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Commentary, 22 dicembre 2015
FOREIGN FIGHTERS: L’EUROPA ANCORA IN-DIFESA
LORENZO VIDINO, CLARISSA SPADA
©ISPI2015
I
sanguinosi attentati dello scorso novembre a Parigi
hanno drammaticamente portato alla luce molti di
quei sospetti che intelligence e forze
dell’antiterrorismo europee avevano dettagliato da più
di tre anni. Da quando il conflitto civile siriano ha assunto una decisa connotazione di stampo jihadista, si è
cominciato a temere molto concretamente per possibili
ripercussioni sulla sicurezza europea . Da subito si
guarda con particolare attenzione alla guerra in Siria (e,
successivamente, anche al conflitto in Iraq) nelle cui file
è schierato un numero rilevante e senza precedenti
di foreign fighters, quei cittadini, e residenti, in paesi
europei che, aggregati a vari gruppi jihadisti, combattono nel teatro siro-iracheno e, in particolar modo, per lo
Stato Islamico (IS). Le stime più recenti parlano di non
meno di 6.000 foreign fighters europei, un numero che
rispetto a quello delle mobilitazioni passate (Afghanistan, Bosnia-Erzegovina o Iraq) non ha nulla a che vedere
A prescindere dall’impatto che tali foreign fighters, e le
decine di migliaia di combattenti stranieri provenienti
da altre parti del mondo, possano avere sul conflitto in
Siria e Iraq, il vero rischio per le autorità europee è
sempre stato quello di veder tornare in patria alcuni di
questi soggetti, una volta esaurita la loro esperienza
diretta sul campo di guerra (più spesso legalmente, dal
momento che la maggioranza dei foreign fighters è di
cittadinanza europea) e organizzarsi per perpetrare attacchi terroristici.
Le prime avvisaglie di questo fenomeno vengono registrate nel maggio 2014, quando un cittadino francese
appena tornato dalla Siria (dove aveva combattuto tra le
file dello Stato Islamico) uccise quattro persone nel
museo ebraico di Bruxelles. Nei mesi successivi le autorità europee hanno assistito (spesso sventato) a piccoli
attacchi compiuti da soggetti reduci dalla Siria o, in altri
casi, da soggetti che, anche se privi di un’esperienza
diretta di combattimento, si ispiravano all’ideologia
jihadista, come a quella dello Stato Islamico. Gli attentati di novembre a Parigi rappresentano qualcosa di
nuovo e ben più pericoloso, costituiscono il primo attentato compiuto non più da cani sciolti con tenui le-
Lorenzo Vidino, direttore del Programma sull’estremismo alla George Washington University, Washington DC.
Clarissa Spada, sezione politica dell’ambasciata italiana di Washington DC.
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Le opinioni espresse sono strettamente personali e non riflettono necessariamente le posizioni dell’ISPI.
Le pubblicazioni online dell’ISPI sono realizzate anche grazie al sostegno della Fondazione Cariplo.
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gami con la Siria, bensì da network di soggetti dotati di
passaporto europeo, ma con strettissimi vincoli operativi con le più alte gerarchie dello Stato Islamico.
al passato, risulta essere ancora insufficiente; scarsi
controlli alle frontiere esterne che permettono a noti
terroristi di entrare e uscire con relativa facilità
dall’Unione, in aggiunta a uno scarso, se non inesistente, controllo di sicurezza dei recenti flussi migratori;
effettivi delle forze antiterrorismo ridotti in ogni paese,
con conseguenti difficoltà nel monitorare gli ampli
contingenti di foreign fighters e simpatizzanti dello Stato Islamico.
Parigi parrebbe rappresentare, dunque, una nuova fase
della breve ma intensa storia dello Stato Islamico. Se
fino al settembre 2014 il gruppo era intento soprattutto a
espandere e solidificare il proprio controllo territoriale
nel cuore del mondo arabo, e non pareva avere alcun
interesse a colpire l’Occidente, da allora le dinamiche
sono cambiate notevolmente con l’intervento occidentale in territorio siriano e iracheno. Da allora lo Stato
Islamico ha cominciato ad adottare la strategia usata per
decenni dall’organizzazione terrorista di cui è costola e
rivale: al-Qaida. Come il gruppo creato da Osama bin
Laden, lo Stato Islamico ha cominciato a creare un
network di operativi in vari paesi occidentali pronti ad
attivarsi e colpire. Sebbene tale ragnatela paia essere di
recente creazione, e non estesa come quella di al-Qaida
dieci anni fa, vi sono indizi che fanno pensare che dinamiche come quelle di Parigi, in cui network di affiliati
dello Stato Islamico possano con estrema facilità entrare
e uscire dal territorio europeo e compiere ardite azioni
terroristiche, possano ripetersi con triste frequenza
nell’immediato futuro.
Alcune soluzioni vanno apportate dai singoli Stati
membri. Ma è chiaro che alcune soluzioni a una minaccia sempre più complessa e transnazionale devono
essere adottate a livello europeo. A tal riguardo è relativamente incoraggiante la recente creazione in seno
all’Europol dello European Counter Terrorism Centre.
Il centro, la cui attivazione è attesa per l’1 gennaio 2016,
ha come obiettivo quello di rafforzare la condivisione
delle informazioni e la cooperazione operativa a livello
europeo, dallo stoccaggio di informazioni provenienti
da varie banche dati europee (inclusi quelli provenienti
dal Pnr, il codice numerico legato a ogni viaggiatore che
acquista un biglietto aereo) a misure per una più rapida
condivisione di dati tra le intelligence degli Stati membri (ovviando a uno dei principali fattori che facilitarono
l’attacco alla capitale francese).
Questa nuova minaccia pone delle sfide importanti
all’antiterrorismo europeo. Alcune riguardano la politica estera, partendo dalla necessità di trovare un ruolo
comune e attivo dell’Unione Europea in Siria, Iraq, Libia e altri paesi della regione. Ma l’Europa affronta una
sfida ugualmente importante anche dal punto di vista
della sicurezza interna. Gli attentati di Parigi hanno
mostrato delle falle che non sono proprie solo
dell’antiterrorismo francese ma, più in generale, di tutto
il sistema-Europa: una condivisione di intelligence tra
vari paesi dell’Unione che, per quanto migliore rispetto
©ISPI2015
La creazione dello European Counter Terrorism Centre è solo un primo, timido ma necessario, passo verso la
creazione di meccanismi più efficienti per il miglioramento della risposta alla minaccia terrorista che
l’Europa sta affrontando e, con ogni probabilità, affronterà negli anni a venire. Robuste iniziative in questa
direzione sono altamente auspicabili, in quanto un timido approccio a una maggiore integrazione a livello di
politiche di anti-terrorismo potrebbe avere ripercussioni
drammatiche.
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