leggi, scrivi e condividi le tue 10 righe dai libri

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Della stessa autrice abbiamo pubblicato:
Serie La Stirpe di Mezzanotte:
Il bacio di mezzanotte
Il bacio cremisi
Il bacio perduto
Il bacio del risveglio
Il bacio svelato
Il bacio eterno
Il bacio oscuro
Il bacio di fuoco
Il bacio immortale
Il bacio rubato
Il bacio ribelle
Il signore della vendetta
Prima edizione: marzo 2013
Titolo originale: White Lion’s Lady
Author’s Edition eBook © 2012 by Lara Adrian llc
Copyright © 2001 by Tina St. John
Original Print Copyright 2000 by Tina St. John
Reissue Copyright © 2012 by Lara Adrian llc
© 2013 by Sergio Fanucci Communications S.r.l.
Il marchio Leggereditore è di proprietà
della Sergio Fanucci Communications S.r.l.
via delle Fornaci, 66 – 00165 Roma
tel. 06.39366384 – email: [email protected]
Indirizzo internet: www.leggereditore.it
Proprietà letteraria e artistica riservata
Stampato in Italia – Printed in Italy
Tutti i diritti riservati
Progetto grafico: Grafica Effe
Lara Adrian
La signora della tentazione
traduzione di Sabina Terziani
Per J.C.G. e C.S.G.,
e tutti coloro che sono alla ricerca...
Che possiate trovare speranza e felicità.
Prologo
Inghilterra, 1179
Una risata di scherno risuonava nella testa di Isabel de La­
mere mentre scappava dal grande raduno estivo all’aperto al
quale in un primo momento aveva partecipato con entusia­
smo, ma che poi era diventato il teatro della sua umiliazione.
L’evento si svolgeva a Droghallow, possedimento dell’amico
di suo padre, e Izzy, una bimba di otto anni, aveva atteso con
ansia quel momento, impaziente com’era di esibire la sua ve­
ste più bella e di stringere amicizia con i bambini della sua
età che abitavano nelle contee circostanti.
Era tutta colpa dell’odioso primogenito del signore di Dro­
ghallow se quella giornata era orribile. Su ordine del padre il
fanciullo era andato, controvoglia, a controllare che Izzy si di­
vertisse, ma aveva preso a deriderla, ridicolizzando la sua gof­
faggine di fronte agli altri ragazzini i quali, in un batter d’occhi,
avevano cominciato a prendersi gioco di lei e a criticare qual­
siasi cosa la riguardasse, dalle gambe e le braccia grassocce, ai
tratti del viso insignificanti, alle guance lentigginose e la rossa
chioma ribelle. Izzy era scappata via prima che le lacrime di­
ventassero un ulteriore motivo di condanna.
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Corse giù per il terrapieno respirando grandi boccate d’a­
ria e s’inoltrò, senza una direzione precisa, nella vasta pia­
nura. Si fermò solo quando ebbe finito il fiato, ritrovandosi
circondata dall’erba del fossato difensivo che le arrivava alla
vita. Cadde in ginocchio tra le fresche canne fruscianti cer­
cando di ricacciare indietro i singhiozzi che le pungevano la
gola e di distogliere i pensieri dal nodo di dolore che le beffe
dei bambini le avevano lasciato nel cuore.
La ricerca di una distrazione guidò il suo sguardo verso un
punto a pochi passi da lei dove le piante selvatiche erano in
fiore. Una farfalla si era posata su una margherita e batteva le
graziose ali gialle mentre suggeva il nettare. Forse poteva cat­
turarla per tenerla come compagna, pensò la bambina mentre
osservava la farfalla posarsi delicatamente su un’altra corolla
giallo sole. Si alzò e si avvicinò al fiore con passo felpato, ma
la farfalla, quasi avesse avvertito il pericolo in avvicinamento,
volò via zigzagando in direzione del limitare del bosco.
Izzy non chiedeva di meglio che seguirla, perciò si mise a
rincorrerla senza più degnare di un pensiero tutte le preoccu­
pazioni precedenti, presa da una sola idea: agguantare quel
trofeo.
Entrò nella foresta dove trovò una radura ombrosa e fresca,
sovrastata da grandi querce e svettanti conifere che le facevano
da scudo contro la luce intensa di mezzogiorno. Era assediata
dal ricco profumo del muschio e del terriccio umido. Tra le
cime degli alberi era tutto uno stormire di uccelli cinguettanti
che con i loro trilli attutivano il frastuono dei festeggiamenti
su al castello. Una creatura del bosco sgattaiolò tra i rovi a po­
chi passi da Izzy, tenendosi alla larga dal percorso dell’intrusa.
Izzy seguì la farfalla come se fosse la sua guida verso un al­
tro mondo e s’inoltrò nel folto del bosco. I suoi occhi seguivano
la minuscola macchia di colore che danzava nella penombra
scura, esitava sospesa e infine si posava su un alto fiore aran­
cione a succhiarne il nettare, mentre la bambina si avvicinava
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furtiva da dietro mordendosi il labbro assolutamente concen­
trata, incombendo sul fiore tanto vicino da sentire il profumo
pungente della corolla a campana. Con estrema lentezza alzò
le mani e le congiunse a coppa per calare sulla creatura che
banchettava, ansiosa di trattenere anche solo per un istante
quella bellezza iridescente. Purtroppo la farfalla volò via an­
cora una volta.
Adesso Izzy si lanciò davvero all’inseguimento, corren­
do qua e là per un tracciato senza capo né coda che la con­
dusse sempre più dentro alla foresta fresca e scura. La de­
terminazione la rendeva imprudente, noncurante dei graffi
sulle caviglie nude, mentre con le gonne alzate correva nel
sottobosco che s’infittiva. Si abbassò per passare sotto rami
affusolati, attraversò macchie di felci imperlate di rugiada
continuando implacabile la caccia, finché non perse di vista
la preda.
Ma la cosa più grave non era aver perso di vista la farfalla,
si rese improvvisamente conto; era essersi completamente
smarrita nel bosco.
Rimase immobile per qualche istante voltando la testa
ora da una parte ora dall’altra alla ricerca di un sentiero o
di un indizio che le permettesse di orientarsi. Il bosco non
aveva nulla di familiare. Il fitto fogliame schermava i rumori
e la luce che provenivano dall’esterno rendendo impossibile
capire in che direzione si trovasse il castello di Droghallow.
Il cuore di Izzy, che già batteva rapido per la corsa, adesso
prese a battere all’impazzata.
Dio del cielo, si era persa.
Non ho paura, disse a sé stessa. Sarebbe bastato seguire
le proprie tracce per uscire dal bosco e tornare a casa sana e
salva. Colma di nuovi propositi si voltò e fece un passo.
In quel momento udì uno scalpiccio tra i rovi di fronte, un
rumore di rametti spezzati da un corpo pesante seguito da
un grugnito animalesco e una sbuffata. Seppe di essere in
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pericolo prima di vedere gli occhi spiritati del cinghiale e i
suoi lunghi canini ricurvi. La bestia irsuta e bellicosa le sbar­
rava il passaggio, annusando l’aria. Avendo evidentemente
deciso che si trovava di fronte a una nemica piuttosto che
a un’amica, l’animale arricciò il grugno e lanciò uno strido
gutturale di avvertimento.
Izzy deglutì. Non sapeva dove andare. A destra e sinistra
gli alberi erano fitti, e dietro di lei l’intricato sottobosco non le
avrebbe certo permesso di scappare a gambe levate.
Rimase immobile a fissare con occhi sbarrati il cinghiale
che, passo passo si avvicinava annusando il terreno con gru­
gniti e sbuffi. Un movimento quasi impercettibile distrasse
la bestia che per un istante voltò la testa. La bambina era tesa
allo spasimo, ogni fibra del suo corpo le ordinava di scappa­
re nonostante le possibilità di farcela fossero scarse.
Eppure poteva essere la sua unica possibilità di salvezza...
«Non muoverti.»
L’ordine perentorio sembrava provenire dagli alberi stes­
si ed ebbe l’effetto immediato di inchiodarle i piedi a terra.
«Rimani immobile» ordinò la voce. «Qualsiasi movimento
potrebbe farlo partire alla carica.»
Izzy rimase paralizzata, quasi incapace di respirare. Il
grugno del cinghiale si contrasse, gli occhietti luccicanti cer­
carono indizi del nuovo intruso. Izzy cercò di non indugiare
con lo sguardo su quelle terribili zanne ricurve, letali bagliori
bianchi contro il pelo scuro della bestia.
«Brava, te la stai cavando benone.» Stavolta la voce genti­
le, ma ferma e convincente, giungeva da un punto più vici­
no. «Dimmi il tuo nome.»
«Iz... Izzy» balbettò la bambina, con un sussurro tremante.
«Sono dietro di te Izzy e mi sto avvicinando. Rimani fer­
ma. Non avere paura.»
Ma lei era terrorizzata. Il cinghiale scoprì i denti scuo­
tendo la testa e lanciò un grugnito acuto, feroce. Quel verso
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tremendo le fece correre un brivido lungo la spina dorsale
che la scosse da capo a piedi. «Vi prego» singhiozzò. «Aiuta­
temi.»
Udì uno scricchiolio alle sue spalle. Era il suo salvatore che
si avvicinava, oppure aveva deciso di filarsela per salvarsi la
pelle? Izzy non lo sapeva. Davanti a lei il cinghiale batteva lo
zoccolo sul terreno coperto di muschio, con il grugno punta­
to a terra e le setole della groppa erette quasi a formare una
pinna dorsale di nero carbone. Sbuffò brevemente.
Partì all’attacco.
Izzy urlò. Chiuse gli occhi ben stretti preparandosi all’im­
patto inevitabile e devastante con le zanne del cinghiale. Atte­
se, ma la morte non arrivò. Al suo posto udì il rumore secco di
una spada che veniva sguainata e sentì un soffio di aria fresca
mentre qualcuno balzava davanti a lei e, con un movimento
sicuro e possente del braccio, la gettava di lato, al sicuro.
La bestia rabbiosa all’attacco fracassava rametti sotto le
zampe. Risuonò un grido che s’interruppe bruscamente. Una
massa che si schiantava fece vibrare il terreno cedevole e u­
mido.
Poi la foresta tacque.
La bambina impiegò qualche momento prima di avven­
turarsi ad aprire gli occhi, e quando ci riuscì vide la bestia
che avrebbe potuto ucciderla distesa a terra priva di vita. Un
ragazzo biondo e smilzo la contemplava in silenzio, strin­
gendo in mano una spada insanguinata. Sentendo che la
fanciulla si avvicinava, si voltò a guardarla. Straordinari oc­
chi verde-oro incontrarono il suo sguardo stupito.
«Mi avete salvato la vita.» Izzy indugiò al suo fianco, inca­
pace di distogliere lo sguardo dalla bestia abbattuta, terrifi­
cante persino da morta. «Il vostro è stato il gesto più coraggio­
so che abbia mai visto» sussurrò. «Avete rischiato la morte al
mio posto.»
«Un uomo deve affrontare il pericolo di buon grado» re­
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plicò il giovane, pulendo la spada e riponendola nel fodero.
La guardò con aria solenne. «Un cavaliere ha il dovere di
proteggere la dama nel momento del bisogno, quale che sia
il rischio del suo gesto.»
Izzy sbatté le palpebre e scrutò quel viso fresco e abbron­
zato sentendo nascere un calore dentro di lei. Nessuno prima
di allora l’aveva definita una dama, figurarsi se aveva mai
visto un tale sfoggio di cavalleria fuori dai confini della sua
immaginazione. Intimorita e ammutolita assorbiva con gli
occhi le fattezze del suo salvatore, ammirandone la chioma
color del grano che gli sfiorava le spalle, gli occhi verdi fieri
come quelli del leone, il naso dalle linee smussate, il mento
fiero e finemente cesellato. Era un ragazzo, poco più grande
di lei, ma ai suoi occhi possedeva il coraggio e la dignità di
dieci uomini adulti.
Quello sconosciuto splendente come l’oro le aveva appe­
na salvato la vita, e Izzy se ne innamorò un pochino.
«Venite» disse tendendole la mano. «Il bosco è un luogo
pericoloso per una fanciulla sola. Vi accompagnerò fuori di
qui e vi ricondurrò alla festa.» La condusse per un sentiero
indistinto attraverso le felci. La sua mano calda le avvolgeva
le dita, il suo passo era sicuro e abile quanto il braccio forte
che la sorreggeva. «Cosa vi ha spinto ad avventurarvi nel bo­
sco senza un accompagnatore?» le chiese dopo un pezzo di
cammino. «Si capisce che un ragazzo preferisca fuggire l’aria
pesante di un raduno di nobili per rifugiarsi in una radura
ombrosa come questa, ma è un sentimento davvero insolito
per una fanciulla.»
Izzy non voleva confessargli la causa per lei vergognosa del­
la fuga dalla festa. «Correvo dietro a una farfalla» disse invece.
Era una mezza verità, e suonava pure un po’ stupida. «Mi sono
persa prima di rendermi conto di cosa stessi facendo.»
«Dovreste essere grata di non aver smarrito niente altro
che la strada» la rimproverò in tono secco benché un accenno
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di sorriso gli sollevasse l’angolo della bocca. Giunsero in un
punto dove il sottobosco era fitto e intricato, con rami ricur­
vi che sbarravano loro il cammino. Il giovane li scansò con
galanteria permettendole di passare sotto. «Dopo di voi, mi­
lady.»
Raggiante, Izzy si chinò per passare sotto ai tralci spinosi.
Gli fece una rapida riverenza. «Grazie, signore...?»
«Griffin.» Sorridendo la raggiunse e ricambiò l’inchino.
«Griffin di Droghallow, al vostro servizio.»
«Droghallow?» Izzy rimase in silenzio per un istante. Pro­
vò una fitta di delusione improvvisa. «Non siete imparenta­
to con Dominic di Droghallow, spero.»
Il giovane le lanciò un’occhiata interrogativa. «Per caso lo
conoscete?»
Le venne in mente l’immagine del suo principale tormen­
tatore. «Mio padre e il suo si conoscono, ma vi assicuro che
non ho la minima intenzione di fare la conoscenza del signo­
rino Dominic. Proprio questo pomeriggio si divertiva a...»
Izzy s’incupì, restia a completare quel pensiero. «Credo che
sia un gran prepotente» si corresse.
«Oh sì, Dom spesso è crudele e ingiusto» osservò Griffin
quasi in tono di scusa. Si sporse in avanti e abbassò la voce
a un sussurro cospiratore. «Se v’infastidisce di nuovo, ditegli
che sapete che ha una paura tremenda del buio. Rammen­
tategli che non riesce a chiudere occhio se non ha una torcia
accesa a fianco del letto per tutta la notte. Quando saprà che
conoscete il suo segreto, non credo che si accanirà più tanto a
darvi fastidio.»
Izzy sorrise, riconoscente di quella gentilezza supplemen­
tare. Sembrava che quel giorno il suo biondo campione non
si fosse limitato a uccidere un cinghiale per lei.
«Tra me e Dom non c’è parentela» aggiunse Griffin con­
tinuando a camminare in direzione della luce che segnava
il limitare del bosco. «Suo padre e la sua matrigna mi accol­
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sero una quindicina di anni fa, quando, orfano in fasce, fui
abbandonato ai cancelli di Droghallow. Che io sappia non
ho parenti in vita.»
«Proprio nessuno?» mormorò Izzy con sincera empatia. I
suoi genitori le erano talmente cari che le sembrava impos­
sibile immaginare di non averli. «Quindi non sapete niente
della vostra famiglia?»
«Ho solo questo.» Estrasse un ciondolo dalla tunica e glie­
lo mostrò. Era un piccolo semicerchio di bronzo smaltato, un
medaglione al cui centro era inciso in rilievo un leone bianco
rampante. «Lady Alys, la matrigna di Dom, lo trovò tra le
mie fasce il giorno che mi raccolse. È tutto ciò che mi rimane
dei miei veri genitori... chiunque fossero.»
«Sono certa che erano ottime persone» replicò Izzy, accor­
gendosi della nota di tristezza nella voce del ragazzo, spinta
dall’urgenza di fare qualcosa per lenirla. «Se vi vedessero
oggi sarebbero molto orgogliosi di voi.»
Le lanciò una breve occhiata e lasciò ricadere il medaglione
sul petto facendo spallucce. Si rimisero in cammino. «Sir Ro­
bert, il padre di Dom, dice che ho la stoffa per diventare un
ottimo cavaliere. Mi sta addestrando a diventare il suo scu­
diero e un giorno entrerò a far parte della guarnigione di Dro­
ghallow.»
«Sarete il più bravo tra i suoi scudieri, non ho dubbi» af­
fermò Izzy, trotterellando per tenere il passo con le lunghe
falcate del suo accompagnatore.
Griffin ridacchiò. «Ma io voglio fare ancora meglio» disse
scrutando il sentiero in lontananza con espressione concen­
trata. «Un giorno sarò un grande cavaliere, uno che non de­
ve rendere conto a nessuno. Sarò un uomo d’onore.»
Izzy provò un’ammirazione sconfinata per il suo campio­
ne e lo rimirò con un gran sbattere di ciglia. «Lo sarete certa­
mente» dichiarò, nella convinzione improvvisa e inesplica­
bile che Griffin sarebbe riuscito in qualsiasi obiettivo si fosse
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prefisso. «Sarete il più grande e nobile cavaliere del regno,
Griffin di Droghallow!»
«Credete davvero?» domandò lui osservandola con e­
spressione intensa.
Izzy sorrise, pienamente fiduciosa. «Non ho mai provato
convinzione più forte.»
La fervente confessione della fanciulla rimase sospesa
nell’aria per alcuni lunghi momenti, riempiendo il silenzio
della radura. Infine anche sul viso di Griffin sbocciò lenta­
mente un sorriso che creò due fossette sulle guance. «Siete
una strana fanciulla, Izzy. Strana davvero, con le vostre cacce
alle farfalle e la vostra fede nei sogni di uno sconosciuto.» La
bambina distolse lo sguardo improvvisamente imbarazzata
dall’intensità con cui gli occhi verde-oro la fissavano e si con­
centrò sulle pianelle che portava ai piedi. Griffin le prese la
mano e lei non seppe come reagire, rimase a fissarlo stupita
mentre portava la mano alle labbra e ne baciava castamente
il palmo. «Milady, è stato un immenso piacere avervi incon­
trata.»
Sorridendo, arretrò di qualche passo in direzione del bo­
sco. Izzy rimase a guardarlo, troppo frastornata per chieder­
gli dove stesse andando. Il cuore le batteva talmente forte
nelle tempie che udì a malapena il grido rabbioso che risuo­
nò alle sue spalle. Il grido si ripeté, più vicino.
«Isabel de Lamere! Dove siete stata?»
Era la sua nutrice che era venuta a cercarla. Senza voltarsi
indovinava le movenze di quella chioccia pingue che si sta­
va affannando per raggiungerla, irritata che le fosse toccato
venirla a cercare durante la festa. Eppure, nonostante la mi­
naccia che incombeva alle sue spalle, Izzy non riusciva a di­
stogliere lo sguardo dal bel volto del suo biondo campione.
«Sir Griffin» sussurrò, ma lui se ne era già andato, le aveva
voltato le spalle svanendo tra le ombre degli alberi. Si guar­
dò il palmo, nel punto in cui le sue labbra l’avevano toccata,
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e notò qualcosa di luccicante sul terriccio ai suoi piedi. Era il
medaglione con il leone bianco. La catena era spezzata, forse
a causa di una maglia che aveva ceduto. «Griffin! Aspetta­
te!» gridò, raccogliendo l’oggetto e cercando tutto intorno i
segni della presenza del ragazzo.
Un attimo dopo la nutrice l’aveva agguantata per il polso
e riportava alla festa. Izzy cercò di tenere il passo trotterel­
lando. Stringeva il medaglione nel pugno, felice se non altro
per la possibilità di rivedere Griffin per restituirgli il ciondo­
lo e ringraziarlo ancora una volta. Griffin di Droghallow le
aveva salvato la vita, l’aveva chiamata milady, le aveva ba­
ciato la mano e... le aveva rubato il cuore.
Pensando a lui, sentì nascere dentro di sé i turbamenti e i
fuochi di infinite fantasie romantiche. Mai avrebbe incontra­
to un uomo più nobile e onorevole del suo coraggioso eroe,
del suo cavalleresco leone bianco, Griffin di Droghallow. Ci
credeva con tutto il cuore.
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Autunno, dieci anni dopo
«Siete proprio senza cuore, Griffin di Droghallow! Così ci
condannate a morte sicura!»
Nel gruppo di circa venti contadini dalle facce sudicie che
erano riuniti nella piazza del villaggio per il versamento de­
gli affitti al signore, solo la moglie del mugnaio aveva osato
protestare. Palesemente gravida e con un figlio appeso alle
gonne, la matrona si fece avanti con passo dondolante e una
rabbia omicida negli occhi, un’espressione che Griff aveva
visto abbastanza spesso in qualità di capitano delle guardie
di Droghallow, tanto che non gli faceva quasi più effetto.
Continuò indisturbato a sistemare le cinghie che reggevano
i sacchi di grano e di lana caricati sul carro, cui erano legate
anche diverse pecore belanti e vacche che muggivano contri­
buendo a farlo spazientire.
Quello era solo il primo di circa sei villaggi che lui e i suoi
uomini avrebbero visitato quel giorno per incassare l’affitto
mensile che doveva riempire i forzieri di Droghallow. Era
stato un anno difficile per il Paese, reso ancora più difficile
dalle richieste incalzanti del nuovo re nei confronti di vas­
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salli e alleati ai quali chiedeva lealtà sotto forma di fondi per
finanziare la nascente guerra in Terra Santa. Ormai tutto ciò
che l’Inghilterra possedeva di prezioso aveva un prezzo: i
feudi reali venivano venduti all’asta, titoli nobiliari traman­
dati per generazioni potevano essere conservati solo a costo
di tasse esose da corrispondere alla corona, e nei tribunali le
cause venivano risolte a favore solo di chi sborsava la cifra
più alta.
Riccardo Plantageneto era stato appena incoronato, ma
già si preparava a lasciare Londra. Sarebbe partito presto
con il suo esercito alla riconquista del Santo Sepolcro per il
bene della cristianità. Era una nobile missione, ma alcuni si
chiedevano se il prezzo per l’Inghilterra non sarebbe stato
troppo alto, mentre altri iniziavano a pensare che forse il fra­
tello del re, il principe Giovanni, se fosse stato al posto di
Riccardo avrebbe dimostrato maggiore interesse per il be­
nessere del Paese.
All’incoronazione di Riccardo, Giovanni aveva ricevuto
una sostanziosa fetta di titoli nobiliari e possedimenti, perciò
teneva d’occhio quello che considerava sarebbe presto diven­
tato il suo regno. E mentre alcuni vassalli nobili mettevano
da parte fondi per sostenere la Guerra Santa, altri, in segreto,
ammassavano denaro per pagare una guerra ben diversa,
che avrebbe visto due fratelli combattere come nemici.
Con i feudi che subivano pressioni da ogni lato, erano gli abi­
tanti dei villaggi a soffrire maggiormente, e Droghallow non
sfuggiva alla sorte comune. I contadini erano stanchi, oberati
di lavoro, e la notizia che il loro signore, Dominic conte di
Droghallow, sempre più avido di nuove terre e titoli aveva
aumentato gli affitti, li aveva mandati su tutte le furie. Gran
parte dei poderi non sarebbero riusciti a pagare e si sarebbero
visti confiscare cibo e animali, privazione che li avrebbe con­
dannati a un lungo, crudele inverno.
Non era tenuto a farsi carico della sofferenza dei conta­
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dini, pensò Griffin mentre la mugnaia si avvicinava con gli
occhi lucidi di lacrime di rabbia.
«Che bestia siete, Griffin di Droghallow, per strappare il
pane di bocca ai bambini e spogliarli della lana che li avrebbe
riscaldati nei mesi a venire?»
La figlia della mugnaia, una creaturina di una magrezza
spaventosa e dai capelli di stoppa, uscì dalle pieghe della gon­
na materna. «Non piangere mamma» disse con un filo di vo­
ce, abbracciandola. «Ti prego, non piangere.»
Griff distolse immediatamente lo sguardo dalla scena e
diede uno strattone a una cinghia del carro, tendendola più
del necessario. Preferì concentrarsi sul bruciore al palmo del­
la mano causato dallo strofinio della fune piuttosto che indu­
giare un momento in più su una bimba che sarebbe sicura­
mente morta entro la fine dell’inverno.
«La vita di un servo significa così poco agli occhi di un
cavaliere? Non vedete che abbiamo bisogno di ognuna delle
vacche, dei sacchi di lana e di grano che abbiamo? Non v’im­
porta proprio niente...»
«Non sta a me preoccuparmi del vostro benessere» rispo­
se Griff legando la cinghia con gesto brusco e voltandosi a
guardarla. «Sono stato inviato a riscuotere ciò che è dovuto
al signore di Droghallow. Adesso fatti da parte e lasciami fi­
nire.»
«Animale!» inveì la donna, mentre un tremore le scuoteva
la mascella dalla linea delicata. «Bestie senz’anima che non
siete altro! Meritate di marcire tutti all’inferno!»
Griff sentì qualcosa di umido sul viso e rimase momen­
taneamente di sasso. La donna gli aveva sputato addosso.
La gente che fino ad allora aveva seguito lo scambio come
ipnotizzata, adesso era immobile e ammutolita. Regnava il
silenzio, quasi che nessuno osasse respirare. La mugnaia so­
stenne lo sguardo di Griff, ma tremava come una foglia per
il terrore e stringeva la figlia con rinnovata forza.
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«Vi... vi prego» balbettò. «Sì... signore, vi chiedo perdono.»
Griff non disse niente. Si ripulì dello sputo con il dorso del­
la mano, troppo sorpreso per provare rabbia, troppo indiffe­
rente per offendersi.
Trascurando l’assembramento di contadini, volse lo sguar­
do al mulino, da cui stavano uscendo in quel momento i suoi
uomini. Il mugnaio, a testa china, con le mani legate dietro la
schiena come un criminale, precedeva i cavalieri.
Odo, il luogotenente di Griff, era alla testa del gruppo e
sorrideva fiero. «Da bravo mugnaio nascondeva una parte di
tutto quello che passava per le sue macine. Giurava che non ci
nascondeva niente, ma abbiamo trovato altri tre sacchi nasco­
sti dietro la parete del deposito.»
«Aggiungeteli al carico e partiamo per il villaggio succes­
sivo» ordinò Griff, già impaziente di concludere quella gior­
nata di lavoro.
Controllare il versamento degli affitti e consegnarli al pro­
prietario era solo la prima parte della missione per conto di
Dom. Un altro compito lo aspettava a Droghallow, un com­
pito il cui pensiero lo tormentava da quando, pochi giorni
prima, Dom ne aveva discusso con lui.
Durante una visita alla corte del re, l’intraprendente conte
era venuto a sapere che una giovane ereditiera da poco en­
trata in possesso dell’eredità e già fidanzata per ordine del
re, sarebbe partita a breve da un convento londinese per rag­
giungere la sua nuova dimora che si trovava a qualche lega a
nord di Droghallow. Entro un mese sarebbe andata in sposa
a Sebastian di Montborne, uno dei vassalli più ricchi e poten­
ti di re Riccardo. Il fatto che costui fosse uno degli avversari
politici più odiati di Dominic rendeva l’occasione di tradirlo
ancora più allettante. Dominic voleva che la dama fosse rapi­
ta e condotta al suo cospetto, perciò aveva garantito a Griffin
sia totale libertà nella scelta degli uomini che lo avrebbero
aiutato nell’impresa sia una sostanziosa ricompensa.
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Griff aggiunse il rapimento alla lunga lista di crimini e lo­
schi traffici compiuti dietro ordine di Dom. Non si era mai
considerato il tipo che rapisce le spose, ma il richiamo di tut­
to quell’argento era assai potente. Dopotutto, se ne valeva
la pena, poteva pure sporcarsi le mani. Reso euforico dal
pensiero del ricco compenso che presto sarebbe stato suo,
Griffin fece il giro del cavallo e infilò un piede nella staffa.
«Che ne facciamo di lui, Griff?»
Odo indicò il mugnaio che si stringeva alla moglie e alla
figlia. Dall’alto del suo destriero Griff osservò la coppia che
attendeva tremebonda la sua decisione. La punizione che a­
spettava il mugnaio a Droghallow sarebbe stata sicuramente
severa, fin troppo crudele a fronte di un crimine commesso
nell’intento di nutrire un villaggio affamato. Eppure la tra­
sgressione meritava comunque una punizione.
«Al mulino non sono rimasti più sacchi di grano o fari­
na?» chiese a Odo.
«Niente di niente. È tutto vuoto, ho controllato di persona.»
Griffin annuì. Qualche settimana prima avevano portato
via il raccolto della stagione, perciò il mulino sarebbe rima­
sto inutilizzato per tutto l’autunno e poi l’inverno. Sorvolan­
do sulle facce dei contadini che lo guardavano impauriti e
pieni di disprezzo represso, Griffin considerò la costruzione
di legno ormai inattiva annessa al mulino. Lanciò un’occhia­
ta a Odo poi, freddamente, puntò il mento in quella direzio­
ne e disse: «Bruciatelo.»
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Quel mattino l’antica via romana che partiva da Londra
era affollata. I suoni inconfondibili della disperazione riem­
pivano l’aria: si stava celebrando il funerale di un nobiluomo
e la processione si snodava a passo molto lento, poiché colo­
ro che uscivano dalla città si fermavano per lasciar passare i
parenti del deceduto.
Le candele e le lampade a olio in testa alla processione e­
mettevano scie di fumo che aleggiava sulle teste chine e delle
suore e dei preti che compostamente precedevano la bara
drappeggiata di seta nera, sorretta da una barella di assi di
legno. La famiglia seguiva il feretro. I due figli sorreggevano
alteri la madre che gemeva, sul punto di accasciarsi per il
dolore.
Isabel de Lamere viaggiava su una portantina di squisita
fattura scortata da una dozzina di uomini armati che adesso
era ferma su di un lato della strada. Scostò le tende di seta
che proteggevano i passeggeri dal riverbero del sole per da­
re un’occhiata alla processione e provò compassione per il
dolore di quelle persone.
Dietro alla vedova e ai figli procedeva da sola una bambina
vestita di nero, con le guance arrossate bagnate di lacrime. Il
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tremolio del mento e della mano che stringeva un mazzolino
di fiori fecero quasi piangere Isabel. Anche lei aveva provato
gli stessi sentimenti per la perdita di suo padre ed era stata
dimenticata da una madre che non riusciva a sopportare la
morte del marito. Era come se conoscesse quella bambina.
Quando la bimba passò accanto alla portantina, Isabel le
offrì un sorriso gentile per comunicarle la compassione che
provava, e uno sguardo che potesse darle conforto insieme a
una silenziosa preghiera di speranza affinché il tempo sanas­
se le ferite riportando la serenità. La bimba parve aggrappar­
si allo sguardo di Isabel e, sbattendo le palpebre per scacciare
le lacrime, ricambiò infine abbozzando un sorriso tremolan­
te. La processione sfilò, diretta alla chiesa, e Isabel seguì la
bambina con lo sguardo finché non scomparve inghiottita
dal corteo.
«Che contrattempo irritante» si lagnò la compagna di I­
sabel, una coetanea anch’essa in viaggio per incontrare un
aristocratico che il re le aveva assegnato in sposo.
Rinchiusa nell’abbazia di St Winifred per un lasso di tem­
po equivalente a quello di Isabel, lady Felice era una diciot­
tenne che aveva già subìto lo scioglimento di due fidanza­
menti ed era evidentemente impaziente di assicurarsi che il
presente accordo fosse onorato. Forse credeva che se fosse
arrivata in ritardo a destinazione il fidanzato avrebbe repen­
tinamente mutato le proprie intenzioni chiedendo l’annulla­
mento del contratto.
Isabel si chiese se non sarebbe stato proprio l’incontro con
la promessa sposa a fargli cambiare idea. Lady Felice era una
bionda dalle fattezze minute, abbastanza graziosa e dotata
di un’eredità di tutto riguardo. Il meglio che si potesse dire di
lei era che fosse un’incantevole intrigante, il peggio che pos­
sedesse il temperamento di una bisbetica. Isabel non vedeva
l’ora di arrivare a destinazione per congedarsi da quella gio­
vane donna viziata e lagnosa.
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«Per amor di Dio, quanto dobbiamo rimanere qui ferme?»
La giovane sbuffò e si sporse in avanti per dare un’occhiata
alla strada piena di gente. «Chi è il defunto?» chiese a un pas­
sante. «Spero sia qualcuno di importante, con tutto questo
bailamme.»
«Sssh, Felice!» la rimproverò Isabel, inorridita da quella
mancanza di sensibilità. «È morto un padre e un marito, era
una persona importante per i suoi; mostragli un po’ di ri­
spetto.»
Felice alzò gli occhi al cielo e si rimise a sedere sui cusci­
ni con una smorfia petulante sul viso. «Senti da che pulpito
viene la predica» ribatté acida. «Ti sei forse dimenticata della
fine che ha fatto quel traditore di tuo padre?»
Isabel tenne la faccia girata dall’altra parte perché Felice
non vedesse il dolore che provava. No, non aveva dimenti­
cato il triste fatto del disonore di suo padre, anzi, la vergogna
la ossessionava ogni giorno della sua vita, da quel mattino di
sei anni fa in cui lo avevano trascinato via da Lamere in cate­
ne con l’accusa di tradimento nei confronti del precedente re
d’Inghilterra, Enrico II.
L’amato padre di Isabel era stato dichiarato colpevole di
aver preso parte, insieme a una ventina di baroni, a una con­
giura contro il re ed era stato giustiziato. Non aveva neppure
cercato di negare il torto, anzi, fino all’ultimo momento ave­
va sostenuto di aver agito solo nell’interesse del suo Paese.
Potendo tornare indietro, avrebbe senz’altro agito come a­
veva fatto.
Come conseguenza del tradimento, tutto ciò che posse­
deva venne confiscato dalla corona: terre, titoli e ricchezze;
persino il matrimonio con la madre di Isabel fu annullato,
facendo di Isabel e della sorella in fasce due figlie illegittime.
Isabel e Maura furono dichiarate bastarde e spedite in due
conventi separati, sotto custodia del re, mentre alla madre,
parente alla lontana della famiglia reale, fu garantito il di­
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ritto di conservare le proprietà in dote a patto di tornare in
Francia, totalmente disonorata. Erano passati sei anni senza
notizie da parte della madre, anche se girava voce che la no­
bildonna fosse impazzita per il dolore e l’umiliazione. Infi­
ne, appena un mese prima, era arrivata una lettera che dava
il triste annuncio della sua malattia e morte.
Isabel aveva ereditato il castello in Francia e alcune pic­
cole tenute al confine del regno del Galles. Era un’ereditiera
di proprietà terriere e re Riccardo aveva deciso che era un
ottimo partito. L’aveva abbinata al conte di Montborne, un
uomo che lei non aveva mai incontrato e che conosceva solo
per sentito dire come persona di immacolata reputazione.
Erano ormai diversi anni che non si fidava più dell’ono­
re degli uomini – fidarsi di suo padre le aveva insegnato
un’amara lezione – eppure sperava di riuscire a convincere
il futuro marito affinché operasse il ricongiungimento tra lei
e Maura. Se pregare doveva essere l’unico atto importante
della sua vita, ebbene Isabel pregava di ricongiungersi alla
sorella per potersi prendere cura di lei finché non fosse cre­
sciuta abbastanza da cominciare una vita propria.
«Giuro che non capisco la ragione per cui il re ha pensato
di fidanzarti proprio a Sebastian di Montborne» disse Felice
quando la processione ebbe finito di sfilare e i cavalli furono
tornati sulla strada riprendendo il cammino verso nord.
La portantina sobbalzava scompigliando le perle dell’ela­
borata acconciatura di Felice, una treccia di riccioli biondo
chiaro avvolta attorno alla testa e coperta da un velo tratte­
nuto da un cerchio d’oro ritorto. La ragazza alzò la mano a
sfiorare i capelli per controllare che tutto fosse a posto, poi,
irritata, stirò con il palmo le pieghe dell’abito da viaggio, una
veste straordinaria color guance di pesca che seguiva le sue
forme snelle alla perfezione. Era un abito alla moda, con le
punte delle maniche che arrivavano quasi all’orlo della gon­
na e il corpetto ornato da un intricato ricamo di perline, la
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cui eleganza superava senza difficoltà il grazioso abito ver­
de chiaro con velo che indossava Isabel. Neppure l’elegante
vestito da matrimonio che quest’ultima aveva portato con sé
era all’altezza del lussuoso guardaroba di Felice.
«Incredibile» proseguì la ragazza scuotendo la testa. «La
bastarda di un traditore che va in moglie a uno dei vassalli
preferiti del re, mentre a me, pronipote del cancelliere del re,
tocca sposare un semplice barone. Non è per niente giusto.»
Isabel trattenne l’impulso di replicare facendo notare a Fe­
lice che suo zio, William di Longchamp, prima di essere no­
minato cancelliere da re Riccardo era uno sconosciuto nei cir­
coli nobili, un plebeo a tutti gli effetti. Agli occhi di quanti non
potevano far altro che assistere impotenti alla sua presente
ascesa, Longchamp non era altro che un ladro autorizzato,
un bugiardo e un traditore. Isabel aveva la sensazione netta
che i frutti di quell’albero ne condividessero le caratteristiche.
«Non fasciarti la testa troppo in anticipo» disse, rassicu­
rando la compagna con una pacca sulla gamba. «Dopotutto,
ancora non sei sposata. Forse anche questo fidanzamento
sfumerà come gli altri due.»
Felice fece un profondo sospiro e annuì brevemente prima
di rendersi conto della sottile cattiveria delle parole di Isabel.
Quando capì l’insulto le lanciò uno sguardo offeso, ma ormai
Isabel si era già voltata a guardare il panorama.
Il bosco si era infittito già a poca distanza dalla città e la
strada proseguiva in mezzo alla foresta per un tratto molto
lungo. Felice dormicchiava di fronte a Isabel, sorreggendosi
il mento per mantenere la testa eretta. Isabel non riusciva a
dormire per i troppi pensieri e osservava gli altri viaggiatori
e i pellegrini diretti a nord che passavano accanto a loro sulla
stretta strada. Ascoltava le canzoni che alcuni cantavano per
passare il tempo e si chiedeva quale fosse il futuro di ognuno
di loro, quale la destinazione, con una curiosità simile a quel­
la che provava nei confronti del proprio destino.
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Mentre a ogni lega il passato si faceva più lontano, cosa
l’aspettava nel futuro?
Cercò di immaginare Montborne, un luogo dove non era
mai stata, ma di cui aveva sentito parlare spesso e che presto
sarebbe diventato la sua casa. Chiuse gli occhi e le fu facile
vedere vasti prati ondulati e campi fertili, prosperi villaggi e
un glorioso maniero in pietra che dominava il tutto. Imma­
ginò la gioia sul viso della sorella minore quando sarebbe
arrivata a Montborne, lasciandosi infine alle spalle la vita
di convento per vivere con Isabel e suo marito come una
famiglia.
Come aveva già provato a fare innumerevoli volte dall’an­
nuncio del fidanzamento, cercò di visualizzare Sebastian, il
loro incontro, lo sposalizio... e non ci riuscì. Infatti, nono­
stante avesse sentito molto parlare del giovane conte, bello
e bruno, chissà perché ogni volta che cercava di figurarselo
le veniva in mente l’immagine di un cavaliere coraggioso e
affascinante dai capelli fulvi e dai brillanti occhi verde-oro.
Insomma, immaginava Griffin di Droghallow.
In verità non aveva mai dimenticato l’eroe della sua infan­
zia, il ragazzo che l’aveva salvata da una tragedia inevitabi­
le lasciandole un pegno del suo coraggio e del suo onore, il
ciondolo con il leone bianco da cui non si separava neppure
per un istante. Il giorno che avevano arrestato suo padre si
era affidata al medaglione affinché le infondesse coraggio,
e da allora l’aveva aiutata a superare ogni dolorosa notte di
solitudine e terrore nell’abbazia, separata dalla famiglia e da
tutto ciò che aveva di più caro.
Guardò di sottecchi la compagna per assicurarsi che dor­
misse ed estrasse il medaglione dal corpetto esponendolo al­
la luce che filtrava dalle tende. Con gesto amorevole passò il
polpastrello del pollice sul metallo smaltato di cui conosceva
i rilievi a memoria. Era un disco di bronzo tagliato a metà in
verticale e raffigurava un fiero leone bianco rampante, una
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creatura maestosa e di grande coraggio che le era sempre
parsa rispecchiare esattamente le virtù del suo possessore.
Non passava giorno che non pensasse a Griffin, chieden­
dosi cosa ne era stato di lui e se l’avrebbe rivisto ancora. Lo
includeva immancabilmente nelle sue preghiere chiedendo
a Dio di mantenerlo felice e in salute. Sognava più del neces­
sario di rivederlo, quando in un modo o nell’altro i loro cam­
mini si sarebbero incontrati e lei gli avrebbe reso il ciondolo,
ringraziandolo personalmente di quel gesto gentile di dieci
anni prima. Aveva sognato anche un genere diverso di incon­
tri con lui, incontri abbastanza vividi da farla arrossire al solo
pensiero nella cruda luce del giorno.
Scosse la testa quasi a scrollare via quei pensieri peccami­
nosi. Doveva imparare a mettere da parte quell’attrazione
fanciullesca per un uomo che ormai era poco più che un pia­
cevole ricordo.
Doveva sposare Sebastian di Montborne. Decise che a­
vrebbe onorato il patto in ogni modo, a partire da quell’e­
satto momento, perciò ripose il ciondolo e si appoggiò allo
schienale con un sospiro.
Forse si era appisolata per un po’, perché a un certo punto
si svegliò di colpo sentendo una delle guardie che lanciava
un grido di saluto spazientito a qualcuno che li precedeva
sulla strada.
Anche Felice si scosse dal torpore. «Che succede? Siamo
arrivate?» chiese con un mezzo sbadiglio intontito.
«Ci siamo fermati, non capisco perché» rispose Isabel
sbirciando dal finestrino.
Era quasi il crepuscolo, ma la foresta incombente soffoca­
va la poca luce che rischiarava ancora il cammino. Giunti in
quel luogo remoto a nord, la strada somigliava piuttosto a
un sentiero stretto in cui il convoglio viaggiava solitario spo­
standosi lentamente. Non erano proprio soli, notò Isabel,
guardando meglio. C’era un pastore con il suo gregge. Un
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vecchio che sbarrava loro la strada a circa due centinaia di
iarde con il gregge tutto intorno, restio o incapace di liberare
la carreggiata.
«Togli quelle bestie dalla strada, vecchio, e facci passare»
ordinò una delle guardie armate.
Il pastore rimase a fissarlo con gli occhi sgranati, muto e
per niente intenzionato a collaborare. Isabel si chiese se per
caso non fosse sordo, poiché l’impazienza nella voce del ca­
valiere era ben chiara. Udiva il tintinnio delle armi e delle
bardature, sentiva il nervosismo dei cavalli mentre le guar­
die aspettavano in silenzio, circospette.
C’era qualcosa di bizzarro in quel contrattempo. Anzi, c’era
qualcosa di terribilmente sbagliato. Isabel si sporse ulterior­
mente per vedere meglio cosa succedeva in testa al convoglio.
«Rientrate signora» consigliò una guardia con voce bassa
e tono uniforme. «Non c’è nulla di cui preoccuparsi.»
E invece sì, si capiva dalla calma disciplinata e artificiale di
quel tono. Isabel deglutì e si rimise a sedere come le avevano
ordinato, pregando che fosse solo la sua immaginazione che
aveva preso il sopravvento. «Non è niente, ne sono certa» dis­
se a Felice, che la guardava imbronciata. «Solo un pastore con
il suo gregge che blocca la strada. Ripartiremo subito, non ap­
pena se ne saranno andati.»
«Te lo dico ancora una volta e poi basta» disse il capo delle
guardie. «Libera la strada e lasciaci passare.»
«Oh, per tutti i santi» brontolò Felice, con voce abbastanza
alta da essere udita da tutti. «Se quell’imbecille non si scansa
passategli sopra!»
La punta della pianella di Isabel colpì violentemente lo stin­
co di Felice zittendola proprio nel momento in cui la vera cau­
sa della sosta divenne orribilmente evidente a tutti. Dal bosco
arrivò una freccia che colpì il bersaglio con mortale precisione.
Una guardia cadde esanime gettando la scorta nel caos.
In mezzo al belare impaurito delle pecore e le grida di sor­
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presa delle guardie, Isabel e Felice non potevano far altro che
ascoltare terrorizzate, mentre l’agguato si dispiegava. Altre
frecce sibilarono, uomini e cavalli urlarono per il dolore e
presto si udì il clangore delle spade. I cavalli che tiravano la
portantina si mossero, innervositi dal tumulto, facendo oscil­
lare pericolosamente il mezzo di trasporto velato.
«Siamo sotto attacco!» gemette Felice scoppiando a pian­
gere. «Oddio, moriremo tutti!»
Isabel avrebbe voluto calmarla ma non sapeva cosa dire.
La paura l’aveva ammutolita. Si puntellò a braccia tese ai
montanti laterali della portantina cercando di mantenere sia
il senso della situazione sia il lume della ragione. Non era
necessario vedere la battaglia che infuriava fuori per capire
che se non avessero agito immediatamente si sarebbero ri­
trovate nella mischia.
«Felice» disse Isabel con voce sibilante. «Non possiamo
rimanere ad aspettare che i briganti ci trovino. Dobbiamo
tentare di fuggire.»
«Fuggire?» Felice singhiozzò, gli occhi sbarrati pieni di la­
crime. «Ma io ho paura!»
«Anch’io. Prendimi per mano e saltiamo dal retro della
portantina.»
Si sentì un suono di metallo che colpiva altro metallo, poi
un urlo di dolore. Un cavallo lanciò un nitrito acuto e si gettò
di fianco contro la portantina capovolgendola quasi.
«Felice!» sussurrò Isabel con forza. «Dobbiamo andare.»
Le tese una mano, ma la ragazza singhiozzante non ne
volle sapere di afferrarla.
«Ci prenderanno!» disse con voce roca. «Non ce la faremo
mai!»
«È l’unica speranza che abbiamo» ribatté Isabel, tratte­
nendosi a stento dallo scuotere malamente la compagna per
farle passare la crisi isterica incipiente. «Abbiamo qualche
possibilità di farcela, ma dobbiamo correre!»
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Felice scosse la testa e gemette. «No! Non ce la faccio a
uscire di qui, Isabel! Ti prego, non fare...»
Si udì uno scricchiolio di sassolini schiacciati dalle suole di
pesanti stivali che si avvicinarono alla portantina ponendo
fine ai lamenti di Felice. Era troppo tardi per sfuggire agli
aggressori. Il drappo che ricopriva la portantina fu strappato
quasi fosse un’impalpabile tela di ragno e cadde a terra la­
sciando il mezzo esposto allo sguardo di un enorme cavalie­
re ghignante, dalla barba brizzolata e ispida come la pelliccia
di un orso. «Buonasera, signore mie. Che bella serata per un
rapimento, nevvero?»
Le ragazze gridarono, stringendosi una all’altra, tremanti
per il panico. Cercarono di ritrarsi il più possibile dal massic­
cio brigante che cercava di afferrarle con braccia nerborute
che frugavano l’interno della portantina occupandola tutta.
Felice fu afferrata alla caviglia.
«Nooo!» urlò con occhi dilatati dal terrore mentre l’uomo
cominciava a tirarla a sé. Le manine delicate della ragazza
annasparono alla ricerca di un appiglio senza trovarlo. «Oh!
Isabel, ti prego! Aiutami!»
Isabel la trattenne e tirò con tutte le forze mentre Felice si
dibatteva e scalciava per liberarsi dalle grinfie dell’aggresso­
re. Questi perse infine la presa e, come per miracolo, Felice
si ritrovò improvvisamente libera. Nulla presagiva la mossa
successiva della ragazza, che si attaccò al braccio di Isabel e la
strattonò, spingendola verso l’uomo.
«Prendi lei, bestione puzzolente, non me!» gridò sgu­
sciando dietro Isabel e scappando dall’altro lato della por­
tantina. Ruzzolò a terra, si rialzò e corse urlando nei boschi.
«Felice!» urlò Isabel, terrorizzata e incredula. Abbandona­
ta e impaurita cercò di lottare contro l’aggressore. Gettata tra
le sue braccia dal tradimento della compagna, si sentì affer­
rare alle spalle e tirare senza poter quasi reagire.
«Fai la brava» disse il ceffo. «Non vogliamo farti del male.»
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La trascinò fuori della portantina e la appoggiò a terra
senza mollare la presa d’acciaio sulle braccia. Isabel rimase
immobile e colse con un solo sguardo la catastrofe che aveva
colpito il convoglio. Sentì la nausea salire. Erano morte quat­
tro guardie e due cavalli, e giacevano per la strada, squarciati,
trapassati dalle frecce che spuntavano in mezzo a chiazze di
sangue. Le altre due guardie dovevano essersi dileguate nei
boschi, forse all’inseguimento degli aggressori, forse – come
aveva fatto Felice – per cercare la salvezza. Erano solo ipotesi,
e in quel momento le preoccupazioni di Isabel erano altre.
Con la coda dell’occhio intravide gli altri banditi armati di
spade e balestre che uscivano dal fitto degli alberi. A qualche
iarda di distanza scorse una figura incappucciata a cavallo,
vestita di nero dalla testa ai piedi, che uscì dal bosco e si fer­
mò in mezzo alla strada per contemplare la carneficina.
Anche l’aggressore di Isabel lo vide, si voltò e sghignazzò
facendogli segno con un’alzata di mento. «Guarda cos’ho
trovato!» disse tutto gioviale.
Era l’opportunità che Isabel cercava.
Fece un passo avanti e alzò il ginocchio con tutta la rapidi­
tà e la forza di cui disponeva. Era una tattica utile che aveva
appreso nel cortile di Lamere e che aveva quasi dimenticato
negli otto anni di permanenza all’abbazia. Nonostante la tec­
nica fosse un po’ arrugginita, notò con sollievo che l’effetto
non aveva perso niente. L’aggressore mollò immediatamen­
te la presa e si afferrò invece la parte colpita cadendo in gi­
nocchio con una bestemmia e un gemito strozzato.
Il capo della banda di furfanti, il cupo cavaliere in nero,
vide l’accaduto. Aveva cercato di avvertire il suo uomo, ma
il ginocchio di Isabel si era dimostrato più veloce. Spronò il
cavallo e si precipitò verso di lei e il compare che farfugliava.
«Non lasciatevela scappare!» gridò ai compagni con voce
profonda che rimbombò nel silenzio della foresta.
Con il cuore tremante per il panico, Isabel si chinò e sgu­
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sciò sotto i cavalli e la portantina correndo nella direzione già
presa da Felice. Raccolse le gonne e scappò nel bosco, ansi­
mante e senza fiato per il terrore, con le gambe sorrette dal
puro istinto di sopravvivenza.
Sentiva il tramestio dei briganti che la inseguivano attra­
verso la fitta vegetazione, udiva le bestemmie e il clamore
delle armature e sapeva che la loro determinazione era pari
alla sua. Era quasi notte. Se fosse riuscita a trovare un na­
scondiglio nel folto, forse si sarebbero stancati di inseguirla e
avrebbero rinunciato.
Oppure avrebbero scovato Felice per prima e l’avrebbero
presa al suo posto, pensò con speranza per niente cristiana.
Scivolò per un ripido pendio coperto da uno strato di fo­
glie e continuò a correre sul fondo della gola dalle pareti ri­
pide alla ricerca di una caverna, una grossa roccia, il tronco
cavo di un vecchio albero, qualsiasi cosa in cui nascondersi
per un po’. Non trovando niente continuò a correre verso il
cuore profondo della foresta mentre calavano le tenebre.
Perlomeno non udiva più rumori d’inseguimento. Con
il sorgere della luna, nel bosco era sceso il silenzio. Rallen­
tò il passo dove il terreno cominciava a salire. Era stanca e
assetata; una fitta al fianco le rendeva doloroso fare respiri
profondi. Decise che era il momento di riposare e appoggiò
la schiena al tronco nero e nodoso di una quercia venerabile.
A quel punto si domandò quanto fosse stata saggia la scel­
ta di scappare nei boschi. Non aveva con sé né cibo né acqua
e neppure una coperta per tenere a bada il gelo notturno.
Se anche avesse evitato la cattura da parte dei briganti, per
quanto tempo pensava di rimanere al sicuro dai fuorilegge
e dai vagabondi che popolavano le impenetrabili foreste
inglesi? Sarebbe sopravvissuta? Come si sarebbe presa cu­
ra della piccola Maura se non fosse riuscita a raggiungere
Montborne?
Fu quel pensiero sopra ogni altro a spronarla nel momen­
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to in cui la stanchezza lavorava a indebolirla. Raddrizzando
le spalle con rinnovata determinazione, si scostò dalla quer­
cia, pronta ad arrivare a Montborne a ogni costo, foss’anche
strisciando. Fece un deciso passo avanti, ma si fermò subito,
scioccata, trovando la strada bloccata da un altro grosso al­
bero.
Solo che – se ne rese conto troppo tardi – non era un albero.
Era un uomo. Il capo degli aggressori, il cavaliere vestito
di nero dalla testa a piedi. La fissava, con le mani guantate
puntate a pugno sui fianchi e le gambe divaricate, la faccia
invisibile nel buio del cappuccio del mantello. Isabel dovette
piegare la testa all’indietro solo per scorgere i contorni del
viso e riuscì a vedere solo una criniera selvaggia di capelli
chiari che gli arrivavano alle spalle e il suo sorriso, un crude­
le squarcio bianco nell’oscurità.
Era una presenza minacciosa, immobile e ghignante co­
me il diavolo stesso.
«State andando da qualche parte, signora?»
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