Beata Gioventù

Transcript

Beata Gioventù
1
“BEATA GIOVENTÙ?
ISTRUZIONI PER L’USO”
Il titolo, volutamente provocatorio, del volume che avete tra le
mani, è lo stesso di un convegno, organizzato dall’Associazione
Nuova Civiltà, il 12 ottobre del 2002.
La richiesta di raccogliere tutti gli interventi di
quell’interessantissimo incontro in un libro, partì non tanto dai
relatori, ma quanto dal pubblico che intervenne in
quell’occasione, con un interesse e una partecipazione tanto ampia
che, confessiamolo, stupì gli stessi organizzatori del convegno.
Memore dei tanti congressi soporiferi che chi scrive ha dovuto
“subire” nel corso della sua formazione, “Beata gioventù?”
partiva da un’idea che intendeva coniugare cinema, psicologia e
sociologia, grazie all’uso di otto differenti clip, tratte da film
riguardanti il disagio giovanile, che introducevano i vari interventi
dei relatori presenti al convegno. Grazie all’uso del CD – Rom
(allegato alla pubblicazione), l’idea originaria è stata mantenuta,
ma come potrete notare se andrete avanti nella lettura, il volume
non vuole essere una mera trascrizione degli atti del convegno.
“Beata gioventù?” è infatti suddiviso in due differenti parti: nella
prima, Nuova Civiltà, viene presentata la nostra associazione
attraverso tre interventi, tanto differenti tra loro quanto lo sono gli
autori che li hanno scritti. Nel primo capitolo, Don Giuseppe
Anzalone, alla luce della sua trentennale esperienza nel lavoro coi
minori, fa un interessante excursus dei mutamenti avvenuti nelle
generazioni di giovani, dagli anni ‘60 fino ad oggi. Il secondo
capitolo, di stampo più tecnico, illustra tutte le attività portate
avanti fino ad oggi dall’associazione, riservando una piccola parte
ai cosiddetti “progetti per il futuro” e ai “sogni nel
cassetto” (come vedete non siamo superstiziosi!). Il terzo
intervento, scritto dal regista dell’associazione, Giuseppe Violo, ci
regala un particolarissimo “racconto” di quanto avvenuto negli
ultimi anni, dando voce direttamente ai volontari che hanno messo
in piedi il “Villaggio Rahamim”.
“Riflessioni sul disagio giovanile, tra psicologia, sociologia e
cinema” è il titolo della seconda parte del libro, quella che
2
raccoglie gli interventi dei relatori al convegno, scritti che però, è
bene precisarlo, sono stati ampiamente riveduti, arricchiti e
approfonditi da tutti gli scrittori dei vari capitoli. Due sono le
caratteristiche che accomunano i vari autori: la prima è che si
tratta di esperti, di chiara fama, provenienti da gran parte della
Sicilia, operanti in vari ambiti e a vario titolo nel settore del
disagio minorile; la seconda caratteristica è che nessuno degli
autori si limita ad essere un semplice “esperto”, ma ognuno di essi
lavora direttamente “sul campo” e a diretto contatto coi giovani.
Piero Cavaleri, che chi scrive considera come un vero e proprio
“Maestro”, è l’autore del quarto capitolo che, con brevi
pennellate, riesce a dare interessanti risposte e, merito ancor più
grande, a suscitare nuove domande su quale sia la direzione verso
cui la “mente umana” e l’identità giovanile sta evolvendo nelle
nuove generazioni.
Nel quinto capitolo Michele Lipani, partendo da dati statistici
inquietanti, col suo inguaribile ottimismo riesce a dare un
interessantissimo quadro sui “giovani” d’oggi che, lo
apprendiamo con gioia, nelle ultime ricerche sulla società post –
industriale, sono considerabili tali fino ai 34 anni.
Daniela Rossini Oliva, psicologa con esperienze transcontinentali,
nel sesto capitolo ci ricorda che, se è vero che l’adolescenza in
Italia rischia ormai di trascinarsi fino alla pensione, lo stesso non
si può affermare per i paesi del cosiddetto “terzo mondo”, dove si
rischia di essere adulti prima ancora di aver compiuto 10 anni!
Il settimo, l’ottavo e il nono capitolo, riproducono fedelmente un
coinvolgente dibattito creatosi nel corso del convegno: Dario
Caggia introduce interessanti riflessioni che partono dalla sua
decennale esperienza presso l’Istituto Penitenziario Minorile
“Malaspina” di Palermo, riflessioni che trovano quasi il loro
ideale completamento nelle vitali e “sanguigne” affermazioni di
Padre Enrico Schirru, che coi detenuti, giovani e meno giovani ,
lavora quotidianamente ormai da moltissimo tempo.
La risposta dell’Istituzione non tarda ad arrivare grazie a Caterina
Chinnici, Procuratore della Repubblica presso il Tribunale per i
Minorenni di Caltanissetta, che con un intervento filtrato alla luce
della sua personalissima esperienza, riesce a fornire alcuni “punti
fissi” nel difficile panorama del sistema giudiziario minorile.
3
Dopo aver “girovagato” per il mondo, toccando aspetti variegati
del disagio giovanile, il volume non poteva che concludersi con
un ritorno a San Cataldo, paese natio di Nuova Civiltà, grazie al
decimo capitolo scritto da Bianca Lo Bianco, che del nostro
territorio sa molto, essendo lei stessa una vera “combattente in
prima linea”.
Un sentito ringraziamento va al sindaco di San Cataldo, Dr.
Raimondo Torregrossa, e all’Assessore Regionale al Bilancio, On.
Alessandro Pagano, che con due brevi introduzioni scritte col
cuore, ci hanno fatto l’onore di aprire il presente volume.
Venendo agli stretti collaboratori, un altro grande grazie va al Dr.
Michele Genna, “obiettore di coscienza scelto”, che col suo
paziente e amorevole lavoro di rilettura, mi ha dato una grossa
mano nel portare a termine il lavoro.
E infine permettetemi di fare un ultimo ringraziamento
all’instancabile Alessandro Amico, il vero “motore pulsante” della
nostra associazione, che senza mai mettersi in mostra né apparire
(dote rarissima nel nostro nuovo millennio!), riesce a trainare tutte
le innumerevoli iniziative che sorgono nel nostro “Villaggio
nascente”. Conoscendolo so già che non approverà di essere stato
citato in questa sede, ma se non fosse stato per lui, oggi non mi
troverei nemmeno qui, per cui lo ripeto: grazie Alessandro!
4
PRIMA PARTE:
NUOVA CIVILTÀ
5
“NUOVA CIVILTÀ:
UNA FORESTA CRESCE SILENZIOSA”
di Giancarlo TIRENDI
Un po’ di storia tra riflessioni e ricordi
Il titolo di questo breve scritto è tratto da una raccolta di poesie,
“Stagione Desnuda” (vincitrice del “Premio Quasimodo” 2003),
di cui è autore Don Giuseppe Anzalone: compositore, cantautore,
poeta, scrittore, padre Anzalone, da tutti chiamato col solo nome
di battesimo, è soprattutto un Prete, di quelli con la “P” maiuscola
che, ormai quasi venti anni fa, ebbe l’idea di “comporre”
l’Associazione Nuova Civiltà.
Chi scrive ha avuto la fortuna di conoscerlo nell’ormai lontano
(sic!) 1988, in un incontro svolto nella propria classe di liceo:
Giuseppe venne da noi, adolescenti in parte inquieti, in parte
annoiati, senz’altro foruncolosi, a parlarci di quella associazione
che aveva creato alcuni anni prima, ma venne soprattutto ad
ascoltarci, facendoci mettere tutti in cerchio, come se, per un
attimo, quella classe si fosse trasformata in quello che (lo scoprii
solo dopo che si chiamavano così) era il prototipo di un “gruppo
di auto – aiuto”.
Da quell’incontro cambiarono, certamente, molte cose nella mia
vita: innanzitutto iniziai a frequentare quella strana associazione
che non rassomigliava a nulla di quanto avessi visto fino ad allora
(non era un gruppo religioso, né un gruppo politico, non era
un’associazione culturale, né tanto meno un ente di beneficenza/
volontariato….o forse era tutte queste cose assieme e anche
qualcosa di più). In secondo luogo, alcuni anni dopo, decisi di
iscrivermi al corso di laurea in psicologia e di iniziare il percorso
di formazione che mi avrebbe poi portato a diventare uno dei
“responsabili” di Nuova Civiltà.
Nuova Civiltà, come difficilmente si sarà capito dalle confuse
elucubrazioni personali riferite più sopra (possono essere ordinati
i ricordi emotivamente pregnanti?), è nata come associazione che
si occupava, e tutt’oggi si occupa, di prevenzione alle “devianze”
minorili e alle tossicodipendenze, avendo per obbiettivo la
promozione della cosiddetta “cultura della vita”. Caratteristica
6
saliente dei gruppi, portati avanti sin dal lontano 1985, è pertanto
quella di configurarsi come spazi di ascolto e di riflessione per i
più giovani, spazi in cui gli adolescenti, (tutti gli adolescenti e non
solo quelli “a rischio”), hanno la possibilità di mettere in
discussione la propria vita, i propri valori, le proprie idee al fine di
riscoprire, grazie ai “gruppi di auto – aiuto”, il proprio mondo
emotivo sommerso da maschere e corazze caratteriali.
Tutto questo potrebbe “suonare” come similare ad una
psicoterapia e potrebbe indurre a credere che la nostra
associazione sia rivolta a soli soggetti “devianti”, ma la riflessione
di Padre Anzalone parte proprio dal capovolgimento del concetto
di rischio: quali segnali, infatti, ci dicono “chi” o “che cosa” si
possa considerare a rischio di una futura tossicodipendenza o di
un altro genere di patologia, magari meno appariscente, ma
comunque altrettanto dannosa e dolorosa? Detto in altri termini,
non è possibile fare una scelta “a priori”, selezionando una sola
popolazione target su cui intervenire, quando è ormai chiaro a tutti
che il malessere giovanile è ampiamente diffuso, se pur in modo
sottile e silente, in tutta la popolazione.
Un malessere che ha portato, nell’ultimo decennio, ad
un’impennata nel numero di suicidi tra la popolazione giovanile,
oltre che ad una vera e propria epidemia di quelli che vengono
definiti “disturbi alimentari”(senza contare gli episodi di violenza
intrafamiliare di cui i telegiornali vanno particolarmente ghiotti).
Per tali ragioni Nuova Civiltà è nata come associazione che si
rivolge a tutti i giovani, considerati “a rischio” proprio perché si
trovano in una delicata fase di crescita
quale è quella
adolescenziale, giovani che, peraltro, si ritrovano a vivere in una
città come San Cataldo, che ha “il vanto” di essere uno dei
principali centri regionali di smistamento della droga.
Nuova Civiltà si è posta come obiettivo quello di intervenire sulla
prevenzione primaria, nella convinzione che agire
preventivamente possa essere molto più utile ed efficace (oltre che
“economico”) di un intervento messo in atto nella cosiddetta fase
di “recupero” (quando, cioè il disagio ha già trovato delle forme
patologiche per esprimersi).
7
Il Villaggio “Rahamim”
L’agire nel settore della prevenzione primaria (molto meno
“spettacolare” e “appariscente” rispetto a quello del recupero e
della riabilitazione) ha portato Nuova Civiltà a svilupparsi in
maniera “silenziosa”, attraverso i suoi “Centri di Solidarietà” di
San Cataldo, Caltanissetta e Sommatino sempre pronti ad
accogliere le esigenze dei giovani e delle loro famiglie, centri che,
a giudicare dalle anonime intimidazioni ricevute negli anni dalla
malavita locale, hanno comunque dato un certo “fastidio” a chi è
abituato ad operare incontrastato in un territorio come il nostro.
Nel 1997, dopo dodici anni di attività, la Regione ha voluto
premiare l’associazione consentendo che la stessa venisse iscritta
all’Albo degli Enti Ausiliari della Regione Siciliana, in qualità di
Associazione di Volontariato.
Ma è stato il 1999 che ha segnato quello che potremmo definire
come “l’anno della svolta” di Nuova Civiltà: il Consiglio di
Amministrazione dell’Ente Morale Fascianella, presieduto dal
Vescovo di Caltanissetta, in quell’anno ha infatti affidato
all’associazione la gestione degli immensi locali dell’Ente, così da
consentire che le attività portate avanti fino ad allora potessero
estendersi ad ulteriori ambiti rispetto a quelli cui l’organizzazione
si dedicava in precedenza.
Rimettere “in sesto” una struttura imponente quale è quella
dell’Ente Morale Fascianella non è stato facile: al loro arrivo i
volontari dell’associazione si sono trovati di fronte una struttura
tanto bella quanto deteriorata dagli anni. L’edificio, oggi
ribattezzato con il nome di “Villaggio Rahamim”, sorge infatti su
una superficie coperta di oltre 4000 metri quadrati, senza contare
la foresteria, il boschetto che lo circonda e il campo di calcio
(all’epoca fatiscente) che sono annessi alla struttura.
Coloro i quali oggi arrivano in visita presso il villaggio hanno
difficoltà a comprendere come sia stato possibile realizzare senza
alcun contributo pubblico il un nuovo campo di “calcio a sette”,
la nuovissima palestra in parquet, il laboratorio artistico dotato di
forno per ceramica e soprattutto il grande auditorium polivalente
che è dotato di tutte le attrezzature necessarie per lo svolgimento
di attività teatrali, cinematografiche, musicali e di intrattenimento.
8
In effetti può sembrare incredibile e sono certo che molti, mentre
in questo momento leggono queste righe, non crederanno che
quanto ho appena affermato possa essere vero: come è possibile,
infatti, realizzare opere murarie tanto imponenti senza ricevere
alcun finanziamento pubblico?
La risposta è più semplice di quanto non si creda: grazie
all’infaticabile opera di alcuni giovani che hanno trovato mille
piccoli modi per reperire i fondi per auto – finanziare
l’associazione, volontari che per tre anni hanno lavorato senza
alcuna retribuzione e soprattutto senza calcolare né le ore di
lavoro, né i giorni festivi sul calendario (spesso sono stati
impegnati anche a Natale, per Capodanno, a Pasqua) e,
francamente, credo che solo chi non è pagato per farlo può essere
tanto “folle” da lavorare così tanto e per così tante ore!
Oggi il Villaggio Rahamim ospita, ogni giorno, al suo interno non
meno di duecento giovani impegnati nelle attività più varie (che
saranno meglio descritte più in basso) e mentre scrivo queste righe
mi è impossibile nascondere l’orgoglio e la soddisfazione di aver
partecipato alla rinascita di un luogo tanto bello, nato per venire
incontro alle esigenze dei ragazzi, un luogo che per tanti anni è
stato, specifichiamolo, ottimamente gestito dai Salesiani che al
suo interno hanno ospitato migliaia di minori.
Il Villaggio, che l’associazione ha l’onere e il piacere di gestire, è
comunque aperto al territorio e a tutte le agenzie operanti su di
esso: per tale ragione, in linea con tale principio ispiratore, al suo
interno sono oggi ospitati l’Associazione “Teatro Insieme”, la
“Protezione Civile” di San Cataldo, il Ser. T. di San Cataldo (che
all’interno del Villaggio svolge alcune delle sue attività), il Club
Alcologico locale, il gruppo “Moai Tai”.
La Comunità Alloggio “Alba”
Il “Villaggio Rahamim”, in linea con la filosofia di Nuova Civiltà,
è nato come spazio sempre aperto all’esigenze dei giovani e delle
loro famiglie. Per tale ragione si è pensato di finalizzare una
piccola parte della grande struttura dell’Ente Morale Fascianella
alla realizzazione di una comunità alloggio.
9
La comunità alloggio “ALBA”, è stata ufficialmente inaugurata il
4 novembre del 2001, e accoglie, in forma convittuale, fino a un
massimo di nove minori di sesso femminile di età compresa tra gli
8 e i 18 anni.
Obiettivo principale della comunità è quello di offrire ai minori,
temporaneamente affidati alle cure degli operatori, una vita
serena, in un clima il più possibile vicino a quello familiare.
Obiettivo finale è quello di facilitare, ove possibile, i rapporti tra il
minore e i genitori sostenendo il reinserimento di questo presso il
nucleo familiare di origine.
L’ALBA vuole porsi come alternativa ai tradizionali istituti
educativi grazie alla sua struttura basata su un modello di tipo
familiare, divenendo espressione di una politica centrata sul
riconoscimento della soggettività di cui il minore, insieme alla sua
famiglia, si fa portatore.
I minori ospiti della comunità, inoltre, hanno la possibilità di
usufruire non solo degli spazi interni alla comunità stessa, ma
anche delle innumerevoli opportunità offerte dall’intero Villaggio
Rahamim (solo per citarne alcune, l’ampio auditorium/cinema, la
sala giochi e la scuola di danza).
All’interno della comunità opera un’equipe multidisciplinare,
diretta da un responsabile con esperienza pluriennale nel settore,
composta da sei educatori professionali, uno psicologo e un
assistente sociale.
In questi due anni di intenso lavoro, la comunità ha ospitato molte
minori, quasi tutte in età adolescenziale, tutte con storie familiari
estremamente difficili, se non addirittura tragiche, alle spalle. Le
strutture comunitarie, in quanto tali, non sono ovviamente la
panacea per tutti i mali e non potranno mai sostituire l’ambiente
familiare in cui un giovane dovrebbe crescere e maturare.
Cionostante, vista la fascia di età ospitata, è comunque possibile
affermare che la comunità resta una buona alternativa alla
famiglia e, alle volte, diventa l’unica alternativa possibile per
molte delle ragazze ospitate che, altrimenti, rischierebbero di
finire vittime della strada e dei suoi inevitabili pericoli.
Inserendosi nella tradizione “gruppale” di Nuova Civiltà, che da
sempre, come si diceva sopra, si è occupata della fascia
adolescenziale/giovanile, anche in comunità si è inoltre deciso di
10
adottare lo strumento dei “gruppi di confronto” e dei “gruppi di
auto – aiuto” che, affiancati ai colloqui individuali svolti con lo
psicologo, stanno cominciando a dare i primi frutti, specie dal
punto di vista della crescita personale attraverso il confronto tra
pari (che, come a tutti noto, è un elemento essenziale nella
crescita dell’adolescente).
Un capitolo a parte merita invece la “questione lavoro”, fronte sul
quale la comunità “Alba” si sta, vista l’età delle minori,
inevitabilmente trovando impegnata, con l’obiettivo di trovare un
inserimento occupazionale stabile per le ragazze ospiti della
comunità, una volta divenute maggiorenni.
Certamente tale obiettivo potrebbe apparire più una “impresa
disperata” che una reale possibilità, specie in un territorio come il
nostro così avaro di opportunità anche per i giovani laureati e per
quelli comunque abbondantemente formati, ma grazie ad un
recente partenariato stipulato con alcune agenzie formative, ad
alcuni progetti in cantiere e soprattutto grazie alla buona rete
strutturata in questi anni da Nuova Civiltà e alla sensibilità
dimostrata dalla popolazione sancataledese, la comunità sta già
riuscendo in tale impresa ed infatti, già oggi, alcune delle minori
ospiti sono
regolarmente collocate presso alcune imprese
commercali locali.
Il Progetto “Villaggio Rahamim”
Elaborato e presentato in collaborazione con l’Assessorato
Regionale alla Sanità, il Progetto “Villaggio Rahamim” ha preso il
via in data 07/10/2002.
Finanziato per il triennio 2002 – 2005 ai sensi del D.P.R.
09/10/1990 n°309, il progetto, attualmente in corso, si articola in
quattro differenti ambiti di attività:
1.Centro di aiuto e sostegno allo studio: rivolto a minori “a
rischio di devianza” di età compresa tra gli 11 e i 14 anni (tutti
segnalati dalle scuole medie inferiori e dalle varie agenzie
sociali operanti sul territorio), comprende al suo interno attività
che vanno dal doposcuola all’animazione mediante laboratori
ludico/formativi e attività sportive di vario genere.
11
2.Movimento famiglie: realizzato in collaborazione con il Ser. T.
di San Cataldo, il movimento ha la finalità principale di
coinvolgere i sistemi familiari dei minori inseriti all’interno del
progetto, così da realizzare un intervento che conosca e
identifichi i bisogni dei genitori, promuovendone nel contempo
le risorse e le capacità genitoriali.
3.Centro ascolto: in un contesto sociale come quello sancataldese
e nisseno, piuttosto refrattario a mettere a nudo le situazioni
problematiche, il Centro Ascolto si propone come luogo di
riferimento per le necessità dei più giovani, in quanto
perennemente sintonizzato con l’esterno e con la strada.
4.Centro di aggregazione per adolescenti: grazie alle grandi
risorse messe a disposizione dal Villaggio Rahamim, il servizio
si propone di rispondere, attraverso la promozione della cultura
della vita, a tutti quegli adolescenti che sentono il bisogno di
crescere, acquisire autonomia e soprattutto un’identità adulta. Il
centro di aggregazione opera in stretto concerto con l’unità di
strada dell’Associazione, formata da operatori e volontari
esperti, avente la funzione di calamitare i giovani a rischio di età
compresa tra i 14 e i 18 anni, verso le proposte
dell’associazione. Sempre nell’ambito del centro vengono
inseriti ragazzi con problematiche legate al mondo della
devianza, segnalati dal Tribunale per i Minori di Caltanissetta e
dall’Ufficio di Servizio Sociale per i Minorenni, agenzie con le
quali l’Associazione collabora ormai da anni.
12
Il laboratorio Cinematografico
All’interno del progetto “Villaggio Rahamim”, sono stati avviati,
come accennato più sopra, laboratori di vario genere. Tra essi, una
citazione a parte, meritano il laboratorio Cinematografico, quello
Cine – Televisivo e quello Teatrale.
Il Laboratorio Cinematografico, diretto da Giuseppe Violo, ha
visto tra i suoi tanti obiettivi, quello di consentire, attraverso l’uso
della recitazione, che i giovani partecipanti potessero superare
blocchi psicologici quali la timidezza o la paura di mettersi in
mostra, blocchi che tanto spesso finiscono per portare il giovane
verso un’acritica e pericolosa adesione alle regole del “gruppo dei
pari”; tale adesione, come a molti noto, non permette al giovane di
sviluppare ed esprimere la propria personalità e, nei casi più gravi,
è alla base di molte patologie fra le quali, spiccano, quelle
connesse alle tossicodipendenze.
Il successo riscosso dal laboratorio è stato superiore alle nostre più
rosee aspettative: centinaia sono stati i giovani coinvolti, a vario
titolo, nella realizzazione dei tre lungometraggi fino ad oggi
prodotti.
Il primo di essi, “Maschere”, è stato realizzato nel 1997 ed
affrontava, con toni drammatici ed evocativi, la tematica della
tossicodipendenza all’interno di una famiglia incapace di
ascoltarsi e più in generale di comunicare efficacemente.
Realizzato con pochissimi mezzi, il lungometraggio ha comunque
avuto un forte impatto sulla popolazione locale, promovendo un
grosso dibattito sull’argomento droga e fungendo da stimolo di
riflessione per gli studenti delle scuole e le loro famiglie.
Il secondo, “Come una finestra nel muro”, è stato completato nel
1999 e narrava le vicende di una comunità alloggio per minori,
con tutte le problematiche relative a tale difficile mondo. Diretto,
come il primo e il terzo lungometraggio, da Giuseppe Violo, il
film è stato realizzato col solo ausilio di personale volontario ed è
riuscito a coinvolgere un numero di minori ancora maggiore
rispetto al precedente “Maschere”.
“I have a dream” è il titolo del terzo e (fino ad oggi) ultimo
lungometraggio, ed è stato realizzato con un piccolo contributo
della Comunità Europea (19 milioni di lire): il film si colloca ad
un livello superiore rispetto ai due precedenti, sia per le
13
attrezzature utilizzate (telecamere e montaggio digitali), sia per la
qualità artistiche del lungometraggio in sé. Di stampo più
marcatamente “autobiografico” (il film narrava le vicissitudini di
un’associazione di volontariato che si occupa di minori a rischio,
tra le mille difficoltà di ogni giorno), “I have a dream” ha
partecipato con discreto successo a vari festival cinematografici
nella sezione “Esordienti”, riscuotendo un discreto successo e
classificandosi nono al Festival di Merano.
In merito alla
“risonanza” avuta a livello locale, non possiamo non sottolineare,
con grande orgoglio, che alla prima del film presso il cinema –
teatro Bauffremont di Caltanissetta, accorse un pubblico superiore
alle mille persone e oltre trecento rimasero all’esterno del cinema
che, per motivi di sicurezza, non poteva contenere ulteriori
spettatori!
Ma come si sa “l’appetito vien mangiando”, ed è forse per tale
ragione che, a dicembre del 2003, avranno inizio le riprese del
quarto film dell’associazione, sempre per la regia di Giuseppe
Violo. Al momento siamo autorizzati solo a comunicare (come si
usa fare a Hollywood!) che il titolo del film sarà “L’opera più
grande” e, nonostante l’attuale mancanza di qualsivoglia
contributo, è comunque possibile garantire che il lungometraggio
non farà rimpiangere i precedenti, grazie anche alla presenza
(quasi certa), di alcuni attori siciliani di fama nazionale che, viste
le finalità del lungometraggio, si sono dimostrati entusiasti di
partecipare, in piccoli “camei”, alla realizzazione del film.
Il laboratorio Cine – Televisivo
Nell’ambito delle attività previste all’interno del “Laboratorio
Cinematografico”, lo scorso anno è nata una nuova sezione che è
stata battezzata come “Laboratorio Cine – televisivo”.
Il laboratorio, sorto anche grazie ad una convenzione stipulata tra
l’Associazione Nuova Civiltà e l’emittente televisiva Tele Oasi
e.t.r., ha tra i suoi obiettivi principali quello di coinvolgere i
giovani in un’attività assolutamente unica nel suo genere, quale è
quella connessa alla realizzazione di programmi televisivi. Lo
14
scorso anno, a tal proposito, è stata realizzata una trasmissione
televisiva dal titolo “L’ora di Buco”, un quiz che ha coinvolto
oltre 220 giovani provenienti da 10 scuole superiori di San
Cataldo e Caltanissetta.
In un mondo sempre più caratterizzato dalla strapotenza dei mass
– media, che oramai influenzano pesantemente
i processi
decisionali ed evolutivi, soprattutto dei soggetti più giovani, i
ragazzi si trovano molto spesso impreparati e inermi di fronte a
dei messaggi che sono volutamente ambigui e astutamente mirati
ad un condizionamento occulto.
Nonostante quanto detto, però, l’atteggiamento utilizzato in
passato dalle agenzie educative, che per molto tempo hanno
tentato di demonizzare la televisione tentando di mostrarne gli
aspetti più deleteri, è risultato assolutamente sterile e, alle volte,
addirittura controproducente, specie di fronte al soverchiante
potere di un mezzo che è ormai prepotentemente entrato nella vita
quotidiana sin nei suoi più piccoli meandri, influenzando la
strutturazione cognitiva della nuova generazione, totalmente
cresciuta di fronte al “malefico elettrodomestico”.
Basandosi su una strategia antitetica a quella sopra esposta, il
laboratorio Cine - televisivo di Nuova Civiltà ha posto tra i suoi
obiettivi primari quello di sviluppare nei minori un’adeguata
capacità critico – valutativa rispetto al mezzo televisivo.
La strategia messa in campo parte dal presupposto che solo chi fa
televisione è realmente in grado di comprendere come essa sia
strutturata, per cui l’idea sulla quale è fondato il laboratorio è
quella che corrisponde ad una frase del celebre conduttore
televisivo Gianfranco Funari, secondo il quale “La televisione è
meglio farla che guardarla”.
Il laboratorio, ad oggi, è una creatura appena nata, ed è quindi
difficile prevederne gli sviluppi, ma è innegabile che, alle spalle di
esso, si celi un sogno (forse un po’ folle) che speriamo un giorno
di riuscire a realizzare: creare una televisione locale tutta gestita e
realizzata dai nostri ragazzi, una televisione differente rispetto a
quelle cui siamo, purtroppo, attualmente assuefatti, una TV
insomma che possa essere uno spazio in cui poter davvero
crescere e maturare, creando, oltretutto, nuove e differenti
15
possibilità occupazionali per i giovani del nostro territorio che,
come a tutti noto, ne avrebbero un grande bisogno.
Il laboratorio Teatrale
“Nuova Civiltà” non è solo il nome della nome della nostra
associazione, ma è anche il titolo di uno dei tanti musical, scritti (e
composti) da don Giuseppe Anzalone: fin dalle sue origini, quindi,
la nostra organizzazione ha visto fiorire al suo interno delle
attività teatrali che, con gli anni, si sono strutturate in un vero e
proprio “Laboratorio teatrale”.
Obiettivo ultimo del laboratorio (oggi inserito nell’ambito delle
attività previste nel Progetto “Villaggio Rahamim”) è,
ovviamente, quello di coinvolgere un ampio numero di giovani in
un’attività ricreativo – formativa che porti avanti i valori propri di
Nuova Civiltà che, in un’unica espressione, potremmo riassumere
come collegati alla cosiddetta “Civiltà della bellezza” (n.d.r. per
comprendere meglio di cosa si stia parlando consigliamo
un’attenta lettura del capitolo scritto da Padre Anzalone in questo
stesso volume).
Il laboratorio, diretto da Eugenio Sorce, ha realizzato negli anni
svariati copioni teatrali e alcune rassegne di cabaret, che hanno
dato, a molti giovani talenti locali, la possibilità di esprimere tutte
le loro capacità di fronte ad un grande pubblico. Tra le altre
manifestazioni vanno menzionate “Il Teatro di quartiere”,
consistente in una serie di rappresentazioni teatrali realizzate in
alcuni quartieri di San Cataldo accomunati da un alto numero di
minori “a rischio” (Mimiani, Borgata Palo, Cristo Re,ecc.) ed in
altre città della Sicilia (Enna, Caltanissetta, Alimena e Villarosa).
Le attività teatrali, oltre gli obbiettivi sopra esposti, in alcune
occasioni hanno inoltre avuto un obiettivo “solidaristico”, come in
occasione della raccolta fondi per la Comunità per
tossicodipendenti di “Porto Velho” (Brasile), durante la quale
l’associazione ebbe il piacere di avere tra i suoi ospiti Enrico
Guarneri, in arte “Litterio”, comico la cui fama ha ormai valicato i
confini della nostra regione.
Al fine di “inaugurare” degnamente il nuovissimo auditorium
realizzato presso il Villaggio Rahamim, sono state organizzate una
16
“Rassegna Teatrale Regionale” che ha coinvolto compagnie semi
– professionistiche provenienti da Vittoria, Sciacca, Castelvetrano,
Grotte, Campobello di Licata, Enna,
Campofranco ed una
“Rassegna Jazz”, con ospiti di livello internazionale, tra i quali è
necessario menzionare Dado Moroni, Adrian West, Enzo Randisi,
Fabrizio Bosso, Giovanni Mazzarino.
In ogni caso, in questa sede, sarebbe comunque troppo lungo
citare tutti gli spettacoli messi in scena in questi quasi venti anni
di attività, ma sicuramente è necessario ancora ricordare la
manifestazione “Il Ficodindia”, realizzata in estate per vari anni
consecutivi, che è riuscita a radunare, grazie ad una formula
liberamente ispirata alla “Corrida” di Corrado Mantoni, migliaia
di persone in piazza.
Sempre nell’ambito del laboratorio, a partire da quest’anno, è
stato inoltre istituito un Laboratorio di Cabaret denominato
“Felix…quasi
meglio di Zelig!”: la finalità sarà quella di
coinvolgere un ampio numero di giovani provenienti dalle scuole
superiori e dalla città di San Cataldo in genere, con l’obbiettivo
ultimo di realizzare delle manifestazioni di piazza e, se tutto andrà
come previsto, anche una trasmissione televisiva da trasmettere su
un’emittente locale.
Le scuole di danza
Successivamente alla completa ristrutturazione della palestra
interna al Villaggio Rahamim, sono state avviate due differenti
scuole di danza: la prima, denominata “Xòros” è diretta da Chiara
Vancheri, una ballerina con pluriennale esperienza nel settore
della danza classica e moderna.
La scuola, aperta alle ragazze della comunità alloggio “Alba” oltre
che a tutti coloro i quali ne fanno richiesta, coinvolge oggi quasi
settanta ragazze, che si trovano spesso impegnate non solo nel
tipico (e tradizionale) “saggio di fine anno”, ma anche in molte
altre opportunità teatrali, cinematografiche e televisive, grazie al
suo operare in strettissima sinergia con gli altri laboratori attivati.
Oltre alla scuola di danza è stata inoltre avviata, già ormai da tre
anni, una “Scuola di balli latino – americani di gruppo”, diretta da
Luisa Meli. La scuola, che è arrivata a contare fino a 120 iscritti, è
17
ormai divenuta un valido punto di aggregazione per moltissime
persone (in prevalenza di sesso femminile), che grazie ad essa
riescono a trascorrere piacevolmente alcune ore del pomeriggio,
apprendendo, peraltro, i più attuali balli di gruppo da esibire,
successivamente, in discoteca.
Il progetto “Obiettivo”
Quelle descritte fino ad ora sono alcune delle molte attività che
vengono svolte all’interno del “Villaggio Rahamim”. Ma Nuova
Civiltà non è un’associazione che si limita ad operare sui territori
di San Cataldo e Caltanissetta.
Nel novembre del 2002 è stata infatti avviato, presso la città di
Palermo, un innovativo intervento, di carattere sperimentale, che è
stato denominato “Progetto Obiettivo”.
Ideato e realizzato in stretta cooperazione con il Centro di Prima
Accoglienza “F. L. Morvillo” e con l’Ufficio di Servizio Sociale
per i Minorenni di Palermo, sotto la supervisione e con il
patrocinio del Centro per la Giustizia Minorile, il progetto è stato
finanziato dal Comune di Palermo, ai sensi della Legge 285/97,
per il triennio compreso tra il 2002 e il 2005. Il progetto ha la sua
sede operativa a Palermo in Via Cilea angolo Via Perosi, in una
struttura messa a disposizione dal Centro per la Giustizia
Minorile. Destinatari dell’intervento sono dieci minori della
cosiddetta “area penale”, di età compresa tra i 14 e i 17 anni, tutti
segnalati dal Centro di Prima Accoglienza, sottoposti alle misure
cautelari delle “Prescrizioni” o della “Permanenza in casa”.
Normalmente i minori sottoposti a tali misure vengono seguiti,
prevalentemente, dalle sole assistenti sociali dell’U.S.S.M., che
hanno il compito di seguire una grossa mole di casi, attivando per
ognuno di essi tutte le risorse già presenti nei vari territori di
appartenenza (sempre che di risorse ce ne siano) e realizzando,
laddove possibile (e qualora il minore sia disponibile), un
programma di “messa alla prova” che il ragazzo dovrà seguire per
ottenere la cancellazione del reato.
Il carattere sperimentale del Progetto Obiettivo, che non si
sostituisce, ma affianca e potenzia il lavoro portato avanti
dall’U.S.S.M., è dato dal fatto che ad ogni minore viene assegnato
18
un educatore domiciliare che ha il compito di operare direttamente
sul territorio di appartenenza del ragazzo, attivando tutte le risorse
presenti nella rete familiare e amicale del minore e realizzando,
assieme a quest’ultimo, tutta una serie di attività ricreativo/
formative, con lo scopo finale di promuovere processi di crescita a
partire dalla tragica esperienza del reato.
L’opera dell’educatore domiciliare è inoltre affiancata da
un’equipe di psicologi, assistenti sociali, counselor e pedagogisti,
che hanno il compito di operare non solo sul minore stesso, ma
anche sul sistema familiare e sulla rete di appartenenza del
minore. Le attività dell’equipe, insieme a tutta una serie di altre
attività, sono svolte presso un centro diurno, denominato “Centro
di rete”, frequentato dai minori in alcuni giorni della settimana
Nel dettaglio i settori nei quali è suddivisa l’operatività del
progetto:
1. Centro di Rete: si tratta di un centro di sostegno e
prevenzione aperto al territorio, rivolto principalmente ai
minori afferenti al Progetto Obiettivo e ad altri minori
(facenti parte della rete del ragazzo, ma non solo). Al suo
interno si svolgono attività formative di gruppo (come
nella tradizione di Nuova Civiltà), attività di animazione,
sportive, ricreative e laboratori di vario genere.
2. Educativa domiciliare e di strada: le attività all’interno
del Centro di rete sono sinergicamente connesse con
quelle svolte direttamente sul campo grazie all’azione
svolta dagli educatori domiciliari.
3. Sportello di orientamento e ascolto a minori e famiglie:
una particolare attenzione è rivolta alla famiglia in quanto
soggetto significativo della rete primaria del minore.
All’interno dello sportello le attività sono suddivise in
“gruppi famiglia”, “spazi di ascolto” e “servizio di
consulenza”, tutte tenute da uno staff composto da
psicologi, assistenti sociali ed educatori.
L’Oasi “Shalom”
Circa quindici anni fa venne donata a Padre Anzalone, da una
famiglia vicina all’associazione, un appezzamento di terra in
19
contrada San Leonardo Zubbi (nel territorio di Caltanissetta) con
un piccolo rustico di casa ad un piano.
Per molti anni, con i pochissimi mezzi di cui l’associazione
disponeva, i volontari hanno lavorato improvvisandosi muratori,
imbianchini, falegnami, così da ottenere quella che, alcuni anni
dopo, è stata ribattezzata come “Oasi Shalom”. L’Oasi, che negli
anni è divenuta una graziosa villetta immersa nel verde, con un
adiacente campetto in terra battuta, oggi è utilizzata come “Centro
di formazione” per gli operatori di Nuova Civiltà e per tutti coloro
i quali ne fanno richiesta.
Molte sono le attività che si svolgono all’Oasi Shalom: incontri di
spiritualità, laboratori ecologici, Meeting tematici con i ragazzi
frequentanti l’associazione, ma l’attività principale svolta al suo
interno è certamente quella costituita dai “Gruppi N.I.P.”.
N.I.P. è l’acronimo di New Identity Process, un percorso di
crescita, di stampo umanistico e di origine americana, ideato da
Dan Casriel: l’obbiettivo di tale percorso, proposto a tutti gli
operatori di Nuova Civiltà, è quello di consentire che l’individuo
si riappropri della propria parte emotiva liberandosi dalla corazza
caratteriale che non gli consente di esprimere liberamente il suo
vero essere e il suo sé (n.d.r. per una descrizione più precisa del
N.I.P. confrontare, su questo stesso volume, il capitolo di Don
Giuseppe Anzalone).
Gli obiettivi futuri
Le attività già in atto sono tante, ma la bellezza e la grandezza dei
locali affidati da Monsignor Alfredo Maria Garsia a Nuova Civiltà
e l’entusiasmo che si è diffuso e continua a pervadere i vecchi e i
nuovi volontari che quotidianamente affollano l’associazione, ha
spinto i responsabili della stessa a progettare a medio - lungo
termine le attività che verranno realizzate all’interno della
struttura nei prossimi cinque anni. Pensare a lungo termine si è
inoltre rivelato indispensabile vista le complessità connesse alla
gestione dei locali dell’Ente Fascianella e i lavori di
ristrutturazione necessari per rimettere in piedi il “Villaggio”.
Quelle che andremo di seguito ad elencare, costituiscono pertanto
le principali linee di sviluppo che l’Associazione intende portare
20
avanti nei prossimi anni, con l’obiettivo finale di realizzare un
piccolo “sogno”, ovvero creare uno spazio nel quale i ragazzi del
nostro tormentato territorio potranno crescere e divertirsi,
trovando nel contempo un senso alla loro vita.
Gli interventi strutturali
I locali dell’Ente Fascianella sono stati edificati a cavallo tra la
fine degli anni cinquanta e i primi anni 60. Da allora ad oggi pochi
sono stati gli interventi di manutenzione straordinaria attuati sulla
struttura che, al momento della stipula della convenzione tra
l’Associazione Nuova Civiltà e l’Ente Fascianella, risultava
sprovvista di servizi igienici efficienti e di impianti adeguati alle
normative vigenti in materia di sicurezza. Dei moltissimi lavori di
ristrutturazione, messi in atto in questi quattro anni
dall’associazione Nuova Civiltà , abbiamo già accennato più
sopra.
Ma è proprio quando un sogno comincia a realizzarsi che viene
voglia di portarlo a termine così da renderlo sempre più reale. Per
tale ragione, con l’aiuto della Provvidenza, nei prossimi anni
speriamo di poter realizzare i seguenti interventi strutturali:
 Realizzazione di una piscina semi – olimpionica, da collocare
all’interno del boschetto facente parte del villaggio, così da
consentire ai giovani della nostra città di poter fruire di una
grande struttura acquatica senza doversi recare al di fuori del
paese.
 Creazione di spazi verdi attraverso la sistemazione del boschetto
annesso alla struttura che verrà dotato di percorsi rustici,
panchine, e tavoli da picnic.
 Ripristino della foresteria adiacente al boschetto: ampia circa
500 mq, la struttura necessita di interventi radicali di
rifacimento. La stessa sarà successivamente adibita a molteplici
attività, come ad esempio una “ludoteca ecologica” per bambini.
 Utilizzo degli ampi spazi verdi annessi alla struttura dell’Ente
attraverso la creazione di nuovi campi di pallavolo, tennis,
basket, squash.
 Creazione di una piccola tipografia gestita solo ed
esclusivamente dai minori afferenti all’associazione, con lo
21
scopo di formare gli stessi ad una nuova professionalità e dare
loro la possibilità di creare una “micro – impresa”.
 Potenziamento della biblioteca (che attualmente già conta più di
un migliaio di volumi) tramite l’acquisto di nuovi testi,
l’informatizzazione della stessa e la creazione di una
“fumettoteca”.
I progetti futuri
Le idee da realizzare e i bisogni da soddisfare sono tantissimi:
alcuni dei progetti sotto elencati sono già stati presentati e si spera
vengano finanziati attraverso fondi comunali, regionali o
nazionali. Altri sono ancora soltanto dei sogni, delle idee in
gestazione che, ce lo auguriamo, forse un giorno diverranno dei
servizi concreti da offrire ai giovani della nostra regione.
Il progetto “Go On!”
Nato da un partenariato stipulato con il Comune di San Cataldo,
l’Ufficio di Servizio Sociale per i Minorenni di Caltanissetta,
l’IALCISL Sicilia, l’Associazione Antiracket ed Antiusura della
Provincia di Caltanissetta e il Ser.T. di San Cataldo, il Progetto
“Go On” intende venire incontro ad un’esigenza fortemente
sentita dalla totalità delle comunità alloggio che ospitano soggetti
adolescenti (ovvero strutture omologhe alla Comunità “Alba”
gestita dall’associazione).
Il Progetto “Go On!” si propone infatti di creare un Gruppo –
appartamento che ospiterà fino ad un massimo di 5 giovani di
sesso femminile, di età compresa tra i 18 e i 25 anni, tutte
provenienti da passate esperienze di istituzionalizzazione, con un
sufficiente livello di autonomia, ma nel contempo carenti di
risorse familiari e non ancora in grado di auto – gestirsi, perché
prive di adeguate risorse finanziarie/relazionali e di
un’occupazione lavorativa stabile.
L’appartamento ospiterà giovani di sesso femminile e di qualsiasi
nazionalità: la scelta di accogliere anche soggetti extra –
comunitari nasce dall’esperienza accumulata in questi anni
dall’Associazione Nuova Civiltà nella gestione della Comunità
22
Alloggio “Alba”. La comunità, infatti, molto spesso, si è trovata
ad ospitare minori straniere arrivate in Italia attraverso i circuiti
malavitosi legati al mondo dello sfruttamento della prostituzione,
minori che sono ormai state tristemente ribattezzate come le
“schiave del terzo millennio”.
Spesso, dopo un'esperienza di comunità alloggio, la stessa
comunità può diventare "stretta", non rispondere più ai bisogni del
ragazzo divenuto maggiorenne, capace di esprimere autonomia
personale e desideroso di autogestirsi, ma non ancora in grado di
vivere da solo. Il "Gruppo appartamento" del progetto “Go On!”
sarà pertanto una "comunità residenziale" prevalentemente
autogestita e sarà organizzata come una "comunità alloggio di
secondo livello”, un luogo dove le autonomie acquisite nelle
precedenti esperienze comunitarie si concretizzeranno
nell'organizzazione della casa, del tempo libero, dell'autonomia
personale.
Gli utenti del gruppo – appartamento saranno tutti inseriti su
segnalazione dei servizi sociali, delle organizzazioni del terzo
settore, del Tribunale per i Minorenni e da parte di tutti gli altri
organi che, a vario titolo, si occupano di soggetti della fascia di
età interessata dal progetto. Prerequisito fondamentale alla buona
riuscita dell’intervento sarà quello relativo alla volontarierà della
scelta, da parte dell’utente, di vivere all’interno della casa, in
quanto, viste le premesse da cui parte l’intervento, solo una diretta
presa di responsabilità da parte dei giovani protagonisti del
progetto, potrà assicurare il successo dello stesso e sviluppare un
adeguato grado di autonomia nei soggetti coinvolti.
I partner di progetto garantiranno, inoltre, la buona riuscita
dell’intervento dal punto di vista dell’inserimento occupazionale
stabile dei giovani utenti i quali, grazie agli accordi presi, al
termine del periodo di residenza nella casa, avranno raggiunto un
adeguato livello di autonomia da tutti i punti di vista.
Il progetto In viaggio In...sieme
Omologo del Progetto “Obiettivo”, attualmente in fase di
svolgimento a Palermo, il Progetto “In viaggio In..sieme” si
rivolgerà ad un numero di nove minori di entrambi i sessi entrati
23
nel circuito penale, segnalati dall’Ufficio Servizio Sociale per i
Minorenni di Caltanissetta, di età compresa tra i 14 ed i 18 anni
non compiuti. Tale utenza, appartenente ad un sistema familiare
complesso e multiproblematico, presenta un basso livello di
scolarità e risulta frequentemente deprivata affettivamente e
cognitivamente. “L’utenza indiretta” sarà quindi costituita dalle
figure significative della rete familiare e sociale del minore.
La premessa epistemologica, dalla quale muove il progetto,
scaturisce da importanti riflessioni e dall’esperienza accumulata
dall’Associazione Nuova Civiltà in questi anni di attività coi
minori, oltre che nella gestione del Progetto “Obiettivo” nella città
di Palermo. L’idea di partenza è infatti quella secondo cui è
necessario, tutte le volte in cui è possibile, agire direttamente sul
territorio di appartenenza dei minori e, più precisamente, sulla
“strada”, luogo privilegiato di aggregazione e unico spazio nel
quale i giovani riescono a manifestare la loro identità più
completa. Tale premessa include anche l’istituzione di un centro
diurno al quale appoggiarsi per riflettere, riunirsi, preparare,
organizzare, incontrarsi e far incontrare. Tale centro, però, lungi
dal configurarsi come unico luogo di svolgimento delle attività,
sarà invece visto come vero e proprio “Centro di rete”, ossia
come base operativa dalla quale fare partire tutte le attività che
saranno, successivamente, promosse sul campo e come luogo di
incontro delle reti primarie dei ragazzi e delle reti dei Servizi che
gravitano sinergicamente attorno ad essi.
Partner di progetto sono: il Comune di Caltanissetta, il Comune
di San Cataldo, il Comune di Serradifalco, l’Ufficio di Servizio
Sociale per i Minorenni di Caltanissetta, il Centro di Prima
Accoglienza “F.L. Morvillo” di Palermo, il Centro Giustizia
Minorile di Palermo, il Ser. T. di San Cataldo.
Il progetto “Child”
L’istituzione di un “Centro per famiglie multiproblematiche”
finalizzato alla cura e al recupero delle famiglie maltrattanti/
abusanti è il fine ultimo del Progetto Child.
La problematica dell’abuso, oggi più di ieri, tocca ripetutamente
l’insieme delle esperienze passate e presenti di tutti coloro i quali
24
lavorano a stretto contatto con i bambini: insegnanti delle scuole
elementari e medie, assistenti sociali, operatori sanitari, operatori
del mondo della giustizia ed altri. Ciononostante, l’unico centro
specialistico relativo a tali problematiche, attualmente esistente,
si trova nella Sicilia occidentale, a Palermo, e risulta largamente
insufficiente per soddisfare tutte le richieste presenti in una
regione grande come la nostra. Il “Centro per Famiglie
Multiproblematiche” proposto dall’Associazione Nuova Civiltà
attraverso il Progetto “Child” intende pertanto colmare una grave
lacuna, soddisfando nel contempo un’esigenza ormai sempre più
pressante e non ulteriormente ignorabile da parte delle istituzioni.
Il Centro opererà in stretta collaborazione con la Comunità
Alloggio “Alba”, permettendo alle minori ospitate di poter
rientrare quanto prima, laddove la terapia avrà buon esito,
all’interno del proprio nucleo familiare d’origine.
A tal proposito non si può fare a meno di sottolineare
l’entusiastica accoglienza riscossa dall’idea progettuale, quando la
stessa è stata sottoposta agli operatori sociali operanti nella
Provincia di Caltanissetta; congiuntamente altre adesioni sono
state raccolte a Palermo e a Messina presso esperti di terapia
familiare che hanno espresso una loro piena disponibilità a
collaborare all’intervento in qualità di supervisori – esperti.
Progetto Anorexia
Negli ultimi anni le problematiche connesse ai cosiddetti “disturbi
alimentari” (anoressia, bulimia ecc.) hanno avuto una diffusione,
a dir poco, allarmante tanto da far pensare a una vera e propria
“epidemia”, specie tra le adolescenti di sesso femminile.
Molte sono le tecniche di cura approntate per cercare di
combattere questi disturbi che, nei casi più gravi, possono anche
avere un esito mortale.
Gli studi più recenti hanno comunque confermato che di fatto non
esiste una sola possibile cura che possa sconfiggere tale male,
preferendo affrontare il problema con una pluralità di terapie che,
da caso a caso, possono includere il trattamento farmacologico, la
terapia familiare, la terapia di gruppo e molto altro ancora.
25
Tra le tecniche di cura più innovative vi è da annoverare il
ricovero del soggetto ammalato presso una comunità terapeutica
(comunità che, solo a titolo esemplificativo, potremmo paragonare
a quelle ben più diffuse nel settore del recupero dei
tossicodipendenti). Il momentaneo allontanamento del soggetto
affetto da disturbi alimentari dal proprio nucleo familiare, può
infatti spesso essere un’utile misura terapeutica, specie nel caso di
pazienti sofferenti di anoressia e bulimia che, sovente,
intrattengono rapporti fortemente invischiati e patogeni con gli
altri membri appartenenti al proprio sistema familiare.
Attualmente in Italia esiste un’unica comunità terapeutica, nel
Veneto, rivolta a soggetti affetti da disturbi alimentari. Uno dei
progetti (o forse dovremmo dire dei sogni) che Nuova Civiltà
intende realizzare nei prossimi anni è, per l’appunto, quello di
aprire una comunità terapeutica che possa accogliere ragazze
afflitte da questa gravissima malattia. A tal proposito sono già stati
presi i primi contatti con psichiatri e terapeuti già operanti presso
le A.S.L. del nostro territorio, oltre che con i responsabili della
struttura sopra citata che hanno dichiarato di essere pienamente
disponibili a collaborare nelle attività di supervisione della futura
comunità.
Conclusioni…?
Ci sarebbero ancora mille altri progetti ed idee di cui parlare,
senza contare le tante piccole attività che ogni giorno vengono
svolte presso il nostro Villaggio e che in questo capitolo, per
ragioni di spazio, sono state volutamente omesse.
Scopo di questo scritto era quello di illustrare le principali attività
svolte dalla nostra associazione, nella speranza di poter suscitare
la curiosità in chi legge e soprattutto la voglia di venirci a trovare
o, meglio ancora, quella di collaborare con noi nelle attività già in
cantiere o con nuove idee verso le quali siamo sempre apertissimi.
Personalmente posso solo aggiungere che, quando Alessandro
Amico mi chiamò tre anni fa per venire a collaborare con
l’Associazione, mi trovai di fronte ad un difficile dilemma: in quel
periodo lavoravo a Palermo presso una ditta, ero stato assunto a
tempo indeterminato, e godevo di tutte le sicurezze (e le noie) che
26
sono la delizia (e la croce) di ogni normale impiegato; Nuova
Civiltà rappresentava l’incertezza…
Ma la nostra associazione e il Villaggio Rahamim sono come una
visione, un sogno da potere costruire, un giorno dopo l’altro,
attraverso la volontà, i sacrifici e gli sforzi di tante persone unite
verso un unico ideale.
Suona un po’ retorico, lo so, ma è la pura verità!
E, fino ad oggi, non mi sono mai pentito della scelta fatta…..
LA STORIA DI UN
GERME CONTAGIOSO
di Giuseppe VIOLO
Per raccontare questa storia dovrò parlare, dal punto di vista dei
volontari, di quattro anni della nostra vita.
In pratica dal Gennaio del 1999, quando all’Associazione Nuova
Civiltà fu affidata la gestione dell’Istituto “Casa del Fanciullo
Notar Luigi Fascianella”.
Per fare questo dovrò raccogliere la memoria di un esiguo,
risicato, manipolo di volontari, che con grande VOLONTÀ, ha
dato vita ad un sogno. Rispettando, oltretutto, gli impegni presi
verso coloro che hanno dato fiducia all’Associazione Nuova
Civiltà.
Uomini e donne che hanno costruito un Villaggio “Rahamim”, che
da un progetto sulla carta quale era, si è trasformato in una realtà
tangibile da toccare con mano. Dando la possibilità soprattutto ai
giovani, ma non solo a loro, di potersi esprimere al loro interno,
attraverso le proprie emozioni, fatte di speranze, umori diversi,
27
credi diversi, gioia, dolore, voglia di vivere ed a volte di spegnere
tutto.
In ogni caso, ruotando sempre all’interno di un
caleidoscopio d’immagini dove ognuno ha la possibilità di tirare
fuori, le proprie capacità, raffinandone le potenzialità attraverso
percorsi che privilegiano l’amore per la vita.
Tutto questo per trovarsi come compagine attiva nel nostro tessuto
sociale, in modo da potere esprimere quella VOLONTÀ positiva,
che può aiutare la nostra società a fare dell’uomo la sua priorità
assoluta.
“VOLONTÀ”, proprio così, si tratta semplicemente di scoprire il
significato profondo di questa parola, perché risiede in essa il
senso delle scelte di questi nostri amici, di cui andrò adesso a
raccontare attraverso la storia di un “germe contagioso” che li ha
infettati irrimediabilmente.
Un gruppo d’amici che, attraverso la VOLONTÀ, esercita quella
facoltà che risiede nella mente e nel cuore degli uomini, di
scegliere e di portare a termine concretamente, un atteggiamento
atto al raggiungimento di determinati fini.
È attraverso l’intelligenza però, che si crea e si sviluppa un
connubio perfetto, che pone l’individuo e le sue scelte su di un
piano discrezionale, che fa della VOLONTÀ strumento perfetto
per raggiungere la fine del percorso scelto.
Intelligenza come facoltà della ricerca della verità, quindi giudizio
sulla realtà percepita, attraverso le cose e gli eventi che ci
circondano e che mutano, susseguendosi su di un tracciato, scelto
o impostoci dagli eventi stessi.
Ecco che a questo punto la VOLONTÀ, viene fuori
prepotentemente, come atto concreto del bene universale e
perfetto.
Un principio che muove, non in senso assoluto, ma dando priorità
all’essere spirituale che si proietta verso la conquista di quei
valori, che gli diano quella perfezione, in linea di principio
all’essere stesso e quindi in prospettiva delle sue finalità, che altro
non sono, che la ricerca del bene assoluto e della felicità.
Detto questo, andiamo a scoprire dove muovono i loro passi i
nostri amici.
Quattro mila metri quadri di struttura, decine e decine di stanze,
lunghissimi corridoi, che s’intersecano e sì perdono tra un piano e
28
l’altro. Quasi ci si perde, angoli bui, stanze che nascondono chissà
quali sorprese, quadri elettrici ad ogni angolo, che comandano
chissà cosa. Un locale caldaia enorme, pieno di manometri e
pulsanti, ma qual è quello che fa avviare tutto, difficile da
scoprire. Una cucina industriale, con fornelli enormi e pentoloni
che ricordano le vignette umoristiche dei cannibali che cucinano
gli esploratori. Sul tetto una distesa di pannelli solari, per scaldare
cosa non si sa, perché è difficile trovare la caldaia!
Tre piani in tutto, al pianoterra un salone utilizzato in passato
come refettorio, adesso pieno di macchine per un laboratorio di
meccanica.
All’ingresso, la statua della Madonna che quasi sembra dirci “Io
sono qui per proteggervi, ma ragazzi datevi da fare ”.
Un corridoio principale dove si affacciano decine di aule, un altro
corridoio si interseca al primo e un altro ancora si unisce a quello
successivo, che a sua volta arriva ad una prima rampa di scale, che
unisce altri corridoi ed altri ancora.
Insomma, sembra di stare sul grande raccordo anulare di Roma.
Con una differenza: sul gran raccordo c’è un traffico enorme,
mentre sul nostro non circola quasi nessuno. Tranne che per
qualche ora della mattina e solo in due ali della struttura, si nota
un movimento causato da due scuole ospiti, una di formazione e
una di ragioneria privata.
Per il resto della giornata il silenzio assoluto, solo qualche rumore
sinistro si ode provenire da punti non meglio precisati.
Alcune voci percorrono questi corridoi un po’ spaesate e, alzando
il tono della voce, cercano di farsi compagnia a vicenda.
GLI AMICI:
“Sentite, ehi ! Dico a voi Alessandro e Giuseppe, questo posto è
enorme, c’è un infinità di spazio ma è un disastro, molti locali
sono fatiscenti, qui bisogna risistemare tutto.”
“Scusa Angelo, ti ascolto ma stavo parlando con Alessandro: forse
tu non hai ancora visto i complessi dei bagni!! Bagni! Insomma
quello che ne resta, per essere più precisi niente, c’è da rifare tutto
nuovo. Ho paura che occorreranno svariati milioncini per
rimettere tutto a posto.”
29
“E come dobbiamo fare? Però! ……… quante cose potremo fare
con tutti questi spazi, io già m’immagino un villaggio pieno di
vita, che brulica di attività, laboratori, teatro, sport, sostegno
scolastico, gruppi di formazione, centro ascolto, casa famiglia e
……….”
“E si, sogna! Caro Alessandro, qui occorreranno anni prima di
iniziare a concretizzare qualcosa, tanto più, che in questo
momento non abbiamo nessun progetto avviato, nessun sostegno
esterno e neanche all’orizzonte s’intravede niente.”
“Si va beh! Poi ci pensiamo a questo, piuttosto dobbiamo farci
spiegare come funziona la cucina di giù, bisogna scoprire dove
sono i contatori del gas, acqua e luce, poi serve ……..”
“Poi serve! ……. Servono tante cose, aspetta! Ci siamo persi
Francooooooo, era giù che controllava le chiusure delle porte, gli
avevo detto di raggiungerci, ma non si sente più, conoscendolo
sarà in cucina a controllare se può rimediare qualcosa da
sgranocchiare. Vediamo di raggiungerlo, Franco! ….”
“Ascolta , tu vai da Franco se ti ricordi come si arriva giù, mentre
io vado a prendere Carmen che sta pulendo l’Oasi, perché domani
ci sono le Comunità Neocatecumenali. Ricordati di telefonare a
Padre Giuseppe, per firmare la convenzione con l’Ente e
quant’altro serve. Non scordarti di ricordare a Franco che c’è da
fare la spesa e quando scendete per il Corso vedi se c’è quello che
porta l’acqua con l’autobotte perché all’Oasi è quasi finita, se no
domani diventa un problema.”
Amici che parlano nei corridoi, uomini e donne che mentre usano
le mani, per preparare attività di sostegno all’Associazione,
proiettano la loro mente verso un futuro che li attende, impietoso e
splendido allo stesso tempo.
30
Uomini e donne che sostengono Padre Giuseppe, che ha riposto in
loro fiducia e speranza per realizzare il loro progetto: la nascita
del villaggio “Rahamim”.
Un sogno che per anni ha accomunato tutti quanti, ma che esplode
all’improvviso come una bomba che squarcia i cuori di chi ha
creduto nel sogno stesso.
All’improvviso bisogna essere operativi, non c’è tempo da
perdere, il lavoro è tanto e gli impegni incalzano.
Si è come storditi, frastornati, si vorrebbe fare tutto in fretta, ma
per ogni cosa anche la più piccola e banale diventa un problema
da risolvere.
GLI AMICI:
“Da dove iniziamo? Questo sì che è un bel problema, calma,
bisogna affrontare una cosa alla volta. Adesso la priorità è
sistemare il pianterreno, perché come tu ben sai la scuola che c’è
va via e presto dovremo accogliere le classi delle scuole
elementari e materne del Comune di San Cataldo.”
“E va beh, qual è il problema? “
“ Qual’è il problema? Qui bisogna rifare tutto, aule, bagni,
riscaldamenti e la cosa più simpatica è che tutto deve essere a
norma, nel pieno rispetto della legislazione vigente, quindi ti
lascio immaginare.”
Come un tornado si abbatté sui nostri amici un’infinità d’impegni
burocratici e pratici, presto si diventò ingegneri, idraulici,
muratori, etc….
GLI AMICI:
“Angelo, passami il trapano, poi prendi i tasselli per fissare questi
paraspigoli.”
“Io vado sopra a preparare i nuovi paraspigoli, sperando che la
spugna basti.”
31
“Sentite ragazzi, io aiuto Giuseppe ad incollare i paraspigoli, poi
passo a pulire le altre stanze.”
“No Carmen! Lascia stare, sale Salvatore ad aiutare Giuseppe, tu
occupati di sistemare quelle stanze così andiamo concludendo.
Voci che si rincorrono nelle stanze e tra i corridoi, occhi, che si
cercano per avere conferma di quella VOLONTÀ che li
accomuna.
Tra i loro sguardi, tra i passi che li uniscono, attimo dopo attimo,
nei loro cuori, nella loro mente, esplode il Dinamismo dell’essere
spirituale, che appartiene a quella VOLONTA’ che come un
germe positivo li sta coinvolgendo in pieno.
È sorprendente vedere come esso tocchi e contagi anche le
persone che stanno accanto al manipolo di scellerati, idealisti, che
si arrabattano in decine di cose.
La sera i respiri si fanno affannosi, si è stanchi, fa molto freddo, i
riscaldamenti sono spenti costano troppo.
Non c’è calore nelle stanze, ma c’è energia, non bisogna
arrendersi, né farsi prendere dallo sconforto.
Così i cuori e l’anima dei nostri amici sprigionano un fluido vitale
che gli dà quell’energia per farsi trasportare consciamente e,
perché no, a volte inconsciamente all’obiettivo che appare ora
vicino e a volte lontano, ma che sempre resta a portata di mano,
basta non mollare ed avere fiducia nella Provvidenza.
GLI AMICI:
“Dobbiamo iniziare la costruzione dell’Auditorium, troveremo
certamente, un modo per fare fronte ai nostri impegni, vedrai la
Provvidenza ci aiuterà. D’altronde noi dobbiamo darle una mano,
se non abbiamo il coraggio di iniziare e di investire non otterremo
niente.”
“Sono d’accordo con te e poi non scordiamoci che tutto ciò che
realizzeremo, sarà in funzione del nostro obbiettivo. Dare spazi
vitali alla nostra città e a quanti vorranno venire. Specialmente
verso i minori di cui ci occupiamo, con tutti i disastri che tu sai
32
benissimo. A proposito! Guarda che Carmen è rimasta da sola a
fare il doposcuola ai ragazzi, certo, progetti che diano qualche
base economica al momento non c’è ne sono e purtroppo non tutti
hanno la nostra stessa costanza, ma anche questo è comprensibile!
“E lo so ! Ma che ci possiamo fare adesso, ci vuole dedizione nel
fare le cose, pazienza andremo avanti lo stesso.”
“Comunque, per questi ultimi mesi quella testarda di Carmen non
molla, così i ragazzi potranno essere seguiti fino alla fine.”
“Senti ! Peppe, qui a questo punto bisogna concentrare tutti i
nostri sforzi per riuscire nel nostro intento. Io sono già oberato e
caricato da mille cose.”
“Ti capisco, ma qui siamo io mammeta e tu, ed ho l’impressione
che ci sarà da sgobbare più di quanto potevamo immaginare.”
“A me non spaventa tutto questo, anzi le sfide mi piacciono.
Quando la mattina mi alzo e so che mi attendono diversi impegni
più o meno pesanti, diventano per me stimoli, che mi spronano ad
andare avanti per la mia strada.”
“Contento tu! Facciamoci del male.”
“Certo non dobbiamo mai sbagliare perché, come dice mio padre,
anche se avrai fatto migliaia di cose buone e ne sbagli una, se pure
in buona fede, si ricorderanno solo di quella sbagliata e,
puntandoti l’indice addosso, ti faranno un processo!”
“Tuo padre dall’alto della sua esperienza certamente non si
sbaglia, però noi…..”
“Si noi! Siamo a posto con la nostra coscienza per questo andiamo
avanti per la nostra strada senza avere timori di nessuno.”
“Alessandro ascolta, sono d’accordo con quello che dici ma
nonostante la nostra integrità morale, va beh Santi non siamo,
33
piuttosto un po’ imbecilli, perché solo un imbecille si butta in
quest’avventura senza mezzi. Però quello che volevo dirti è che
bisogna avere destrezza nel misurarsi con chi fa dell’invidia una
ragione di vita.”
“Cosa vuoi dire di preciso?”
“Voglio dire che bisogna difendersi, senza allontanare nessuno
con questo, ma cercando di stare molto attenti verso coloro che
distruggerebbero ogni cosa solo per far prevalere inutili
disquisizioni o principi che capeggiano solo nell’ipocrisia. Sai
come la vedo io l’ipocrisia, è come un fiume in piena che scorre
nel cuore di alcuni uomini, i quali per non farsi notare che ne sono
schiavi, camminano all’ombra dei lampioni, per evitare che
chiunque scorga il loro viso possa intravedere la falsità che
sovrana li comanda.”
C’è polvere adesso nei corridoi, mattoni che cadono, pareti nuove
che vengono innalzate. Fervono i lavori, sogni che lentamente
prendono forma reale, sorrisi che si scambiano tra sguardi
emozionati, come fanciulli che scoprono la bellezza della vita.
Ma dietro questo c’è la collaborazione di quanti stanno prestando
la loro opera per costruire, materialmente, ogni cosa sapendo di
potersi fidare solo sulla parola, di due tre persone che li hanno
coinvolti in questa avventura.
GLI AMICI:
“Tiziano ascolta, potremo pagarti a partire dall’anno
prossimo……”
“Se avrete pazienza sarete pagati, intanto montiamo tutti gli
strumenti, con l’accordo che s’inizia a pagare tra sei sette
mesi……”
“Bisogna usare materiale ignifugo, però vedo che il tuo preventivo
è piuttosto alto, non puoi stringere ancora? …..”
34
Un continuo, vedremo, forse, stiamo aspettando, ma nonostante
questo le risposte furono:
GLI AMICI:
“ Non preoccupatevi, andiamo avanti poi si vedrà, ora pensiamo a
fare il palco e a colorare le pareti, piuttosto ne avete già parlato
con Padre Giuseppe…….”
“Gli strumenti li montiamo poi pian piano si vede …….”
“Come tendaggi sono belli e perfettamente a norma, per i
pagamenti se non ho pressione da parte dei fornitori, possiamo
allungare il più possibile……”
E cosi via, mentre tanti altri consensi arrivavano, Franco S.
preparava il quadro per l’inaugurazione dell’Auditorium,
intitolato al Notar Luigi Fascianella.
Tiziano sul ponte con la spatola in mano faceva rivivere le pareti,
con colori nuovi che li accendevano, per misurarsi, con lo stupore
e le critiche di chi le vedeva. Centinaia di metri di stoffa
scivolavano come onde per prendere forme in tende, sipario e
quinte. Così ogni cosa veniva illuminata da piccole luci che
accendendosi schiarivano tutto. Curvo per terra il signor Vicari
modellava le pietre per dare forma all’altare della nuova Cappella
che si stava realizzando. Suoni ed immagini facevano ingresso
nella sala. Tutto questo scivolava senza sosta come un treno che
veloce corre lungo i binari, dove ad ogni stazione che passa
diventa sempre più lungo perché un altro vagone si è agganciato a
lui.
Mentre suoni e colori prendevano vita, altri suoni provenivano dal
basso, dalla cucina, mani intende a lavoro si consumavano sotto
l’acqua fredda o a stringere un bastone per strofinare per terra.
Qualcun altro si scottava prendendo la pentola bollente o si
tagliuzzava le dita cercando di fare lo chef professionista.
Erano certamente suoni diversi, ma indispensabili, per dare vita
alla creatura che lentamente stava nascendo. I soliti ignoti, che in
silenzio e tra un non ce la faccio più e forza che ci guadagniamo il
35
Paradiso, si occupavano di ospitare le Comunità Neocatecumenali
che pregavano e pranzavano lì.
Domenica dietro Domenica, Capodanni, Natali, Sabato sera e
qualunque altro giorno, erano buoni per raggranellare qualcosa.
Non esisteva più il riposo ma solo la consapevolezza di andare
avanti, forti e certi che la loro VOLONTÀ, rappresentava, il
motore che vigoroso dava spinta alle loro azioni.
Ma il germe della positività, stava coinvolgendo altre persone,
così nei corridoi la sera cominciavano ad echeggiare altre voci,
nuovi amici stavano rimboccandosi le maniche e altri nomi si
univano al manipolo.
Voci nuove che come meteore si proiettano immediatamente, per
espandere l’universo Nuova Civiltà, ognuno mettendo in moto le
proprie capacità per dare il meglio di se.
Cosi Giancarlo T. si catapulta per lo studio e la preparazione di
progetti rivolti ai minori, diventando quasi una tipografia che
stampa a ciclo continuo.
Si realizza anche un lungometraggio che coinvolge per circa un
anno sessanta ragazzi, grazie alla preziosa collaborazione di
Giancarlo M. che insieme alla banda di matti capeggiata da
Giuseppe, Carmen, Eugenio e grazie anche alla collaborazione di
tante altre persone, amici nuovi e vecchi, mettono su e realizzano
“I have a dream”
Si tratta sempre di Volontari che incuranti dei rischi da correre, dal
germe della positività si lasciano trascinare dolcemente, quasi
storditi dalla voglia di fare, senza chiedersi perché.
Forse perdendo un tantino di rispetto di se stessi, ma acquisendo
in cambio quella sofferenza che aiuta a maturare ed a cogliere,
quei tratti della vita che fino ad ieri sembravano del tutto
sconosciuti.
Dedizione, coraggio, fiducia in se stessi, rispetto degli altri, voglia
di fare, ma anche fifa, stress, dubbi, angosce, insonnia. Insomma
un cocktail che metterebbe a dura prova chiunque, compresi i più
furbi e gli onnipotenti di turno.
GLI AMICI:
36
“Io vado da Peppe e Liliana, vediamo che dobbiamo combinare
con la scenografia del Ficodindia, considera che più tardi saremo
qua, perché ci sono le prove con i concorrenti.”
“Eugenio, mentre vai da Liliana passa dal forno a prendere le
pizzette, per la festa che stasera abbiamo organizzato con i
ragazzi.”
“ Ragazzi, vi va bene per venerdì sera la riunione di
coordinamento? A proposito per i gruppi abbiamo pensato come
coinvolgere i ragazzi, Leo tu ci sei?……”
“ La prevenzione non si fa a parole, ma dobbiamo avere
strumenti che ci permettano di dialogare con i ragazzi,
proponendo anche cose nuove lontane da quelle di tutti i giorni. I
concerti jazz che stiamo organizzando, certo non saranno
popolari, ma dobbiamo tentare d’alzare il livello culturale per
scuotere dall’abulia di tutti i giorni.”
“ Si ! tu dici bene, ma stasera abbiamo l’esperimento della
discoteca alternativa, occorrerà la collaborazione di tutti per
controllare la situazione, proporre musica e divertimento ai
ragazzi senza alcol ed altre porcherie varie non è semplice. Ma se
riusciamo caspita che successo!! “
“ Poco fa ho parlato con Angelo, che mi ha detto che veniva ad
aiutarci, anche Giancarlo M. se rientra in tempo ci sarà, poi siamo
tu, io Eugenio, Franco, altri ragazzi verranno a darci una mano,
insomma non dovrebbero esserci problemi.”
“ I bimbi, dove sono i bimbi?……….” ( è in arrivo una tempesta
senza precedenti, fulmini, saette, terremoti, eruzioni vulcaniche,
uragani, carestie, ecc. sono nulla di fronte a ……
“NON APRITE QUELLA PORTA”
Al di là della soglia c’è Francesca, un concentrato di simpatia,
energia incontrollabile, gioia e voglia d’affetto. Impossibile non
37
restarne contagiati. Nasce la comunità alloggio Alba, Francesca è
la prima bimba ospite.
“Arianna dov’è Peppe Sciarantino?”
“ Dopo viene, adesso dobbiamo fare il bagnetto, che dopo
andiamo a comprare i vestitini nuovi, stai ferma, mamma mia
peggio di una pallina pazza sei, ma sento che già ti voglio
irrimediabilmente bene.”
E così un’altra parte della struttura prende vita, presto altre
ragazze si aggiungeranno a Francesca dando vita ad una nuova
famiglia, che inizia il suo cammino all’interno del Villaggio.
GLI AMICI:
“Arianna tu e Peppe ci siete per capodanno? …. Bene!! Eugenio
c’è, Carmen, Franco, Daniela Giuseppe, ed io va beh! Speriamo di
farcela abbiamo soltanto 180 ospiti.”
“ Alessandro: e comprala ‘sta carta stagnola ed un mestolo di
legno….”
“ Mi dovete consumare voi a me!!”.
“Eugenio ti occupi tu di organizzare la rassegna teatrale a livello
regionale”
“ Ho già contattato parecchie compagnie e la cosa è fattibile.”
“ Angelo!! Sposta la camera , allarga, allarga, ecco abbiamo perso
l’immagine.”
“ Non vi sento, in cuffia non vi sento…..”
“ Che sta dicendo quello, che gesticola con le mani, Giancarlo M.
con te parlo!”
38
“ Si! Ho capito ma qui non funziona niente, vagl’a dire a
Giancarlo T. di fermarsi sbrigati Peppe….”
Niente paura era solo in corso la registrazione del programma
televisivo l’Ora di buco che ha coinvolto numerose classi di vari
istituti scolastici, un’altra occasione per lavorare sui giovani
proponendo attraverso il mezzo televisivo, un’occasione per un
divertimento sano e nello stesso tempo dando spunti di riflessione.
“ Attenzione! Attenzione! Notiziario informativo dalla Direzione,
brevi sul traffico, su tutti i piani i corridoi sono affollati da ragazzi
che svolgono varie attività. Doposcuola laboratori ecc. Le
previsioni del traffico dicono che sarà più inteso verso sera, con
tutte le palestre operative, da quelle di ballo a quella di ……..
ingorghi si prevedono lungo la scala esterna che dà sul campetto,
in concomitanza dell’inizio del torneo di calcio, con la scuola di
ballo nel salone. Ultimissima, giunge adesso notizia, che
Francesca lanciata a folle velocità, inseguita invano dalle volanti
degli operatori con l’ausilio degli obbiettori, individuata la figura
di Padre Giuseppe, lo ha investito in pieno con un abbraccio
caloroso. Lo sventurato ha riportato la rottura del menisco: sono
in corso indagini da parte degli inquirenti. Notizie rosa, fiocco
azzurro in comunità è arrivato Salvatore subito soprannominato
affettuosamente Poldo, la mamma felice ne dà l’annunzio. Un
momento ci chiedono la linea, si è appena consumata una
tragedia. Dal nostro inviato all’Oasi <<Buona sera a tutti,
purtroppo abbiamo appena appreso della scomparsa del
decespugliatore, si teme per la sua vita, abbiamo tentato di sentire
Salvatore T. , ma è stato tutto inutile, il poveretto dilaniato dal
dolore, si è chiuso in un rigoroso e composto silenzio per il caro
scomparso. Dal vostro inviato all’oasi è tutto a voi la linea.>>
Quanto appena sentito è terribile, queste sono notizie che non
vorremmo mai dare. Andiamo avanti con il nostro notiziario.
Eventi in cartellone: presto inizierà la produzione di un nuovo
lungometraggio, quanti fossero interessati potranno rivolgersi
presso la nostra sede. Segnalazioni importanti, è sempre attivo il
centro ascolto curato dalle nostre figure professionali, Padre
Giuseppe sta curando personalmente un gruppo di crescita con i
39
giovani: invitiamo tutti i ragazzi a partecipare. Novità, nel
corridoio est del primo piano, si è insediata nostra ospite la
protezione civile, rimane invariata la sede di Teatro Insieme che
staziona al secondo piano. Chiudiamo con le notizie commerciali,
Dario al bar ha finito le patatine Più Gusto, dopo la protesta dei
consumatori che hanno inscenato un sit in davanti al bar il nostro
Dario si è detto fiducioso, che ciò non accadrà più e, per farsi
perdonare, per domenica ha promesso che ci saranno i panini.”
Non siamo diventati tutti matti, ma i nostri amici adesso sono
circondati da tante persone, e tantissimi ragazzi, i sogni
cominciano
a
prendere
forma
reale.
Istinto ed appetito sensitivo sono i propulsori della vita inferiore,
che si fronteggiano con l’appetito spirituale della sfera intellettiva.
Ecco che la VOLONTÀ diventa principio supremo della
perfezione dell’uomo in quanto soggetto.
Questo per affermare che quelle voci che echeggiavano sole nei
corridoi, ora sono azioni concrete che si confrontano
quotidianamente, con problematiche diverse che ogni giorno
investono la nostra società, dove si espande e matura l’universo
Nuova Civiltà.
Proteso con vigore a combattere il disamore per la vita e a
promuovere, attraverso i gesti e il cuore, la speranza tra i giovani e
le famiglie, che sono in continua ricerca di ambienti e punti di
riferimento che diano certezze positive ai propri figli.
Nel frattempo, mentre tutto questo turbinio di immagini e di
emozioni corre veloce tra i nostri amici, essi proseguono il loro
cammino dentro e fuori le mura del villaggio, un cammino che è
affiancato, sempre dallo stesso prete che ha dato con la sua
persona la possibilità di trovare la breccia nel muro, per passare
oltre e trovare la strada giusta per affrontare questo lungo
cammino. Un uomo idealista e sognatore, che si sposa con i
principi della VOLONTÀ in senso assoluto.
GLI AMICI:
40
“Sono stanca, non ce la faccio più, mi sento male, ho bisogno di
riposo. Ultimamente le mie condizioni fisiche non mi permettono
più di tenere questi ritmi, dopo l’operazione spero di ritornare
quella che ero.”
“Carmen è arrivata all’osso, il suo cuore e la sua mente sono
sempre con noi, ma fisicamente non ce la fa più. La scorsa
Domenica si è quasi ammazzata, ma non è facile piegare la sua
volontà. Adesso che poi sopra è nata la comunità alloggio, lei è
proiettata anima e corpo con le ragazze e anche se non le può
seguire attivamente non riesce a staccare i suoi pensieri da loro,
rompendomi l’anima in continuazione.”
“Lei deve pensare a curarsi e a stare bene che per tutto il resto
problemi non ce ne”
“Sai, cosa mi ha detto a proposito di te, che devo starti il più
possibile vicino, per aiutarti a non mollare. In quanto a me sa che
sono un idealista che non molla mai, ma in cuor suo sono certo
che lei vorrebbe essere sempre presente quasi come un
portafortuna che ci permetta sempre di andare avanti.”
Si muovono persone nei corridoi, figure nuove e vecchie entrano
ed escono dalle stanze.
GLI AMICI:
“Guarda chi arriva, l’impiegato regionale, ciao Eugenio.”
“Guarda che belli, frik e frok”
“Di chi parli Eugenio”
“Di Giuseppe ed Alessandro, guarda che so belli ! Avanti che ce
da fare, pigliatevi una cosa.”
“Ragazzi io me ne vado, torno da Palermo, sono stanco morto, ho
fatto pure i colloqui con i ragazzi, basta sono stanco, me ne vado a
casa “
41
“Dove vai bimbo, c’è la relazione e il rendiconto da fare prima.”
“Peppe mi vieni a lasciare a casa”
“Oh! Guarda chi arriva, Totò T., se non fosse per te, qui potremmo
chiudere, vero Salvatore”
“Carissimi……..”
“Oh! Il Giancarlo M.”
“Pio Pio terroni agricoli”
“Angelino P., siediti”
“Peppe telefona a Franchis e digli che abbiamo solo un giorno per
preparare il progetto per la variazione….”
“Aspetta che prima c’è da aprire il campo, poi c’è Chiara e Luisa
che non so cosa volevano….”
“Eugenio, chiudi tu stasera? Però domani ricordati che c’è da
accompagnare Valentina e Il piccolo Salvatore all’ospedale, poi
mercoledì ci va Peppe.”
“Domenica la partita è su Sky o gioco calcio…….”
“Mandaci l’obiettore….”
“Digli all’operatrice sopra in comunità, che le ragazze prima delle
18:00 non devono scendere…..come non detto Francesca è già
scesa”
“Alessandro, ti devo dire una cosa……”
“Francesca, non si saluta”
42
“Ho salutato”
“Come mi chiamo io? “
“”Michele Cocuzza….Scherzavo, scherzavo, Giancarlo M.”
“Francesca vai sopra”
“Alessandro ci sono delle persone che ti devono parlare”
“Peppe ci pensi tu a quelli che provano dentro l’Auditorium?”
Voci, decine, centinaia di voci adesso echeggiano durante tutto il
giorno e fino a sera tardi, nei corridoi che non sono più grigi ma
pieni di colori come l’allegria e le urla che corrono da un piano
all’altro.
Adesso è il momento del dinamismo, che coinvolge quella stessa
VOLONTÀ, che prima era racchiusa dentro ogni volontario, ma
che adesso attraverso la comunicazione emerge fuori
dell’individuo.
Fa del bene posseduto strumento mediante il quale l’essere
spirituale inserisce se stesso nel mondo, affermando i propri
valori, nei limiti concettuali di se stesso.
Ma rilanciando nello stesso tempo attraverso la propria sfera
d’influenza, le proprie possibilità, oggetto di quella VOLONTÀ
che interagisce, tra ragione, spirito e capacità d’espressione.
Un Manipolo di Volontari che trova esatta collocazione come una
stella che si posiziona nell’emisfero celeste attraverso la
VOLONTÀ, che nel suo aspetto più dinamico, si scopre prima nel
suo appetito più sensitivo delle sue passioni, poi dall’alto
dell’intelletto propone il fine ultimo.
Organizzando i propri mezzi il più coerentemente e
funzionalmente possibili, per il conseguimento del fine stesso.
Che per gli amici del manipolo altro non è che il bene per l’uomo
attraverso l’amore che risiede in ognuno di noi.
“Che fatica però!! Ma sì! Alla fine ne vale proprio la pena! .”
43
Il manipolo, che oggi fiducioso va avanti:
Alessandro Amico, Giuseppe Violo, Carmen Vitale, Francesco La
Magna, Daniela Urso, Giancarlo Tirendi, Eugenio Sorce,
Salvatore Temporale, Giancarlo Mogavero, Angelo Pilato ed altri
che in passato furono ma che in futuro potranno riesserlo.
“Cosa?”
VOLONTARI IRRIMEDIABILMENTE CONTAGIATI DAL
GERME POSITIVO.
“Ehi!! Ehi!! Ci sono anch’io!”
“Scusa non ti avevo visto, ma tu chi sei? Non ti conosco e poi,
senti, hai idea di quello che significa stare con il gruppo?”
“No!!”
“Ah! Va bene, allora puoi venire, ragazzi c’è un nuovo amico….
come si chiama? Ancora non lo so.”
44
SECONDA PARTE:
RIFLESSIONI SUL DISAGIO
GIOVANILE TRA PSICOLOGIA,
SOCIOLOGIA E CINEMA
45
L’EMPATIA CHE NON C’È:
MENTI CHE NON LEGGONO LE MENTI
di Pietro Andrea CAVALERI
Considerazioni introduttive
Svolgendo da molti anni il mio lavoro di psicologo presso diversi
consultori familiari del territorio nisseno, ho notato una costante
che sempre più marcatamente caratterizza i giovani di oggi. Essa
riguarda la loro crescente difficoltà ad essere consapevoli delle
loro stesse emozioni, dei loro sentimenti, ma anche delle emozioni
e dei sentimenti degli altri. In modo sintetico, potremmo dire che i
nostri giovani non solo hanno difficoltà a organizzare la loro vita
emotiva, ma sperimentano anche la difficoltà di capire quella
degli altri, di “leggere” le menti dei loro interlocutori.
Il cervello di ogni uomo, fin dalla nascita, ha in sé il potenziale
genetico per esprimere una “mente umana”. Ma perché ciò
avvenga è necessario che il bambino venga posto, fin dai primi
giorni della sua vita, in un contesto relazionale che lo “alimenti”,
che lo “nutra” adeguatamente sul piano affettivo. Senza un tale
“nutrimento” non possiamo essere certi che da un “cervello
umano” scaturisca una “mente umana”.
Contrariamente a ciò che si può pensare, la capacità di organizzare
le proprie emozioni, i propri stati psichici, o di riconoscere i
vissuti degli altri, le menti altrui, non è una abilità naturale (innata
o “scontata”) ma il frutto incerto di un cervello umano che è
affettivamente alimentato da un contesto relazionale capace di
cogliere le istanze del bambino e di farsene carico.
Purtroppo i bambini di oggi nascono in famiglie spesso
problematiche, con coppie genitoriali inadeguate, con figure
adulte fortemente “narcisiste”, ripiegate sulla propria
autorealizzazione, incapaci di dare spazio e attenzione alle istanze
affettive dei figli. In tali contesti può accadere che un bambino
non si senta “riconosciuto” e, dunque, non impari
46
a”riconoscersi” (ad avere cioè consapevolezza di sé, delle sue
emozioni) o a “riconoscere” l’altro (a capire i bisogni, le
emozioni, la mente altrui), a porsi nei suoi panni.
Il brano selezionato dal film “L’odio” di M. Kassowitz (cfr. CD –
Rom allegato) riporta lo scontro fra due poliziotti e un gruppo di
adolescenti molto aggressivi. Dalle immagini si può cogliere,
palpabile, la difficoltà che i ragazzi mostrano nel capire le ragioni
dell’altro, nel “leggere” cioè la mente dei poliziotti.
Forse abbiamo fatto crescere le ultime generazioni nella
convinzione che l’altro è qualcosa che si può disconoscere,
ignorare, e di cui, in ultima analisi, si può fare a meno. In realtà,
come vedremo più avanti, l’altro-da-me è anche altro-di-me. Egli,
cioè, in qualche modo mi “fonda”, mi permette di esprimere le
mie potenzialità, mi svela a me stesso, “mi fa essere”. Questo
fondamentale ruolo che l’altro ha nella vita di ogni essere umano
è stato posto in rilievo non solo da molti pensatori contemporanei,
ma anche da autorevoli ricercatori che studiano la mente umana e
i suoi processi di sviluppo.
La relazione con l'altro nel pensiero contemporaneo.
Nel corso della seconda metà del '900, l'altro e l'alterità sono stati
molto spesso al centro della riflessione filosofica (cfr. Cicchese,
1999). Gadamer, ad esempio, esprimendo alcune sue
considerazioni sul futuro dell'Europa, sottolinea che l'altro non è
soltanto l'altro da me, cioè l'assolutamente e il radicalmente altro,
ma anche l'altro di me, cioè colui il quale partecipa della stessa
mia umanità e del quale, in vario modo, io sono responsabile.
Lèvinas, da parte sua, pone in rilievo il forte nesso che unisce
l'identità stessa dell'io con la responsabilità per altri. A suo
giudizio, infatti, la possibilità che ogni essere umano ha di definire
l'identità del proprio io è legata non solo alla relazione con l'altro,
ma soprattutto all'assunzione, da parte dell'io, di una
responsabilità etica nei confronti dell’altro (cfr. Lèvinas, 1990).
Anche Ricoeur esplora in modo originale la dialettica del sé e
dell'altro da sé, affermando che l'uomo trova il proprio senso e la
propria costituzione nel rapporto con l'altro. Egli sostiene, a
questo riguardo, che l'altro non si "aggiunge dal di fuori"
47
all'identità di ognuno, ma esso (l'altro) contribuisce a fondare, a
costituire e a dare senso all'identità stessa (cfr. Ricoeur, 1993).
Più di recente il filosofo cattolico Marion sottolinea come l'amore
costituisca l'unica e più autentica possibilità di individuazione
dell'altro, permettendoci di "raggiungerlo nella sua insostituibile
particolarità". L'amore, che l'autore coglie da una prospettiva
essenzialmente fenomenologica, non è un aspetto periferico e
secondario dell'esistenza umana, ma ne è il centro. La soggettività
individuale, a suo parere, non nasce da un’istanza conoscitiva
(cosa posso conoscere?), ma da un bisogno relazionale (c'è
qualcuno che mi ama?) (cfr. Marion, 2001).
Da queste riflessioni, solo appena accennate, emerge con
evidenza, pur nella differenza dei toni, un modello antropologico
che pone l'accento sulla dimensione relazionale dell'uomo. Non è
l'individuo, ma l'essere con, l'incontro con l'altro, l'aspetto che
viene posto in maggiore evidenza. In questa prospettiva, l'apertura
all'altro e il "riconoscimento" di esso, individuati come aspetti
centrali e salienti dell'esperienza intersoggettiva, divengono
elementi originari e costitutivi per ogni uomo.
Ciascun sé, infatti, è "rivelato" a se stesso dall'altro e viceversa.
La possibilità che il sé ha di definirsi, di emergere, di
"individuarsi", è legata inequivocabilmente alla concreta e reale
presenza dell'altro. L'incontro e il confronto con il mistero
racchiuso in questa presenza permette al sé di aprirsi al mistero di
se stesso e a quello della comune origine (cfr. Cicchese, 1999). Si
profila, in tal modo, un legame sé-altro contraddistinto dalla
reciprocità e dalla co-appartenenza, tanto da rendere ancora più
comprensibile l'affermazione di Gadamer, prima ricordata,
secondo cui l'altro è anche e soprattutto l'altro di me.
A questo fecondo e autorevole filone del pensiero contemporaneo
occorre riconoscere l'innegabile merito di avere restituito all'altro
e all'incontro con esso una dignità ontologica e un rilievo
antropologico che sembravano definitivamente sfuggiti alla
cultura occidentale del nostro tempo.
Tuttavia, mi sembra di poter affermare che, riscoperta e
"riabilitata" l'alterità, sia necessario adesso una più adeguata e
specifica attenzione alla dimensione della relazionalità in quanto
tale. Lo spazio che intercorre tra la realtà dell'io e la realtà
48
dell'altro costituisce, infatti, una realtà terza verso la quale
occorre forse esprimere una riflessione ancora più attenta e
approfondita.
Quali sono le caratteristiche di questa realtà terza, sia sul piano
fenomenologico che psicologico? Quale ruolo essa riveste nella
genesi, nell’ evoluzione e nella maturazione di ogni essere
umano? Quali elementi qualitativi devono contraddistinguerla
perché essa possa adeguatamente costituire l'interfaccia in grado
di farci "raggiungere" l'altro e di "svelarci" a noi stessi?
Negli ultimi decenni la ricerca in ambito psicologico ha espresso
alcune delle sue migliori intuizioni nel tentativo di rispondere
proprio a questi non facili interrogativi, mostrando, in tal modo, di
considerare la relazione (la realtà terza appunto) come la
dimensione fondante e costituiva della vita psichica umana.
Nata sotto l'influsso della cultura moderna, anche la psicologia,
nel suo tentativo di comprendere la persona umana, è stata
fortemente segnata dall'enfasi posta sull'individuo e dalla
centralità accordata al paradigma della soggettività. Il mio
intervento si prefigge adesso di descrivere l’emergere, all'interno
della psicologia contemporanea, di un nuovo paradigma
ermeneutico, il paradigma della relazionalità, che indubbiamente
ha segnato una svolta storica nel modo stesso di concepire sia la
salute che il disagio mentale.
Le origini "individualistiche" della psicologia.
La psicologia è divenuta oggi una scienza di dimensioni
estremamente vaste. Risulta, dunque, arduo, se non impossibile, il
tentativo di integrare tutti i vari indirizzi psicologici e le varie
scuole in questa nostra breve riflessione. Ci pare opportuno, però,
iniziare facendo riferimento al padre della psicologia del
profondo, Sigmund Freud.
Il grande merito di Freud ci sembra sia stato quello di aver posto
al centro della sua attenzione la singola persona e di avere capito
che spesso “l’uomo non è padrone nella propria casa”, è cioè
costretto a vivere in modo alienato. Nella prospettiva freudiana
l'essere umano si scopre non di rado privo della sua libertà ed
impegnato a spendere gran parte della sua energia per risolvere i
49
suoi conflitti inconsci o per soddisfare inconsciamente le attese
altrui.
A motivo di ciò la psicoanalisi di Freud (alla quale si rifanno
tuttora in modo più o meno esplicito la maggioranza delle
psicoterapie, almeno quelle orientate a risolvere i conflitti
inconsci) mira alla individuazione, ha cioè come finalità manifesta
quella di aiutare la persona a diventare libera, ad essere quello che
veramente è.
Alla base della psicoanalisi freudiana si pone una teoria
conflittuale secondo la quale vi è un passato, una famiglia o un
ambiente che impediscono alla persona di essere veramente se
stessa. Pervenire ad una adeguata individuazione significa
staccarsi da questi contesti alienanti. La persona, cioè, diventa se
stessa nella misura in cui riesce a liberarsi da rapporti che la
condizionano. Tale teoria conflittuale può essere pienamente colta
nel dilaniante conflitto vissuto da Edipo. Egli, per raggiungere i
suoi scopi e diventare se stesso, deve tragicamente uccidere il
proprio padre, liberarsi, quindi, da quell’altro al quale deve la sua
propria esistenza.
Questa origine individualistica-individualizzante della psicologia
influenza tuttora fortemente la prassi psicoterapeutica. Le varie
psicoterapie, in fondo, non fanno altro che cercare di aiutare la
persona a diventare se stessa. Il concetto centrale di questo
approccio alla persona è quello della autorealizzazione. La
persona deve realizzare se stessa e lo fa distinguendosi dagli altri.
Il superamento delle origini "individualistiche" e la scoperta
dell’altro.
L’origine individualistica della psicologia rimane tuttora influente,
valida ed importante. Nonostante questo, sono però emerse,
all’interno della psicologia stessa (e da altre scienze in dialogo
con essa, come la filosofia), delle critiche ad una posizione
unilateralmente individualistica. Si sono fatti vari tentativi per
superare tale posizione o per aprirla ad una visione più relazionale
della realtà. Le proposte in questa direzione sono molteplici e
variegate.
50
Un importante superamento viene dalla scoperta che l’inconscio
stesso possiede una direzionalità, ossia una intenzionalità
teleologica. E’ stata in questo contesto particolarmente importante
la famosa lettura e critica di Freud avanzata da Paul Ricoeur. Il
filosofo francese riesce a dimostrare che l’inconscio (ossia il
“desiderio”) non è chiuso in se stesso, proteso solo alla
soddisfazione delle pulsioni. L’inconscio possiede, invece, una
struttura relazionale. Il desiderio inconscio cerca sempre un altro,
è aperto alla relazione: “Il desiderio ha il suo Altro” (Ricoeur,
1965).
Non possiamo non ricordare, poi, l’approccio sistemico che
riprende, sul versante specifico della psicologia, tanti elementi
della cibernetica e viene sviluppato inizialmente nella terapia
familiare. Tale approccio, in un secondo tempo,
sarà
ulteriormente elaborato per comprendere anche strutture e
organizzazioni più complesse. Centrale, nella prospettiva
sistemica, è il concetto secondo cui non è possibile comprendere
la persona e risolvere le sue difficoltà a prescindere del sistema
sociale e relazionale nel quale essa vive.
Una tendenza molto simile a quella appena accennata è emersa
anche nell'ambito della psicologia dello sviluppo, che ha cercato
di cogliere i processi evolutivi della persona a partire dalle sue
relazioni primarie. A questo riguardo, è diventata famosa
l’affermazione di D.W. Winnicott: “Il bambino non
esiste” (Winnicott 1965). Secondo questa massima il bambino non
esiste mai come essere indipendente, ma sempre in un rapporto di
dipendenza da un'altra persona.
Autori come Winnicott, Klein, Mahler, Fairbain e Kernberg (e
altri rappresentanti della Teoria delle relazioni oggettuali)
descrivono di conseguenza lo sviluppo della persona come un
progredire da una iniziale dipendenza simbiotica e totale verso
una sempre maggiore indipendenza dagli altri. E’ importante
sottolineare come questi autori si pongano in una prospettiva,
teorica-metodologica, nella quale il rapporto con l’altro continua
ad essere considerato soprattutto un derivato, un prodotto dello
sviluppo libidico o dell’Io.
51
Oltre “identità” e “alterità”: verso un paradigma di reciprocità.
Nonostante i suoi grandi meriti, sono chiaramente visibili anche i
non pochi limiti dell’approccio classico freudiano. Esso si basa,
infatti, su una visione troppo riduzionistica della persona.
Quest'ultima, contrariamente a quanto emerge dall'antropologia
psicoanalitica, non vive solo per sé stessa e per la soddisfazione
dei suoi bisogni inconsci, non è "sganciata" da ogni forma di
rapporto, ma si pone all’interno di una rete sociale che una
comprensione integrale della persona non può non riconoscere.
Detto sinteticamente, in questo approccio "classicoindividualistico" manca del tutto il concetto dell’altro.
I vari approcci prima elencati hanno cercato di superare tale
riduzionismo. Questi tentativi sembrano costituire una risposta
molto positiva e offrono una varietà di spunti estremamente utili,
anche in vista di una riflessione psicologica sulla relazione di
reciprocità. Tuttavia, sembrano delinearsi, anche qui, dei limiti.
Emerge, ad esempio, un certo "romanticismo relazionale", che
finisce a volte per negare di fatto la conflittualità dei rapporti e
non riesce a cogliere gli aspetti disfunzionali che caratterizzano
alcune tipologie di relazione. In alcune elaborazioni teoriche, poi,
l'uomo non sembra essere altro che un "prodotto" del sistema in
cui vive, perdendo in tal modo le sue caratteristiche individuali e
quindi la sua dignità di persona unica e distinta. Detto anche qui
in modo sintetico, manca un concetto forte di persona, di identità,
di individualità.
A fronte di tali incongruenze, ci pare di poter affermare che si
profilino oggi in psicologia alcuni studi capaci di poter superare la
dicotomia fra identità e alterità, interno ed esterno, individuo e
sistema. Tali studi riguardano soprattutto la psicologia dello
sviluppo, ma hanno ripercussione anche in altri campi (ad
esempio in quello della psicoterapia). Guarderemo, quindi, un po’
più da vicino a tre specifiche aree di ricerca della psicologica
contemporanea: a) l’altro come regolatore del Sé; b) lo sviluppo
della relazione intersoggettiva; c) lo sviluppo dei processi mentali
(mentalization).
a. L’altro come regolatore del Sé.
52
Molti autori, fra cui Winnicott (1965) e Mahler (1975),
attribuiscono grande importanza all’esperienza dell’”essere con la
madre”. Come già accennato sopra, essi partono, però, dal
presupposto che il bambino non è in grado di differenziare il Sé
dall’altro, vivendo così in uno stato fusionale-simbiotico, dal
quale solo successivamente e in modo graduale emergerebbero un
Sé e un altro separati. Da questo punto di vista l’Io del bambino
sarebbe essenzialmente un “Noi” e il suo essere “totalmente
sociale”. Al contrario, le ricerche di Stern (1985) portano alla
conclusione che le esperienze di “essere con un altro” vanno
considerate, fin dall’inizio, “modalità attive di integrazione”,
risultato cioè di una interazione attiva fra due entità distinte, il Sé
e l’altro. L’interazione dà origine nel bambino ad una esperienza
del Sé fatta di stati d’animo (eccitazione, gioie, paura, attesa, ecc.)
difficilmente sperimentabili fuori da un contesto di autentica
reciprocità. Egli è co-protagonista di una relazione nella quale
l’altro “regola” in lui l’esperienza del Sé, è per lui “l’altro
regolatore del Sé”.
Negli ultimi venti anni, con il contributo di Stern e di molti altri
ricercatori (fra cui Lichtenberg 1983, Dornes 1993, 1997, Beebe Lachmann 1998) la psicologia dell’età evolutiva ha cambiato
decisamente direzione, individuando nel rapporto del Sé con
l’altro, nel senso del Sé e dell’altro, il principio organizzatore
primario dello sviluppo infantile. Nella teoria evolutiva di Stern la
comparsa di ogni nuovo senso di Sé implica, in modo coerente, il
contemporaneo delinearsi anche di un nuovo senso dell’altro e il
configurarsi di un nuovo tipo di relazione con caratteristiche
diverse dalla precedenti. Ci troviamo di fronte ad una originale
concezione dello sviluppo, nella quale non trova più spazio
l’ipotesi di un iniziale stato evolutivo indifferenziato.
Già la teoria dell’attaccamento (Bowlby 1969) aveva evidenziato
il ruolo fondamentale che l’altro riveste nella regolazione della
sicurezza. L’attaccamento, però, non può essere considerato solo
indice della relazione madre-bambino. L’altro, infatti, regola una
molteplicità di esperienze del Sé, come ad esempio l’attenzione, la
curiosità, la conoscenza. Queste molteplici esperienze non sono,
però, esperienze di “fusione”. Sono, piuttosto, esperienze reali di
essere con qualcuno, che in vario modo regola e modifica i
53
sentimenti riguardanti il Sé. Durante questa esperienza reale, il Sé
non perde mai i suoi confini e l’altro continua ad essere percepito
come distinto. In altri termini, benché l’esperienza del Sé dipenda
dall’altro, essa tuttavia appartiene interamente al Sé (Stern 1987).
Il bambino, dunque, appare inserito in una sorte di matrice sociale
che scaturisce dal suo mondo soggettivo, dal mondo soggettivo
della madre e dagli episodi di interazione ai quali entrambi
partecipano distintamente e con intensità diverse. Tale interazione
costituisce una interfaccia, una esperienza condivisa, uno spazio
comune fra due mondi soggettivi distinti. Nel loro incalzante
succedersi, gli episodi di interazione funzionano come un “ponte”
fra il mondo soggettivo del bambino e della madre, permettendo
ad essi di correlarsi reciprocamente senza per questo confondersi.
b. La relazione intersoggettiva
L’“essere con l’altro” non si esaurisce negli aspetti di cui si è già
parlato e che sono inerenti alla mutua regolazione dell’esperienza,
ma riguarda anche altre dimensioni della relazione, come la
condivisione dell’esperienza soggettiva stessa, cioè l’esperienza
intersoggettiva.
Secondo le ricerche di Trevarthan e Hubley (1978)
l’intersoggettività compare quando, tra i sette e nove mesi, il
bambino mostra di ricercare una “deliberata”, e quindi
intenzionale, partecipazione ad esperienze concernenti eventi e
oggetti. Inizialmente le esperienze soggettive, che egli è in grado
di condividere, sono quelle che non richiedono il ricorso al
linguaggio. Da queste elementari esperienze di condivisione non
verbali hanno poi origine, intorno ai nove mesi, le prime forme
del linguaggio e della comunicazione intenzionale.
Il grande rilievo che l’intersoggettività assume sul piano evolutivo
ha spinto alcuni autori a ritenerla una capacità umana innata,
presente sin dai primi mesi di vita, anche se in forma arcaica. Per
Bråten (1998) il bambino nasce con un “altro virtuale (virtual
other) nella mente” che permette di entrare in una interazione con
un altro reale. L’altro esterno e reale entra, per così dire, in uno
spazio psichico già preparato dall’altro virtuale. Questo spazio
non deve essere creato, ma esiste già ed è piuttosto il presupposto
che permette di fare l’esperienza dell’altro reale.
54
Bråten e altri autori come Dornes e Trevarthan delineano quindi
una teoria dialogica che interpreta il protodialogo, la risonanza
affettiva e altri fenomeni di reciprocità nell’infanzia non come
incontro fra due monadi, ma assume che il bambino è già
diadicamente prestrutturato. Questa è la base ontogenetica sulla
quale Trevarthan, come anche Bråten, sviluppa poi la sua
assunzione di una “intersoggettiva primaria”.
La relazione intersoggettiva, infatti, appare con sempre maggiore
evidenza come bisogno psicologico primario, nella quale si
rintraccia il DNA delle relazioni umane, la chiave di lettura
necessaria per comprendere, al contempo, lo sviluppo umano, la
capacità di empatia e di altruismo, ma anche il disagio psichico, e
il significato autentico dei rapporti sociali.
È significativo come anche nella psicoanalisi, che da sempre ha
focalizzato la sua attenzione soprattutto sull’esperienza soggettiva
individuale, oggi si cominci a delineare una “teoria psicoanalitica
intersoggettiva” (Stolorow – Atwood 1992, Orange – Atwood –
Stolorow 1997). Anche in passato Vygotskij (1966) aveva già
parlato di “intermentale” e Sullivan (1953) aveva teorizzato
l’esistenza di un campo interpersonale, ma sembra che solo di
recente si sviluppi nel mondo psicoanalitico una ampia attenzione
alle basi intersoggettive della vita psichica (Gill 1994). Ci si
accorge che, oltre al Sé e all’altro, esiste un terzo elemento nel
lavoro terapeutico: Uno spazio intersoggettivo, un “terzo
analitico” (Ogden 1994), che offre quell’orizzonte ermeneutico
senza il quale l’esperienza dei due soggetti in dialogo non possono
essere compresi (Cavell 1993).
Da tutto ciò si evince che, così come tra bambino e madre, anche
tra Sé ed altro, tra individuo e società, si delinea una dimensione
terza per lungo tempo trascurata: la relazione di reciprocità.
Quest’ultima costituisce un paradigma relazionale, ben definito,
con caratteristiche qualitative sue proprie, che lo differenziano e
lo contraddistinguono da ogni altro tipo di relazione. Essa non è la
relazione vista in funzione dell’individuo (dell’Io, dell’interno,
dell’organismo ecc.) o in funzione dell’altro (della società,
dell’esterno, del sistema ecc.), ma è la relazione in quanto tale,
considerata come dimensione reale a sè stante, distinta dalle altre
due, fra le quali si frappone come ineliminabile interfaccia. Essa è
55
lo spazio in cui si producono le differenze ed è possibile la loro
accoglienza; è il luogo in cui le due parti in causa possono, a
vicenda, riconoscersi e prendersi cura, sperimentando l’altro come
termine di riferimento coessenziale alla propria stessa esistenza e
al proprio disvelarsi.
c. Sviluppo dei processi mentali
Un altro interessante filone di ricerca, utile al prosieguo della
nostro riflessione, è quello che riguarda lo sviluppo mentale del
bambino e la comparsa in lui del linguaggio. Bruner, riprendendo
un precedente confronto fra Piaget e Vygotskij, descrive come la
mente umana matura la propria organizzazione proprio attraverso
l’interazione reciproca con gli altri, con menti diverse. Il
riconoscimento reciproco è considerato da Bruner (1992) come
uno dei processi psicologici più importanti per l’elaborazione e lo
sviluppo del Sé. Senza il riconoscimento reciproco non è possibile
il linguaggio, la negoziazione dei significati, lo scambio di
interpretazioni; non è, cioè, possibile produrre segni comunicabili,
capaci di rendere riconoscibili le intenzioni sottese alle azioni.
Dalle ricerche di Bruner emerge un modello antropologico molto
utile alla nostra riflessione. In esso l’altro, il contesto sociale e
culturale, non sono antagonisti del singolo individuo, non lo
contraddicono, ma al contrario costituiscono i termini essenziali di
un processo attraverso il quale egli sviluppa la propria mente, si
appropria di se stesso e delle sue potenzialità più nascoste.
Dunque, non una relazione di insanabile conflitto, quella che
unisce l’individuo alla società (l’io all’altro), ma un rapporto di
reciproca implicazione, in cui l’uno risulta indispensabile alla vita
dell’altro.
Questo orientamento trova interessanti riscontri anche nell’ambito
della psicobiologia (Oliverio, 1999) e dalla neurobiologia
(Damasio 1995, 2000; Siegel 2001). A dispetto di un luogo
comune, che vuole nettamente contrapposti “natura” e
“cultura” (nature and nurture), approccio organicistico-biologico
e approccio relazionale-sociale, nell’ultimo decennio si sono
susseguiti numerosi studi tendenti a dimostrare l’esatto contrario.
Sembra, infatti, che le relazioni interpersonali abbiano il potere di
influenzare in modo significativo lo sviluppo delle strutture
56
cerebrali nel corso dell’intera esistenza umana e in particolare nei
primi anni di vita.
Le relazioni con gli altri, le quotidiane esperienze interpersonali,
cioè, possono contribuire a plasmare il cervello umano,
“provocando l’attivazione di determinati circuiti, consolidando
collegamenti preesistenti e inducendo la creazione di nuove
sinapsi. Al contrario, l’assenza di esperienza può portare a
fenomeni di morte cellulare, in base a quello che è stato definito
come processo di ‘potatura’ (pruning), che favorisce
l’eliminazione degli elementi che non vengono utilizzati: lo
sviluppo del cervello è quindi un processo ‘esperienzadipendente’” (Siegel 2001, 13). Siegel teorizza in questo contesto
l’esistenza di una “mente relazionale” e di una “neurobiologia
interpersonale”.
Anche in questo ambito della ricerca, è stato dimostrato che le
relazioni interpersonali più adeguate e funzionali allo sviluppo del
cervello sono quelle che creano momenti di corrispondenza, che
hanno cioè carattere di “reciprocità”. Le funzioni cerebrali e lo
sviluppo della mente vengono attivati meglio da interazioni nelle
quali l’adulto e il bambino sono in grado di riconoscersi e
influenzarsi reciprocamente (Fonagy – Target 2001). Al contrario,
un mancante o distorto riconoscimento reciproco provoca
“mentalizzazioni” disfunzionali e sembra essere una delle cause di
disturbi gravi di personalità (Gergely – Fonagy – Target 2002).
Attraverso questi contributi, che vengono in prevalenza dalle
neuroscienze e dalla psicologia infantile, troviamo dunque una
ulteriore conferma non solo al legame che unisce lo sviluppo della
mente alla relazione con l’altro, ma soprattutto all’esistenza di un
paradigma relazionale specifico, la relazione di reciprocità, che è
alla base dei più importanti processi di integrazione e di
evoluzione della mente umana.
Verso una conclusione.
Ho cercato, fin qui, di porre in evidenza quale sia lo spazio e
l’attenzione riservati dalla psicologia contemporanea alla
relazione con l’altro, soprattutto sotto l’aspetto cardine della
reciprocità. Essa emerge come l'elemento nodale e come la
57
condizione indispensabile per lo sviluppo della mente e per la
crescita individuale.
La contrapposizione fra io e altro, fra individuo e società, è
sicuramente innegabile e perenne, ma l’attenzione alla “qualità”
della relazione, che fra essi intercorre, può rendere in ogni
momento il conflitto sanabile e fonte di crescita vitale per
entrambi. Svilupparsi, diventare una persona matura comporta
aprirsi ad un'altra persona, riconoscere ed accogliere l’altro. Il
bambino (così come l’adulto che ha bisogno di riprendere uno
sviluppo interrotto) può fare questo nella misura in cui
sperimenta, a sua volta, l’esistenza di relazioni nelle quali può
essere riconosciuto e accolto.
Tra una realtà sociale, come quella passata, interamente centrata
sull’autorità, sulle imposizioni esterne e una società, come quella
attuale, del tutto frammentata dall’autoreferenzialità narcisistica,
esiste una comunità umana diversa, centrata sulla relazione e
ancora tutta da costruire. Soltanto nella misura in cui riusciremo a
costruire questo nuovo tipo di società, sapremo anche evitare una
catastrofe epocale dagli effetti inimmaginabili: la scomparsa della
mente umana.
Bibliografia
Beebe B. – Lachmann F.M. (1988) Mother-infant mutual
influence and precursors of psychic structure, in: Goldberg, A.
(Hg.): Frontiers in Self Psychology, The Analytic Press: Hillsdale
1988, 3-25.
Bowlby J. (1969) Attaccamento e perdita, Boringhieri: Torino
1976 (orig.: Attachment and loss, Vol. 1, Basic Books: New York
1969.
Bråten S. (ed.) (1998) Intersubjective Communication and
Emotion in Early Ontogeny, Cambridge University Press:
Cambridge 1998.
Bruner J.S. (1992) La ricerca del significato, Bollati Boringhieri:
Torino 1992.
58
Cavell M. (1993) The Psychoanalytic Mind. From Freud to
Philosophy, Harvard University Press: Cambridge 1993.
Damasio A.R. (1995) L’errore di Cartesio, Adelphi: Milano 1995.
Damasio A.R. (2000) Emozione e coscienza, Adelphi: Milano
2000Dornes M. (1993) Der kompetente Säugling. Die präverbiale
Entwicklung des Menschen, Fischer: Frankfurt a.M. 1993.
Dornes M. (1997) Die frühe Kindheit. Entwicklungspsychologie
der ersten Lebensjahre, Fischer: Frankfurt a.M. 1997.
Fonagy P. – Target M. (2001) Attaccamento e funzione riflessiva,
Cortina: Milano 2001.
Gergely G. – Fonagy P. – Target M. (2002) Attachment,
Mentalization and the Etiology of Borderline Personality
Disorder, in: Selbstpsychologie 3 (2002), 61-82.
Gill M. (1994) Psychoanalysis in Transition. A Personal View,
Analytic Press: Hillsdale 1994.
Lichtenberg J. D. (1983) Psychoanalysis and Infant Research,
The Analytic Press: Hillsdale 1983.
Mahler M.S. – Pine F. – Bergman A. (1975) La nascita
psicologica del bambino, Boringhieri: Torino 1978 (orig.: The
Psychological Birth of the Human Infant, Basic Books: New York
1975).
Ogden T.H. (1994) The
Analytic Third. Working with
intersubjective facts, in: International Journal of Psycho-Analysis
75 (1994), 3-19.
Orange D.M. – Atwood G.E. – Stolorow R.D. (1997) Working
Intersubjectively. Contextualism in Psychoanalytic Practice,
Analytic Press: Hillsdale 1997.
Ricoeur P. (1965) Dell’interpretazione. Essai su Freud, Il
Saggiatore: Milano 1967 (orig.: De l’interpretation. Essai sur
Freud, Editions du Seuil: Paris 1965).
Siegel D.J. (2001) La mente relazionale, Cortina: Milano 2001.
59
Stern D.N. (1985) Il mondo interpersonale del bambino, Bollati
Boringhieri: Torino 1987 (orig.: The Interpersonal World of the
Infant, Basic Books, New York 1985).
Stern D.N. (1995) La costellazione materna. Il trattamento
psicoterapeutico della coppia madre-bambino, Bollati Boringhieri
1995 (orig.: The Motherhood Constellation, Basic Books: New
York 1995).
Stolorow R.D. – Atwood G.E. (1992) I contesti dell’essere. Le
basi intersoggettive della vita psichica, Bollati Boringhieri:
Torino 1995 (orig.: Contexts of Being. The Intersubjective
Foundations of Psychological Life, Analytic Press: Hillsdale
1992).
Sullivan H.S. (1953) La teoria interpersonale della psichiatria,
Feltrinelli: Milano 1972 (orig.: The interpersonal theory of
psychiatry, Norton: New York 1953).
Vygotskij L.S. (1966) Pensiero e Linguaggio, Giunti Barbera:
Firenze 1966.
Winnicott D.W . (1965) The Maturational Processes and the
Facilitating Environment. Studies in the Theory of Emotional
Development, International Universities Press: New York 1965.
60
GIOVANI MARINAI NAVIGANO A VISTA
di Michele LIPANI
Una riflessione sull’universo giovanile e sul disagio che a volte lo
accompagna è di grande interesse, seppure non certo agevole,
perché, più che in altri contesti storici, il mondo giovanile è
protagonista di cambiamenti complessi e soprattutto rapidi.
Possiamo usare il termine “giovane”, ma non solo per semplicità
espositiva, sapendo bene che corriamo il rischio di intrappolarci in
facili cliché.
È un impresa ardua tentare di definire le “tante condizioni
giovanili”, i tanti percorsi verso la vita adulta, anche perché si è
dilatata a dismisura la categoria sociale e soprattutto esistenziale
di “giovane”. Il quinto rapporto IARD [Buzzi, C. et al. (a cura di)
“Giovani del nuovo secolo”. Il Mulino, Bologna, 2002] sulla
condizione giovanile, pubblicato qualche mese fa e al quale farò
costante riferimento nel tracciare le linee del mio intervento,
evidenzia nettamente questa trasformazione.
È già molto significativo l’innalzamento della soglia di età del
campione. Le rilevazioni svolte negli anni ’80 si basavano su
campioni di ragazzi in età fra i 15 e i 24 anni; negli anni ’90 il
limite più alto è stato portato fino ai 29 anni; in quest’ultima
rilevazione l’inchiesta è stata dilatata fino ai 34 anni d’età.
Evidentemente era utile considerare il giovane fino a 34 anni per
osservare il superamento delle ultime Tappe della transizione
all’età adulta.
61
I parametri che l’indagine IADR ha assunto per valutare tale
transizione riguardano in linea di massima cinque tappe evolutive:
1.l’uscita dal circuito formativo;
2.l’inserimento stabile nel mondo del lavoro;
3.l’uscita dalla famiglia d’origine;
4.la formazione di una nuova famiglia;
5.la nascita dei figli.
La quarta e la quinta tappa non sono indispensabili per il
raggiungimento dello status di adulto, ma lo sono per la
sopravvivenza della società.
La comprensione delle componenti psicologiche e delle forme di
disagio che accompagnano il mondo giovanile non può
prescindere dall’analisi di fattori storici, economici e culturali che
lo condizionano.
In questa sede mi limiterò a considerarne solo qualcuno che ha
un’immediata ricaduta psicologica sulla percezione di sé, sulla
percezione del mondo, delle sue risorse e dei suoi limiti.
In tale cornice, accanto ad una maggioranza di giovani che
comunque “se la cava” e riesce a pilotare in qualche modo la sua
vita, vi sono ovviamente coloro che incontrano difficoltà e che
esprimono la loro fragilità con forme di disagio psicologico
tipiche del nostro tempo.
È ormai evidente nella nostra società una duplice tendenza che se
da un lato restringe il periodo dell’infanzia, dall’altro prolunga
l’adolescenza e il tempo di passaggio all’età adulta.
La famiglia è sempre più caratterizzata dalla abnorme permanenza
dei figli nella casa dei propri genitori.
Certamente il processo di affrancamento dalla famiglia di origine
è rallentato da difficoltà strutturali: la carenza delle opportunità di
lavoro, la difficoltà a trovare casa e a pagare affitti spesso troppo
elevati, il guadagnare troppo poco per poter essere
economicamente autonomi, ecc.
Ma non è solo questo: sembrano intervenire anche variabili
culturali che inibiscono la scelta anche quando questa risultasse
possibile.
In altri termini molti giovani “scelgono” e non “subiscono” la
permanenza in famiglia.
62
D’altra parte la vita in famiglia non è più soffocata da vincoli e
limitazioni. I giovani hanno un’ampia libertà: possono per
esempio ospitare amici, oppure il partner, possono andare in
vacanza con chi vogliono e rimanere fuori di casa più giorni, ecc.
Tutto sembra rendere più vantaggioso rimanere in famiglia
piuttosto che assumersi gli oneri e le responsabilità tipiche della
condizione adulta.
Gli scontri tra genitori e figli che caratterizzavano le generazioni
precedenti sembrano lontani anni luce. I legami familiari si stanno
trasformando, la famiglia offre aiuto e protezione in cambio di una
dipendenza relativa e quasi formale. I rapporti familiari
soddisfano bisogni economici, culturali e psicologici, mentre i
genitori sono sempre più restii ad incoraggiare i figli a rendersi
indipendenti.
Naturalmente questa “famiglia lunga” paga anche un prezzo che
non è solo di tipo sociale, contribuendo per esempio al calo delle
nascite, ma anche psicologico, perché il dilatarsi temporale della
condizione di dipendenza può accompagnarsi ad un carente
concetto di sé, a sfiducia nelle proprie risorse, ad inquietudine,
ecc.
La progressiva centralizzazione della famiglia si affianca al
crescente valore che i giovani affidano alle
relazioni
interpersonali, in particolare a quelle amicali e affettive.
I sociologi sottolineano che il sistema di valori dei giovani sta
evolvendo verso la sfera della “socialità ristretta” e della vita
privata, a scapito soprattutto dell’impegno collettivo; le battaglie
della generazione del ‘68 sembrano storia antica. Le indagini più
recenti osservano una diminuzione dell’impegno religioso e una
caduta libera dell’interesse per l’attività politica. Guadagnano
spazio le relazioni amicali e l’importanza attribuita allo svago nel
tempo libero. Nonostante ciò non si può dire che si sta andando
verso un preoccupante individualismo. Il mondo giovanile sembra
accettare la nuova identità territoriale che gli si chiede: un’identità
aperta e composita, che intrecci la dimensione urbana, l’identità
nazionale incorniciata in chiave europea e addirittura proiettata in
senso cosmopolita.
Bisogna coniugare cioè il locale, il nazionale e il globale. I
giovani diventano allora molto sensibili su tematiche come la
63
democrazia, la globalizzazione, l’uguaglianza e la solidarietà: tutti
i valori che hanno sì una matrice collettiva, ma che vengono
applicati alla cerchia ristretta.
Vorrei adesso accennare ad un aspetto secondo me importante che
interviene nel processo di strutturazione della “percezione di sé”
nel mondo giovanile di oggi.
Come sappiamo l’esperienza che ciascuno fa di se stesso è
correlata ovviamente all’insieme delle nostre esperienze
relazionali e produce come distillato gli elementi di base del
concetto di sé.
Questo, insieme alla nostra visione del mondo che ci circonda,
influenza i nostri comportamenti e le scelte di vita.
Per esempio, se sviluppo il senso di inadeguatezza, se penso di
essere privo di valore o poco desiderabile, in un ambiente poco
capace di sostenermi, posso bloccare il mio agire, posso
abbandonare i miei obiettivi di realizzazione personale e
professionale, posso chiudermi di fronte a nuove relazioni e ciò
non mi espone al disagio, alla sofferenza psicologica.
La realtà socio-economica e culturale nella quale vivono gli
adolescenti pone molta enfasi sulla flessibilità e sul cambiamento:
ai giovani viene chiesto di essere disponibili a modificarsi, a
spostarsi da un lavoro all’altro, da un luogo all’altro.
Sono ormai irrimediabilmente lontane le garanzie che il titolo
scolastico apra porte sicure; trovare un lavoro non significa più la
certezza di svolgerlo per tutta la vita.
Questa situazione di “insicurezza”, che sembra riguardare tutte le
classi sociali e tutte le zone del nostro Paese, porta con sé
naturalmente particolari variabili psicologiche e può favorire
anche l’emergere, in alcuni casi, di certe forme di disagio.
Vivere in una realtà quotidiana che esalta l’instabilità e la
discontinuità, non solo lavorativa, ma a volte anche relazionale e
affettiva, chiede all’individuo lo sforzo di ripensarsi e soprattutto
di attrezzarsi, anche psicologicamente, in modo di gestire
situazioni in cui il rischio è dimensione quotidiana e in cui non si
sa mai qual è la scelta garantita o il percorso più opportuno.
Tuttavia questa vita all’insegna della precarietà non
necessariamente è accompagnata da catastrofi psicologiche.
64
Anzi, ho l’impressione che nella maggioranza dei casi i giovani
hanno imparato a muoversi in una condizione di incertezza.
Vivono il presente con un desiderio di esplorare opportunità e di
mantenere il futuro aperto a più possibilità.
Ciò è possibile solo se possono sviluppare un concetto di sé
positivo e se riescono a percepire adeguate risorse nelle relazioni
che li circondano.
Sembra addirittura che tra i giovani sia in crescita il livello di
soddisfazione della propria vita: i giovani sembrano più adatti e
sintonici con il “mondo”.
Anche se gravi fatti di cronaca ci indurrebbero ad essere
catastrofisti, credo sia molto cresciuta la qualità dei rapporti tra
genitori e figli, con punti di contatto e di accordo inimmaginabili
fino a pochi decenni fa.
L’enfasi che la nostra società pone sulla flessibilità si correla
anche ad un cambiamento dell’atteggiamento dei giovani nei
confronti del futuro. Si tende a dare molto più rilievo alle
esperienze interessanti nel presente, piuttosto che pianificare il
futuro.
Questa tendenza a presentificare la propria esistenza non significa
rinunciare a mettersi al centro della propria vita, ma è chiara la
difficoltà di prefigurare i propri percorsi futuri.
È stato obliterato ormai il valore della pianificazione razionale a
lungo termine: si sta radicando l’accento che i contesti produttivi
aziendali pongono sugli obiettivi a breve termine.
Viene premiata cioè la capacità di “navigare a vista”.
Rimane centrale il continuare a darsi obiettivi, ma sapendo che
possono modificarsi nel tempo, anzi da un momento all’altro.
Per alcuni però diventa difficile gestire l’incertezza senza farsi
travolgere dal senso di precarietà.
Il disagio si esprime con la sfiducia nella possibilità di tenere il
timone della propria vita, o con un vissuto di inadeguatezza e di
impotenza.
La sfiducia nei confronti delle proprie forze interne non è solo un
fatto individuale; non è comprensibile infatti se non la correliamo
alla sfiducia nella affidabilità delle persone che li circondano, sia
coetanei che adulti: è difficile contare su se stessi se non si può
contare su nessuno.
65
Senza entrare nell’ambito delle psicopatologia, il disagio può
assumere molteplici forme che investono in primo luogo la
percezione di sé e delle proprie caratteristiche personali.
Il primo indicatore è il senso di inadeguatezza in rapporto alle
aspettative sociali e ai modelli che vengono abitualmente proposti.
Gli elementi alla propria identità che sembrano vacillare più
frequentemente sono l’adeguatezza del proprio corpo e la
valutazione delle proprie capacità.
Le ragazze sviluppano una maggiore autocritica rispetto ai loro
coetanei. Sono spesso più inquiete e scontente per le difficoltà
nell’affermazione della loro autonomia, della loro capacità
decisionale e nel controllo delle emozioni e dei sentimenti.
È ormai fin troppo noto come la percezione del proprio corpo sia
un altro altare sacrificale nel travaglio adolescenziale. Molto
spesso il proprio aspetto fisico viene valutato come inadeguato nel
confronto con un ideale da cui ovviamente ci si può sentire
dolorosamente lontane. Mentre il corpo maschile “deve” essere
prestante e pronto all’azione, al corpo femminile si chiede di
essere “bello”, fatto per essere guardato.
Per entrambi si alimenta cosi la paura del giudizio altrui e su tale
paura si innesta un disagio molte volte sottovalutato dagli adulti.
Su questi aspetti il periodo psicologicamente più travagliato è
sotto i 20 anni, con picchi di maggiore criticità fra i 18-20 anni.
Nello stesso periodo si chiede ai giovani di prendere decisioni
importanti per il proprio futuro (per esempio la scelta lavorativa
oppure universitaria), si aggiunge cosi la paura della confusione,
che può frastornare e sfiancare.
Credo siano più di quanto immaginiamo i giovani che si sentono
preda di un’inquietudine che prende la forma di confusione e di
ansia, spesso accompagnate da sentimenti di tristezza e paura, non
ultima la paura delle critiche e del giudizio.
I più giovani possono sentire di perdere la testa e di non farcela,
mentre un nemico pericoloso e sempre in agguato è quella
insidiosa forma di noia che non motiva ad essere più creativi, ma
che paralizza la capacità di fare progetti e pianificare l’agire,
lasciando troppo scarto tra la fantasia, le aspettative e la realtà.
66
Via via molte di queste inquietudini si attenuano: ci si sente più
stabili, più capaci di gestire la propria vita, ma a sorpresa
troviamo un altro snodo critico che espone al disagio intorno ai 25
anni.
Fino a quell’età sembra che il non essere indipendente non
influisce sulla sensazione di padronanza della propria vita;
superata però la soglia dei 25 anni, chi non ha ancora imboccato la
strada dell’autonomia, fatica a sentirsi protagonista della propria
vita.
È come se vi fosse un’età critica oltre la quale la nascita sociale
non può più essere rimandata, pena la perdita dell’autostima. A
volte può aggiungersi, sempre intorno ai 25 anni, la fatica nelle
relazioni, soprattutto nelle relazioni affettivamente più
significative. È vero che molti non vivono problemi rilevanti nel
rapporto con i genitori, con i quali sono minime le situazioni
conflittuali, ma a ciò fa da contrappeso la frequente problematica
delle relazioni con i coetanei, specie con il partner.
Può cosi aumentare il numero di coloro che sentono di non poter
contare sull’aiuto di qualcuno, di non essere apprezzati e
soprattutto cresce la sensazione di solitudine.
Sintetizzando, con l’attraversare dell’età giovanile si afferma per
i più l’idea che è possibile influire sulla propria vita, che ha senso
continuare a fare progetti, anche se la realtà circostante ha i segni
della precarietà, della frammentazione, dell’impossibilità di
elaborare obiettivi a lungo termine. È però necessario compiere
alcuni passi verso la nascita sociale, i più importanti sono
l’inserirsi nel mondo del lavoro e l’uscire dalla casa dei genitori.
Infine, non può essere trascurato il senso di solitudine che a volte
si amplifica nell’ultima fase dell’età giovanile.
Se si è ridotta la problematicità della presenza affettiva dei
genitori, e in generale degli adulti, è invece aumentata la necessità
che gli adulti facciano da guida, da sostegno di fronte
all’incertezza.
67
DE SUR A SUR:
MODELLI D’INTERVENTO SUI MINORI
E CULTURE A CONFRONTO
di Daniela ROSSINI OLIVA
Le immagini che è possibile vedere nel video (n.d.r. vedi CD –
Rom allegato) sono tratte da un documentario girato da ASPEM,
una ONG (Organizzazione Non Governativa) con la quale sono
stata in Perù circa tre anni fa. Si tratta di un documentario sul Perù
e sulle principali istituzioni che si occupano della difesa dei diritti
68
dei minori descrivendone alcune metodologie d’intervento. Il
titolo del documentario è “Queremos carino”, titolo piuttosto
significativo poiché vuol dire “desideriamo, vogliamo essere
voluti bene”.
L’ASPEM (Associazione Solidarietà Paesi Emergenti) è una ONG
cattolica nata a Cantù nel 1974 da una esperienza di comunità
cristiana con un forte impegno sociale e civile, che identifica nella
solidarietà tra i popoli del nord e del sud uno dei temi decisivi per
la costruzione di un futuro di giustizia e di pace.
Il presente intervento nasce da varie esperienze che ho avuto la
possibilità di fare in alcuni paesi dell’America Latina (Perù,
Brasile, Bolivia..), esperienze che mi hanno dato la possibilità di
fare alcune riflessioni. Ritengo sia possibile individuare un
parallelismo tra le diverse realtà di disagio giovanile e tra i
modelli di intervento messi in atto. Ciò ci permette di confrontare
quello che è il disagio giovanile da noi e come può essere vissuto
in un altro “sud” del mondo.
In Perù sono stata per alcuni mesi “in appoggio” a due progetti:
Il progetto di Aspem sulla prevenzione e l’intervento sulla
violenza in generale, e su quella intrafamiliare in particolare
(abuso, maltrattamento, etc.), finanziato dal MAE (Ministero
Affari Esteri italiano).
Il progetto di una ONG locale, CEAPAZ, di intervento sui minori
cosiddetti “jovenes infractores” (giovani che hanno infranto la
legge), che prevedeva un’attenzione “integral” (psicologica,
legale, educativa) per quei giovani entrati nel circuito penale.
Non è stato facile decidere su quale fosse il “taglio” più adeguato
da dare a questo breve scritto: una prima possibilità poteva essere
quella di illustrare la metodologia di intervento usata in un altro
contesto culturale, quale appunto il Perù o il Brasile, così da
confrontare le differenti esperienze e discutere della metodologia
usata da CEAPAZ con “los jovenes infractores” (metodo che
risulta particolarmente efficace in quanto prevede un intervento a
360 gradi). Ma alla fine la scelta è ricaduta, anche per ragioni di
spazio, sul focalizzare l’attenzione su due riflessioni principali.
1.La prima riguarda il concetto e l’importanza della cultura dove
si colloca il disagio: non si può, infatti, non tenere conto del
contesto sociale e culturale nel quale il disagio è vissuto.
69
2.La seconda riflessione riguarda il concetto stesso di disagio e di
trauma.
Innanzitutto è necessario chiedersi perché sia necessario
approfondire il concetto di cultura: è chiaro che, se cerchiamo di
confrontare alcune situazioni, alcuni fenomeni come il disagio o la
devianza minorile, e le relative metodologie di intervento e
modalità operative, possiamo individuare delle analogie così come
delle differenze tra una cultura e l’altra, che però vanno lette
all’interno del contesto socioculturale in cui si manifestano.
Rispetto a questo devo dire che una delle maggiori difficoltà che
ho sperimentato andando a lavorare come psicologa in un contesto
culturale diverso è proprio quella di riuscire veramente a coglierne
il significato. La tendenza è di ricercare le somiglianze e ciò non
aiuta. In tal senso il peso della formazione, dell’origine, del
proprio background culturale è fortissimo. Ricordo le visite ad
alcune comunità dove andavo sempre ricercando le somiglianze
con le nostre, piuttosto che valorizzarne le differenze.
A proposito di somiglianze, faccio l’esempio dei cosiddetti
“meninos de rua”. Proviamo, in questo confronto, a vedere e
capire se ad esempio tale fenomeno dei “bambini di strada” (così
forte in Brasile, Perù, India, etc..) esista con le stesse
caratteristiche anche in Sicilia.
Parto dal lavoro svolto sul campo in Sud America, confrontandolo
con quello che ho la fortuna ed il piacere di svolgere abitualmente
in Sicilia, sia per conto del Servizio Sociale del Comune di
Alcamo (dove lavoro come psicologa), che presso una Comunità
Alloggio per minori (“Lo scrigno dei sogni”) a Castellammare Del
Golfo. Si tratta quindi di esperienze dirette, vissute (nel caso del
lavoro in America Latina) con la difficoltà di chi, oltre a capire se
stesso nel rapporto con il minore, deve anche comprendere il
contesto culturale all’interno del quale questa relazione è vissuta.
La prima cosa che bisogna fare è operare un cambiamento di
prospettiva, vedere i “minori” non tanto come semplici oggetti di
interventi educativi e legislativi, riducibili a un insieme di dati
numerici, quanto piuttosto come soggetti portatori di diritti, di
desideri e di domande che meritano risposte, come portatori di
uno sguardo diverso sul mondo.
70
Il termine “bambini di strada” è la traduzione letterale del
portoghese “meninos de rua”, una delle espressioni più usate per
parlare del dramma dell’infanzia povera ed abbandonata. Si tratta
in realtà di un termine molto generico per parlare di un fenomeno
molto più complesso e composito. Per questa ragione da alcuni
anni la maggior parte degli operatori sociali preferiscono usare
due termini diversi, che tendono ad individuare due grandi
tipologie di situazioni esistenziali:
- meninos “na” rua (bambini “nella” strada)
- meninos “de” rua (bambini “di” strada).
Il primo termine descrive una situazione di vita che riguarda
decine di milioni di bambini dei paesi del sud del mondo; si tratta
di minori che trascorrono intere giornate nella strada: per
vagabondare, giocare, vendere, lavorare ed altro ancora.
Per molti di loro continua però ad esistere un punto di riferimento
adulto: una casa per la sera, un letto dove dormire, un padre, una
madre, dei fratelli, etc. la strada, cioè, pur costituendo uno degli
elementi fondamentali del percorso esistenziale del minore non
rappresenta ancora l’unico spazio vitale.
Con il termine di “meninos de rua”, si fa invece preciso
riferimento alla situazione di quei bambini che stabilmente vivono
sulla e della strada. Per la gran parte di questi ragazzi si sono
interrotti i rapporti con la famiglia e non c’è, se non raramente,
ritorno a casa. La strada è diventata progressivamente la casa e gli
altri “meninos” del gruppo la loro famiglia.
Stando a questa distinzione nel nostro paese non assistiamo, se
non in pochi casi isolati, a questo tipo di fenomeno.
Esistono invece “meninos na rua”. Rispetto a ciò individuiamo
delle similitudini con i nostri “ragazzi di strada”. Mi viene in
mente a tal proposito un progetto (“Progetto Tam Tam”), cui ho
lavorato alcuni anni fa, realizzato da una società palermitana
(“Agronica”) per il recupero e l’inserimento occupazionale di
minori a rischio di alcune aree marginali della città di Palermo. Il
profilo dei minori che ne veniva fuori è pressappoco uguale a
quello che emerge dalla ricerca fatta a Lima da CEAPAZ: si tratta
della messa a punto di un “diagnostico” per individuare il profilo
di personalità dei “jovenes infractores”. Da tale profilo è infatti
emerso che si tratta per lo più di giovani di età compresa tra i 12 e
71
15 anni, più di sesso maschile che femminile, provenienti da zone
marginali, con scarsa cultura, cresciuti in famiglie
multiproblematiche dove spesso non hanno potuto continuare o
completare gli studi. Uguale è anche la loro incapacità di pensare
in termini progettuali. Per loro non esiste un futuro da iniziare a
progettare, ma solo il presente da vivere nella sua quotidianità. Si
tratta di giovani che non vedono davanti a loro molte alternative,
tant’è che una domanda che questa estate spesso facevo ai ragazzi
brasiliani era: perché la strada?
È una scelta forzata da una situazione terribile: i bambini non
scelgono di vivere in strada, ne sono costretti dalla loro disastrosa
condizione familiare e sociale. In questa drammatica situazione, la
strada rappresenta una buona scelta perché li aiuta: vanno in
strada perché è l’unica alternativa alla realtà disumana a livello
affettivo, morale ed economico in cui vivono, spesso è l’unica
alternativa ad una vita di stenti, perché alla fine un modo per
sopravvivere lo trovi. La risposta di molti minori a come mai
scelgono la strada è perché essa li accoglie, sempre, così per come
sono: brutti, cattivi, che rubano, che fumano, ecc. Inoltre nella
strada incontrano altri bambini nella loro stessa condizione e
hanno la possibilità di creare con questi una relazione di fiducia,
di protezione e sicurezza. Si tratta di situazioni dove la famiglia
esiste ma non si preoccupa molto di loro, non possono andare a
scuola perché molti non hanno la possibilità di frequentarla, non
hanno possibilità di trovare un lavoro perché di lavoro ce n’è poco
ed il salario è molto basso. Allora la strada è una alternativa, direi
l’alternativa alla disperazione. I bambini in strada poi si
organizzano e cominciano a sentirsi forti, fanno gruppo, diventano
spesso violenti. La strada ha le sue regole da seguire, i suoi capi
cui ubbidire, invidie e vendette.
Loro non programmano niente perché il futuro è un’incognita.
Queste sono le analogie che possiamo riscontrare con la
situazione del nostro paese.
In questo scenario un altro elemento compare come tratto
comune: la violenza.
Assistiamo complessivamente ad un aumento della violenza agita
dai minori e ad un espandersi della conoscenza sulla violenza
subita. Ciò che è diverso confrontato con il Brasile o il Perù è
72
l’intensità e le forme in cui si esprime nei due lati del pianeta. In
Brasile e Perù sui “meninos de rua” si opera una vera e propria
politica di sterminio, ossia sono spesso uccisi. Da questo punto di
vista non esiste comparazione con la nostra situazione locale.
Questo non significa però che non esista un problema di violenza
sui minori qui da noi, ma che viene esercitata in forme diverse
(psicologica, fisica, sessuale…).
Dati che ci accomunano riguardano invece l’aumento, anche in
Italia, della devianza giovanile congiuntamente ad un
abbassamento dell’età di esordio dei comportamenti devianti: a
New York, come a Lima, a Rio come a Bombay.
Altre grosse analogie fra situazioni del Sud e del Nord del pianeta
le possiamo rintracciare laddove ci aspetteremmo di meno: cioè
dal lato delle strategie di intervento ed educative di risposta al
problema. Soprattutto la pressione internazionale spinge da alcuni
anni ad un moltitudine di micro - progetti di intervento promossi
e gestiti principalmente dalle ONG locali con la cooperazione di
molti paesi europei. Contemporaneamente negli ultimi dieci/
quindici anni quasi tutti i paesi industrializzati si sono trovati a
dover cercare risposte al crescente fenomeno del disagio giovanile
(devianza, criminalità, tossicodipendenze, etc). Nonostante
l’enorme disparità di mezzi e la differenza dei problemi da
affrontare, molti operatori si stanno oggi incontrando
sull’importanza di una metodologia VICINA al mondo dei
ragazzi. In questo senso troviamo oggi educatori di strada e
progetti di strada sia qui che lì, ed è proprio in tal senso che
abbiamo parecchio da imparare.
Se queste sono le analogie, le differenze più grandi invece
riguardano il contesto culturale. Quando noi parliamo di disagio
vediamo che esso cambia da un paese all’altro. Se cerchiamo la
parola disagio sul vocabolario vediamo che vuol dire “privazione,
mancanza, scarsità di cose necessarie”. Bisogna allora capire cosa
è mancante, carente, e ciò è fortemente influenzato dalla cultura.
Pensare alla connotazione culturale è molto importante perché poi
ciò ha una ricaduta sul modo in cui pensiamo un intervento.
Qualsiasi intervento nel sociale non ha alcuna possibilità di
successo se non tiene conto e se prescinde da un’attenta e
73
scrupolosa lettura e conoscenza del contesto in cui si interviene.
Cos’è la cultura? È un insieme di norme, di comportamenti, valori
accettati da un certo popolo. È la stessa cultura che legittima certi
comportamenti o altri. Ad esempio nella cultura andina l’uso ed il
ricorso ad azioni violente è molto diffuso come legittimo modello
educativo. Le stesse modalità di accudimento, le pratiche di
allevamento, variano da una cultura all’altra. A tal proposito vi è
un testo molto interessante dal titolo “Dal dolore alla violenza, le
origine traumatiche dell’aggressività”, che sottolinea la forte
relazione tra violenza, disagio giovanile, sistema sociale e
culturale. È l’approvazione culturale che crea le condizioni per
l’aumento o la riduzione di un certo comportamento o fenomeno.
Occorre vedere in un certo contesto quanta violenza socialmente
accettata esiste. Un’interessante ricerca condotta negli USA rileva
che i paesi dove il ricorso alla violenza per scopi socialmente
convalidati (guerre, pena di morte, violenza razziale) è molto alto,
sono proprio quei paesi dove si assiste ogni anno ad un forte
aumento della violenza da parte dei minori. È la cultura che
definisce cosa è normale e cosa patologico, molti comportamenti
diventano pratiche legittime, normali in una certa cultura,
patologiche in un'altra (es. l’infibulazione). Di tutto ciò dobbiamo
ovviamente e necessariamente tenere conto quando poi
progettiamo un intervento sociale e pensiamo alle metodologie da
utilizzare perché possano avere maggiore successo. Non esiste,
infatti, “la” metodologia di intervento sul problema del disagio
giovanile o dei minori a rischio, ma essa va assolutamente
calibrata e modulata rispetto al contesto di intervento.
La seconda riflessione del mio intervento riguarda, come detto
all’inizio, il concetto stesso di trauma. Questa riflessione nasce
dalle esperienze vissute in Sud America e dai tanti racconti sentiti
dai ragazzi, ma anche dal lavoro svolto in Sicilia. Ascoltando
diverse storie di vita, spesso mi chiedevo e mi continuo a chiedere
perché per alcuni ragazzi taluni episodi sembrano essere così
normali e naturali, e per altri traumatici. Ma allora: chi stabilisce
cosa è traumatico? Il soggetto o gli altri? A volte gli altri dicono
che un soggetto ha vissuto un’esperienza traumatica, ma bisogna
riflettere su ciò. Questo non per negare drammaticità o dolore ad
74
una certa vicenda, ma perché altrimenti ci perdiamo, non teniamo
conto della percezione che di esso ne ha il soggetto che la vive. Lo
stesso vale per il concetto di disagio. Allora bisogna sapere in
primo luogo ascoltare i giovani che ci parlano. Spesso, purtroppo,
si danno molte, troppe cose per scontate, mentre un evento, per
quanto doloroso, non ci autorizza subito ad attribuire a chi lo vive
vissuti e significati da noi predefiniti da ciò che per noi è la
violenza, il trauma, o il disagio. Il rischio maggiore di ciò è che ci
perdiamo l’altro e non capiremo mai perché ha scelto una strada e
non quella giusta dove noi volevamo condurlo. Credo che questo
è l’insegnamento più grande che mi hanno dato e continuano a
darmi tutti i ragazzi (siciliani, peruviani, boliviani, non credo che
ciò importi) che finora ho incontrato e che hanno deciso di
narrarmi le loro vicende non sempre fortunate.
75
IL CATTIVO TENENTE
di Dario CAGGIA
Il mio intervento vuole essere una breve riflessione sul concetto di
devianza che è altro rispetto all’essere identificati come i cattivi e
dunque con il “male”. Il male è l’elemento caratterizzante sia nel
film Arancia Meccanica di Kubrick (cfr. il CD - Rom allegato) che
nel film Il Cattivo Tenente di Abel Ferrara, da cui ho preso in
prestito il titolo per il presente scritto. E comunque i due film sono
in interazione reciproca come se, da due angolature diverse, uno
confermasse i contenuti dell’altro.
Il personaggio di Alex in Arancia Meccanica, presentato con
feroce ironia dal regista, è un cattivo giovinastro di una
comunissima famiglia borghese. Egli farà esperienza di come la
propria cattiveria è soltanto una pallida idea del genere, se
confrontata con il cinismo dei politici e dell’assistente sociale
deluso perché ferito nel suo narcisismo professionale, con la
violenza della polizia impersonata dai suoi precedenti compagni
di “avventura” rimasti impuniti, la vendetta degli anziani a loro
tempo malmenati, la perversione terapeutica dei cosiddetti
scienziati del recupero sociale, esperti in violenza psicologica e
potrei andare avanti…
A questo desolante panorama presentato dal regista, come
dicevamo, con grottesca ironia fa da contraltare la discesa agli
inferi e l’inaspettata redenzione tutta interiore di un tenente di
polizia nel film di Abel Ferrara. Il cattivo tenente Harvey Keitel
utilizza il suo “potere di ufficio” per violare impunemente ogni
regola, quasi in una sfida con se stesso. Si fa di coca, ruba soldi
alle vittime di reato, occulta prove per interesse personale, compie
atti di libidine ai danni di due ragazze minorenni, truffa, gioca
d’azzardo, intrattiene rapporti d’affari con la criminalità
organizzata. Interessante è il confronto tutto interiore tra il sé e la
sua immagine deviante. In questa discesa negli inferi trova la
forza per risalire, folgorato dalla forza d’animo e la bontà di una
suora che violentata riesce a perdonare i giovinastri responsabili.
Combattuto tra eliminarli fisicamente o aiutarli decide di farli
76
fuggire dandogli dei soldi, quelli prestatigli da un boss di New
York e non più restituiti. Viene ucciso proprio per questo qualche
minuto dopo aver aiutato a fuggire i due giovani violentatori.
Storie di cattiveria, intesa come il male che si impossessa di noi e
ci fa scendere in un vortice dove ogni azione negativa ci spinge
sempre più giù. In termini criminologici questo male-violenza
etero ed auto indirizzato è in ognuno di noi, il rischio c’è sempre,
bastano il contesto e l’occasione giusta e tanta indifferenza da
parte del mondo circostante. Ma tutto questo non si può
confondere con la devianza intesa come disagio. Il minore
deviante non è un cattivo al quale contrapporre la società buona, il
minore deviante ha una sua storia che lo ha portato, consapevole o
meno, sino a lì. Spesso la sua vita è costellata di esperienze
negative che lo hanno allontanato da un sé sano e positivo. Come
il cattivo tenente il nostro giovane ha conosciuto la violenza, le
brutture della vita e passo passo è stato tirato giù da questo
mondo. Quindi diciamo che la devianza intesa come disagio non è
altro che un lento essere tirati giù in un inseguirsi di esperienze
sempre più grigie… e le Istituzioni purtroppo forse
inconsapevolmente non fanno spesso che accelerarne la
sequenzialità. Il suo interagire con la società non è lontano da
quello di Alex del film di Kubrick, con una semplice differenza:
Alex è un cattivo puro che incontrerà una cattiveria più cinica e
dura; il nostro giovane deviante non è un cattivo, è uno che spesso
cerca di sopravvivere e per far questo compie azioni balorde, ma
non peggiori di quelle commesse da altri soggetti che non hanno
disagio esistenziale e non sono etichettati come devianti.
La devianza, dunque, è intesa come disagio esistenziale, in un
passaggio generazionale dove si eredita un pesante legame con la
povertà, l’emarginazione, il dolore. Esemplare in tal senso la
storia di emarginazione e sofferenza di una famiglia, la famiglia
dello zio Charlie di Brooklyn raccontata dal nipote fotografo. La
sorella dello zio Charlie era riuscita a uscire dall’ambiente
imposto dal padre, piccolo boss di quartiere, che gestiva
scommesse e gioco d’azzardo. Ma lui non era riuscito ad
affrancarsi dalla sua famiglia e dal grigiore esistenziale che la
permeava. Lo zio Charlie era stato un alunno modello, il suo
nome era stato iscritto persino negli elenchi d’onore della
77
Comunità. Poi aveva conosciuto una donna, malata di diabete ed
“attaccata alla bottiglia”, e aveva avuto cinque figli, ma ben
presto a causa della depressione aveva perso il suo lavoro di
meccanico. Da allora aveva smesso di uscire da casa. Se ne stava
in una stanza buia, proprio come era accaduto a suo padre, che per
dieci anni, prima di morire era rimasto seduto dietro una finestra,
capace solo di fissare la strada. La moglie aveva deciso di
andarsene perché non poteva più sopportare quella vita.
I figli li aveva lasciati al marito, un terremoto per il nucleo
familiare di Charlie. Charles, il più grande dei figli, per un certo
periodo aveva cercato di prendere il posto del padre sempre più
depresso, ma era crollato sotto il peso delle responsabilità, e la sua
esperienza di capo famiglia si era conclusa con una settimana di
internamento in un ospedale psichiatrico. Zio Charlie aveva avuto
un moto di reazione, si era rimesso in circuito, aveva ripreso
contatti con il quartiere, si era trovato un’altra donna, purtroppo
dipendente dal crack. Lui le pagava la droga e insieme si
facevano. Da quel momento tutto era andato sempre peggio, il
figlio Brian aveva cominciato a bere, l’altro Joe, sposato con due
figli, aveva scoperto di avere contratto l’aids. Appena il tempo di
regolarizzare la sua famiglia per garantirgli l’assistenza sociale,
moriva di lì a poco. Charlie voleva far seppellire il figlio vicino
alla tomba del nonno ma gli altri figli si erano opposti, come in un
ultimo vano tentativo di uscire dalla spirale che li aveva trascinati
verso il basso… Charlie non era così riuscito a fare altro che a
chiudersi di nuovo in casa… e a sedersi dietro la finestra proprio
come suo padre. Questa, in sintesi, è la storia che volevo
raccontarvi, splendido articolo del supplemento “D” di
Repubblica. Cosa dire rispetto al dramma esistenziale della
famiglia dello zio Charlie, un destino che si tramanda di
generazione in generazione, con i “ben pensanti” pronti ad
additare chi sbaglia e ha violato la legge. Ad un membro di una
famiglia di questo tipo che si trova coinvolto in un fatto di reato
cosa volete che importi quello che dice l’operatore sociale o il
Giudice. Spesso il reato con il quale conosciamo il ragazzo non è
altro che una parentesi abbastanza insignificante in un mare
magnum di problematiche dove noi operatori sociali veniamo
percepiti come una presenza quando non sgradevole comunque
78
evanescente. Questo non vuol dire che non si possa lavorare per
rimotivare questi soggetti, sarebbe però importante eliminare le
contraddizioni. Questa situazione limite, che in realtà rappresenta
solo una minoranza di casi, è dunque utile per riflettere. Non
bisogna identificare il reo, che proviene da un simile inferno,
come il cattivo… Il cattivo tenente, come Alex, siamo tutti no;
c’è poi chi viola la legge e va punito in quanto ha violato la legge
ma che non rappresenta il “Male” e noi il “Bene”… Così le
contraddizioni dell’intervento sociale e pedagogico nei confronti
dei minori che commettono reati, lo sdegno dell’opinione
pubblica dovrebbero rientrare in un quadro di maggiore
consapevolezza e di maggiore comprensione della complessità e
della sofferenza che fanno, spesso, da sfondo alla devianza.
79
CHE C’ENTRA
LA DEMOCRAZIA?
di Enrico SCHIRRU
La devianza è ricerca di senso
L’attenzione per il comportamento “deviante” nell’ambito
minorile-adolescenziale diventa sempre più un argomento di
convergenza tra studiosi ed operatori del disagio evolutivo dei
ragazzi dei nostri giorni.
Le analisi e le risposte dello Stato (vedi diverse leggi in ambito
infantile-adolescenziale), del privato sociale e del volontariato si
intrecciano, nel ricercare una sempre più fattiva collaborazione nel
confronto culturale e nell’operatività.
La ricerca scientifica si è arricchita (tesi di laurea, testi, riviste,
ecc.) nell’analisi degli interventi istituzionali e non. Si alternano
attivismo interventistico e momenti di sfiducia e/o disinteresse.
Dopo una breve presentazione del fenomeno, vedremo le risposte
legislative, anche se non del tutto attuate nelle loro potenzialità
innovative ed infine la devianza in rapporto alla società.
Il fenomeno
Negli anni ’90 sono quattro i film usciti sulla problematica del
carcere minorile e del recupero e reinserimento dei giovani che
hanno avuto a che fare con il penale e l’amministrazione della
giustizia: “Mary per sempre”, “Ragazzi fuori”di Marco Risi e poi
“Vite perdute”di Giorgio Castellani, mentre a Napoli uscì
80
“Scugnizzi”di Nanni Loy. Questa nuova attenzione al sociale degli
anni ’90 ha coinvolto anche la Chiesa che, nella scelta
preferenziale degli ultimi, ha considerato ultimi anche gli uomini
del carcere.
La Chiesa deve pensare la giustizia non più in termini retributivi o
afflittivi ma con la “sconcertante” logica del perdono. Nel Vangelo
ritroviamo la logica del perdono; dobbiamo pensare anche il
penale in modo diverso, non solo in termini retributivi di colpa e
pena ma anche di recupero e reinserimento. Il carcere è nato di
recente e non è detto che debba esistere per sempre. Voglio
immaginare un nuovo millennio senza carceri e mi aspetto dal
legislatore maggiore fantasia nel propinare le pene. Parliamo di
diritto penale perché ad ogni colpa, ad ogni comportamento
deviante, ad ogni reato, l’ordinamento giuridico non ha altre
modalità di risposta se non la pena, quantificata, giusta, certa,
mentre quelle che chiamano pene alternative al carcere sono un
po’ una favola, non vengono applicate. Esiste, però, una
legislazione in tal senso: la legge Gozzini e l’attualissima legge
Simeone, ma generalmente non vengono applicate, sia perché i
servizi sociali, incaricati di redigere la relazione di sintesi insieme
alla psicologo e agli educatori del carcere, sono oberati di lavoro,
sia perché le fedine penali, le informative fornite al tribunale di
sorveglianza dai carabinieri, dalla polizia del territorio su quel
pregiudicato risalgono al tempo del reato e quindi il giudice,
giustamente, non ha elementi nuovi per adottare le misure
alternative al carcere. Inoltre, per il detenuto è molto difficile
reperire un foglio di assunzione da un qualsivoglia datore di
lavoro che gli permetta di usufruire di tali misure.
Solo una nuova etica della responsabilità può fondare una nuova
giustizia. Non si risponde alla violenza con altrettanta violenza.
La pena deve tendere alla rieducazione del reo (Costituzione art.
27). Il fine della pena è redimere e recuperare il reo per reinserirlo
nel tessuto sociale come autentico cittadino.
Faccio il cappellano in carcere da 13 anni, dal 1991 al minorile
Malaspina e, da quando è stato aperto, al Pagliarelli (entrambi siti
in Palermo n.d.r.); negli ultimi tre anni opero presso la casa di
reclusione di San Cataldo e vi posso assicurare che il carcere non
81
educa: non educa quello degli adulti e non educa quello dei
minori.
Secondo la norma costituzionale la pena deve tendere alla
rieducazione del reo e, se qualche speranza di recupero c’è, è
possibile proprio con i minori: bisogna scommetterci, investire e
progettare a loro favore. Il film di Marco Risi (vedi sequenza nel
Cd – Rom allegato n.d.r.), in particolare, parla di “ragazzi fuori”,
ragazzi che hanno commesso un reato, hanno sbagliato, escono e
vogliono cercare di risolvere la loro vita, vogliono provare a
lavorare, e la risposta del vigile, in rappresentanza delle istituzioni
è: “Che c’entra la Democrazia?”. Le forze dell’ordine chiudono
gli occhi su tante altre cose ma non sulla licenza di quel ragazzo!
Ma poi, nello stesso film, c’è una scena ancora più cruda: un
poliziotto che vede rubare lo stereo da una macchina, insegue alla
Vucciria il ragazzo autore del furto, chiamato King Kong,
uccidendolo e l’amico che lo piange dice “Cu c’ù dici a so
matri?” “Chi glielo dice ora a sua madre?” per dire che, senza
dubbio, non si può rispondere così alla devianza e alla violenza.
Non si può rispondere alla violenza con altrettanta violenza. La
violenza richiama altra violenza. L’autore e la vittima del reato
sono ambedue vittime. I tentativi di mediazione penale adottati
per i minori hanno portato alla riconciliazione: tentare vie nuove,
anche se è necessaria la giustizia retributiva e riparativa, ci fa
pensare la pena non più come strumento afflittivo e punitivo
anche quando si è cagionata una sofferenza. Mediazione vuol dire
uscire dalla logica di chi vince e di chi perde, se la logica della
lotta alla criminalità finisce con la vittoria dello Stato o dei
criminali non cambia niente. Si deve invece dialogare e trovare
l’accordo per superare i conflitti. Escludere il reo dalla vita sociale
vuol dire ritardare la sua crescita e il suo cambiamento, “mettere
dentro” gli individui pericolosi non risolve il problema ma lo
rinvia. Il drogato, il ladro, il pedofilo erano tali prima di entrare in
carcere e il carcere non risolve il problema anzi, così come
funziona oggi, non educa, né quello dei minori né tanto meno
quello degli adulti.
La vittima del reato non è felice se l’autore del delitto si fa più
anni di carcere, ma è felice se si emenda del male fatto, si pente e
si recupera. Bisogna riparare al male commesso operando il bene.
82
Il carcerato è un uomo ed è un cittadino e in quanto tale va bandita
la mentalità di vendetta personale o sociale verso chi ha sbagliato,
bisogna invece tenere alla dignità di ogni essere umano e fare il
possibile perché ogni cittadino sia accolto e perdonato dallo Stato
che è padre. La mediazione serve per aprire le porte della
speranza, serve per fornire una risposta soprattutto alla vittima che
nel nostro Ordinamento non è tenuta in alcun conto, perché il fine
del diritto è la giustizia e la pace sociale. Il nostro Ordinamento,
invece, ricerca solo il colpevole e non si cura della vittima e della
pena, vuole che il reo paghi, il resto non conta.
Il problema è sociale, il problema è culturale. Se cambia la cultura
cambia la società. Il male non sta solo in carcere, il male abita
fuori. Fa comodo a tutti pensare che i cattivi stanno là dentro, così
noi siamo tutti buoni. Ma non è così, entrano i ladri di polli e la
fanno franca gli evasori fiscali!
È urgente educare alla legalità per giungere alla mediazione
penale e al perdono. L’amnistia non è perdono, è favorire
qualcuno; perdono è gratuità, impegno, è per tutti, è modo di
vivere con gli altri che ci fa sentire una famiglia dove la vittima
perdona il reo e il reo la vittima e se stesso per giungere ad una
vera e profonda riconciliazione. Il codice stesso sostiene che la
pena deve portare alla riconciliazione con la parte lesa. Mentre mi
accingo a chiudere questo mio scritto mi giunge notizia che è stata
approvata la legge sull’indultino: circa 9.000 detenuti
usufruiranno di questo gesto di clemenza e potranno ricominciare
una nuova vita, con la condizione che se nei prossimi cinque anni
compiono un reato pagheranno anche i due anni condonati.
Pensare la pena in questi termini ci avvicina al sistema penale
anglosassone dove il giudice ha la libertà di propinare la pena
adatta al caso singolo e intervenire in maniera immediata per il
recupero e il reinserimento del reo. Sarebbe interessante che anche
in Italia il giudice prevedesse pene socialmente utili.
Per entrare nella logica del perdono, con cui Dio perdona ogni
creatura che si pente di cuore nel profondo, devo parlare di colpa
e di pena, fermo restando che la Chiesa condanna il peccato e non
il peccatore che è sempre capace di redenzione e riconciliazione.
Il tuo peccato appartiene al passato, non c’è più, ora tu sei una
creatura nuova. Con la colpa si evidenzia la responsabilità della
83
creatura nelle sue scelte di non comunione con Dio e con le altre
creature. Con la pena si esprimono le conseguenze derivanti da
tali scelte, essa implica una sofferenza che è espiatoria e
redentiva. Ai detenuti dico che loro che scontano la pena quaggiù
non dovranno farsi il Purgatorio e ripenso alle parole di Gesù che
afferma che i ladri e le prostitute ci precederanno nel Regno dei
Cieli. E a loro piace tanto sapere che il primo santo canonizzato
da Gesù è il ladrone pentito (e non collaborante!) che per primo
entra in Paradiso.
Capisco che non si possono imporre alla società le esigenze della
Misericordia che è valore tipicamente evangelico, comprensibile a
pieno solo nella prospettiva della fede. Come Cristiano posso,
perciò, solo proporre con delicatezza e rispetto delle posizioni
altrui questo atteggiamento di com-passione e di perdono: io sono
chiamato a realizzarlo in prima persona ma non ho il diritto di
pretenderne la condivisione, specialmente da chi non crede.
Le istanze della carità non rinnegano ma superano quelle della
giustizia: “se amate quelli che vi amano che merito ne avrete?
Amate i vostri nemici” (Gesù). Quando propongo un’azione di
rilevanza sociale generale, chiedo il rispetto pieno dei valori di
giustizia che tutti siamo chiamati a rispettare, a prescindere dal
nostro credo.
La pena deve comunque rispondere alle ineliminabili istanze di
prevenzione generale per la difesa dei beni giuridici attraverso cui
si realizza la difesa e la pace sociale che mette il condannato nella
condizione di non nuocere. La privazione della libertà personale è
un male necessario da considerare però come extrema ratio per i
reati più gravi. La rieducazione attraverso il trattamento non è
un’aspirazione utopistica, ma è il dovere più pressante di tutti noi
che, a vario titolo, operiamo nel sistema penitenziario. Dobbiamo
utilizzare tutti quegli strumenti che la legislazione prevede per
perseguire il recupero del reo e l’umanizzazione della pena. Le
insufficienze del sistema carcerario sono enormi e ognuno ha il
dovere di denunciare le carenze e le inadempienze della
amministrazione penitenziaria. Bisogna sempre difendere i diritti
dei deboli, degli altri, mai i propri. Nel codice di Teodosio la
funzione dell’assistente ecclesiastico nelle galere era di riferire al
principe le lesioni dei diritti dei ristretti e le gravi inadempienze
84
verso la loro dignità. Quello che voglio dire è: 1) che la pena non
deve avere la natura di castigo, corrispondente al male morale del
reato; 2) che la retribuzione non è più un’assoluta necessità come
nella legge del taglione dove “occhio per occhio e dente per
dente” stabiliva il minimo richiesto dalla legge penale; 3) che non
bisogna andare oltre il danno subito. I traumi e i tempi e le
angherie della detenzione, invece, vanno molto oltre. Lo Stato
deve riconoscere che non spetta a lui quel giudizio profondo del
cuore umano, dove risiede la colpa, e pertanto neppure la pretesa
di rimediare a tale colpa. Se c’è un giudizio bisogna lasciarlo
solamente a Colui che solo può leggere nel profondo del nostro
animo e nella nostra responsabilità morale. Con un male che è la
pena non si può cancellare un altro male che è il reato: aggiungere
male al male non è giusto, non è utile a nessuno.
Nei casi di processi dubbi in cui non si riscontra un colpevole
certo è preferibile che ci sia un reo libero piuttosto che un
innocente in carcere.
Aspetti normativi: il DPR 448/88. Principi ispiratori ed
approccio educativo
E’ il primo codice dell’Italia repubblicana che risponde
all’orientamento della Carta Costituzionale e alle norme delle
Convenzioni Internazionali ratificate dall’Italia, relative ai diritti
della persona e al processo penale.
Il nuovo processo penale minorile si è ispirato alle “Regole
minime per l’amministrazione della giustizia minorile” approvate
dal VI Congresso delle Nazioni Unite del Novembre 1985.
Proprio alla luce delle “Regole minime”, il nuovo processo penale
minorile si articola nelle varie parti e nella creazione di nuovi
“istituti”, senza perdere mai di vista l’interesse, i bisogni e i diritti
del minore, specie quello all’educazione.
È all’art. 1 comma I, che sancisce il principio generale, la filosofia
sottostante tutto il processo “ […] tali disposizioni sono applicate
in modo adeguato alla personalità e alle esigenze educative del
minore”.
Il minore, non più in posizione passiva di fronte ad altri che
giudicano e decidono, ma protagonista con i bisogni dell’età
85
evolutiva, non perde neanche nel processo penale il suo
fondamentale diritto all’educazione sancito dalla Costituzione.
Al comma II, art. 1: “Il giudice illustra all’imputato il significato
delle attività processuali che si svolgono in sua presenza, nonché
il contenuto e le ragioni anche etico-sociali delle decisioni”.
L’art. 1 (nei due commi) traccia la nuova “mentalità”, oserei dire
pedagogica, di tutta la procedura penale minorile.
Ad una società che dovrebbe essere tutta “educante” nei confronti
di chi è in piena fase evolutiva e formativa (come l’adolescente tra
i 14 e i 18 anni) non può sottrarsi neanche l’amministrazione della
giustizia, proprio perché la prima giustizia o il fondamento stesso
di ogni “giustizia” è il diritto di tutti a diventare “uomini” cioè
soggetti capaci di autonomia e responsabilità. L’adolescente che è
in “difficoltà”, lo è proprio perché “qualcosa” o “molte cose” …
di quell’insostituibile sostegno psicoaffettivo e psico-sociale gli
sono venute a mancare impedendo la formazione di una
personalità armonica capace di non soccombere di fronte alle
“difficoltà” proprie della fase evolutiva che sta attraversando.
L’art. 19, comma II, ribadisce la prospettiva di fondo, la costante
esigenza di “non nuocere”: “ […] nel disporre le misure il giudice
tiene conto […] dell’esigenza di non interrompere i processi
educativi in atto”. O, ancora in termini più diretti, all’art. 27
relativo alla “sentenza di non luogo a procedere per irrilevanza del
fatto […]” viene ribadito che “il pubblico ministero chiede al
giudice il non luogo a procedere […] quando l’ulteriore corso del
procedimento pregiudica le esigenze educative del minore”, e
questo quando durante le indagini preliminari risultasse la “tenuità
del fatto e l’occasionalità del comportamento”.
È questo un processo sicuramente frutto del dibattito scientifico,
psicologico e pedagogico, giuridico e criminologo, che pone gli
operatori della giustizia e degli Enti Locali di fronte a
problematiche che si muovono intorno a una sempre più definita
depenalizzazione ed ad una conseguente residualità della risposta
detentiva. L’interesse del minore viene continuamente richiamato
dal nuovo processo e considerato prioritario nel rispetto delle sue
esigenze educative: evitare possibili nocività e rischi del processo
e delle sue lungaggini; tutelare la personalità (fragile e in fase
evolutiva) nel contesto processuale; favorire una rapida
86
definizione della sua posizione giudiziaria; privilegiare soluzioni
che favoriscano lo sviluppo autonomo e responsabile della sua
personalità.
Elemento innovativo e di significativa valenza pedagogica, nel
nuovo processo, è il configurarsi di una forma di “contrattazione”
tra giudice e minore imputato; tale forma di “contrattazione” è
finalizzata all’individuazione di risposte responsabilizzanti, che
riprendano i processi educativi interrotti … o forse mai avviati.
Attraverso l’istituto delle “prescrizioni”(regole di comportamento
tendenti a strutturare livelli di responsabilizzazione e favorire
processi di crescita e socializzazione) si apre una possibile
interazione continua e significativa fra magistratura e operatori dei
servizi per offrire al minore risposte adeguate “alla personalità e
alle sue esigenze educative”.
Il privilegiare un’impostazione educativa nella ricerca di ogni
soluzione, con l’eccezionalità di un intervento penale, si evidenzia
con chiarezza da alcuni “istituti” che intervengono sia in fase
istruttoria e processuale, sia in fase di esecuzione penale, quali:
prescrizioni (art. 20), permanenza in casa (art. 21), collocamento
in comunità (art. 22), sospensione del processo e messa alla prova
(art. 28), sanzioni sostitutive (art. 30), misure di sicurezza
alternative al riformatorio giudiziario ( 36-41).
Quale approccio educativo? Se tutto il nuovo processo è fondato
su un “alto livello di comunicazione tra i soggetti in esso chiamati
ad operare” (così scrive F. Palomba nel suo libro “Il sistema del
nuovo processo penale minorile”, edito da Giuffrè nel 1989)
nonché su una interazione tra le attività del processo e il sistema
di relazioni sociali, altrettanto forte deve essere il grado di
circolarità delle relazioni in cui il ragazzo va inserito. Non quindi
una pedagogia centrata sul “ragazzo-problema” come un ente a sé,
ma interventi che si propongono di riattivare reti relazionali
interrotte, in particolar modo quelle relative alla famiglia, alla
scuola, al mondo del lavoro, al gruppo dei pari.
Un approccio pedagogico “relazionale-sistemico” che la stessa
normativa penale sembra privilegiare: art. 21/2, permanenza in
casa del minore che si può allontanare dalla propria abitazione per
compiere le attività educative predisposte dal giudice; art. 22/1
prevede l’affido del minore ad una comunità alloggio con
87
specifiche prescrizioni inerenti alle attività di studio o di lavoro
ovvero ad altre attività utili per la sua educazione; art. 30/1 “[…]
sanzioni sostitutive alla pena detentiva […] tenuto conto della
personalità e delle esigenze di lavoro o di studio del minorenne
nonché delle sue condizioni familiari, sociali e ambientali”.
Riattivare, quindi, reti di relazioni, circolarità di interazioni tra
ragazzo ed agenzie educative, restituendo il ragazzo al “sistema
formativo sociale”, dove tutta la collettività è chiamata ad essere
“società educante” per ridare, a chi è finito nella marginalità
deviante, opportunità educative, dove il ragazzo si senta accolto e
valorizzato per recuperare l’autostima.
Devianza e comunità: quali risposte?
Quando Orlando aprì a Palermo il nuovo centro per assistenti
sociali, con 105 assistenti sociali, io andai per la benedizione …
tavolino, computer, telefono. Dissi “No, non le devi mettere in
ufficio col telefono, mandale per strada, compra il cellulare,
costerà di più la telefonata, ma mandale per la strada ”.
Nel Vangelo la parola strada c’è 113 volte, tutte la volte che Gesù
incontra la gente, la incontra per strada. Lo psicologo è
normalmente alla ricerca ed in attesa di un rapporto uno a uno,
invece bisogna andare a cercare la pecorella smarrita. In questo
senso è significativa la parabola del samaritano: un sacerdote e un
levita passavano per una strada. Sul lato opposto c’era un
emarginato che aveva bisogno di aiuto ma i due non si fermarono,
del resto camminavano dall’altra parte della strada…l’emarginato
non si guarda, si va dall’altra parte. Invece un mercante, che
faceva quella strada per lavoro, scende da cavallo. Ma secondo me
non scende, è disarcionato dal cavallo. Cade dal cavallo perché
quel poveraccio che era rimasto sul ciglio della strada malmenato
chiede aiuto, ha bisogno di aiuto. E lui allora lo accoglie: bisogna
prendersi cura dell’altro. Da un po’ di tempo sto scoprendo un
filosofo, Emanuel Levinas, che dice che il tempo è dell’altro, che
dovremmo partire dall’altro, finora siamo partiti dall’Io, da me
stesso, ora, nel prossimo secolo, proviamo a partire dall’altro e
pensare proprio partendo dall’altro non da me stesso.
88
In tante carceri mi sono reso conto che la devianza non dipende
dalla Vucciria, da Ballarò, o dal territorio. La devianza è ricerca
di senso, sia nei quartieri ricchi che nei quartieri poveri. Solo che
se in un carcere minorile in prima accoglienza entra il ragazzo dei
quartieri ricchi si applica la misura della messa alla prova, mentre
nel caso di un ragazzo povero, siccome il padre è in carcere, la
mamma ha cinque - sei figli e deve fare la vita, il territorio non è
attrezzato per un recupero, un reinserimento del minore che viene
da queste zone già disagiate, già sfortunate.
In dieci anni non ho mai visto al Malaspina un ragazzo figlio di
ricchi. Un quattordicenne, figlio di una famiglia “perbene”,
durante una festa con altri amici aveva violentato una compagna.
L’ho incontrato al Malaspina al Centro di prima accoglienza, ma
poi non è entrato in carcere. Così come in tantissimi altri casi,
furti, spaccio nei quartieri ricchi dei ragazzi bene di Palermo…..
credo che la 448 privilegi chi ha una famiglia: se c’è una famiglia
significativa alle spalle il ragazzo si recupera, ed è giusto, però
non possiamo non denunciare che i territori già malfamati, già
abbandonati anche dalle istituzioni, non hanno dei centri di
aggregazione al di là della parrocchia che fa quello che può, non
sono attrezzati con dei centri sociali per offrire a questi ragazzi un
valido aiuto. Dico queste cose sicuro perché la Chiesa non deve
perdere il suo spirito di profezia, e soprattutto il suo spirito di
denuncia per la difesa degli ultimi.
Le risposte delle comunità locali già presenti negli anni ottanta,
sono state potenziate dai finanziamenti statali previsti dalla legge
n. 216 del 1991 sui “Primi interventi a favore dei minori soggetti a
rischio di coinvolgimento in attività criminose”.
Questa legge è nata come risposta agli accertamenti sulla
delinquenza minorile in Italia svolti nel 1990 dalla Commissione
Parlamentare Antimafia. La grave diffusione del fenomeno e,
soprattutto, il crescente impiego strumentale dei minori da parte
dei gruppi malavitosi, ha portato il Parlamento a formulare questa
legge (anche se con limitata copertura finanziaria) come risposta
di emergenza pur nell’ottica di interventi di prevenzione:
a) prevenzione primaria, di carattere socioculturale, per favorire il
diritto alla crescita dei minori; offrire loro opportunità di
89
socializzazione e di maturazione individuale, soprattutto per
soggetti mai entrati nell’area penale (art. 1 e 2);
b) prevenzione secondaria, indirizzata ai ragazzi già entrati
nell’area penale e/o a forte rischio di devianza con progetti di
recupero e sostegno per ragazzi già segnalati per comportamento
trasgressivo.
Diverse sono le modalità di intervento previste dalla legge e
attuabili da associazioni e cooperative sociali e organismi di
volontariato, oltreché dalle aziende sanitarie locali, dalle province
e dai comuni.
Quattro i principali ambiti operativi:
1) Comunità alloggio: per ragazzi già segnalati e con forti
necessità di relazioni educative significative nel rapporto
individuale con gli educatori;
2) Interventi a sostegno della famiglia: aiutandola a superare
incapacità di gestire la relazione educativa e le soluzioni di
problemi economico-abitativi;
3) Centri di aggregazione nei quartieri: creare spazi di incontro,
spazi educativi per i minori e le loro famiglie;
4) Utilizzo di strutture scolastiche: negli orari in cui non sono
utilizzate nell’attività didattica vengono messe a disposizione dei
ragazzi per attività di sviluppo e crescita individuale-comunitaria.
Diverse (anche se insufficienti) sono le risposte della comunità
locale, dei comuni, delle associazioni, delle cooperative. Nei primi
cinque anni (91-95) la legge ha finanziato, per i soli artt. 1 e 2,
oltre 1.700 progetti. Pur nei suoi limiti di finanziabilità annuale e
di insufficienza di fondi, si è creata una cultura di prevenzione e di
impegno socio-educativo nei comuni. Oggi c’è uno strumento
nuovo costituito dalle ONLUS e, a livello regionale, è stata
recepita la legge nazionale n.328/00 “ Legge sul sistema integrato
dei servizi sociali”.
Diventa sempre più chiaro che la risposta più efficace al disagio
adolescenziale, e prima infantile, va data da tutta la società nelle
sue varie componenti e non solo dagli “addetti ai lavori”.
La risposta è prevalentemente pedagogica: sostenere il diritto alla
crescita, allo sviluppo armonioso e sano della personalità creando
opportunità, spazi e relazioni che lo permettano. Iniziando dalla
famiglia e proseguendo con la scuola, il mondo
90
dell’associazionismo e l’ente locale (regione, provincia, comune)
può e deve progettare interventi educativi a favore dei giovani con
specifici obiettivi e modalità e soprattutto una forte collaborazione
di rete tra le varie “agenzie” educative ( scuola, oratori,
associazioni sportive e culturali, centri sociali, ecc.).
Resta scoperta, in questo momento, in quasi tutta l’Italia, la fascia
di età 18/25 anni, detti “giovani adulti” che sono stati sottoposti
nella minore età a provvedimenti giudiziari. Per questa ragione, in
alcune carceri è partito un progetto di sperimentazione, destinato
ai recidivi e non, che prevede un regime carcerario che permette
loro di frequentare corsi scolastici e professionali per conseguire i
titoli che all’uscita gli permettano un più facile reinserimento
sociale.
L’esperienza della scuola salesiana mi ha confermato sempre più
l’idea che la società civile e le istituzioni devono collaborare in
modo sinergico per attuare l’intervento di prevenzione, secondo il
metodo preventivo di Don Bosco che nella Torino pre-industriale
iniziò a costituire centri professionali per i figli degli operai,
togliendoli dalla strada.
Aver lavorato in ambienti difficili mi ha sempre più fatto prendere
coscienza che è difficilissimo “recuperare” e riportare sulla retta
via coloro che per un motivo o per l’altro hanno deviato dalla
strada dell’onestà perché, all’uscita dal carcere o dalle comunità, il
territorio ha un potere più forte verso la devianza e tutti i
propositi e il rafforzamento della volontà non sono sufficienti a
contenerlo. L’ex detenuto, l’ex drogato per i primi tempi non cede
alle sollecitazioni dell’ambiente, forte dei suoi buoni propositi poi
però, col tempo e per bisogno, finisce col cedere e ricomincia a
delinquere per avere quei 50 € che gli occorrono per uscire con gli
amici.
Il territorio ha leggi e ragioni più forti delle stesse motivazioni
personali. Il territorio è supportato dalla cultura e dalla mentalità
mafiosa che affascinano, attraggono e hanno il sopravvento
sull’individuo; lo Stato e la Chiesa che operano nel medesimo
territorio dovrebbero entrare in conflitto con “cosa nostra” per
togliere i giovani da un sicuro percorso di devianza.
Anche soltanto dal punto di vista economico ci rendiamo conto
quanto la comunità civile deve spendere per tentare di rendere
91
innocuo chi costituisce un pericolo per la comunità o per tentare
di far rinsavire chi ha sbagliato: un minore in percorso penale
costa allo stato 1000 € al giorno, un detenuto adulto costa 500 €.
Se gli stessi denari spesi per l’amministrazione della giustizia nel
caso concreto fossero spesi per supportare la famiglia del minore
ci sarebbero meno reati.
Allora l’invito che faccio alle autorità competenti e a tutte le forze
vive, istituzionali e private, è quello di investire sulla prevenzione:
non saranno soldi persi ma investiti nel sociale per una società più
sana.
Senza nulla togliere alle attività egregie di coloro che fanno il
tentativo di reinserire nella vita sociale chi ha sbagliato, ritengo
che bisogna lavorare molto per eliminare tutte quelle situazioni
che costituiscono terreno fertile per il prosperare della
delinquenza.
92
DEVIANZA MINORILE OGGI:
LE RISPOSTE DEL SISTEMA GIUDIZIARIO
TRA NORMATIVA ED ESPERIENZA
di Caterina CHINNICI
Le immagini prescelte per introdurre questo mio breve scritto
(che troverete nel CD – Rom allegato) sono tratte dal film “Mary
per sempre”. Sono immagini forti, che danno un’idea di quella che
ancora oggi è la realtà, qualche volta particolarmente dura e
drammatica, del carcere minorile. Tuttavia, io che rappresento le
istituzioni credo di avere il dovere di illustrare il fenomeno della
devianza minorile così come oggi si manifesta e quelli che
realmente sono gli interventi delle istituzioni nei confronti dei
minori che commettono reati, anche per fare chiarezza su alcuni
aspetti delle problematiche connesse al fenomeno.
Innanzitutto, vorrei brevemente tracciare i termini del fenomeno
“devianza minorile” del quale, credo, siano stati anticipati due
aspetti che sono proprio, secondo me, gli elementi fondamentali
che concorrono a creare questa particolare forma di disagio, e cioè
la violenza e le carenze socio-culturali.
Sono procuratore minorile già da sette anni e ho assistito ad
un’evoluzione o, sarebbe meglio dire, un mutamento del
fenomeno.
Per quanto riguarda, in particolare, la situazione del nostro
territorio va detto, innanzitutto, che Caltanissetta è una realtà, dal
punto di vista economico, non particolarmente florida così come,
peraltro, anche la provincia di Enna che ricade nel distretto di
competenza del mio ufficio.
Così posso dire, in proposito, che quando sono arrivata alla
Procura per i minori c’erano ancora molti reati commessi per
bisogno: mi riferisco, per esempio, al pascolo abusivo; mi
riferisco ai piccoli furti cui è stato fatto cenno in precedenti
interventi. Devo dire, invece, che in questi sette anni i reati
commessi dai minori per bisogno sono quasi scomparsi: non esiste
più il pascolo abusivo, il furto per bisogno è ormai un fatto
episodico. Quali sono invece i reati che sono aumentati? Sono
aumentati i reati commessi con violenza, ed è questo, a mio
93
avviso, l’aspetto preoccupante del fenomeno della devianza
minorile.
Sono aumentati sia i reati di minore allarme sociale sia i reati di
maggiore allarme sociale, connotati tutti da comportamenti
violenti. E, a fronte dell’aumento di queste tipologie di reati, c’è
(ed anche questo è un aspetto a mio avviso da attenzionare) la
diminuzione dell’età dei ragazzi che commettono proprio i reati
connotati da maggiore violenza.
E cosa si nasconde dietro questi reati? Il giudice minorile cerca
sempre di andare oltre al reato, di non fermarsi alle carte, e cioè
alle risultanze processuali, ma cerca soprattutto di capire il
motivo che ha spinto un ragazzo a commettere il reato, per potere
poi intervenire con la misura “sanzionatoria” più idonea fra quelle
che il codice di procedura penale minorile gli consente di adottare.
Cosa trova in genere dietro questi reati? Per i reati di minor
allarme sociale, per esempio per i danneggiamenti, per le molestie
telefoniche - che comunque, pur se meno gravi, sono reati che
provocano ansia e preoccupazione in colui che ne è il destinatario
- la motivazione immediata è il gioco, la noia. Quanto ai reati di
maggiore allarme sociale, va sottolineato come risultano
aumentate le lesioni (le lesioni sono quasi sempre conseguenza di
aggressioni del singolo nei confronti del coetaneo, di gruppi nei
confronti del singolo), le risse (sono
queste aggressioni
reciproche), le violenze sessuali; ed è questo un fenomeno
gravissimo perché sono aumentate anche tra i giovanissimi e
anche tra i minori non imputabili, cioè tra i ragazzi al di sotto dei
14 anni. Cosa si cela, dunque, dietro tutti questi reati? Io credo
che ci sia purtroppo una società in crisi di valori, in crisi nei
rapporti all’interno della famiglia, anche se concordo con l’idea
esposta da altri autori del presente volume, secondo cui la crisi
relazionale all’interno della famiglia non è comunque una crisi
così diffusa e quindi così preoccupante. E c’è ancora a mio avviso,
dietro i comportamenti devianti, una forte influenza sui minori dei
messaggi di violenza che la nostra società trasmette loro: la
violenza, direi quasi, come unica forma di dialogo tra i giovani.
Ricordo un incontro/dibattito al quale partecipai, anni fa, a San
Cataldo: in quell’occasione alcuni illustri relatori parlarono
proprio della violenza. Uno dei relatori disse che, in fondo, non
94
dovevamo allarmarci così tanto perché la violenza ha sempre fatto
parte della vita: pensiamo alla favola di Cappuccetto rosso che è
una favola che, in realtà, contiene in sé anche la violenza “del
lupo che mangia la nonna, del cacciatore che interviene e squarcia
la pancia del lupo”. Certo, questo è vero; però confrontiamo la
violenza di Cappuccetto rosso con quella di oggi: la violenza di
Cappuccetto rosso era quasi una violenza rassicurante;
rassicurante sia perché inserita all’interno di una favola “serena”,
sia perché era una violenza che veniva proposta al bambino dalla
presenza rassicurante di una mamma, di una nonna, di un
qualcuno che sapeva porgere nel modo giusto il messaggio
contenuto nella favola, che sicuramente non era un messaggio di
violenza fine a sé stesso.
Qual è oggi, invece, il messaggio di violenza che hanno i nostri
bambini fin da piccolissimi? Quello che viene dai cartoni animati,
dalla televisione, dai video giochi, con i quali normalmente,
ahimè forse anche per colpa di noi genitori, si trovano a
relazionarsi da soli; difficilmente c’è, accanto al bambino, un papà
o una mamma che spiega che in quel cartone l’eroe positivo
aggredisce il cattivo e attraverso la lotta, e quindi la violenza, fa
trionfare la giustizia, la bontà. E allora ecco che i ragazzi,
soprattutto quelli che hanno una personalità più fragile, soprattutto
quelli che non hanno una solidità affettiva e relazionale alle spalle,
apprendono soltanto la violenza, e non il messaggio positivo che
attraverso la violenza si vuole trasmettere, e talvolta, purtroppo,
da questa violenza rimangono in qualche modo segnati.
Da quando mi occupo di giustizia minorile, poi, ho avuto modo di
notare una certa differenza tra le realtà del sud e del nord
dell’Italia. Nelle nostre realtà, e parlo di tutta l’area del sud, non
mi riferisco solo alla Sicilia, i reati sono commessi da minori
appartenenti alle fasce sociali più svantaggiate, che vivono in
contesti sociali non solo economicamente ma anche culturalmente
più disagiati. Nel nord dell’Italia avanza invece quella che viene
definita delinquenza o criminalità “metropolitana”, poiché a
commettere i reati, soprattutto i reati connotati da violenza, sono i
ragazzi appartenenti a ceti sociali più elevati, ceti sociali medi,
medio-alti o, addirittura, anche ceti sociali economicamente
privilegiati. C’è effettivamente questa differenza, che tuttavia non
95
condiziona sotto alcun profilo gli interventi previsti dalla nostra
legislazione in materia minorile e disposti dai giudici che operano
nel settore.
Comunque io credo che nell’un caso e nell’altro le ragioni che
portano il ragazzo a commettere il reato hanno un fondamento
comune: c’è infatti sempre, in ogni caso, una mancanza di valori
che al nord magari deriva dalla disgregazione familiare, da una
alterazione delle dinamiche relazionali all’interno della famiglia, o
da altre componenti quali, ad esempio, l’uso di stupefacenti; nella
nostra realtà spesso invece deriva da una condizione di svantaggio
socio-economico, ma anche da carenze culturali.
Fatta questa premessa, vorrei tracciare, per grandi linee, gli
interventi giudiziari sui minori. La legge che regola la materia è la
n. 448 del 1988: si tratta di una legge che tiene conto dei principi
fissati dalla Convenzione dell’ONU sui diritti del fanciullo del
1989, ratificata dall’Italia con la legge n. 176 del 1991, ma che già
il nostro codice di procedura penale minorile, così come noi lo
chiamiamo, aveva assorbito poiché aveva recepito le cosiddette
regole di Pechino, propedeutiche alla Convenzione sui diritti del
fanciullo. Il nostro codice, a mio avviso, è uno strumento
estremamente valido: è tuttora uno strumento moderno, uno
strumento flessibile, perché consente al giudice di individuare la
sanzione più adeguata al ragazzo che ha commesso un reato e ciò
ovviamente tenendo conto della personalità del ragazzo, del
contesto dal quale proviene, del tipo di reato, dell’età, dei suoi
eventuali precedenti penali, cioè di tutta una serie di elementi che
costituiscono i presupposti
messi a fondamento della
discrezionalità del giudice nell’individuare la pena.
Tutto il codice di procedura penale minorile, peraltro, è
improntato alla tutela del minore che ha commesso un reato: il
minore viene assistito, oltre che dai familiari, dai servizi sociali
minorili; le misure cautelari per i minorenni sono
sempre
facoltative, anche se il reato commesso dal minore è un reato
estremamente grave; e soprattutto la pena ha una funzione
rieducativa. Si è parlato, in precedenti interventi, del carcere: è
vero, il carcere non è di per sé rieducativo, però va precisato che
la misura della detenzione per i minorenni è prevista sempre come
misura residuale, cioè soltanto per i reati particolarmente gravi,
96
ovvero qualora si tratti di ragazzi ripetutamente recidivi; in
sostanza, quindi, in tutti quei casi in cui non ci sono le condizioni
per potere accedere ad un’altra misura non restrittiva: soltanto in
questi casi si applica la misura della detenzione in carcere.
Funzionano molto bene, infatti, per i minorenni le misure
alternative alla detenzione; in proposito vorrei fare un cenno
all’istituto della “messa alla prova”. A mio avviso è veramente
l’istituto più significativo proprio sotto il profilo della
rieducazione del minore, ed è l’istituto che in genere si tende a
privilegiare da parte dei giudici minorili, che lo applicano per tutte
le tipologie di reati a ragazzi appartenenti alle diverse fasce
sociali, alle diverse fasce d’età ed anche a coloro che, avendo
commesso il reato da minorenni, hanno raggiunto e superato la
maggiore età. La messa alla prova presuppone la disponibilità del
ragazzo a seguire la prova, cioè il programma di recupero per lui
predisposto. Quindi il giudice ha, per così dire, una sorta di
sbarramento preliminare: se non c’è la disponibilità del ragazzo, il
giudice non può dare al ragazzo stesso la possibilità della messa
alla prova. Quando c’è invece la disponibilità, allora si sospende il
processo, si redige da parte dei servizi sociali un programma
rieducativi, che dovrà essere seguito dal ragazzo, e che contiene
impegni di studio o di lavoro, impegni di tipo culturale e sportivo,
impegni nel settore del volontariato. All’esito della prova, la cui
durata viene stabilita dal giudice in funzione della gravità del
reato commesso e della personalità del ragazzo, e che comunque
non può superare nel massimo i tre anni, si dichiara l’estinzione
del reato se l’esito della prova è stato favorevole, nel senso che il
ragazzo ha seguito gli impegni per lui previsti così raggiungendo
l’obiettivo del recupero, cui tende appunto la messa alla prova.
Devo dire, in proposito, che soltanto in pochissimi casi, anzi per la
verità in un solo caso, nei sette anni delle mie attuali funzioni, ho
visto un’impossibilità di messa alla prova a causa di mancanza di
opportunità per il ragazzo nel quartiere, anzi per la precisione nel
paesino dove il ragazzo viveva.
Quindi, la messa alla prova, così come oggi prevista dal nostro
sistema, è l’istituto più efficace indirizzato al recupero del minore,
anche se io riterrei opportuna in proposito qualche modifica; così,
per esempio, modificherei l’istituto della messa alla prova
97
eliminando la disponibilità del minore: cioè porrei la messa alla
prova, in ogni caso, come prima possibilità che il giudice, che
afferma la responsabilità di un minore in relazione ad un reato,
offre al ragazzo; qualora poi la prova dovesse fallire, allora si
potrebbe accedere ad altre misure “sanzonatorie”.
Comunque vorrei concludere con una riflessione: credo che, al di
là degli interventi giudiziari, per affrontare efficacemente il
fenomeno della devianza minorile, è fondamentale la prevenzione,
i cui aspetti più importanti sono: trasmettere ai giovani dei valori
sani, costruire un buon rapporto genitori-figli e più in generale
adulti-giovani, offrire ai più piccoli validi modelli
comportamentali, ed ancora adoperarsi per indirizzare i giovani
verso la cultura ed in particolare verso la cultura della legalità. Ed
è questa un’esigenza ormai da tempo da tutti noi avvertita.
Come voi sapete, io sono figlia di Rocco Chinnici, magistrato
anche lui, per la precisione Consigliere Istruttore presso il
Tribunale di Palermo, che già vent’anni fa aveva cominciato a
portare il suo impegno di magistrato contro la mafia anche fuori
dalle aule giudiziarie, perché andava a parlare soprattutto con i
giovani e nelle scuole, ponendo l’accento proprio sulla necessità
di diffondere la cultura in generale, e più specificamente la cultura
della legalità, proprio come strumento di contrasto alle devianze
diffuse purtroppo anche fra i giovani.
98
IL DISAGIO GIOVANILE
PER LE VIE DI SAN CATALDO
di Bianca LO BIANCO
Premessa
Sul “disagio giovanile” ci sarebbe tantissimo da dire, ma dovendo
affrontare l’argomento limitatamente a ciò che accade su questo
territorio, occorre anzitutto rilevare che a San Cataldo non è stata
mai effettuata dalle Istituzioni Pubbliche un’apposita ricerca
sociale sull’argomento, dalla quale poter attingere per ottenere una
visione realmente concreta e corretta del fenomeno.
Quel che può trovarsi, come dati, è quanto emerge da alcune
indagini parziali, a supporto di tesi di laurea che, ovviamente, per
quanto riguarda una completa conoscenza del fenomeno, non
possono essere considerate né valide, né esaustive.
Non resta, quindi, per quanto riguarda l’argomento, che affidarsi
alla valutazione degli operatori sociali che lavorano nel settore.
Analisi della situazione territoriale
La popolazione sancataldese è di n. 23.504 abitanti, di cui il 20%
minorenni, il 62% in età lavorativa ed il 18% in età anziana.
99
Tale situazione ci rende quindi l’immagine di una Città
“giovane”, dove la fascia della popolazione minorile addirittura
supera in percentuale la fascia di quella anziana.
A fronte di ciò, però, deve purtroppo dirsi che le Istituzioni, per
scelte compiute in passato, hanno invece privilegiato l’attivazione
di Servizi di supporto alla fascia di popolazione anziana,
limitando fortemente i servizi di supporto alla popolazione
minorile sin quasi a farli scomparire negli ultimi quattro anni.
Alla base di tali scelte, forse, le difficoltà economiche nelle quali
ormai annaspano i Servizi Sociali di tutti gli Enti Locali, generate
dall’attuazione del trasferimento “in unico fondo” delle somme di
finanziamento dalla Regione Siciliana ai Comuni.
La nuova possibilità di destinare “liberamente” le somme ai vari
settori dei Servizi Sociali, decidendo a livello locale
(presumibilmente sulla base delle esigenze della popolazione
locale!) ha infatti creato, nella pratica, assurde situazioni di
involuzione nei Servizi e qualche volta ne ha generato persino la
soppressione.
Malgrado la piena condivisione da parte degli Operatori del
settore dello spirito che aveva animato il legislatore
nell’istituzione di questa nuova procedura, tutto ciò ha fatto, per
molti versi, rimpiangere la vecchia metodologia di finanziamento
regionale che forniva copertura alle Leggi di settore che di volta
in volta venivano emanate (ad es. la Legge n.68/81 per i servizi in
favore dei portatori di handicap, la Legge n. 87/81 per i servizi in
favore degli anziani oppure, per ultima, la Legge n. 22/86 per tutti
i Servizi Sociali del territorio).
100
Infatti, allora, tutti gli Enti Locali facevano a gara per attivare sul
loro territorio i vari Servizi al fine di ottenere quanti più
finanziamenti possibile.
Era il momento d’apice nell’attuazione del Welfare State: il
momento in cui negli anni ottanta e negli anni novanta ci si
sforzava di interpretare i bisogni della popolazione e forse,
persino, di anticipare le soluzioni a problemi che ancora non si
erano completamente delineati.
Il tasso di disoccupazione della popolazione sancataldese appare
elevato.
La disoccupazione (relativamente alla popolazione attiva
regolarmente iscritta presso gli elenchi dell’Ufficio del Lavoro di
aspiranti ad un inserimento lavorativo) cresce vertiginosamente
dalla fascia 25-29 anni alla fascia dei maggiori di 30 anni, dal
16,06 % ad un preoccupante 77,66%.
Pur volendo in ciò considerare una situazione apparente, in quanto
è presumibile che in questo dato sia compresa una percentuale di
lavoro sommerso o di sottoccupazione (ossia lavoratori “in nero”
che “ufficialmente” risultano iscritti nelle liste dei disoccupati) si
deve necessariamente evidenziare come la situazione non appaia
101
rosea per le generazioni future, in assenza di nuovi volani
economici o di sistemi di propulsione che possano capovolgere
l’empasse economico-occupazionale attuale.
Quindi, a fronte di questa situazione, la presenza poco consistente
sul territorio sancataldese di Servizi Socio-Assistenziali in favore
dei minori e delle loro famiglie appare particolarmente grave e
punto di facile innesco di fenomeni malavitosi di grossa portata.
Gli aiuti economici alle famiglie, infatti, sono del tutto inadeguati
ai bisogni della popolazione ed, a volte, non in grado di
tamponare nemmeno le situazioni più gravi o le emergenze.
I Servizi di Prevenzione alla Devianza Minorile, (sino a qualche
anno fa affidati alla Legge n. 216/91 con una gestione e controllo
diretto dello Stato attraverso il Dipartimento degli Affari Sociali
presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri e, quindi le
Prefetture o attraverso il Ministero di Grazia e Giustizia ed i suoi
Uffici periferici) sono ormai anch’essi esclusivo compito degli
Enti Locali e quindi, per le ristrettezze di cui si è parlato, di fatto,
non vengono più attivati.
I Servizi di Supporto Scolastico (mensa, doposcuola, contributi
economici per l’acquisto di materiale scolastico ecc.) che sono
indiscutibilmente attività di Prevenzione alla Devianza Minorile,
sono stati praticamente aboliti.
I finanziamenti ad Attività Sportive per Minori risultano miseri e
quasi inesistenti.
La microcriminalità, a San Cataldo, appare un fenomeno in
crescita.
I reati contro il patrimonio (per lo più furti in appartamenti,
villette di campagna ecc.) sembra siano commessi in maniera
paritaria sia da cittadini italiani che da extracomunitari o zingari.
102
I reati contro la persona (scippi e rapine) vengono commessi per
la maggior parte (70%) da giovani tra i 16 ed i 19 anni, come si
può vedere dal seguente grafico:
Questo può dare una dimensione di quanto le fasce minorili
vengano coinvolte nei fenomeni malavitosi locali.
Di tali reati commessi dai minorenni, poi, il 90% è finalizzato
all’uso di sostanze stupefacenti
e ciò non fa che confermare come il fenomeno Tossicodipendenza,
e reati connessi, sia per quanto riguarda questo territorio il
fenomeno malavitoso minorile di maggiore innesco.
103
Com’è noto, per l’attuale normativa, i minori dai 14 ai 16 anni
non sono imputabili, mentre dai 16 ai 18 anni si effettua, per ogni
caso, segnalazione alle AA. GG. competenti.
Occorre rilevare, a questo riguardo, che il 90% dei casi di reati per
droga viene risolto, nel senso che viene quasi sempre trovato
l’autore e quindi, quasi sempre, un minorenne viene giudicato e
punito dall’Autorità Giudiziaria competente.
Si può dire che San Cataldo (anche qui senza il supporto di
rilevazioni ufficiali in merito) sia, purtroppo, forse per la sua
posizione geografica o forse per la tradizionale intraprendenza
delle fasce malavitose della sua popolazione, uno snodo centrale
per lo smistamento di sostanze stupefacenti per la Sicilia centrale
e meridionale.
Pare, infatti, che a San Cataldo si riforniscano vettori provenienti
da tutta la Provincia di Caltanissetta ed Agrigento.
In questo momento, per esempio, a seguito dell’Operazione
“Marco Polo” condotta dai Carabinieri di San Cataldo (avvenuta
il 16 Settembre 2002) sono state arrestate 15 persone ed è stata
sbaragliata un’organizzazione.
Per quanto riguarda le caratteristiche del fenomeno si può,
inoltre, aggiungere, volendo analizzarlo meglio rispetto al reato,
che il grosso spacciatore non fa uso di droga, che con gr.1 di
droga (ca. € 20 all’ingrosso) si preparano 20 dosi, che,
attualmente, n. 1 dose viene venduta ad un costo di ca. € 10 – 15,
che il grossista guadagna ca. € 150 – 160 nette dalla vendita di 20
dosi, e che lo spacciatore guadagna n. 1 dose ogni 10 vendute (se
è un tossicodipendente) oppure ca. € 20 ogni 10 vendute (se
spaccia soltanto).
Le motivazioni che inducono alla Tossicodipendenza,
sicuramente, non possono essere generalizzate, in quanto ogni
soggetto ha un proprio vissuto.
Da alcune indagini condotte ufficialmente dal SERT di San
Cataldo nel 1997 e nel 2001 – 2002 emergono quali sono le
motivazioni che hanno maggiormente indotto i soggetti a far uso
di droghe:
104
-Il bisogno insoddisfatto di relazioni vere, profonde,
significative con i genitori (troppo impegnati nel lavoro o nella
ricerca del benessere economico);
-La curiosità (per vedere come si sta, per provare il senso di
piacere, di benessere, di sicurezza) – soprattutto nel ’97;
-Il disagio personale e la ricerca della fuga dalla realtà: per
sballarsi, per divertirsi, per sentirsi protagonisti, eroi, per mettersi
alla prova e per essere accettati dal gruppo;
-La ribellione (assunzione di comportamenti devianti per
ribellarsi alle ingiustizie);
-Il gusto di scoprire qualcosa che calma l’aggressività
interiore;
-La ricerca di aiuto per affrontare le difficoltà (più esistenziali
che materiali): il tentativo di riempire un vuoto che sentono
intorno (mancanza di valori) o per rispondere ad interrogativi
sull’esistenza o sul senso della vita – soprattutto nel 2001-2002.
Il fenomeno (sempre secondo le suddette indagini) pare si articoli
in un accertato avvicinamento alle sostanze più leggere in una
fascia di età che và dai 14 ai 15 anni.
È stato anche accertato che nella maggior parte dei giovani, poi,
avviene immancabilmente il passaggio dalle sostanze leggere
(cannabinoidi – hashish – marijuana) alle sostanze pesanti.
È da rilevare, ancora, che dal 1997 (1^ rilevazione) al 2001 (2^
rilevazione) il numero dei tossicodipendenti è raddoppiato e
quello degli alcolisti è triplicato.
105
Come si può vedere, gli utenti del Ser.T. appartengono in massima
parte alla fascia di età 20 – 24 anni (38%) e 25 – 29 anni (27%), il
che dimensiona decisamente il fenomeno della tossicodipendenza
nella fascia giovanile al di sotto dei 30 anni.
In tale dimensione la componente maschile raggiunge l’88% nel
1° semestre del 2001
E la sostanza psicotropa maggiormente assunta risulta essere
l’eroina con il 91% nel 2° semestre 2001.
Il contatto con il Ser.T. generalmente viene cercato quando il
soggetto decide di smettere e le motivazioni sono nell’ordine:
-La solitudine (perché ormai ha perso i rapporti con i familiari,
con gli amici ecc.).
-La consapevolezza di aver toccato il fondo.
-La preoccupazione per la propria salute.
106
-Perché costretti dalla famiglia (che li mette con le spalle al
muro).
-Per motivi strumentali (per i detenuti): uscire dal carcere, reperire
più facilmente il metadone.
La cura avviene mediante il lavoro con la persona e con la
famiglia. L’obiettivo è il reinserimento sociale. La metodologia
utilizzata a questo riguardo è il lavoro di rete.
Il Ser.T di San Cataldo opera su questo territorio dal 12.12.94. Si
occupa di dipendenze per consumo di sostanze psicotrope ed
alcoliche.
E nello specifico:
-Effettua prevenzione nelle Scuole e promozione della salute
-Dispone di n. 2 Club Alcolisti in Trattamento (dell’Associazione
Provinciale Alcolisti in Trattamento, che ha sede in San Cataldo)
-Accoglie l’utenza
-Tratta il caso
-Effettua l’integrazione tra il pubblico ed il privato
-Segue il percorso terapeutico con verifiche periodiche
-Segue il reinserimento
Dispone del seguente personale:
-n. 2 Assistenti Sociali
-n. 1 Medico
-n. 2 Infermieri
Il suo bacino di utenza è quello del Distretto Sanitario ossia: San
Cataldo, Marianopoli, Serradifalco, Montedoro, Bompensiere e
Milena, compreso l’utenza che risiede nella Casa di Reclusione di
San Cataldo.
Tale bacino ha una popolazione di n. 39.088 abitanti.
La Comunità Terapeutica di riferimento è Terra Promessa, che si
trova in territorio di Caltanissetta.
Il disagio minorile si manifesta primariamente, ossia prima di
diventare “patologia sociale” (microcriminalità,
tossicodipendenza, ecc.), attraverso due tipi di fenomeno che
avvengono normalmente durante la frequenza della Scuola
dell’Obbligo :
107
La Dispersione Scolastica
-l’Evasione all’Obbligo Scolastico (il minore che non va
completamente a Scuola o perché non vuole o perché i suoi
genitori non lo mandano);
-l’Abbandono Scolastico (il minore che frequenta per qualche
tempo la Scuola e poi abbandona dopo qualche tempo, breve o
lungo che sia).
A San Cataldo il fenomeno della Dispersione Scolastica non ha
mai superato negli ultimi dieci anni le 20 unità, comprendendo in
tale cifra i casi di Evasione ed i casi di Abbandono (che sono
prevalenti).
L’Inserimento Scolastico Problematico
-la Frequenza Irregolare (il minore frequenta saltuariamente o fa
moltissime assenze, compromettendo la sua possibilità di seguire
un percorso didattico e disturbando anche il percorso didattico
della classe nella quale è inserito)
-lo Scarso Rendimento Scolastico e la Demotivazione (il minore
non riesce a produrre scolasticamente e sembra, soprattutto, che
non abbia alcun interesse a produrre);
-il Cattivo Inserimento nel Gruppo Classe (il minore è e si sente
un “diverso” nel gruppo classe, pertanto non lega con i compagni,
se ne sta per conto proprio, non partecipa alle attività di gruppo né
scolastiche, né ludiche);
-il Comportamento Aggressivo e Ribelle (il minore fa di tutto per
rendersi antipatico ai compagni ed agli insegnanti, sino ad arrivare
ad aggressioni fisiche nei confronti di qualcuno, quasi a cercare
un’espulsione dalla scuola, che in questi casi, tra l’altro, non tarda
mai ad arrivare).
A San Cataldo gli Inserimenti Scolastici segnalati come
“Problematici” non superano annualmente le dieci unità.
Ma la realtà territoriale appare, di fatto, molto più numerosa, in
quanto molte situazioni rimangono prive di segnalazione forse per
lo sforzo sovraprofessionale degli insegnanti di contenere
situazioni che contenibili non sono o per la scarsa fiducia
aprioristica della Scuola nei confronti delle possibilità che i
108
Servizi concretamente hanno di porre rimedio a situazioni giunte
oltre i livelli di guardia.
Gli interventi che in questi casi vengono messi in atto dai Servizi
competenti sono sempre “riparativi”, ossia:
-l’Inserimento in Strutture Semiresidenziali – Semiconvitti o
Centri Diurni per Minori - (“si tratta di un minore problematico,
occorre, quindi inserirlo in una struttura particolare dove possa
essere seguito in maniera particolare durante le lezioni e per il
doposcuola!”)
-l’Allontanamento dal Nucleo Familiare e l’Inserimento in
Strutture Residenziali – Comunità Alloggio per Minori - (“si
tratta di un minore multiproblematico, la sua famiglia non appare
per il momento adeguata, lo affidiamo a personale esperto che
possa “correggerlo” e riportarlo a comportamenti socialmente
accettabili!”)
Generalmente nulla viene attivato dai Servizi per Prevenire il
Disagio Scolastico in tutte le sue forme.
A pochi Enti Pubblici Territoriali viene in mente che un bambino
“tutelato” nella sua normalità sin dal primo inserimento socioscolastico sarà un bambino con possibilità quasi nulle di sentirsi
“diverso” rispetto ai coetanei, anche se appartiene ad un nucleo
familiare deprivato socio-economicamente e culturalmente e,
quindi, sarà un bambino che non adotterà comportamenti
aggressivi nei confronti degli altri.
Prevenire è meglio che riparare.
Le Amministrazioni Comunali e Regionali ed i Governi Nazionali
dovrebbero realmente capire la straordinaria importanza della
Prevenzione e che ogni Euro speso in tal senso si trasforma
matematicamente in migliaia di Euro risparmiati per interventi
riparativi non effettuati, perché non ce ne sarà bisogno!
Ogni Euro speso per “attrezzare” bene un bambino che si
inserisce alla 1^ classe elementare (libri di supporto, quaderni,
materiale di cancelleria vario, zaino, tute sportive, abbigliamento
adeguato ecc.) farà sentire quel bambino uguale ai propri
compagni, anche se appartenente ad un nucleo familiare che non
può garantirgli tante cose. E farà sì che quel bambino si inserisca
bene e con pari dignità sociale ed umana tra i suoi coetanei.
109
Continuare a seguire ogni minore in situazione di deprivazione
socio-economica e culturale, per tutto l’arco della Scuola
dell’Obbligo, potrebbe azzerare i casi di Evasione all’Obbligo
Scolastico.
Ed, altresì, ogni Euro speso per un Servizio Doposcuola adeguato
e ben strutturato, corredato da supporti informatici, farà sì che
ogni minore appartenente a un nucleo familiare deprivato socioeconomicamente e culturalmente, possa godere, sin dall’inizio e
per tutto il percorso, di un valido supporto scolastico, come quello
dei coetanei appartenenti a nuclei familiari dove i genitori hanno
un livello culturale elevato e sono, quindi, in grado di “seguire”
scolasticamente i propri figli ed intervenire a supporto di una
lezione poco chiara o di un argomento trattato in classe che crea
qualche difficoltà di comprensione.
Seguire un minore scolasticamente consente, inoltre, di ottenere
un costante feed-beck sulla sua situazione socio-ambientale e
familiare: un bambino “seguito” e “supportato” difficilmente potrà
diventare un “minore-caso”.
Se qualcosa non và nell’ambiente familiare, sarà più facile
percepirlo.
Se il bambino è oggetto di violenze psicologiche o materiali, sarà
più facile accorgersene.
Se il bambino è oggetto di adescamenti o viene affidato con
leggerezza ad altri, sarà possibile averne cognizione.
Ed anche nella possibilità che tutto ciò, in qualche caso, non
venga rilevato, ci si rende facilmente conto di come questa
condizione sarà necessariamente percentualmente inferiore
rispetto alla situazione attuale di costante “non controllo” delle
situazioni ambientali e socio-familiari di centinaia di minori “a
rischio” su ogni territorio comunale.
Ancora, un Servizio di Scuolabus per tutte le zone periferiche
della Città (che si va estendendo sempre più) e non solo per le
zone non servite, contribuirebbe a facilitare l’accesso a Scuola ed
a sgravare le famiglie meno abbienti dal peso dell’accompagnare
a Scuola i più piccoli, che spesso finiscono per frequentare
“quando non piove” (perché le madri non sono munite di auto) o
quando le madri possono (perché libere da qualche impegno
lavorativo che svolgono “a nero” saltuariamente).
110
Infine i contributi economici continuativi, temporanei o
straordinari in favore delle famiglie bisognose nelle quali sono
inseriti minori, costituiscono la “conditio sine qua non” per una
permanenza che possa minimamente garantire il minore
all’interno del suo nucleo familiare.
I R.I.M. hanno fatto tanto in tal senso, ma l’apporto è insufficiente
rispetto alle esigenze territoriali e, di anno in anno, la tendenza
alle limitazioni nel finanziamento non promette nulla di buono.
Anche la Legge Regionale per le Borse di Studio (non di merito)
in favore delle famiglie con figli nella Scuola dell’Obbligo, è
riuscita a fare qualcosa, anche se il suo principale difetto è la
mancanza di tempestività. Infatti le famiglie ottengono i contributi
(se tutto va bene!) dopo circa un anno dalla presentazione della
domanda ed i ragazzi invece avrebbero bisogno di libri quaderni
ed attrezzature all’inizio dell’anno scolastico e non alla fine!
Ma occorre rendersi conto che tutti gli interventi di
prevenzione, se messi in atto in modo mirato e costante, sono
veramente in grado di capovolgere una certa situazione di
allarme sociale che sempre più si va creando ed, in più, sono in
grado di dimezzare, in tempi abbastanza brevi, le spese che
vengono obbligatoriamente sostenute dai Comuni per
l’attivazione dei Servizi Riparativi.
Attualmente questo territorio è in attesa, per quanto riguarda i
Minori ed i Giovani, assieme ai Comuni dell’Ambito Territoriale
CL1 (Capofila il Comune di Caltanissetta) del finanziamento da
parte della Regione Siciliana della Legge 285/97.
San Cataldo ha effettuato per la sua parte di territorio una
progettazione specifica che comprende:
-l’attivazione di un Centro Ascolto e smistamento ai vari Servizi
Sociali Territoriali;
-Attività Pedagogiche Ricreative Sportive e Socio-Culturali per
minori dai 6 ai 14 anni e Somme da destinare all'Acquisto di
Materiale Scolastico ed Attrezzature d’ogni genere per Minori
appartenenti a famiglie bisognose;
111
-Attività Ricreative, Sportive e d’Integrazione Socio-Culturale per
Minori dai 15 ai 18 anni;
- Attività di Ippoterapia per minori con problemi psicomotori e
non.
Si tratta ovviamente di poche gocce, in termini di Servizi, in un
mare di bisogni, ma possono servire ad indicare una strada ed a
far comprendere anche ai non addetti ai lavori l’importanza che
gli Interventi Preventivi hanno nella Politica dei Servizi Sociali
del Territorio.
Desidero porgere un ringraziamento particolare al
Comandante della Stazione dei Carabinieri di San Cataldo
M.llo Carmelo Zimermani, col quale, nell’espletamento della
mia attività professionale di Assistente Sociale, ho spesso
condiviso interventi riparativi disposti dall’A.G. nei confronti ed a
tutela di minori.
A lui il mio “Grazie” per la particolare attenzione impiegata nella
conduzione sensibile ed umana di “operazioni” che hanno
riguardato minori di questo territorio e per la disponibilità nella
fornitura di dati utili alla rilevazione dei bisogni della
popolazione.
Un altro sentito ringraziamento va alla Dott.ssa Maria
Concetta Anzalone ed a Enzo Le Moli, colleghi Assistenti
Sociali del Ser.T. di San Cataldo, per i dati forniti per la stesura
di questa relazione e per la disponibilità e professionalità
impiegate in ogni rapporto intercorso con l’Ufficio di Servizio
Sociale Comunale.
Desidero chiudere questo mio piccolo contributo, con una frase di
Ernesto Rossi (giornalista, scrittore ed eroe della Resistenza
durante la Seconda Guerra Mondiale):
“Valgono poco le idee se non si è pronti a sostenerle con
l’azione!”