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Lezioni di presidenzialismo
Si sa che non è facile per un paese importare i modelli istituzionali altrui. L’Italia ha già pagato un caro prezzo
all’illusione di poter copiare il celebrato bipartitismo inglese semplicemente prendendone a prestito la legge
elettorale. Col risultato che i partiti sono rimasti più numerosi e frammentati di prima, e ci dobbiamo
accontentare di un fragile bipolarismo che fa perno solo sulla straordinaria personalità di Berlusconi. Andrebbe,
dunque, attentamente studiato questo bel saggio sul presidenzialismo francese di Umberto Coldagelli, che
unisce al suo acume di studioso la lunga frequentazione professionale con gli alti vertici della Camera. E evitare,
se possibile, di cadere anche in questa trappola.
La Quinta Repubblica. Da De Gaulle a Sarkozy (Donzelli, pp.184, euro 27) è appassionante come un romanzo e
rigorosa come sono solo le pagine degli «addetti al mestiere», prontissimi a individuare gli snodi critici, anche –
e soprattutto – quelli nascosti. E in realtà, la storia del presidenzialismo francese è soprattutto una storia di esiti
imprevisti, spesso paradossali, situazioni costantemente al limite del dettato costituzionale, e molte
contraddizioni insanabili.
Coldagelli passa in rassegna i pasaggi più eclatanti, analizzando le strategie con cui i diversi presidenti hanno
cercato di venire a capo del nodo più delicato e spinoso: un eccesso di potere che rischiava di rivolgersi
costantemente contro di loro. Il caso più noto è quello delle coabitazioni, vale a dire la compresenza al governo
con un primo ministro dell’opposizione. La causa principale di questa discrasia era la durata settennale
dell’incarico presidenziale, che si trovava ad essere sfalsato rispetto a quello del primo ministro eletto da un
parlamento quinquennale. Questa coabitazione forzata ha costretto gli inquilini dell’Eliseo a uno stop-and-go
nell’(ab)uso dei propri poteri: cercando di difendere le proprie prerogative e, al tempo stesso, di scaricare sul
coinquilino gli insuccessi dell’azione di governo.
La crisi di questo delicato equilibrio è scoppiata con il flop clamoroso di Chirac, quando sciolse di proprio pugno
il Parlamento per farsi una maggioranza più duttile, e finì per vedere eletto un primo ministro socialista. Ed è
proprio a Jospin che si deve la sincronizzazione dei due mandati, riducendo a cinque anni quello del presidente
ma lasciandogli il privilegio di precedere l’elezione del parlamento, condizionandone così il risultato. Inizia qui
quel percorso di riforme costituzionali che approda a una vasta revisione della carta, con ben 47 articoli
emendati, che «copre però con il silenzio il presidenzialismo di fatto». Il presidente alla francese si conferma
ben più potente del suo collega americano: oggi può parlare al Congresso senza dar luogo a votazioni,
esautorando il Primo Ministro, e rafforzando quella irresponsabilità assoluta che ne fa, al cospetto della nazione,
l’interlocutore onnipresente e onnipotente. Ancor più quando il ruolo è incarnato da un comunicatore abilissimo
e affascinante come Sarkozy. Non sorprende che Berlusconi stia studiando come infilare anche l’Italia nel tunnel
del presidenzialismo alla francese.
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