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FRANCESCO COSTA ORRORE VESUVIANO ROMANZO BOMPIANI © 2015 Francesco Costa Per accordo con Thèsis Contents Srl, Firenze-Milano © 2015 Bompiani / RCS Libri S.P.A. Via Angelo Rizzoli 8 – 20132 Milano ISBN 978–88–452–7936–2 Prima edizione Bompiani giugno 2015 a Maurizio de Giovanni Sa benissimo com’è che ad Aurelia Scala è venuto questo caratteraccio. C’è da specificare che Orrore Vesuviano detiene un primato assai curioso: vanta il numero più alto di pallottole vaganti in un giorno. Sono circa trecento. I proiettili volano da tutte le parti nell’arco delle ventiquattr’ore, perché qui abitano giovanotti dal cervello grande come quello di un pulcino, ai quali piace da matti sparare. Non sempre però hanno una buona mira, e sono tante le occasioni in cui mancano il bersaglio: così le pallottole se ne vanno a spasso nell’aria che fischia senza che ci sia il vento, e ogni tanto vedi cadere stecchiti là una suora e lì un droghiere e un giorno ci ha rimesso la pelle perfino un chierichetto che era panna e burro come un cherubino, e gli hanno fatto un funerale così struggente, con la bara e mazzi di gigli fragranti, che s’è messo a singhiozzare perfino il suo assassino. Da queste parti, insomma, capita che uno cada in mezzo alla strada come un pupazzo di segatura e spesso per non rialzarsi più. Stando così le cose, non c’è da stupirsi se i cittadini di Orrore Vesuviano si dispongono frementi allo sgomitolarsi di giorni avventurosi, e sobbalzano ai rumori insoliti perché la pallottola vagante è democratica e non guarda in faccia nessuno, così può toccare a tutti di svoltare un angolo e beccarsi un proiettile in fronte, e allora buona notte ai suonatori! Il vero nome di Orrore Vesuviano non se lo ricorda più nessuno, nemmeno i più vecchi fra i suoi abitanti, e a causa di tutti questi ammazzamenti ormai lo chiamano così perfino sulle carte geografiche. Stranamente, però, in paese nessuno s’ammala di depressione. L’eventualità di cadere fulminati fa anzi bollire il sangue agli uomini e li rende spudorati. Escono di casa la mattina con il gusto di sfidare la malasorte, come chi gioca alla roulette russa, e nell’incertezza si ubriacano di vita: li vedi quindi fare le cose più strambe, come mettersi a ballare o sbaciucchiarsi il 8 primo che passa, perché quando pensi che ogni giorno potrebbe essere l’ultimo, non vai più tanto per il sottile e baceresti sulla bocca pure un orangotango. Aurelia Scala però non la prende dal lato giusto. Il suo nervosismo si acuisce di anno in anno. È stufa marcia di veder ammucchiarsi sull’asfalto cadaveri con gli occhi spalancati, che bagnano di sangue i marciapiedi, e magari teme che un giorno o l’altro una pallottola possa stroncare la vita di suo figlio. Eppure arrivano in certi pomeriggi, come folate di un vento di provenienza africana, momenti tutti speciali in cui la vedi illanguidirsi. Diventa allora un guerriero che depone la spada in quell’aria che sa di cenere. Lentamente si passa una mano fra i ricci e guarda fiduciosa una nuvola di passaggio, poi getta secchiate d’acqua sui fiori che si stavano ammosciando sulla soglia del negozio e se la spassa al vedere che le corolle purpuree o blu riprendono vita per trescare di nuovo con i passanti. Le margherite ridacchiano nei vasi, le viole fremono e le rose effondono profumi assassini. Sono questi i momenti in cui succedono i più straordinari miracoli, ma Luca ne ha un po’ paura, e sente di conseguenza una gran stizza crescergli in petto, perché non gli va di sentirsi impaurito. Quello che puntualmente accade in quelle ore di abbandono è che chiunque passi davanti al negozio di fiori di Aurelia Scala, sia maschio o sia femmina, sia vecchio o sia bambino, sia gatto o sia cane, s’innamora perdutamente dei suoi sospiri, e il petto gli va a fuoco per il desiderio di strusciarsi addosso a lei. È in quelle occasioni che a Luca si rizza il pelo per la rabbia, perché i cani chiedono ad Aurelia Scala l’elemosina di una carezza e i gatti rinfoderano le unghie per strofinarsi contro le sue caviglie, le vecchie signore perdono l’aria scostante e si concedono l’acquisto di un mazzo di garofani, ma la cosa più terrificante è che i maschi di qualsiasi età (è chiaro però che i più giovani hanno qualche vantaggio sui loro padri) perdono la 9 ragione e in capo a due o tre settimane si azzardano a chiederla in moglie. Alcuni arrivano a dimenticarsi di averla già, una moglie, e si può capire quanto questo mandi in bestia quelle disgraziate che si spezzano la schiena a lavare i pavimenti o a cucinare pasta e fagioli intanto che il padre dei loro figli, al quale sono coniugate da anni con rito sia civile che religioso, sta facendo una proposta di matrimonio in piena regola alla più bella fioraia dell’area vesuviana. È come una fattura, una disgrazia, una catastrofe, sbuffa Luca, questo fatto che tutti gli uomini s’innamorano di mammà. E a lui la cosa non va giù. Fra otto o nove anni al massimo sarà perfettamente in grado di difenderla da qualsiasi pericolo. Adesso ne ha già dieci. Se Aurelia si contentasse di starsene da sola con lui fino al giorno del suo diciottesimo compleanno, quali problemi ci sarebbero? Tutto marcerebbe nel senso giusto. Aspettare per così pochi anni non sarà mica la fine del mondo. Lui ce la sta mettendo tutta per crescere in fretta, ma ad Aurelia pare proprio che i maschi siano indispensabili. Luca ha ormai appreso che, quando mammà batte le ciglia o fa la voce roca, vuol dire che nei paraggi gironzola una di quelle rogne viventi, e che lei sta per prendere all’amo un innamorato nuovo. È una cosa che non sta bene, pensa Luca. Aurelia Scala dovrebbe vergognarsi. In paese cominciano a parlarne, di questo suo talento di far rimbambire gli uomini: a darci dentro sono soprattutto le donne alle quali hanno ammazzato il marito, che qui sono un battaglione, e danno i numeri all’idea di dover restare sole per il resto dei loro giorni. Se ogni maschio si scimunisce alla vista di Aurelia Scala, che speranze possono avere di rimaritarsi alla svelta? Additato per strada da quelle megere, Luca avverte un brutto presentimento e teme che prima o poi quest’andazzo farà sprofondare lui e sua madre in qualche brutto guaio. Non sarà che Luca Scala è geloso? 10 Lui se lo chiede spesso, guardandosi pensoso allo specchio. “Sei geloso, Luca Scala?” Ma no! Non è questo! La faccia che si ritrova davanti, paffuta e corrucciata, gli risponde senza aver bisogno d’aprir bocca che le madri non devono mai allontanarsi dai figli per accoppiarsi con il primo che passa. E che cavolo! Le regole sono regole. Esistono per essere rispettate. C’è poi da aggiungere che Orrore Vesuviano è abitato da certi ceffi che sembrano camorristi, e nella maggioranza dei casi lo sono, e a nessuna donna sana di mente dovrebbe far gola di coricarsi con uno di quei delinquenti! Stanno così bene da soli, loro due, che di altri uomini non si sente davvero il bisogno. Eppure, nonostante tutte queste riflessioni, e qualche formula propiziatoria biascicata a fior di labbra per tener lontani i maschi dalla bottega di mammà, ecco che alle quindici e venti di un tragico sabato di metà maggio, forse per effetto di un troppo penetrante profumo di lillà, e di una tardiva ma radiosa primavera, accade uno di quegl’impicci che a Luca fanno girare le scatole: nel passare davanti alla vetrina che affaccia sulla piazza e vedendo Aurelia Scala china a dare acqua alle rose, si rincitrullisce all’improvviso Massimo Amoroso che tiene l’agenzia di pompe funebri a un centinaio di metri di distanza. Massimo Amoroso non ha scusanti: se non avesse mai visto Aurelia Scala in vita sua e se la trovasse davanti all’improvviso, gli si dovrebbero riconoscere parecchie attenuanti, perché mammà è una di quelle visioni fulminanti che a incapparci senza preavviso possono accorciare la vita a uno che non sta tanto bene di salute, e Luca si meraviglia infatti che i dottori di Orrore Vesuviano non si sbrighino a sconsigliarne la visione ai cardiopatici. Le cose però non stanno così: Massimo conosce perfettamente Aurelia. Era nella stessa classe alle elementari e da anni 11 abita di fianco a lei, ma non l’ha mai degnata di un’occhiata. Preferisce darsi da fare con le turiste americane che calano ad Amalfi. Schifa puntualmente le femmine indigene, sostenendo che si distinguono dalla fauna locale di sesso maschile solo perché si radono più raramente e perciò hanno i baffi più folti. Che cosa veda di nuovo in Aurelia Scala che sta bagnando le rose, nessuno può saperlo. Impallidisce forse nel notare che un raggio di sole l’ha centrata attraverso la vetrina per rendere incandescente il bianco del suo seno? O ha forse visto accendersi il verde dei suoi occhi, quel verde talmente scuro che finora gli pareva nero? O magari il destino ha semplicemente decretato che le vite di Aurelia e Massimo debbano entrare in rotta di collisione perché si aggiunga una nuova tragicommedia alle altre che già tengono svegli i pettegoli di Orrore Vesuviano? Levando lo sguardo, Aurelia incrocia quello di Massimo e si consente un sospiro di meraviglia prima di metter a fuoco la situazione. Il becchino è cotto di lei, la cosa è palese, e non fa in tempo a pensarlo che fiuta una miriade di guai pronti ad addensarsi sull’uscio della sua bottega. Con un paio di lenti scure a coprirgli gli occhi, e un riverbero di luce nei capelli, Massimo Amoroso fa fare un delizioso din don al campanello sulla porta d’ingresso e parla a scatti come se gli mancasse il respiro. “Gradirei quei due bei fasci di rose perché vorrei portarli alle mie zie.” Con la testa china da un lato, Aurelia lo guarda scettica. Figuriamoci se uno come Massimo Amoroso, innamorato alla follia solo di Massimo Amoroso, si mette a buttar soldi al vento per offrire rose alle zie. Dora e Stella Amoroso, sia detto senza acredine, sono due prugne secche, talmente abituate a fargli da serve che a ritrovarsi un fascio di rose fra le mani neanche saprebbero che cosa farne, e potrebbero pure metterlo a bollire in pentola. 12 Aurelia lo compatisce. Prova sempre una gran pena per i giovanotti che hanno la stupida idea d’incapricciarsi di lei. Intontiti dall’istinto, ingenui come poppanti, non vedono quanto si rannuvoli il loro avvenire nell’attimo in cui le consegnano i loro cuori. È suo dovere metterli in guardia, e adesso s’impegna a scoraggiare Massimo. Alle labbra le affiora in tono spiccio un canovaccio imparato a memoria che, contrariamente alle sue intenzioni, fa sciogliere di tenerezza il bellimbusto. “Bellezza mia, se tieni in mente qualche balorda idea che mi riguarda, ti consiglio per il tuo bene di fartela passare. Certamente sai, perché te ne avranno parlato le tue zie, che io porto sfortuna. A chi mi vuol bene si abbrevia l’esistenza, ecco i fatti, e ti suggerisco di girare al largo. L’estate è vicina e chissà quante turiste piomberanno da New York ad Amalfi con lo scopo preciso di strusciarsi addosso a un bel ragazzo come te. Abbi pazienza, si tratta di due o tre settimane, e nel frattempo potresti arrangiarti con le nigeriane che battono fra Ercolano e Pompei. Ne ho avvistate due o tre molto carine…” Massimo non l’ascolta. Non sarà un campione d’intelligenza, ma è bravo a far conti. Pur tramortito dalla visione di una bellezza della quale non si era mai accorto, e che gli è appena esplosa sotto gli occhi, si butta subito a far calcoli, come se lei avesse risposto di sì. “Stammi a sentire, Aurelia. Noi siamo la combinazione vincente.” Sottilmente intrigata da quella foga, lei lo sfotticchia: “Ah, sì? E che cosa c’è da vincere?” “Tu vendi fiori e io casse da morto. In miseria non ci finiremo mai, perché in questo paese neanche il pane è richiesto più di quello che vendiamo noi…” “Che vuoi dire?” Aurelia finge di non capire. Per vincere la sua ostinazione, Massimo allarga le braccia d’impeto e quasi butta all’aria un’urna traboccante di gladioli. 13