90 dell’associazionismo e l’ente locale (regione, provincia, comune) può e deve progettare interventi educativi a favore dei giovani con specifici obiettivi e modalità e soprattutto una forte collaborazione di rete tra le varie “agenzie” educative ( scuola, oratori, associazioni sportive e culturali, centri sociali, ecc.). Resta scoperta, in questo momento, in quasi tutta l’Italia, la fascia di età 18/25 anni, detti “giovani adulti” che sono stati sottoposti nella minore età a provvedimenti giudiziari. Per questa ragione, in alcune carceri è partito un progetto di sperimentazione, destinato ai recidivi e non, che prevede un regime carcerario che permette loro di frequentare corsi scolastici e professionali per conseguire i titoli che all’uscita gli permettano un più facile reinserimento sociale. L’esperienza della scuola salesiana mi ha confermato sempre più l’idea che la società civile e le istituzioni devono collaborare in modo sinergico per attuare l’intervento di prevenzione, secondo il metodo preventivo di Don Bosco che nella Torino pre-industriale iniziò a costituire centri professionali per i figli degli operai, togliendoli dalla strada. Aver lavorato in ambienti difficili mi ha sempre più fatto prendere coscienza che è difficilissimo “recuperare” e riportare sulla retta via coloro che per un motivo o per l’altro hanno deviato dalla strada dell’onestà perché, all’uscita dal carcere o dalle comunità, il territorio ha un potere più forte verso la devianza e tutti i propositi e il rafforzamento della volontà non sono sufficienti a contenerlo. L’ex detenuto, l’ex drogato per i primi tempi non cede alle sollecitazioni dell’ambiente, forte dei suoi buoni propositi poi però, col tempo e per bisogno, finisce col cedere e ricomincia a delinquere per avere quei 50 € che gli occorrono per uscire con gli amici. Il territorio ha leggi e ragioni più forti delle stesse motivazioni personali. Il territorio è supportato dalla cultura e dalla mentalità mafiosa che affascinano, attraggono e hanno il sopravvento sull’individuo; lo Stato e la Chiesa che operano nel medesimo territorio dovrebbero entrare in conflitto con “cosa nostra” per togliere i giovani da un sicuro percorso di devianza. Anche soltanto dal punto di vista economico ci rendiamo conto quanto la comunità civile deve spendere per tentare di rendere 91 innocuo chi costituisce un pericolo per la comunità o per tentare di far rinsavire chi ha sbagliato: un minore in percorso penale costa allo stato 1000 € al giorno, un detenuto adulto costa 500 €. Se gli stessi denari spesi per l’amministrazione della giustizia nel caso concreto fossero spesi per supportare la famiglia del minore ci sarebbero meno reati. Allora l’invito che faccio alle autorità competenti e a tutte le forze vive, istituzionali e private, è quello di investire sulla prevenzione: non saranno soldi persi ma investiti nel sociale per una società più sana. Senza nulla togliere alle attività egregie di coloro che fanno il tentativo di reinserire nella vita sociale chi ha sbagliato, ritengo che bisogna lavorare molto per eliminare tutte quelle situazioni che costituiscono terreno fertile per il prosperare della delinquenza. 92 DEVIANZA MINORILE OGGI: LE RISPOSTE DEL SISTEMA GIUDIZIARIO TRA NORMATIVA ED ESPERIENZA di Caterina CHINNICI Le immagini prescelte per introdurre questo mio breve scritto (che troverete nel CD – Rom allegato) sono tratte dal film “Mary per sempre”. Sono immagini forti, che danno un’idea di quella che ancora oggi è la realtà, qualche volta particolarmente dura e drammatica, del carcere minorile. Tuttavia, io che rappresento le istituzioni credo di avere il dovere di illustrare il fenomeno della devianza minorile così come oggi si manifesta e quelli che realmente sono gli interventi delle istituzioni nei confronti dei minori che commettono reati, anche per fare chiarezza su alcuni aspetti delle problematiche connesse al fenomeno. Innanzitutto, vorrei brevemente tracciare i termini del fenomeno “devianza minorile” del quale, credo, siano stati anticipati due aspetti che sono proprio, secondo me, gli elementi fondamentali che concorrono a creare questa particolare forma di disagio, e cioè la violenza e le carenze socio-culturali. Sono procuratore minorile già da sette anni e ho assistito ad un’evoluzione o, sarebbe meglio dire, un mutamento del fenomeno. Per quanto riguarda, in particolare, la situazione del nostro territorio va detto, innanzitutto, che Caltanissetta è una realtà, dal punto di vista economico, non particolarmente florida così come, peraltro, anche la provincia di Enna che ricade nel distretto di competenza del mio ufficio. Così posso dire, in proposito, che quando sono arrivata alla Procura per i minori c’erano ancora molti reati commessi per bisogno: mi riferisco, per esempio, al pascolo abusivo; mi riferisco ai piccoli furti cui è stato fatto cenno in precedenti interventi. Devo dire, invece, che in questi sette anni i reati commessi dai minori per bisogno sono quasi scomparsi: non esiste più il pascolo abusivo, il furto per bisogno è ormai un fatto episodico. Quali sono invece i reati che sono aumentati? Sono aumentati i reati commessi con violenza, ed è questo, a mio 93 avviso, l’aspetto preoccupante del fenomeno della devianza minorile. Sono aumentati sia i reati di minore allarme sociale sia i reati di maggiore allarme sociale, connotati tutti da comportamenti violenti. E, a fronte dell’aumento di queste tipologie di reati, c’è (ed anche questo è un aspetto a mio avviso da attenzionare) la diminuzione dell’età dei ragazzi che commettono proprio i reati connotati da maggiore violenza. E cosa si nasconde dietro questi reati? Il giudice minorile cerca sempre di andare oltre al reato, di non fermarsi alle carte, e cioè alle risultanze processuali, ma cerca soprattutto di capire il motivo che ha spinto un ragazzo a commettere il reato, per potere poi intervenire con la misura “sanzionatoria” più idonea fra quelle che il codice di procedura penale minorile gli consente di adottare. Cosa trova in genere dietro questi reati? Per i reati di minor allarme sociale, per esempio per i danneggiamenti, per le molestie telefoniche - che comunque, pur se meno gravi, sono reati che provocano ansia e preoccupazione in colui che ne è il destinatario - la motivazione immediata è il gioco, la noia. Quanto ai reati di maggiore allarme sociale, va sottolineato come risultano aumentate le lesioni (le lesioni sono quasi sempre conseguenza di aggressioni del singolo nei confronti del coetaneo, di gruppi nei confronti del singolo), le risse (sono queste aggressioni reciproche), le violenze sessuali; ed è questo un fenomeno gravissimo perché sono aumentate anche tra i giovanissimi e anche tra i minori non imputabili, cioè tra i ragazzi al di sotto dei 14 anni. Cosa si cela, dunque, dietro tutti questi reati? Io credo che ci sia purtroppo una società in crisi di valori, in crisi nei rapporti all’interno della famiglia, anche se concordo con l’idea esposta da altri autori del presente volume, secondo cui la crisi relazionale all’interno della famiglia non è comunque una crisi così diffusa e quindi così preoccupante. E c’è ancora a mio avviso, dietro i comportamenti devianti, una forte influenza sui minori dei messaggi di violenza che la nostra società trasmette loro: la violenza, direi quasi, come unica forma di dialogo tra i giovani. Ricordo un incontro/dibattito al quale partecipai, anni fa, a San Cataldo: in quell’occasione alcuni illustri relatori parlarono proprio della violenza. Uno dei relatori disse che, in fondo, non 94 dovevamo allarmarci così tanto perché la violenza ha sempre fatto parte della vita: pensiamo alla favola di Cappuccetto rosso che è una favola che, in realtà, contiene in sé anche la violenza “del lupo che mangia la nonna, del cacciatore che interviene e squarcia la pancia del lupo”. Certo, questo è vero; però confrontiamo la violenza di Cappuccetto rosso con quella di oggi: la violenza di Cappuccetto rosso era quasi una violenza rassicurante; rassicurante sia perché inserita all’interno di una favola “serena”, sia perché era una violenza che veniva proposta al bambino dalla presenza rassicurante di una mamma, di una nonna, di un qualcuno che sapeva porgere nel modo giusto il messaggio contenuto nella favola, che sicuramente non era un messaggio di violenza fine a sé stesso. Qual è oggi, invece, il messaggio di violenza che hanno i nostri bambini fin da piccolissimi? Quello che viene dai cartoni animati, dalla televisione, dai video giochi, con i quali normalmente, ahimè forse anche per colpa di noi genitori, si trovano a relazionarsi da soli; difficilmente c’è, accanto al bambino, un papà o una mamma che spiega che in quel cartone l’eroe positivo aggredisce il cattivo e attraverso la lotta, e quindi la violenza, fa trionfare la giustizia, la bontà. E allora ecco che i ragazzi, soprattutto quelli che hanno una personalità più fragile, soprattutto quelli che non hanno una solidità affettiva e relazionale alle spalle, apprendono soltanto la violenza, e non il messaggio positivo che attraverso la violenza si vuole trasmettere, e talvolta, purtroppo, da questa violenza rimangono in qualche modo segnati. Da quando mi occupo di giustizia minorile, poi, ho avuto modo di notare una certa differenza tra le realtà del sud e del nord dell’Italia. Nelle nostre realtà, e parlo di tutta l’area del sud, non mi riferisco solo alla Sicilia, i reati sono commessi da minori appartenenti alle fasce sociali più svantaggiate, che vivono in contesti sociali non solo economicamente ma anche culturalmente più disagiati. Nel nord dell’Italia avanza invece quella che viene definita delinquenza o criminalità “metropolitana”, poiché a commettere i reati, soprattutto i reati connotati da violenza, sono i ragazzi appartenenti a ceti sociali più elevati, ceti sociali medi, medio-alti o, addirittura, anche ceti sociali economicamente privilegiati. C’è effettivamente questa differenza, che tuttavia non 95 condiziona sotto alcun profilo gli interventi previsti dalla nostra legislazione in materia minorile e disposti dai giudici che operano nel settore. Comunque io credo che nell’un caso e nell’altro le ragioni che portano il ragazzo a commettere il reato hanno un fondamento comune: c’è infatti sempre, in ogni caso, una mancanza di valori che al nord magari deriva dalla disgregazione familiare, da una alterazione delle dinamiche relazionali all’interno della famiglia, o da altre componenti quali, ad esempio, l’uso di stupefacenti; nella nostra realtà spesso invece deriva da una condizione di svantaggio socio-economico, ma anche da carenze culturali. Fatta questa premessa, vorrei tracciare, per grandi linee, gli interventi giudiziari sui minori. La legge che regola la materia è la n. 448 del 1988: si tratta di una legge che tiene conto dei principi fissati dalla Convenzione dell’ONU sui diritti del fanciullo del 1989, ratificata dall’Italia con la legge n. 176 del 1991, ma che già il nostro codice di procedura penale minorile, così come noi lo chiamiamo, aveva assorbito poiché aveva recepito le cosiddette regole di Pechino, propedeutiche alla Convenzione sui diritti del fanciullo. Il nostro codice, a mio avviso, è uno strumento estremamente valido: è tuttora uno strumento moderno, uno strumento flessibile, perché consente al giudice di individuare la sanzione più adeguata al ragazzo che ha commesso un reato e ciò ovviamente tenendo conto della personalità del ragazzo, del contesto dal quale proviene, del tipo di reato, dell’età, dei suoi eventuali precedenti penali, cioè di tutta una serie di elementi che costituiscono i presupposti messi a fondamento della discrezionalità del giudice nell’individuare la pena. Tutto il codice di procedura penale minorile, peraltro, è improntato alla tutela del minore che ha commesso un reato: il minore viene assistito, oltre che dai familiari, dai servizi sociali minorili; le misure cautelari per i minorenni sono sempre facoltative, anche se il reato commesso dal minore è un reato estremamente grave; e soprattutto la pena ha una funzione rieducativa. Si è parlato, in precedenti interventi, del carcere: è vero, il carcere non è di per sé rieducativo, però va precisato che la misura della detenzione per i minorenni è prevista sempre come misura residuale, cioè soltanto per i reati particolarmente gravi, 96 ovvero qualora si tratti di ragazzi ripetutamente recidivi; in sostanza, quindi, in tutti quei casi in cui non ci sono le condizioni per potere accedere ad un’altra misura non restrittiva: soltanto in questi casi si applica la misura della detenzione in carcere. Funzionano molto bene, infatti, per i minorenni le misure alternative alla detenzione; in proposito vorrei fare un cenno all’istituto della “messa alla prova”. A mio avviso è veramente l’istituto più significativo proprio sotto il profilo della rieducazione del minore, ed è l’istituto che in genere si tende a privilegiare da parte dei giudici minorili, che lo applicano per tutte le tipologie di reati a ragazzi appartenenti alle diverse fasce sociali, alle diverse fasce d’età ed anche a coloro che, avendo commesso il reato da minorenni, hanno raggiunto e superato la maggiore età. La messa alla prova presuppone la disponibilità del ragazzo a seguire la prova, cioè il programma di recupero per lui predisposto. Quindi il giudice ha, per così dire, una sorta di sbarramento preliminare: se non c’è la disponibilità del ragazzo, il giudice non può dare al ragazzo stesso la possibilità della messa alla prova. Quando c’è invece la disponibilità, allora si sospende il processo, si redige da parte dei servizi sociali un programma rieducativi, che dovrà essere seguito dal ragazzo, e che contiene impegni di studio o di lavoro, impegni di tipo culturale e sportivo, impegni nel settore del volontariato. All’esito della prova, la cui durata viene stabilita dal giudice in funzione della gravità del reato commesso e della personalità del ragazzo, e che comunque non può superare nel massimo i tre anni, si dichiara l’estinzione del reato se l’esito della prova è stato favorevole, nel senso che il ragazzo ha seguito gli impegni per lui previsti così raggiungendo l’obiettivo del recupero, cui tende appunto la messa alla prova. Devo dire, in proposito, che soltanto in pochissimi casi, anzi per la verità in un solo caso, nei sette anni delle mie attuali funzioni, ho visto un’impossibilità di messa alla prova a causa di mancanza di opportunità per il ragazzo nel quartiere, anzi per la precisione nel paesino dove il ragazzo viveva. Quindi, la messa alla prova, così come oggi prevista dal nostro sistema, è l’istituto più efficace indirizzato al recupero del minore, anche se io riterrei opportuna in proposito qualche modifica; così, per esempio, modificherei l’istituto della messa alla prova 97 eliminando la disponibilità del minore: cioè porrei la messa alla prova, in ogni caso, come prima possibilità che il giudice, che afferma la responsabilità di un minore in relazione ad un reato, offre al ragazzo; qualora poi la prova dovesse fallire, allora si potrebbe accedere ad altre misure “sanzonatorie”. Comunque vorrei concludere con una riflessione: credo che, al di là degli interventi giudiziari, per affrontare efficacemente il fenomeno della devianza minorile, è fondamentale la prevenzione, i cui aspetti più importanti sono: trasmettere ai giovani dei valori sani, costruire un buon rapporto genitori-figli e più in generale adulti-giovani, offrire ai più piccoli validi modelli comportamentali, ed ancora adoperarsi per indirizzare i giovani verso la cultura ed in particolare verso la cultura della legalità. Ed è questa un’esigenza ormai da tempo da tutti noi avvertita. Come voi sapete, io sono figlia di Rocco Chinnici, magistrato anche lui, per la precisione Consigliere Istruttore presso il Tribunale di Palermo, che già vent’anni fa aveva cominciato a portare il suo impegno di magistrato contro la mafia anche fuori dalle aule giudiziarie, perché andava a parlare soprattutto con i giovani e nelle scuole, ponendo l’accento proprio sulla necessità di diffondere la cultura in generale, e più specificamente la cultura della legalità, proprio come strumento di contrasto alle devianze diffuse purtroppo anche fra i giovani. 98 IL DISAGIO GIOVANILE PER LE VIE DI SAN CATALDO di Bianca LO BIANCO Premessa Sul “disagio giovanile” ci sarebbe tantissimo da dire, ma dovendo affrontare l’argomento limitatamente a ciò che accade su questo territorio, occorre anzitutto rilevare che a San Cataldo non è stata mai effettuata dalle Istituzioni Pubbliche un’apposita ricerca sociale sull’argomento, dalla quale poter attingere per ottenere una visione realmente concreta e corretta del fenomeno. Quel che può trovarsi, come dati, è quanto emerge da alcune indagini parziali, a supporto di tesi di laurea che, ovviamente, per quanto riguarda una completa conoscenza del fenomeno, non possono essere considerate né valide, né esaustive. Non resta, quindi, per quanto riguarda l’argomento, che affidarsi alla valutazione degli operatori sociali che lavorano nel settore. Analisi della situazione territoriale La popolazione sancataldese è di n. 23.504 abitanti, di cui il 20% minorenni, il 62% in età lavorativa ed il 18% in età anziana. 99 Tale situazione ci rende quindi l’immagine di una Città “giovane”, dove la fascia della popolazione minorile addirittura supera in percentuale la fascia di quella anziana. A fronte di ciò, però, deve purtroppo dirsi che le Istituzioni, per scelte compiute in passato, hanno invece privilegiato l’attivazione di Servizi di supporto alla fascia di popolazione anziana, limitando fortemente i servizi di supporto alla popolazione minorile sin quasi a farli scomparire negli ultimi quattro anni. Alla base di tali scelte, forse, le difficoltà economiche nelle quali ormai annaspano i Servizi Sociali di tutti gli Enti Locali, generate dall’attuazione del trasferimento “in unico fondo” delle somme di finanziamento dalla Regione Siciliana ai Comuni. La nuova possibilità di destinare “liberamente” le somme ai vari settori dei Servizi Sociali, decidendo a livello locale (presumibilmente sulla base delle esigenze della popolazione locale!) ha infatti creato, nella pratica, assurde situazioni di involuzione nei Servizi e qualche volta ne ha generato persino la soppressione. Malgrado la piena condivisione da parte degli Operatori del settore dello spirito che aveva animato il legislatore nell’istituzione di questa nuova procedura, tutto ciò ha fatto, per molti versi, rimpiangere la vecchia metodologia di finanziamento regionale che forniva copertura alle Leggi di settore che di volta in volta venivano emanate (ad es. la Legge n.68/81 per i servizi in favore dei portatori di handicap, la Legge n. 87/81 per i servizi in favore degli anziani oppure, per ultima, la Legge n. 22/86 per tutti i Servizi Sociali del territorio). 100 Infatti, allora, tutti gli Enti Locali facevano a gara per attivare sul loro territorio i vari Servizi al fine di ottenere quanti più finanziamenti possibile. Era il momento d’apice nell’attuazione del Welfare State: il momento in cui negli anni ottanta e negli anni novanta ci si sforzava di interpretare i bisogni della popolazione e forse, persino, di anticipare le soluzioni a problemi che ancora non si erano completamente delineati. Il tasso di disoccupazione della popolazione sancataldese appare elevato. La disoccupazione (relativamente alla popolazione attiva regolarmente iscritta presso gli elenchi dell’Ufficio del Lavoro di aspiranti ad un inserimento lavorativo) cresce vertiginosamente dalla fascia 25-29 anni alla fascia dei maggiori di 30 anni, dal 16,06 % ad un preoccupante 77,66%. Pur volendo in ciò considerare una situazione apparente, in quanto è presumibile che in questo dato sia compresa una percentuale di lavoro sommerso o di sottoccupazione (ossia lavoratori “in nero” che “ufficialmente” risultano iscritti nelle liste dei disoccupati) si deve necessariamente evidenziare come la situazione non appaia 101 rosea per le generazioni future, in assenza di nuovi volani economici o di sistemi di propulsione che possano capovolgere l’empasse economico-occupazionale attuale. Quindi, a fronte di questa situazione, la presenza poco consistente sul territorio sancataldese di Servizi Socio-Assistenziali in favore dei minori e delle loro famiglie appare particolarmente grave e punto di facile innesco di fenomeni malavitosi di grossa portata. Gli aiuti economici alle famiglie, infatti, sono del tutto inadeguati ai bisogni della popolazione ed, a volte, non in grado di tamponare nemmeno le situazioni più gravi o le emergenze. I Servizi di Prevenzione alla Devianza Minorile, (sino a qualche anno fa affidati alla Legge n. 216/91 con una gestione e controllo diretto dello Stato attraverso il Dipartimento degli Affari Sociali presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri e, quindi le Prefetture o attraverso il Ministero di Grazia e Giustizia ed i suoi Uffici periferici) sono ormai anch’essi esclusivo compito degli Enti Locali e quindi, per le ristrettezze di cui si è parlato, di fatto, non vengono più attivati. I Servizi di Supporto Scolastico (mensa, doposcuola, contributi economici per l’acquisto di materiale scolastico ecc.) che sono indiscutibilmente attività di Prevenzione alla Devianza Minorile, sono stati praticamente aboliti. I finanziamenti ad Attività Sportive per Minori risultano miseri e quasi inesistenti. La microcriminalità, a San Cataldo, appare un fenomeno in crescita. I reati contro il patrimonio (per lo più furti in appartamenti, villette di campagna ecc.) sembra siano commessi in maniera paritaria sia da cittadini italiani che da extracomunitari o zingari. 102 I reati contro la persona (scippi e rapine) vengono commessi per la maggior parte (70%) da giovani tra i 16 ed i 19 anni, come si può vedere dal seguente grafico: Questo può dare una dimensione di quanto le fasce minorili vengano coinvolte nei fenomeni malavitosi locali. Di tali reati commessi dai minorenni, poi, il 90% è finalizzato all’uso di sostanze stupefacenti e ciò non fa che confermare come il fenomeno Tossicodipendenza, e reati connessi, sia per quanto riguarda questo territorio il fenomeno malavitoso minorile di maggiore innesco. 103 Com’è noto, per l’attuale normativa, i minori dai 14 ai 16 anni non sono imputabili, mentre dai 16 ai 18 anni si effettua, per ogni caso, segnalazione alle AA. GG. competenti. Occorre rilevare, a questo riguardo, che il 90% dei casi di reati per droga viene risolto, nel senso che viene quasi sempre trovato l’autore e quindi, quasi sempre, un minorenne viene giudicato e punito dall’Autorità Giudiziaria competente. Si può dire che San Cataldo (anche qui senza il supporto di rilevazioni ufficiali in merito) sia, purtroppo, forse per la sua posizione geografica o forse per la tradizionale intraprendenza delle fasce malavitose della sua popolazione, uno snodo centrale per lo smistamento di sostanze stupefacenti per la Sicilia centrale e meridionale. Pare, infatti, che a San Cataldo si riforniscano vettori provenienti da tutta la Provincia di Caltanissetta ed Agrigento. In questo momento, per esempio, a seguito dell’Operazione “Marco Polo” condotta dai Carabinieri di San Cataldo (avvenuta il 16 Settembre 2002) sono state arrestate 15 persone ed è stata sbaragliata un’organizzazione. Per quanto riguarda le caratteristiche del fenomeno si può, inoltre, aggiungere, volendo analizzarlo meglio rispetto al reato, che il grosso spacciatore non fa uso di droga, che con gr.1 di droga (ca. € 20 all’ingrosso) si preparano 20 dosi, che, attualmente, n. 1 dose viene venduta ad un costo di ca. € 10 – 15, che il grossista guadagna ca. € 150 – 160 nette dalla vendita di 20 dosi, e che lo spacciatore guadagna n. 1 dose ogni 10 vendute (se è un tossicodipendente) oppure ca. € 20 ogni 10 vendute (se spaccia soltanto). Le motivazioni che inducono alla Tossicodipendenza, sicuramente, non possono essere generalizzate, in quanto ogni soggetto ha un proprio vissuto. Da alcune indagini condotte ufficialmente dal SERT di San Cataldo nel 1997 e nel 2001 – 2002 emergono quali sono le motivazioni che hanno maggiormente indotto i soggetti a far uso di droghe: 104 -Il bisogno insoddisfatto di relazioni vere, profonde, significative con i genitori (troppo impegnati nel lavoro o nella ricerca del benessere economico); -La curiosità (per vedere come si sta, per provare il senso di piacere, di benessere, di sicurezza) – soprattutto nel ’97; -Il disagio personale e la ricerca della fuga dalla realtà: per sballarsi, per divertirsi, per sentirsi protagonisti, eroi, per mettersi alla prova e per essere accettati dal gruppo; -La ribellione (assunzione di comportamenti devianti per ribellarsi alle ingiustizie); -Il gusto di scoprire qualcosa che calma l’aggressività interiore; -La ricerca di aiuto per affrontare le difficoltà (più esistenziali che materiali): il tentativo di riempire un vuoto che sentono intorno (mancanza di valori) o per rispondere ad interrogativi sull’esistenza o sul senso della vita – soprattutto nel 2001-2002. Il fenomeno (sempre secondo le suddette indagini) pare si articoli in un accertato avvicinamento alle sostanze più leggere in una fascia di età che và dai 14 ai 15 anni. È stato anche accertato che nella maggior parte dei giovani, poi, avviene immancabilmente il passaggio dalle sostanze leggere (cannabinoidi – hashish – marijuana) alle sostanze pesanti. È da rilevare, ancora, che dal 1997 (1^ rilevazione) al 2001 (2^ rilevazione) il numero dei tossicodipendenti è raddoppiato e quello degli alcolisti è triplicato. 105 Come si può vedere, gli utenti del Ser.T. appartengono in massima parte alla fascia di età 20 – 24 anni (38%) e 25 – 29 anni (27%), il che dimensiona decisamente il fenomeno della tossicodipendenza nella fascia giovanile al di sotto dei 30 anni. In tale dimensione la componente maschile raggiunge l’88% nel 1° semestre del 2001 E la sostanza psicotropa maggiormente assunta risulta essere l’eroina con il 91% nel 2° semestre 2001. Il contatto con il Ser.T. generalmente viene cercato quando il soggetto decide di smettere e le motivazioni sono nell’ordine: -La solitudine (perché ormai ha perso i rapporti con i familiari, con gli amici ecc.). -La consapevolezza di aver toccato il fondo. -La preoccupazione per la propria salute. 106 -Perché costretti dalla famiglia (che li mette con le spalle al muro). -Per motivi strumentali (per i detenuti): uscire dal carcere, reperire più facilmente il metadone. La cura avviene mediante il lavoro con la persona e con la famiglia. L’obiettivo è il reinserimento sociale. La metodologia utilizzata a questo riguardo è il lavoro di rete. Il Ser.T di San Cataldo opera su questo territorio dal 12.12.94. Si occupa di dipendenze per consumo di sostanze psicotrope ed alcoliche. E nello specifico: -Effettua prevenzione nelle Scuole e promozione della salute -Dispone di n. 2 Club Alcolisti in Trattamento (dell’Associazione Provinciale Alcolisti in Trattamento, che ha sede in San Cataldo) -Accoglie l’utenza -Tratta il caso -Effettua l’integrazione tra il pubblico ed il privato -Segue il percorso terapeutico con verifiche periodiche -Segue il reinserimento Dispone del seguente personale: -n. 2 Assistenti Sociali -n. 1 Medico -n. 2 Infermieri Il suo bacino di utenza è quello del Distretto Sanitario ossia: San Cataldo, Marianopoli, Serradifalco, Montedoro, Bompensiere e Milena, compreso l’utenza che risiede nella Casa di Reclusione di San Cataldo. Tale bacino ha una popolazione di n. 39.088 abitanti. La Comunità Terapeutica di riferimento è Terra Promessa, che si trova in territorio di Caltanissetta. Il disagio minorile si manifesta primariamente, ossia prima di diventare “patologia sociale” (microcriminalità, tossicodipendenza, ecc.), attraverso due tipi di fenomeno che avvengono normalmente durante la frequenza della Scuola dell’Obbligo : 107 La Dispersione Scolastica -l’Evasione all’Obbligo Scolastico (il minore che non va completamente a Scuola o perché non vuole o perché i suoi genitori non lo mandano); -l’Abbandono Scolastico (il minore che frequenta per qualche tempo la Scuola e poi abbandona dopo qualche tempo, breve o lungo che sia). A San Cataldo il fenomeno della Dispersione Scolastica non ha mai superato negli ultimi dieci anni le 20 unità, comprendendo in tale cifra i casi di Evasione ed i casi di Abbandono (che sono prevalenti). L’Inserimento Scolastico Problematico -la Frequenza Irregolare (il minore frequenta saltuariamente o fa moltissime assenze, compromettendo la sua possibilità di seguire un percorso didattico e disturbando anche il percorso didattico della classe nella quale è inserito) -lo Scarso Rendimento Scolastico e la Demotivazione (il minore non riesce a produrre scolasticamente e sembra, soprattutto, che non abbia alcun interesse a produrre); -il Cattivo Inserimento nel Gruppo Classe (il minore è e si sente un “diverso” nel gruppo classe, pertanto non lega con i compagni, se ne sta per conto proprio, non partecipa alle attività di gruppo né scolastiche, né ludiche); -il Comportamento Aggressivo e Ribelle (il minore fa di tutto per rendersi antipatico ai compagni ed agli insegnanti, sino ad arrivare ad aggressioni fisiche nei confronti di qualcuno, quasi a cercare un’espulsione dalla scuola, che in questi casi, tra l’altro, non tarda mai ad arrivare). A San Cataldo gli Inserimenti Scolastici segnalati come “Problematici” non superano annualmente le dieci unità. Ma la realtà territoriale appare, di fatto, molto più numerosa, in quanto molte situazioni rimangono prive di segnalazione forse per lo sforzo sovraprofessionale degli insegnanti di contenere situazioni che contenibili non sono o per la scarsa fiducia aprioristica della Scuola nei confronti delle possibilità che i 108 Servizi concretamente hanno di porre rimedio a situazioni giunte oltre i livelli di guardia. Gli interventi che in questi casi vengono messi in atto dai Servizi competenti sono sempre “riparativi”, ossia: -l’Inserimento in Strutture Semiresidenziali – Semiconvitti o Centri Diurni per Minori - (“si tratta di un minore problematico, occorre, quindi inserirlo in una struttura particolare dove possa essere seguito in maniera particolare durante le lezioni e per il doposcuola!”) -l’Allontanamento dal Nucleo Familiare e l’Inserimento in Strutture Residenziali – Comunità Alloggio per Minori - (“si tratta di un minore multiproblematico, la sua famiglia non appare per il momento adeguata, lo affidiamo a personale esperto che possa “correggerlo” e riportarlo a comportamenti socialmente accettabili!”) Generalmente nulla viene attivato dai Servizi per Prevenire il Disagio Scolastico in tutte le sue forme. A pochi Enti Pubblici Territoriali viene in mente che un bambino “tutelato” nella sua normalità sin dal primo inserimento socioscolastico sarà un bambino con possibilità quasi nulle di sentirsi “diverso” rispetto ai coetanei, anche se appartiene ad un nucleo familiare deprivato socio-economicamente e culturalmente e, quindi, sarà un bambino che non adotterà comportamenti aggressivi nei confronti degli altri. Prevenire è meglio che riparare. Le Amministrazioni Comunali e Regionali ed i Governi Nazionali dovrebbero realmente capire la straordinaria importanza della Prevenzione e che ogni Euro speso in tal senso si trasforma matematicamente in migliaia di Euro risparmiati per interventi riparativi non effettuati, perché non ce ne sarà bisogno! Ogni Euro speso per “attrezzare” bene un bambino che si inserisce alla 1^ classe elementare (libri di supporto, quaderni, materiale di cancelleria vario, zaino, tute sportive, abbigliamento adeguato ecc.) farà sentire quel bambino uguale ai propri compagni, anche se appartenente ad un nucleo familiare che non può garantirgli tante cose. E farà sì che quel bambino si inserisca bene e con pari dignità sociale ed umana tra i suoi coetanei. 109 Continuare a seguire ogni minore in situazione di deprivazione socio-economica e culturale, per tutto l’arco della Scuola dell’Obbligo, potrebbe azzerare i casi di Evasione all’Obbligo Scolastico. Ed, altresì, ogni Euro speso per un Servizio Doposcuola adeguato e ben strutturato, corredato da supporti informatici, farà sì che ogni minore appartenente a un nucleo familiare deprivato socioeconomicamente e culturalmente, possa godere, sin dall’inizio e per tutto il percorso, di un valido supporto scolastico, come quello dei coetanei appartenenti a nuclei familiari dove i genitori hanno un livello culturale elevato e sono, quindi, in grado di “seguire” scolasticamente i propri figli ed intervenire a supporto di una lezione poco chiara o di un argomento trattato in classe che crea qualche difficoltà di comprensione. Seguire un minore scolasticamente consente, inoltre, di ottenere un costante feed-beck sulla sua situazione socio-ambientale e familiare: un bambino “seguito” e “supportato” difficilmente potrà diventare un “minore-caso”. Se qualcosa non và nell’ambiente familiare, sarà più facile percepirlo. Se il bambino è oggetto di violenze psicologiche o materiali, sarà più facile accorgersene. Se il bambino è oggetto di adescamenti o viene affidato con leggerezza ad altri, sarà possibile averne cognizione. Ed anche nella possibilità che tutto ciò, in qualche caso, non venga rilevato, ci si rende facilmente conto di come questa condizione sarà necessariamente percentualmente inferiore rispetto alla situazione attuale di costante “non controllo” delle situazioni ambientali e socio-familiari di centinaia di minori “a rischio” su ogni territorio comunale. Ancora, un Servizio di Scuolabus per tutte le zone periferiche della Città (che si va estendendo sempre più) e non solo per le zone non servite, contribuirebbe a facilitare l’accesso a Scuola ed a sgravare le famiglie meno abbienti dal peso dell’accompagnare a Scuola i più piccoli, che spesso finiscono per frequentare “quando non piove” (perché le madri non sono munite di auto) o quando le madri possono (perché libere da qualche impegno lavorativo che svolgono “a nero” saltuariamente). 110 Infine i contributi economici continuativi, temporanei o straordinari in favore delle famiglie bisognose nelle quali sono inseriti minori, costituiscono la “conditio sine qua non” per una permanenza che possa minimamente garantire il minore all’interno del suo nucleo familiare. I R.I.M. hanno fatto tanto in tal senso, ma l’apporto è insufficiente rispetto alle esigenze territoriali e, di anno in anno, la tendenza alle limitazioni nel finanziamento non promette nulla di buono. Anche la Legge Regionale per le Borse di Studio (non di merito) in favore delle famiglie con figli nella Scuola dell’Obbligo, è riuscita a fare qualcosa, anche se il suo principale difetto è la mancanza di tempestività. Infatti le famiglie ottengono i contributi (se tutto va bene!) dopo circa un anno dalla presentazione della domanda ed i ragazzi invece avrebbero bisogno di libri quaderni ed attrezzature all’inizio dell’anno scolastico e non alla fine! Ma occorre rendersi conto che tutti gli interventi di prevenzione, se messi in atto in modo mirato e costante, sono veramente in grado di capovolgere una certa situazione di allarme sociale che sempre più si va creando ed, in più, sono in grado di dimezzare, in tempi abbastanza brevi, le spese che vengono obbligatoriamente sostenute dai Comuni per l’attivazione dei Servizi Riparativi. Attualmente questo territorio è in attesa, per quanto riguarda i Minori ed i Giovani, assieme ai Comuni dell’Ambito Territoriale CL1 (Capofila il Comune di Caltanissetta) del finanziamento da parte della Regione Siciliana della Legge 285/97. San Cataldo ha effettuato per la sua parte di territorio una progettazione specifica che comprende: -l’attivazione di un Centro Ascolto e smistamento ai vari Servizi Sociali Territoriali; -Attività Pedagogiche Ricreative Sportive e Socio-Culturali per minori dai 6 ai 14 anni e Somme da destinare all'Acquisto di Materiale Scolastico ed Attrezzature d’ogni genere per Minori appartenenti a famiglie bisognose; 111 -Attività Ricreative, Sportive e d’Integrazione Socio-Culturale per Minori dai 15 ai 18 anni; - Attività di Ippoterapia per minori con problemi psicomotori e non. Si tratta ovviamente di poche gocce, in termini di Servizi, in un mare di bisogni, ma possono servire ad indicare una strada ed a far comprendere anche ai non addetti ai lavori l’importanza che gli Interventi Preventivi hanno nella Politica dei Servizi Sociali del Territorio. Desidero porgere un ringraziamento particolare al Comandante della Stazione dei Carabinieri di San Cataldo M.llo Carmelo Zimermani, col quale, nell’espletamento della mia attività professionale di Assistente Sociale, ho spesso condiviso interventi riparativi disposti dall’A.G. nei confronti ed a tutela di minori. A lui il mio “Grazie” per la particolare attenzione impiegata nella conduzione sensibile ed umana di “operazioni” che hanno riguardato minori di questo territorio e per la disponibilità nella fornitura di dati utili alla rilevazione dei bisogni della popolazione. Un altro sentito ringraziamento va alla Dott.ssa Maria Concetta Anzalone ed a Enzo Le Moli, colleghi Assistenti Sociali del Ser.T. di San Cataldo, per i dati forniti per la stesura di questa relazione e per la disponibilità e professionalità impiegate in ogni rapporto intercorso con l’Ufficio di Servizio Sociale Comunale. Desidero chiudere questo mio piccolo contributo, con una frase di Ernesto Rossi (giornalista, scrittore ed eroe della Resistenza durante la Seconda Guerra Mondiale): “Valgono poco le idee se non si è pronti a sostenerle con l’azione!”