Resp. sociale assunzione soggetti svantaggiati
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Resp. sociale assunzione soggetti svantaggiati
Provincia di Genova OSSERVATORIO DEL MERCATO DEL LAVORO La responsabilità sociale delle aziende nell'assunzione di soggetti svantaggiati A cura di: Enrico Fravega e Carla Bonatti La responsabilità sociale delle aziende nell'assunzione di soggetti svantaggiati Rapporto di ricerca Il presente rapporto ricerca costituisce una restituzione di un lavoro di indagine svolto da Job Centre s.c.r.l., per conto della Provincia di Genova, nell’ambito delle attività di ricerca e analisi a supporto dell’Osservatorio sul Mercato del Lavoro. Equipe di ricerca: Claudio Oliva, Enrico Fravega, Carla Bonatti, Massimo Cannarella, Michela Davi Ringraziamenti: Grazie ad Andrea, Antonia, Beatrice, Bruno, Enzo, Francesca, Maria e Rashid perché questa non è stata una ricerca su di loro ma con loro. Grazie a i loro colleghi e datori di lavoro. Grazie agli operatori della mediazione che si sono resi disponibili aiutandoci a entrare e, forse, a comprendere un po’ del loro mondo. Grazie anche ad Andrea Sanguineti che ha supportato l’intero processo di ricerca. L’ambito territoriale di riferimento è la Provincia di Genova. L’ambito temporale di riferimento è l’anno 2006. © Job Centre s.c.r.l./Provincia di Genova. . Indice Introduzione Pag. 1 I casi di studio Pag. 7 Disabilità e stigma Disabilità e processo di costruzione sociale Essere o diventare disabili: che cosa comporta la disabilità Riconoscere e superare i limiti della disabilità: l’esperienza del lavoro Lavoro e ridefinizione del sé Quali aziende? L’azienda e gli atteggiamenti nei confronti dei disabili Il sistema produttivo contemporaneo I servizi Il percorso mutevole Il ruolo del mediatore Pag. Pag. Pag. Pag. Pag. Pag. Pag. Pag. Pag. Pag. Pag. 16 16 22 27 30 33 39 45 47 67 70 Stigma e colpa L’inserimento di persone soggette a misure alternative al carcere Stato di salute Fattori personali Ambiente e cultura I servizi che strutturano il percorso di inserimento Pag. Pag. Pag. Pag. Pag. Pag. 79 79 80 82 89 90 Riflessioni conclusive Pag. 97 Introduzione Questa ricerca intende fornire un’istantanea del funzionamento dei servizi della Provincia di Genova deputati all'inserimento lavorativo dei soggetti svantaggiati. In base al Regolamento CEE 2204/2002, art. 2 comma f, si definisce lavoratore svantaggiato, “qualsiasi persona appartenente ad una categoria che abbia difficoltà ad entrare, senza assistenza, nel mercato del lavoro, vale a dire qualsiasi persona che soddisfi almeno uno dei criteri seguenti: i. qualsiasi giovane che abbia meno di 25 anni o che abbia completato la formazione a tempo pieno da non più di due anni e che non abbia ancora ottenuto il primo impiego retribuito regolarmente; ii. qualsiasi lavoratore migrante che si sposti o si sia spostato all'interno della Comunità o divenga residente nella Comunità per assumervi un lavoro; iii. qualsiasi persona appartenente ad una minoranza etnica di uno Stato membro che debba migliorare le sue conoscenze linguistiche, la sua formazione professionale o la sua esperienza lavorativa per incrementare le possibilità di ottenere un'occupazione stabile; iv. qualsiasi persona che desideri intraprendere o riprendere un'attività lavorativa e che non abbia lavorato, né seguito corsi di formazione, per almeno due anni, in 1 particolare qualsiasi persona che abbia lasciato il lavoro per la difficoltà di conciliare vita lavorativa e vita familiare; v. qualsiasi persona adulta che viva sola con uno o più figli a carico; vi. qualsiasi persona priva di un titolo di studio di livello secondario superiore o equivalente, priva di un posto di lavoro o in procinto di perderlo; vii. qualsiasi persona di più di 50 anni priva di un posto di lavoro o in procinto di perderlo; viii. qualsiasi disoccupato di lungo periodo, ossia una persona senza lavoro per 12 dei 16 mesi precedenti, o per 6 degli 8 mesi precedenti nel caso di persone di meno di 25 anni; ix. qualsiasi persona riconosciuta come affetta, al momento o in passato, da una dipendenza ai sensi della legislazione nazionale; x. qualsiasi persona che non abbia ottenuto il primo impiego retribuito regolarmente da quando è stata sottoposta a una pena detentiva o a un'altra sanzione penale; xi. qualsiasi donna di un'area geografica al livello NUTS II nella quale il tasso medio di disoccupazione superi il 100 % della media comunitaria da almeno due anni civili e nella quale la disoccupazione femminile abbia superato il 150 % del tasso di disoccupazione maschile dell'area considerata per almeno due dei tre anni civili precedenti”. Mentre lo stesso articolo, al successivo comma g, definisce il lavoratore disabile come: i. qualsiasi persona riconosciuta come disabile ai sensi della legislazione nazionale, o ii. qualsiasi persona riconosciuta affetta da un grave handicapfisico, mentale o psichico. 2 L’ampiezza della categorizzazione sopra riportata, all’interno della quale si collocano target di politiche del lavoro assai differenti tra loro, che, di fatto, ricomprende la maggioranza degli iscritti ai Centri per l’Impiego, ha comportato la necessità di giungere ad una migliore definizione dell’oggetto dell’indagine. In questo senso, in accordo con l’ente committente, si è scelto di limitare il campo della ricerca a due sottosegmenti appartenenti all’universo dei soggetti svantaggiati: i lavoratori disabili e le persone soggette a misure alternative al carcere. La scelta di focalizzare la ricerca su questi due segmenti discende dalla necessità di mettere a confronto le esperienze maturate, o in corso di maturazione, su un target sul quale esiste una consolidata prassi di intervento (l’inserimento lavorativo di persone disabili) e quelle sviluppatesi in un campo ancora “a bassa strutturazione” quale quello delle persone soggette a misure alternative alla pena detentiva. L'ipotesi generale di ricerca si basa su uno studio approfondito della situazione, del comportamento, e dell'inserimento nel mercato del lavoro di questi due target. I punti chiave su cui si articola il processo di ricerca possono essere sintetizzati in: analisi della condizione; strategie, ossia azioni intraprese; bisogni espressi e latenti (di orientamento, di formazione, di utilizzo dei servizi) e aspettative. I casi analizzati sono stati in tutto otto; sei attinenti all’inserimento di persone disabili e due relativi a persone soggette a misure alternative alla carcerizzazione. Ognuno dei casi individuati, laddove possibile, ha comportato la realizzazione di tre interviste. Per ogni caso è stato infatti intervistato il mediatore che ha seguito l'inserimento, il datore di lavoro del soggetto e il soggetto stesso. Le interviste realizzate sono di tipo qualitativo; tale metodologia consente infatti di esplorare in profondità opinioni, vissuti e rappresentazioni sociali. 3 La strategia complessiva di ricerca ha previsto la necessità di approfondire la condizione specifica delle persone coinvolte, nei diversi ruoli descritti, nel processo di inserimento lavorativo o, in un senso più ampio, nel sistema di politiche attive del lavoro. Si è posto inoltre particolare rilievo ai diversi livelli di aspettativa e utilizzo dei servizi e delle politiche attive del lavoro, finalizzando tale approfondimento alla raccolta di informazioni che possano risultare utili alla programmazione dei servizi stessi e alle modalità di erogazione. Nell’ambito del progetto complessivo è sembrato opportuno premettere all’indagine una ricostruzione di elementi di contesto. La prima fase di progettazione ha previsto, per l’inquadramento generale del fenomeno oggetto di studio e la realizzazione di alcune interviste in profondità rivolte ad alcuni testimoni privilegiati (esperti del settore, formatori etc.). Fin da principio la “discesa sul campo” ha però messo in evidenza alcuni elementi che hanno imposto ai ricercatori un confronto o una ridefinizione del concetto di soggetto svantaggiato del quale si sono voluti sottolineare maggiormente gli aspetti soggettivi e “culturali”. Per quanto riguarda le aziende ci si è concentrati maggiormente sull’aspetto motivazionale cercando di evidenziare quali siano i fattori alla base del clima di accoglienza del soggetto disabile. Rispetto agli utenti, il nostro intento è stato quello di comprendere quali sono state le loro traiettorie di vita, quali scelte hanno operato e quali strategie adoperano e hanno adoperato, quale conoscenza e interpretazione hanno della realtà lavorativa in cui vivono e dei servizi che li hanno accompagnati. Lo sviluppo del report si basa su una ricostruzione della questione dell’inserimento lavorativo considerata a partire dall’esperienza dei casi relativi all’area della disabilità. Da qui muove la ricostruzione e il confronto dei punti principali emersi dai casi di inserimenti lavorativi di persone soggette a misure alteranative al carcere. 4 La scelta del metodo Per riuscire a sviluppare i temi oggetto di indagine si è scelto di utilizzare, nella rilevazione, tecniche qualitative – ovvero strumenti di ricerca basati sulle narrazioni - che hanno proprio la caratteristica di comprendere il modo in cui si formano le opinioni, capire in modo “empatico” quale definizione gli attori danno della loro realtà e approfondire le motivazioni dell’agire. Attraverso le narrazioni individuali, infatti, è possibile far emergere sia le letture soggettive e le rappresentazioni che gli attori hanno delle organizzazioni e del mondo del lavoro, sia i modi in cui viene prodotta una conoscenza condivisa e intersoggettiva della realtà; le pratiche discorsive individuali mettono in luce i significati e le norme interiorizzati, così come le contraddizioni e le ambiguità più o meno consapevolmente percepiti. Le narrazioni La narrazione è stata descritta come il canale privilegiato attraverso cui gli individui comprendono il mondo. Attraverso il racconto vengono operate connessioni, costruiti schemi di interpretazione, prodotti ordinamenti e classificazioni, assegnando una forma organizzativa agli eventi della vita sulla base di un ordine temporale e di uno schema interpretativo che prevede l’intenzionalità dei personaggi (Gherardi, Poggio, 2003). Introdurre un ordine, inserire gli eventi all’interno di una trama, permette di affrontare la molteplicità di esperienze e percezioni che caratterizza sempre più la vita degli individui; la collocazione delle azioni e delle percezioni all’interno di un tracciato narrativo rappresenta per gli individui un processo di ordinamento perché fornisce una cornice di riferimento e permette di dare un senso alle azioni e agli eventi e di rendere significativa l’esperienza (Ibidem). 5 Ciò che viene trasmesso con i racconti è l’insieme di regole pragmatiche che costituisce il sapere sociale: ciò che bisogna saper intendere, saper dire, saper fare; grazie agli esempi concreti e situati di azioni si ricostruiscono dei modelli, dei casi paradigmatici per il comportamento. Inoltre, ogni cultura è caratterizzata da strutture linguistiche e le costruzioni di storie si caratterizzano da impostazioni discorsive e narrative: “le parole vincolano il dire” (Ibidem). Per questo decostruire il testo narrativo è interessante, poiché significa non solo analizzare ciò che il testo dice, ma anche ciò che non dice o che avrebbe potuto dire e che emerge in modo autonomo rispetto al discorso. Tutto l’impianto dell’indagine, in linea con lo spirito di fondo del progetto, sono il frutto della collaborazione con la provincia, i cui funzionari hanno partecipato attivamente alla progettazione e alla realizzazione. 6 I casi di studio Massimo Cannarella, Michela Davi Bruno1 Bruno ha 55 anni, ha iniziato il percorso con solo il titolo di licenza media inferiore, in seguito ha frequentato dei corsi di informatica sul posto di lavoro. La sua invalidità nasce da una malattia degenerativa che lo ha colpito una decina di anni fa circa e che gli impedisce di camminare adeguatamente. Ha attraversato quindi un periodo di disoccupazione legata al fatto che non poteva più svolgere il suo lavoro precedente di tipo operaio artigianale. Lavoro che gli consentiva di mantenere la sua famiglia: la moglie prima dell'accadimento non lavorava. Le conseguenze del fatto invalidante sono state quindi di impoverimento dell'intero nucleo familiare. Rivoltosi inizialmente ai servizi sociali soprattutto per un aiuto di tipo economico, è arrivato poi ai servizi di mediazione mirata. Dopo alcune esperienze di tirocinio in azienda e cooperativa che non hanno avuto successo, è stato inserito in un ente pubblico, dove si trova tuttora. 1 I nomi delle persone a cui faremo riferimento nel report sono di fantasia e sono utilizzati esclusivamente al fine della narrazione. 7 Abbiamo contattato prima il mediatore che lo ha seguito, poi per suo tramite Bruno, e per ultimo abbiamo intervistato la persona che ha seguito il suo inserimento all'interno dell'ente. Il mediatore ci ha supportati nelle interviste a Bruno e al responsabile aziendale, avvisandoli del nostro successivo contatto. Tutte le interviste si sono svolte nel luogo di lavoro dei soggetti, che si sono dimostrati molto disponibili. Bruno ha acconsentito in maniera naturale al colloquio, comprendendone immediatamente il fine. L'intervista si è svolta nel suo ufficio, in un luogo aperto all'ascolto ma non ha comportato conseguenze sulla disponibilità a raccontarsi dell’intervistato apparso in ogni momento libero di esprimere le sue opinioni e le sue idee. Andrea Andrea ha 27 anni. Possiede il titolo di studio di licenza media inferiore, successivamente ha seguito un corso professionalizzante specializzato. La sua invalidità è di tipo cognitivo lieve, e il suo percorso nei servizi è quindi tipico di una persona nata con questo tipo di limitazione. Ha seguito un percorso di formazione. In seguito ha svolto alcuni tirocini in azienda, fino ad entrare nell'azienda in cui lavora attualmente. All'interno di questa ha lavorato per qualche anno con una catena di tirocini, fino al recente raggiungimento dell’assunzione. 8 Abbiamo contattato prima il mediatore che lo ha seguito, poi per suo tramite il responsabile aziendale, e abbiamo deciso con lui il momento della nostra presenza in azienda per l'intervista ad Andrea. Il mediatore ci ha supportati nelle interviste all'utente e al responsabile aziendale, avvisandoli del nostro successivo contatto. In particolare, per Andrea, è stato ritenuto importante avvisare anche la famiglia spiegando il fine dell'intervista, per non generare incomprensioni e allarmi. Tutte le interviste si sono svolte quindi nel luogo di lavoro dei soggetti, che si sono dimostrati molto disponibili. Le interviste al responsabile aziendale e ad Andrea si sono svolte lo stesso giorno, in modo da consentire la nostra presentazione alla persona da parte del responsabile. Per facilitare l’interazione, la presentazione dei ricercatori, e dell’indagine, ha seguito un registro giocoso. L'intervista è stata fatta nel locale mensa, a quell'ora assolutamente vuoto. Il clima di lavoro è apparso buono, e tutti i colleghi che incontravano il ragazzo si soffermavano a scherzare insieme a lui. Andrea, forse per carattere, forse per come siamo stati presentati, non ha posto il minimo ostacolo all'intervista, anzi per tutto il suo corso è sempre stato molto rilassato e sorridente. Enzo Enzo ha 28 anni e soffre di una patologia psichiatrica. Possiede un titolo di studio superiore. È all'interno di un progetto realizzato di concerto con il servizio di Salute Mentale. 9 Ha iniziato il percorso di inserimento che lo ha portato all'attuale posto di lavoro con lo stage di un corso di formazione. Stanti le sue peculiarità, si è cercato di farlo lavorare all'interno della stessa azienda dello stage. In questo inserimento era stato apprezzato sia come persona che per le sue capacità di adempiere al ruolo. Quando la mansione inizialmente pensata è venuta meno perché si è abbandonato il progetto per cui era stata pensata, Enzo ha continuato con dei tirocini nella stessa azienda con compiti differenti. Successivamente è stato assunto nel nuovo ruolo. Abbiamo contattato prima il mediatore che lo ha seguito, poi per suo tramite il responsabile aziendale. Il contatto con Enzo sarebbe dovuto avvenire attraverso il mediatore, che aveva ipotizzato la possibilità di intervistarlo nel luogo dove solitamente si svolgono i loro colloqui. Lo stesso responsabile aziendale sconsigliava l'intervista in azienda. Nel frattempo siamo andati in azienda ad intervistare il responsabile aziendale sul luogo di lavoro, e Enzo ha avuto modo di “osservare” il nostro intervistatore colloquiare con il suo datore di lavoro, senza tuttavia conoscerne il motivo - perché non avvertito della ricerca in corso e del futuro contatto. A fronte dell'impossibilità di intervistare il soggetto svantaggiato alla presenza del mediatore ed al fine di tutelare il fragile equilibrio della persona, si è ritenuto opportuno non procedere all'intervista con Enzo. Le interviste legate a questo caso si sono così rivelate due - mediatore e responsabile aziendale – unite all'osservazione del luogo di lavoro e delle mansioni del ragazzo. Le interviste agli altri due soggetti del caso sono state comunque esaurienti, ed entrambe le persone estremamente collaborative, compreso il responsabile aziendale, nel farci visitare la sua realtà produttiva. 10 Beatrice Beatrice ha 22 anni, ed ha conseguito brillantemente il titolo di licenza superiore. E' invalida dalla nascita e il suo tipo di handicap fisico (Beatrice é priva di un arto) le impedisce di poter svolgere alcuni lavori. Dopo il diploma ha provato alcuni lavori ma la sua disabilità ne ha condizionato la riuscita. Nonostante queste difficoltà non si é demoralizzata, si è rivolta ai servizi e attraverso colloqui ed orientamento ha trovato un’occupazione presso una multinazionale della grande distribuzione con sede anche a Genova. Durante l'intervista si è dimostrata molto attenta e disponibile; Beatrice si presenta come una ragazza allegra e racconta del percorso di vita e di lavoro con grande capacità riflessiva. La mediatrice che segue Beatrice si é dimostrata molto disponibile ad illustrare il caso ed infatti il contatto e appuntamento con Beatrice sono avvenuti tramite il centro. Nel corso dell'intervista si é potuto osservare una particolare attenzione verso il caso in questione, attenzione che supera il livello strettamente professionale ma rientra per alcuni aspetti in quello personale. Anche l'azienda si é dimostrata attenta e disponibile al caso. Le interviste dell'utente e del mediatore si sono svolte al centro, mentre quelle dell'azienda presso gli uffici della stessa. Francesca Francesca ha 23 anni. Possiede il titolo di studio di licenza media superiore e recentemente ha scoperto di avere una malattia degenerativa. Si presenta come una ragazza molto allegra, curata, con un forte carattere ed ama raccontare di se e di come ha affrontato la malattia. Dopo una iniziale difficoltà nel capirne 11 il funzionamento ha trovato forte supporto negli operatori dei Servizi provinciali. Lo sforzo maggiore è stato riuscire a ripensarsi in termini lavorativi e quindi ricollocarsi non più in un lavoro che piace ma in uno che la malattia permette di svolgere. Proprio per questo é consapevole di quanto sia difficile riuscire a condurre una vita "normale" e anche quanto la sua disabilità, che le causa spesso momenti di forte debolezza, possa condizionare il suo rendimento sul lavoro. Oggi Francesca lavora presso un importane tour operator nazionale e svolge un lavoro impiegatizio ma precedentemente infatti era stata impegnata nel campo della ristorazione. Il mediatore che segue questo caso era assente per ferie al momento dell'intervista ed è stato sostituito dalla responsabile del centro per la mediazione; perfettamente a conoscenza della situazione ha presentato la storia di Francesca ed in questo caso come nel precedente é stato possibile osservare una relazione forte tra utente e mediatore. Le interviste con mediatore e utente si sono svolte entrambe presso il centro e nella stessa mattinata ma separatamente. Al termine del colloquio la ragazza si é recata dai mediatori per salutarli e raccontare brevemente come procedono gli impegni di lavoro e di vita. Per l'azienda abbiamo intervistato la responsabile delle risorse umane che, pre-contattata dagli operatori, si é dimostrata da subito molto disponibile ad illustrare il caso. L'intervista si é svolta presso la loro sede. Antonia Antonia presenta un lieve ritardo e come per molti altri soggetti che hanno questo tipo di handicap vive un forte senso di persecuzione sulla vita e sul lavoro. Proprio a causa di questo e su suggerimento dell'operatore che temeva eventuali ricadute negative sul lavoro del soggetto si é preferito non intervistare l'utente. 12 In questo caso quindi abbiamo dunque intervistato il mediatore e il referente aziendale. Antonia lavora presso una ditta genovese dove svolge compiti di pulizie. La principale difficoltà rispetto a questo caso è la particolare tensione psicologica che si crea con Antonia e la necessità continua di seguire questo utente con particolare delicatezza soprattutto in termini di relazione. In particolari condizioni di disagio sembra essere anche la famiglia di origine ma oltre al racconto del mediatore non è possibile avere ulteriori elementi. Per l'azienda abbiamo intervistato il proprietario che però oltre alla sua estrema disponibilità nel concederci tempo non ha dato ulteriori elementi per descrivere la condizione di Antonia. In azienda sono contenti del lavoro svolto dalla giovane donna e non rilevano particolari difficoltà. Anche in questo caso l'intervista si é svolta nella sede dell'azienda Rashid Rashid ha 26 anni, è un migrante del Marocco che vive a Genova dal 1996 circa, anno in cui entra regolarmente con un permesso per ricongiungimento familiare. Rashid ha conseguito il titolo di licenza media inferiore in Italia. Qui in Italia inoltre soggiorna la madre, persona con la quale il soggetto dice di non avere un buon rapporto. Le esperienze lavorative pregresse sono piuttosto scarse. Ha attraversato un periodo di dipendenza da sostanze, è stato in carcere diverse volte con pene limitate legate al piccolo spaccio. Dall'ultimo arresto, è entrato in una comunità terapeutica e successivamente ha ottenuto l'inserimento lavorativo sostitutivo al carcere. 13 Il percorso di inserimento lavorativo si è attuato in due diversi momenti - una borsa supportata dai servizi e un contratto a tempo determinato – all'interno di una cooperativa sociale. Abbiamo contattato prima il mediatore che lo ha seguito, poi per suo tramite Rashid, e per ultimo abbiamo intervistato la persona che ha seguito il suo inserimento all'interno di una cooperativa. Il mediatore, dopo la sua intervista, ci ha accompagnato nell'intervista a Rashid. Ha preso l'appuntamento nei suoi uffici per garantire sia un tramite che un ambiente conosciuti, e ha presentato l'intervistatore. Non ha invece presenziato all'intervista e si è reso disponibile a contattatre il responsabile aziendale che è stato intervistato sul luogo di lavoro. Tutte e tre gli intervistati sono stati molto disponibili nei nostri confronti, con un certo grado di curiosità da parte dell'utente. Rashid si chiedeva perché lo intervistavamo. Quando, rassicurato anche dalla presenza del mediatore, ha capito che poteva fidarsi, il suo unico dubbio rimasto è diventato quello dell'essere adeguato alla situazione di intervista, soprattutto per quanto riguardava la lingua italiana, che si è rivelata in realtà di buon livello. Maria In questo caso non é stato possibile intervistare il soggetto a misure alternative al carcere a causa della sopraggiunta irreperibilità della persona. Abbiamo inizialmente contattato la mediatrice affinché ci presentasse il caso e ci parlasse del suo lavoro; l'operatrice é stata estremamente disponibile e l'intervista si é svolta negli uffici della provincia ma già al termine dell'intervista si evidenziava la strana difficoltà nel reperire la giovane. 14 Dandoci appuntamento telefonico per qualche giorno dopo, per aggiornarci sulla situazione, spiegava che era meglio se Maria l'avesse cercata lei "perché almeno a me ha sempre risposto al telefono". Dopo un paio di settimane di attesa e considerando il fatto che Maria al termine delle ferie estive non si era presentata sul posto di lavoro abbiamo in accordo con la mediatrice desistito dal cercarla. Quindi il racconto che segue é desunto dalle parole della mediatrice intervistata. Maria é una giovane donna, ex tossico dipendente, ex carcerata, senza un titolo di studio e con una situazione familiare difficile; non ha figli e vive con il marito straniero; non si capisce bene se lo abbia sposato per il permesso di soggiorno oppure no. A seguito di un incidente presenta anche difficoltà fisiche. Nonostante questo fatto, all'interno di un percorso di protezione sociale e seguita dai servizi é riuscita fino a qualche giorno prima della nostra intervista ad inserirsi in una azienda e ad essere apprezzata. Precedentemente aveva cambiato diverse collocazioni in altre aziende svolgendo sempre lavori duri e ripetitivi ma riuscendo sempre a dimostrare ottime capacità ed impegno sul lavoro – “tant'è che se lei non c'era il lavoro non funzionava”. I datori di lavoro l'hanno per questa ragione assunta prima della fine della borsa. E' una persona dignitosa che però a volte assume una dimensione di difesa dovuta al timore di essere ingannata. Maria presenta infatti i tratti “scaltri” di chi ha sperimentato la condizione carceraria. L'azienda contattata in periodo di sovraccarico di lavoro presentava iniziali difficoltà nel concedere l'intervista. Insistendo tuttavia si è ottenuto un appuntamento che poi, in accordo con il mediatore, è stato annullato perché avrebbe comportato l’immersione in una situazione di lavoro tanto delicata quanto, in parte, compromessa dagli eventi. 15 Disabilità e stigma Massimo Cannarella, Michela Davi Disabilità e processo di costruzione sociale La speciale situazione del soggetto stigmatizzato consiste nel fatto che la società gli dice, al contempo, che è membro di un gruppo più vasto, il che vuol dire che è un essere umano “normale”, ma anche che è un diverso in una certa misura e che sarebbe stolto negare tale differenza. Questa diversità in se stessa deriva naturalmente dalla società, perché prima che una differenza possa aver peso, deve essere concettualizzata collettivamente, dalla società nel suo complesso. Attraverso questa differenza si costruisce la categoria della diversità e quindi della disabilità. Emblematica di questo processo è la storia di Beatrice che nonostante un lieve handicap fisico dalla nascita, ha seguito il normale iter scolastico, si è diplomata con ottimi risultati presso un istituto tecnico e fino all’età scolare non ha mai percepito significati e ricadute rispetto alla sua condizione. “Mi sono diplomata presso un istituto tecnico. Fino a che sono stata a scuola non ho avuto mai particolari difficoltà. Non mi rendevo conto di quello che poteva essere il lavoro, all’inizio è stata dura perché io so di 16 essere invalida, l’ho superato e la mia disabilità la vivo tranquillamente però un conto è saperlo l’altro è quello di doverti rapportare con il lavoro.” In queste parole si colgono due elementi particolarmente significativi. Il primo è che si può essere consapevoli della propria disabilità da sempre ma si diventa disabili e si vivono le conseguenze della propria menomazione solo quando ci si confronta con un contesto di “produzione”. Il secondo è che lo stigma del disabile e quindi della diversità non è applicato in ogni contesto ma cambia a seconda dell’istituzione in cui viviamo. Beatrice infatti fino a quando ha “vissuto” all’interno del sistema scolastico – dove la sua invalidità fisica non le ha mai causato particolari svantaggi – non era stigmatizzata come disabile. Lo è di fatto diventata per la società dal momento in cui è uscita da una realtà sociale – forse di maggiore protezione come la scuola – e ha iniziata ad inserirsi in un contesto differente. Utilizzando quindi una metafora si potrebbe dire che si è o meno disabili a seconda del frame2 in cui ci si trova. Il passaggio della persona disabile dal mondo della scuola a quello del lavoro mette in luce l'importanza del frame. Se tradizionalmente infatti questo momento rappresenta simbolicamente l’ingresso del soggetto dal mondo giovanile a quello adulto, nel nostro caso segna fortemente il passaggio da un mondo, centrato sui processi di apprendimento e 2 Per frame si intende una cornice di uno spazio sociale all'interno del quale gli attori si muovono e interagiscono sulla base delle immagini e delle rappresentazioni che esistono all'interno di quel frame. L’idea è che gli individui impieghino schemi interpretativi al fine di inquadrare ciò che avviene intorno a loro. Tutte le forme d’interazione fanno ricorso al “framing”, ovvero mettere o togliere cornici ad una realtà per ottenerne un'altra e quindi passare da uno livello ad un altro. Inoltre, ogni gruppo possiede un suo codice specifico che lo caratterizza e lo distingue dagli altri (ad esempio, nel gruppo dei barboni è il rifiuto sistematico del lavoro). La realtà non è unitaria ma è costituita da un complesso di livelli (frame) innestati, dove ogni frame può essere costruito a partire da un altro frame. Alla base di questo complesso strutturato di livelli, vi è la realtà fisica. La teoria del frame è un modo di mediare tra il determinismo dei sociologi convenzionali (che non considera la stratificazione della realtà) e il relativismo degli etnometodologi (che, ignorando la realtà fisica, riduce il mondo a qualsiasi cosa accada nella nostra mente). 17 socializzazione, culturalmente più “abituato” a vivere e a convivere con la disabilità come il sistema educativo, ad un altro come il lavoro, centrato invece sulla performance, dove la disabilità, e lo svantaggio in genere non sembrano ancora avere cittadinanza. La scuola infatti, più adusa ad accogliere la diversità, porta con se una storia e una cultura differente rispetto al mondo della produzione, ed è riuscita, per esempio attraverso l’impiego di strumenti del sostegno a limitare e migliorare la condizione di soggetto debole. Questo significa che l’handicap se elaborato e inserito in un sistema culturale dove è accolto e riletto non in chiave di diversità ma di vicinanza, può non rappresentare più uno stigma. I due sistemi considerati sono entrambi fortemente caratterizzati come ambiti culturali. Ambiti culturali creati e riprodotti, in funzione principalmente della finalità – pedagogica e formativa l'uno, produttiva l'altro - dalle persone che vi operano. È la cultura il fattore che riproduce, evidenzia e concretizza in modo più o meno evidente le differenze. In questo senso la disabilità, fatto oggettivo, assume diverse conseguenze ed importanza per il suo portatore in quanto costruzione sociale. La disabilità diventa importante per il soggetto svantaggiato in relazione con il mondo che lo circonda, con il cui giudizio, pregiudizio, ed aspettative deve confrontarsi. In “Stigma, l'identità negata” Goffman riporta: “Sono nato con una forma di spastica particolare, derivante da una lesione all’atto della nascita. Non conoscevo la complessa, sorprendente classificazione della mia malattia finché il termine non divenne popolare e la società insistette perché io ammettessi la mia infermità così classificata. Fu come diventare membro dell’alcoolisti anonimi. Non si può essere onesti con noi stessi finché non si scopre chi si è e, forse, finché non si è considerato che cosa la società pensa che siamo o dovremmo essere.” Il "che cosa la società pensa che siamo" rivela un meccanismo definitorio generato da forme culturali condivise, meccanismo che nelle scienze sociali viene identificato nello stereotipo ovvero in quella via alla semplificazione della realtà che ci consente di leggerne la complessità, e che nel linguaggio comune viene spesso associato come sinonimo al termine 18 pregiudizio. Pur essendo entrambi giudizi di tipo individuale e sociale, il secondo trae origine dal primo come stereotipo, "immagine neutra" funzionale alla comprensione, carica di una valenza emotiva. Nell'ambito delle dinamiche sociali i giudizi sono basati non tanto su procedimenti logici quanto piuttosto sull’esigenza di assegnare significato al mondo secondo codici socialmente condivisi. In questo senso gli stereotipi possono essere concepiti come spiegazioni sociali, da cui possono nascere pregiudizi. Come osserva Tentori, il pregiudizio è intrinseco ai sistemi culturali, perché “semplifica le visioni del mondo riducendole ad un dualismo “consueto”/”consuetudinario” come equivalente di normale, giusto, valido, contrapposto a “diverso” com’equivalente d’inquietante, rischioso, ingiusto, cattivo. E poiché la normalità è quella dei nostri modi di vita, della nostra cultura, della cultura del nostro gruppo o della nostra società, questa contrapposizione s’incarna nell’opposizione tra “noi” e gli “altri”, tra noi i “normali”, e gli altri “gli anormali”3. Lo stereotipo ed il pregiudizio possono portare alla discriminazione, e una discriminazione può essere vissuta in maniera umiliante anche quando è una discriminazione positiva dovuta all'attuazione di una legge per l'aiuto all'inserimento lavorativo. Questa agevolazione ha un costo psicologico in quanto pone in evidenza a se stessi e al contesto sociale la propria condizione di svantaggio: “è proprio in quanto invalido civile che trovo lavoro” Racconta infatti Beatrice: 3 Tentori T., Il rischio della certezza, Edizioni Studium, Roma 1996 19 “Non volevo essere una vittima che si deve far compatire, no assolutamente… era che non capivo che cosa andava bene per me.” Questo elemento, che viene sottolineato da numerosi intervistati, riporta quindi l'attenzione verso il timore di essere discriminati e categorizzati quindi stigmatizzati come disabili. Siamo di fronte infatti all’agire di un processo culturale, ovvero all’influenza sulla vita dell’individuo del come la società “valuta”, “giudica”, “apprezza” le persone. La nozione di disabilità, e tanto di più il concetto maggiormente ampio di svantaggio sociale, risulta così essere variabile a seconda del frame culturale in cui è collocato, oltre che essere di per se stesso una sorta di termine ombrello sotto cui ricadono diverse condizioni limitanti rispetto alla "normalità" delle funzioni percepita dal contesto in cui il soggetto è inserito. Lo stesso concetto di svantaggio sociale (così come abbiamo visto anche nella definizione del Regolamento CEE 2204/2202) è un concetto di difficile definizione, che può essere interpretato in maniera multidimensionale: si può essere considerati appartenenti alla categoria dei soggetti svantaggiati sia per carenze dovute a motivi clinici (p.e disabili fisici e sensoriali o cognitivi), sia per motivi legati a carenza di partecipazione ed inserimento sociale (p.e. migranti o carcerati). Le due motivazioni individuate sono poi anche interdipendenti fra loro, e spesso coesistono. Gli operatori, i referenti aziendali ma anche i soggetti svantaggiati stessi, al fine di inquadrare l’oggetto disabilità, il disabile, o l’oggetto “carcere” e la persona definibile come soggetta a misure alternative al carcere fanno ricorso a rappresentazioni sociali – ovvero costrutti di idee, stereotipi, immagini e retoriche – molteplici e assai differenti tra loro. Siamo dunque di fronte a un quadro mutevole; che muta in relazione alla prospettiva adottata ma anche in relazione al fattore temporale. L’aspetto sociale/temporale risulta molto evidente dalle parole di una mediatrice che racconta: 20 “Negli anni si è fatta cultura, perché all’inizio l’azienda non voleva il disabile, immediatamente pensava al down, ma poi capiscono che la persona è competente anche se disabile. Però devi fare cultura, anche perché nel disabile c’è anche il diabetico. L’azienda deve capire che tu non gli stai rifilando un pacco” Le variabili che influenzano il mondo di vita e le inerenti possibilità lavorative di una persona disabile possono ricondursi a tre aspetti principali: il suo stato di salute, i fattori personali del singolo soggetto – storia personale, condizione sociale, carattere, famiglia di origine e in essere ecc. – e l'ambiente – e la sua cultura – in cui è inserito. Il primo dei fattori considerati si concretizza nelle narrazioni raccolte sotto la forma del limite che la condizione di salute della persona crea allo svolgimento delle attività sia quotidiane che lavorative. Il limite è un fattore centrale in tutte le narrazioni che abbiamo raccolto. Limite che va riconosciuto, accettato e dove possibile superato. I fattori personali dell'utente e il frame in cui è inserito si trovano come temi di sfondo nelle parole degli intervistati, meno definiti del limite ma altrettanto importanti. Un mediatore ci racconta che: "Lui è fortunato, ha una famiglia che lo segue molto, in maniera intelligente" "È stato accolto bene, per fortuna ha un buon carattere" oppure un altro afferma che: "Ancora oggi ci sono molte resistenze all'interno delle aziende ad assumere queste persone. Soprattutto perché quando si parla di disabili 21 hanno delle immagini definite, […] molti di loro hanno paura che magari sia un malato di mente, ti chiedono ma non è mica violento? " Affermazioni che abbiamo riportato fra altre e che mettono in evidenza come i fattori personali e culturali sono sempre presenti nella definizione e descrizione di un percorso di vita di una persona svantaggiata. Essere o diventare disabili: che cosa comporta la disabilità In apparenza invisibile nelle produzioni discorsive sulla disabilità un aspetto di grande rilevanza è rappresentato dalla differenza tra le persone disabili dalla nascita e chi lo è diventato nel corso della vita a causa di incidenti o malattie invalidanti. Le differenze fra queste due situazioni riguardano non solamente il mero peggioramento delle condizioni di vita legato all'emergere di una situazione invalidante, ma anche il cambiamento legato alla percezione di se stessi e della propria condizione nel mondo. Se infatti la costruzione identitaria è un processo in divenire che si realizza rispetto alle esperienze della vita, anche per queste persone la questione dell'accettazione della propria condizione diventa strategica nei diversi momenti di passaggio, fra cui l'entrata al lavoro è uno dei più importanti. La testimonianza di Beatrice, giovane di 22 anni, svela a questo proposito quanto il lavoro di assistenza dei mediatori si riveli strategico per i soggetti disabili dalla nascita al fine di poter comprendere ed accettare le limitazioni imposte dallo svantaggio: “Ho 22 anni, mi sono diplomata al Duchessa di Galliera. Finita la scuola, ho incominciato ad […] lavorando con i bambini, poi ha fatto i centri 22 estivi. Mi sono iscritta al Centro Impiego Invalidi di via Cesarea, ho conosciuto un’orientatrice che mi ha parlato di quello che potevo fare. Il mio desiderio era quello di lavorare con i bambini, nel sociale ma mi rendo conto che mi è particolarmente difficile, per la mia invalidità. Lavorare con i bambini , prenderli in braccio, giocare.. ci sono tante attività che a causa della mia invalidità non riuscirei a fare. E poi ci vogliono diplomi e attestati. Questa persona mi ha consigliato di fare un corso al (...) per aiutarmi a creare una professionalità. Loro mi hanno aiutato ad aprire altre porte. Dopo ho iniziato uno stage lavorativo e dopo tanti colloqui mettevi in pratica quello che ti avevano insegnato.” Differente invece è il racconto di Francesca4, che fino alla scoperta della malattia conduceva una vita normale: “Prima facevo la cuoca. E poi c’è stato questo cambiamento però ben superato. Mi sono iscritta al collocamento, alle liste speciali, e poi ho conosciuto loro, i mediatori che sono veramente bravi. All’inizio quando sono arrivata qui volevo fare la barista perché era l’ultimo lavoro che avevo fatto. Avevo lavorato alla […] prima come cuoca e poi mi hanno messo al bancone. Però quando sono venuta qui a parlare con i mediatori mi sono accorta che non avrei retto a stare in piedi tutto il giorno. La malattia mi debilita. Non ce l’avrei fatta.” 4 Francesca è malata di sclerosi multipla 23 Accorgersi ed accettare che non si può condurre la stessa vita di prima, che non si può più scegliere il lavoro che piace perché troppo faticoso e sostanzialmente che l'esistenza sarà caratterizzata da forti limitazioni, sono degli elementi che escono fortemente dalle narrazioni dei nostri intervistati. In particolare in questi casi affrontare e accettare la propria disabilità si rivela un percorso lento e difficoltoso e gli interventi dei servizi attraverso psicologi e mediatori si rivelano fondamentali. Racconta ancora a questo proposito Francesca: “Tutti mi dicevano che era impossibile trovare un lavoro se avevo una certa patologia. Poi loro mi hanno aiutata, mi hanno aiutato a capire. Questo è stato bello di loro, perché io non capivo niente. Io non capivo che cosa andava bene per me. Io ero carica e dicevo io ce la faccio. Non riuscivo ad ammettere che non ce la potevo fare, invece loro col tatto piano piano mi hanno aiutato a capire che era naturale avere delle difficoltà. Io non potevo stare in piedi 5 ore… non ce la faccio fisicamente, mi stanco.” La malattia si può rivelare un'esperienza che rafforza il carattere. Nella difficoltà alcuni soggetti trovano risorse che altrimenti non saprebbero di avere. La malattia in questi casi, in particolare se affrontata all'interno di un percorso di protezione, almeno apparentemente viene arginata e limita i suoi “danni”: “Il mio carattere l’ho sempre avuto .. da quando ho scoperto di essere malata e sono stata molto debole, ho avuto tanta paura sono diventata 24 forte in un attimo. Ma fa paura solo soffrire… adesso non mi spaventa più niente. La malattia mi ha rinforzata.” Emblematico il caso di Bruno che affronta una malattia invalidante in età matura. Prima di questo evento conduceva una vita da persona adulta, con una professionalità riconosciuta e maturata nell’ambito dell’imprenditoria artigiana: "prima della malattia avevo una ditta […] e mi andava bene, avevo anche un negozio a […]. Tutti mi conoscevano nell'ambiente, e anche adesso parlano ancora bene di me e di come lavoravo. […]" La malattia, come una frattura nella sua vita personale e professionale, lo porta ad una situazione di bisogno estremo: "…non riuscivo più a lavorare, non avevo più i soldi per vivere, certo, qualche volta mi davano ancora del lavoro, degli amici con cui avevo lavorato prima, ma erano proprio aiuti, io in realtà non potevo fare quasi più nulla." Attraversa un lungo periodo di ricollocamento, al termine del quale si trova ad essere occupato con mansioni impiegatizie in un ruolo che normalmente necessita di competenze diverse e più elevate di cui era in possesso. Lo stimolo al raggiungimento di una nuova identità sociale e lavorativa lo porta però a superare molti ostacoli: "Quando mi hanno proposto questo lavoro mi hanno detto che poteva essere difficile perché non avevo le competenze necessarie. Io avevo 25 provato anche a fare un corso di computer, me lo aveva consigliato il signor […], quindi qualcosa sapevo, ma…io stesso avevo dei dubbi, sembrava un lavoro difficile per me. Il signor […] ci ha creduto, perché ha visto il mio impegno nei precedenti lavori, e poi io sono già abituato a lavorare e so come si lavora […] oggi sono qua e mi sembra che tutto vada bene, i miei colleghi credo siano contenti del mio lavoro, anche se a loro devo veramente tanto, per la pazienza che hanno avuto e i consigli che tuttora mi danno se ne ho bisogno." In questo caso, il raggiungimento di un posto di lavoro è dotato di particolare valore. Ma non è solamente una questione di riconquista delle risorse economiche necessarie. L'intervistato per tutto il corso del dialogo descrive l'importanza del riappropriarsi di uno status e di un ruolo. Status e ruolo depauperati dall'occorso, offesi anche dalla necessità di rivolgersi ai servizi sociali e dall'esito negativo di alcuni inserimenti precedenti, dovuti probabilmente, nelle parole dell'intervistato, alle sue oramai più limitate capacità, o ad atteggiamenti utilitaristici da parte di alcuni datori di lavoro. Nel caso in questione è così ancora più evidente - nel passaggio lungo il suo corso di vita da persona assolutamente indipendente a persona "che chiede un aiuto… a piangere, diciamo, anche se il termine è un po’ forte" l'importanza del lavoro. Così come l'importanza delle risorse che possono essere movimentate da un evento traumatico e dalle motivazioni che ne scaturiscono, in particolare se queste si incontrano con l'agire di servizi alla persona individualizzati ed efficaci. In tutti i casi considerati ciò che è o diventa rilevante è il confronto con il proprio stato di salute, nel tentativo, anche riuscito, di accettazione e rielaborazione in positivo della propria integrità. Questo processo passa attraverso il riconoscimento e il superamento dei limiti che lo svantaggio può portare, limiti che diventano particolarmente evidenti se messi sotto stress all'interno di una situazione produttiva. 26 Riconoscere e superare i limiti della disabilità: l’esperienza del lavoro Generalmente l’accettazione del limite che la disabilità comporta non è un fatto per nulla scontato; è il risultato di un percorso lungo e doloroso, che oscilla fra atteggiamenti di tipo depressivo e di tipo “onnipotente”. Come osservano alcuni autori (Mazzonis, Bolchini, Castellazzi, Noris) “nel primo caso la persona scivola in una dimensione rinunciataria e impotente arrendendosi oltremisura alle proprie imperfezioni e rinunciando a molte delle proprie capacità o competenze. Questo atteggiamento rinunciatario tutela da nuove delusioni: se la persona rinuncia a cimentarsi e impegnarsi, in una parola a partecipare, non potrà uscire perdente dal confronto. Nel secondo caso invece la persona presenta un funzionamento fortemente negante la propria diversità che la induce a sfide impossibili, non tenendo conto delle reali risorse. Da questo esce sistematicamente sconfitta attribuendo a cause esterne il fallimento. In entrambi i casi si tratta di atteggiamenti disadattivi, cioè che, anziché diminuire la distanza fra se e gli altri, determinata dalla disabilità, la incrementano. Inoltre il senso del valore è connesso alla fiducia nel fatto di essere amati.” Gli autori descrivono i due estremi di una gamma di atteggiamenti possibili nell'elaborazione del proprio limite rispetto al raggiungimento di quelle che sono considerate le normali funzioni all'interno di un processo produttivo. Sia che il limite sia un fatto fisico, sia che sia un fatto sociale/relazionale, le sue conseguenze sulle capacità del portatore dipendono dalle attese che la società ha rispetto alla normalità della performance. Se inserito in un frame che ne tiene conto nelle sue relazioni ed aspettative, il limite può attenuare le sue conseguenze sulla persona. Persona che non è solamente il veicolo neutro del suo limite, ma che come abbiamo visto deve con esso interagire nel confronto con la realtà. Primo compito della persona che incarna l'agire dei servizi considerati è il tentare di incidere su questi due aspetti: il fattore personale del soggetto e la cultura del frame aziendale. 27 Nel caso di Beatrice infatti grazie ad un supporto dei servizi le iniziali difficoltà sono state superate e si è arrivati ad ottimi risultati di impiego: “Ho iniziato a fare la segretaria in un’azienda ed è andata male perché non mi insegnavano niente, non mi seguivano però da lì ho capito che non mi piaceva quel lavoro e che comunque avevo bisogno di qualcuno che m’insegnasse. Poi ho saputo che [nell’azienda dove lavoro adesso] cercavano una ragazza per fare la cassiera e al Centro Impiego mi hanno aiutato ad entrarci, senza di loro non ce l’avrei fatta ad affrontare il lavoro. Qui ho trovato un ambiente umano, mi hanno rassicurato e con pazienza mi hanno seguito. Inoltre, hanno anche rischiato su di me che sono invalida. E sia l’azienda che gli orientatori erano sempre in contatto tra di loro per farmi affrontare le difficoltà senza traumi.” La capacità di confrontarsi con il proprio limite si rivela un aspetto importante in tutti i casi ascoltati. Andrea, affetto da un lieve handicap cognitivo, lavora in un’azienda dotata di diverse piccole linee di produzione per diversi prodotti. Alla domanda “che lavoro fai”, Andrea risponde con orgoglio: “lavoro un po' qui un po' là...vado dove c’è bisogno, una settimana lavoro in una linea, una settimana nell’altra...oggi ho lavorato [in quella linea], domani posso essere [in quell’altra]” Nel corso dell’intervista ripete diverse volte il fatto che passa da una linea all’altra, e descriverà minutamente le operazioni che svolge in una o due di queste. Il referente aziendale di questo inserimento riferisce: 28 “il lavoro più grosso con Andrea è stato quello di metterlo in grado di passare da una linea all’altra. All’inizio lui lavorava in una sola, imparava quanto era necessario e il resto era un altro mondo, poi quando lo spostavi ad un’altra subito andava in crisi, non c’era abituato, il cambiamento lo metteva in crisi. Allora gli lasciavi i suoi tempi, lui imparava, poi magari lo facevi tornare indietro e poi lo mettevi di nuovo in un’altra linea e così via. E’ stato un lavoro fatto a passi, con i suoi tempi. Adesso è in grado di lavorare in tutte le linee e questo per lui è molto importante”. Andrea nell’intervista era orgoglioso di saper lavorare in tutti gli ambienti dell’azienda perché questo aveva rappresentato il progressivo superamento di una parte dei suoi limiti. Relativamente all’importanza del rapporto con il limite, una nostra intervistata considerata testimone privilegiato esperto del settore, afferma: “Il lavoro fatto in questi anni è stato molto importante, è stato soprattutto inizialmente un lavoro di tipo culturale, prima i disabili erano chiusi in casa e non si pensava che potessero avere una vita loro [...] paradossalmente, abbiamo lavorato troppo bene: prima il disabile era considerato una persona che non era in grado di fare nulla, anche in famiglia. Adesso, si rischia l’opposto, anche in famiglia, appena un ragazzo dimostra di sapere usare un computer, ecco: allora è un genio dei computer, mentre invece...non bisogna negare il limite di questi ragazzi, bisogna conoscerlo e sapere fino a dove si può arrivare, se no ne risente anche il ragazzo. ” Questa descrizione di un percorso di evoluzione culturale della società, un percorso in qualche misura “storico”, che evidenzia proprio quanto il limite e le capacità attese 29 dipendano dal contesto culturale. Contesto che attraverso la sua azione definitoria e le conseguenti possibilità di azione e partecipazione, influisce sulla costruzione di un'integrità identitaria dei soggetti, e sulla loro possibilità di ridefinirsi. Lavoro e ridefinizione del sé Come abbiamo visto, essenziale per l'inserimento professionale dei soggetti svantaggiati è il poter dare loro possibilità di crescita e di partecipazione. Questa costruzione di possibilità dipende dalla cultura del frame in cui operano che, attraverso l'agire o meno stereotipi e pregiudizi, contribuisce a determinare le loro possibilità di interazione sociale in concomitanza con i fattori personali e di salute del soggetto. Nelle condizioni migliori in cui il frame aziendale risulta accogliente, questo può rappresentare una risorsa estremamente valida per la crescita globale della persona, per l'innescarsi di un processo di ridefinizione del sé che a partire dalla elaborazione ed accettazione del proprio stato di salute e dei limiti conseguenti, può arrivare ad un grado quanto ottimale di partecipazione e qualità della vita. Se quanto detto fino a qui sembra particolarmente vero per soggetti caratterizzati da svantaggi di tipo fisico che non intaccano le capacità cognitive della persona, possiamo considerare a suffragio delle nostre tesi il caso già riportato di Andrea, che nel corso della sua intervista racconta: "Certo che con il lavoro normale è meglio. È bello avere uno stipendio. Con i soldi mi posso così permettere di comprare una macchina, e poi metterli da parte […] nel tempo libero mi vedo anche con la mia ragazza […] ci sto assieme da poco tempo." 30 Contro ogni stereotipo, come si può notare dall’uso dell’avverbio “perfino” (nella citazione successiva) Andrea ha una "normale" progettualità di vita, ricerca di benessere e vita affettiva. Come riferisce il suo responsabile aziendale: "Andrea è particolarmente migliorato nel corso degli anni. È arrivato qui che era molto giovane e lo abbiamo visto crescere. Anche il lavoro è servito…adesso Andrea ha perfino una ragazza…" Il lavoro ed i significati attribuiti ad esso si rivelano nell'esperienza dei nostri soggetti quindi come una carta vincente per riuscire a rientrare nella società sia come soggetti produttivi (ovvero come persone che possono svolgere compiti e mansioni al pari di altri lavoratori) sia come consumatori e quindi a pari condizioni di accessibilità ai beni. Ciò che accomuna queste due diverse situazioni è alla fine l'esigenza di accettare e elaborare la propria condizione di diversità per raggiungere una integrità identitaria e sociale. Attraverso il lavoro ci si realizza come individui, si possono rendono “possibili” progetti futuri, e ci si può costruire una propria rete di conoscenze. Racconta a questo proposito Beatrice: "Grazie al nuovo lavoro che ho trovato ho lasciato la casa dei miei genitori e adesso divido la casa con due mie amiche. Mi trovo bene, sono felice, e finalmente ho una mia indipendenza economica che mi permette di uscire la sera, di comprare quello che voglio." 31 Avere un ruolo lavorativo, acquisire un nuovo status ovvero una riconoscibilità sociale che va oltre lo “stigma dell’invalido” si rivela in tutta la sua forza come un’acquisizione della massima importanza nelle parole di una intervistata: “Con i miei colleghi mi trovo bene, sono tutti giovani, non mi hanno mai visto come una persona invalida e basta. Anche i miei genitori mi hanno sostenuto senza farmi mai pesare l’invalidità.” L'incontro con il lavoro, la realizzazione delle aspettative personali e la conseguente esperienza con il mondo della produzione si rivelano quindi elementi strategici per creare una socialità che va al di là della propria condizione, per non essere identificati con essa. Le nuove relazioni o la nuova immagine che anche gli affetti tradizionalmente più conosciuti e cari hanno del soggetto, passano attraverso la differente condizione raggiunta di lavoratore. Essere visti come normali lavoratori, ma anche scoprire una sconosciuta fiducia in se stessi sono indubbiamente elementi che in soggetti provati dall’esperienza della disabilità, aprono sguardi verso territori altri: “Mi ha fatto credere in me, mi ha fatto scoprire una nuova Beatrice , mi ha aperto un mondo che per me non c’era, mi ha dato più fiducia in me stessa.” La soddisfazione degli utenti di avere un lavoro, di essere "bravi" a svolgerlo, è palpabile nelle loro interviste. Descrivono più o meno minutamente le loro mansioni, e il loro rapporto con i colleghi. Spesso sono in grado di riferire con precisione le date di assunzione o di entrata in azienda con altri strumenti (stage, tirocini), o entrambe le cose. La funzione “sociale” del lavoro nell’inserimento dei disabili tuttavia non deriva esclusivamente da fattori sociali o di natura soggettiva. Non è infatti scontato affermare che 32 anche per i disabili nella soddisfazione del lavoro svolto un ruolo importante lo gioca la retribuzione. Nel denaro e nel rapporto con esso sono insiti aspetti profondamente legati all’identità personale. Nello stipendio è dunque racchiuso un criterio di valutazione oggettivo e “universale” – ovvero valido anche per i “normali” – del valore della propria professionalità; una misura standard della propria indipendenza/autonomia. Quali aziende? Nei casi presi in considerazione abbiamo rilevato una grande eterogeneità nelle dimensioni nonché nelle caratteristiche organizzative. Da ciò discendono le molteplici “culture di accoglienza” con le quali i ricercatori si sono dovuti confrontare. Situazioni molto diverse; dalla azienda in obbligo a quella che non lo era per le sue dimensioni, dalla piccola impresa dove il titolare è anche referente per tutto ciò che riguarda la vita aziendale, alla multinazionale in cui il referente si occupa specificamente del personale; dalle cooperative sociali all’ente pubblico. Per quanto riguarda gli inserimenti lavorativi di disabili, la maggior parte di queste sono soggette all'obbligo di assunzione stabilito dalla legge 68/99, in misura proporzionale al numero di dipendenti. Sicuramente l'obbligo di legge è il motivo più importante che spinge un'azienda ad assumere, ma oltre a questo abbiamo constatato anche una motivazione che prescinde il vincolo legale. Un dato di cui occorre tenere conto è che l’azienda non è automaticamente disponibile all’inserimento, anche quando si trova in obbligo. 33 In ogni caso il lavoro da compiere nei loro confronti è sempre importante e delicato. Nel processo di inserimento va dunque ricercato un accordo che tenga conto delle esigenze aziendali, valutandole in relazione ai bisogni degli utenti e del servizio. Dall'esperienza pratica raccontata dai mediatori emergono due categorie principali di aziende: le aziende che semplicemente adempiono al loro obbligo e le cosiddette aziende partner che collaborano strettamente con il servizio. Ma una tale categorizzazione tiene semplicemente conto delle realtà con cui i mediatori si trovano a lavorare, tralasciando quindi quelle che si pongono come indisponibili. Considerando quindi tutte e tre le modalità di relazione, possiamo individuare tre categorie: gli ambienti favorevoli, gli ambienti problematici, l’area dell’irriducibilità. Gli ambienti favorevoli In questa categoria si è scelto di includere le aziende con le quali il Servizio è stato in grado di sviluppare una relazione sinergica. Questo tipo di azienda non si limita infatti ad adempiere ad un obbligo legale ma si rende disponibile a forme continuate di collaborazione, ad esempio continuando ad ospitare tirocini o borse lavoro di osservazione o orientamento anche se non finalizzate all’inserimento. Molti datori di lavoro o responsabili aziendali, alla luce di una legge, sì obbligatoria, ma anche portatrice di numerosi strumenti e benefici facilitanti la mirata inclusione sociolavorativa del soggetto debole, hanno affrontato il problema evidenziando che il principio cardine del nuovo assetto istituzionale affonda le sue radici in un profondo mutamento culturale che traduce in norma un'esigenza fortemente sentita. Racconta infatti un responsabile del personale da noi intervistato: 34 “Le dico la verità. Se non ci fossero obblighi non andremmo mai a cercare invalidi. Ma menomale che c'è questo obbligo altrimenti queste persone non riuscirebbero mai a trovare una collocazione. È importante che le aziende che possono accogliere questi soggetti diciamo più deboli si facciano carico di loro... e poi comunque alcune sono persone super valide. ” Questi sono coloro che accolgono positivamente le proposte che facilitano il compito dell'azienda nell'accogliere la persona disabile. Racconta infatti un direttore di un'azienda: “abbiamo chiamato noi l'ufficio della Provincia... il motivo di base è ovvio è perché siamo in obbligo. Per forza è per quello. Poi però scopri che molti ragazzi che devono essere inseriti sono bravi e mettono ancora più impegno nel lavoro rispetto ad altri”. Sono coloro che attivano le sinergie tra gli organismi responsabili delle singole fasi. In particolare è lo strumento del tirocinio tutorato ad essere particolarmente utilizzato. Infatti un responsabile aziendale dice: “Questa ragazza ha fatto tre mesi di tirocinio e durante il tirocinio ci siamo incontrati con l'ufficio mediatore. Ma una volta che la persona è inserita non è più prevista colloqui con il servizio e allora la persona è in un certo senso affidata al responsabile dell'ufficio dove lavora”. 35 Gli ambienti problematici Le aziende definibili come “ambienti di inserimento problematico” hanno molte difficoltà di rapporto con i servizi che curano gli inserimenti dei disabili. Tali difficoltà possono essere di tipo semplicemente pragmatico, dovute a mancanza di esperienza o saperi per sviluppare l'accoglienza all'inserimento. Oppure, nei casi peggiori, i problemi nascono da atteggiamenti strumentali rispetto ai pochi ma alle volte utili vantaggi che un inserimento temporaneo a costo basso o nullo può rappresentare. Il momento in cui queste difficoltà vengono superate, comunque le aziende riconsiderate in questo insieme non riescono però a sviluppare rapporti continuativi e sinergici con i Servizi. Tengono quindi un atteggiamento squisitamente formale, in cui si è voluto ricomprendere quel tipo di soggetto economico che si limita ad effettuare gli inserimenti previsti dalla normativa sulla base delle sue dimensioni. In questo senso, laddove l’inserimento sia accettato dall’azienda solo per rispondere ad un obbligo legale, il lavoro dei mediatori risulta fondamentalmente centrato nel trasformare questa opportunità in un vero e proprio inserimento. Una mediatrice sostiene: “Molti imprenditori non sanno che fare, non conoscono.. ci dicono che non hanno bisogno di nessuno ma in realtà quando poi vai a vedere non è vero. È che non pensano a che cosa possono fare, magari ti dicono cose generiche (contabilità) o solo molto specifiche (ingegnere informatico). E 36 allora devi capire e studiare le loro esigenze e la loro struttura organizzative e valutare con loro di che cosa hanno bisogno”. Questi sono forse i casi in cui il ruolo del mediatore è più rilevante. Cercare infatti di intervenire sulla cultura del mondo produttivo riuscendo quindi a produrre degli effetti positivi per i soggetti deboli dovrebbe essere uno degli obiettivi del compito della mediazione. Per questo si può dire che ogni volta che gli sforzi degli operatori vanno a buon fine si registra una modificazione della cultura di una singola realtà aziendale. Un cambiamento lento che avrebbe bisogno di maggiore sostegno e maggiore visibilità. Ci sono poi, anche casi di datori di lavoro che approfittano della facilitazione offerta dal tirocinio per avere personale a costo minore magari in un periodo di maggiore bisogno. Così l’inserimento avviene solo in quanto coincidente con una strategia opportunistica del datore di lavoro. Casi come quello di Bruno dove l’azienda, pur al corrente delle sue problematiche, lo sfrutta finche può: “Prima di questo lavoro ho fatto altre esperienze che purtroppo non sono andate bene. Ho fatto un mese di lavoro, in più ad agosto….per […] che però alla fine della borsa non mi hanno assunto…forse non avevano bisogno di una persona…cioè la mia malattia impediva che potessi fare quel lavoro, anche se in quel mese lo avevo fatto meglio che potevo, però con la malattia… ” Per capire invece che cosa era successo in questo inserimento, dobbiamo ascoltare il mediatore che ha seguito Bruno: 37 “Prima di questo inserimento andato bene, Bruno aveva fatto altre esperienze che lo avevano bruciato. Sia per la sua storia che per quello che era successo era molto amareggiato, e non si fidava più.[…] in particolare aveva fatto un mese di lavoro con […] presso […] come […]. Faceva un lavoro che in realtà poteva benissimo fare con la sua malattia, e in più ci aveva messo molto impegno. Andava bene: del resto un uomo con la sua esperienza e motivazione sa benissimo come affrontare il lavoro, non è certo questo il problema. La […] ci aveva chiamati ad agosto, in periodo di ferie, d'urgenza, chiedendoci una persona perché ne avevano disperato bisogno. Nonostante le ferie abbiamo acconsentito a inserire Bruno proprio perché era lui, con la sua situazione e speravamo…o almeno questo è quello che ci avevano detto. Invece alla fine del mese non lo hanno assunto, e io ho fatto un casino. Si vedeva che avevano avuto bisogno solo in quel mese, ma non ci si comporta così, con una persona che alla fine era sempre più amareggiata ” Gli ambienti di inserimento problematici hanno comunque una qualche relazione con i servizi. Esistono altre realtà che tengono atteggiamenti di totale rifiuto rispetto ad ogni forma di collaborazione con il mondo della mediazione al lavoro. L’area dell’irriducibilità Le aziende che si riconoscono in questa tipologia manifestano la loro contrarietà a qualsiasi tipo di proposta e soluzione arrivando a rifiutare ogni tipo di contatto con Servizi nel tentativo di prendere tempo e rendere il rapporto impossibile. 38 Con questa tipologia di imprenditori l’opinione comune è che “è una battaglia persa” e non vale la pena di investire risorse in termini di tempo e di persone. Sottolinea infatti un mediatore: “Certo che esistono delle aziende che non vogliono assumere soggetti deboli. Molti infatti preferiscono pagare una multa, perché non hanno tempo e voglia di seguire un disabile sul lavoro”. Le aziende che rientrano in questa tipologia non sono comunque quelle che abbiamo ascoltato noi, le informazioni su di loro le troviamo solamente nelle interviste agli operatori. Sono le aziende che più di tutte sono portatrici del pregiudizio legato ai disabili e alle rappresentazioni legate. L’azienda e gli atteggiamenti nei confronti dei disabili Nelle organizzazioni produttive esistono due tipi di interessi contrapposti che sono fonte di conflitti: da un lato l'organizzazione, i suoi ritmi produttivi e le sue richieste di adattamento, dall'altra gli uomini e le loro esigenze; il lavoro è un compromesso tra le esigenze soggettive e le richieste di adattamento. Il risultato di questo compromesso è la stipula di un contratto psicologico tra le attese e le disponibilità dell'individuo e dell'organizzazione. Spesso nel caso dei soggetti svantaggiati le esigenze soggettive sembrano prevalere. Di questo hanno paura le aziende. L’inserimento del disabile può dunque essere vissuto come una minaccia per il sistema produttivo in quanto capace di incidere sull'integrità dei compromessi che regolano l'organizzazione. 39 Il titolare di un'azienda di piccole dimensioni non in obbligo ha raccontato la sua preoccupazione all'inizio dell'inserimento, che la presenza di un dipendente a minore produttività spingesse i colleghi a "rallentare il passo" ma: "spiegandogli bene la situazione, hanno capito, e lo hanno accolto. Anzi il ragazzo è diventato un punto di riferimento, perché ci sono certe cose cha fa lui, per cui è indispensabile, e anche i colleghi gli vanno a chiedere, così si è guadagnato anche del rispetto." Come sottolineano Mazzonis, Bolchini, Castellazzi e Noris “se l'azienda fosse un organismo immoto, o segnato da dinamiche di cambiamento lente e progressive, il problema sarebbe certo più limitato, ma la realtà non risponde a questi requisiti: la globalizzazione del mercato che richiede più alti livelli di competitività, le conseguenti radicali innovazioni che sono state introdotte nella struttura organizzativa e nel modo di fare e produrre, che viene richiesto a chi è partecipe dei processi aziendali, disegna un modello di trasformazione e di cambiamento della struttura produttiva che procede spesso a balzi e a costo di profonde e dolorose riconversioni” La struttura organizzativa è indubbiamente una delle variabili che contribuiscono a differenziare il modello di socializzazione al lavoro. Infatti da questa deriva spesso la filosofia che produce e costruisce i rapporti lavorativi. È possibile individuare tre tipologie organizzative: la "bottega artigiana", il sistema burocratico – organizzativo ed il sistema aperto. Esistono naturalmente vantaggi e svantaggi oggettivi dei tre sistemi e le risorse umane che sono parte dell'organizzazione usufruiscono di queste opportunità o subiscono svantaggi. Il senso di appartenenza, l'identità, la gratificazione, le ansie persecutorie e depressive, il rapporto con l'autorità, la motivazione lavorativa sono alcuni degli elementi psicologici soggettivi che trovano nel modello organizzativo di appartenenza una loro collocazione e 40 un loro senso. Importante quindi valutare quando si deve inserire una persona debole all'interno di una organizzazione quanto i meccanismi di difesa di quella persona sono compatibili e adattabili con le caratteristiche peculiari di quel sistema. L'importanza del clima, inteso come somme di variabili psicologiche individuali e variabili organizzative é indubbiamente l'elemento nodale nel percorso verso l'integrazione lavorativa dei soggetti deboli La bottega artigiana Questo modello organizzativo è costituito da un numero limitato di persone e il sistema è sostanzialmente strutturato sui legami personali forti. Si riconosce nell'organizzazione una figura di leader (il maestro) che oltre ad essere gerarchicamente sovraordinato è centrale rispetto alla produzione. In questi contesti il soggetto debole può essere valorizzato e protetto da punto di vista psicologico, ma questo non sempre rappresenta un vantaggio. L'alto livello di protezione e attenzione può in parte impedire uno sviluppo di competenze professionali o limitare il raggiungimento della parità con i colleghi. “parlando dei tirocini diciamo che dal punto di vista pratico economico l'azienda vantaggi non ne ha, può succedere una volta su cinque…insomma non è previsto dall'azienda, da una parte c'è il buon cuore, soprattutto all'inizio, quando le prime volte proponiamo un tirocinio di questo tipo, poi spesso succede che all'interno dell'azienda ci sono persone che hanno parenti o conoscenti disabili…e non sempre però è un dato positivo: può essere positivo rispetto alla disponibilità, può essere un dato negativo quando poi attui l'esperienza, perché tendono a farsi un progetto loro rispetto all'evoluzione della persona…si fanno 41 un'idea loro di dove la persona deve arrivare spesso connotando troppo l'esperienza dal punto di vista diciamo morale, però perdono un po' di vista l'aspetto pratico, pragmatico. La disponibilità ci vuole, ma le aziende devono fare le aziende. ” Rispetto ai tempi di adattamento dei disabili le persone intervistate nelle aziende rispondenti al modello della bottega artigiana hanno dimostrato una sensibilità particolare verso i disabili che lavoravano presso di loro. Di qui scaturisce il loro modo di assolvere l’obbligo che gli consentiva di assolvere il loro obbligo in maniera costruttiva e attenta. Questo atteggiamento può essere sintetizzato in una frase emersa nel corso di una delle interviste realizzate: "se devo assumerli, allora tanto vale farlo bene." Sempre nel corso della stessa intervista, questa persona fornisce una motivazione dell’attenzione dedicata agli inserimenti: "io devo lavorare qua dentro otto o dieci ore al giorno, la soddisfazione è lo stipendio, certo devi lavorare bene... ma quello arriva, a fine mese arriva... allora vuoi mettere con la soddisfazione di vedere crescere queste persone?" Il livello di considerazione verso il soggetto svantaggiato è ampio e afferisce anche ad aree che travalica la dimensione prettamente lavorativa, passando dalle mansioni adeguate alle sue peculiarità all'attenzione allo stato dei suoi rapporti con i colleghi di lavoro fino ad arrivare ad una sorta di cura “extralavorativa”. In questo senso è stato rilevato un atteggiamento “positivo” che, con molta probabilità, trova la sua origine nel fatto che il processo di inserimento lavorativo del soggetto rappresenta anche un momento di cambiamento per l’azienda e la sua cultura. 42 "se messa nel posto giusto, se si trova in un ambiente giusto, questa persona può anche darmi 120, non solo 100. E comunque nella mia azienda […] ci sono dei posti intoccabili, ma anche altri dove qualunque persona metto non mi può rendere più di 80." Rispetto agli inserimenti di disabili, i colleghi sembrano accettare queste persone, pur non maturando relazioni personali di tipo amicale, pongono attenzione anche a quanto può accadere nei momenti di entrata o uscita dal lavoro. Il modello burocratico Il modello burocratico è assimilabile alla organizzazione della fabbrica fordista. Modello che attualmente non rispecchia più le attuali forme della produzione, ma del quale possiamo trovare tracce nella struttura piramidale di alcune aziende di dimensioni medio grandi o nella amministrazione pubblica. Nelle nostre interviste abbiamo ascoltato solamente un caso di ente pubblico. Anche in questo contesto si pone però la questione dell’ equilibrio fra produttività e cura della persona. Sfatando un luogo comune, uno dei referenti aziendali intervistati afferma che: "non esiste più il disabile che viene a lavorare nell'ente pubblico e non lavora. Anche se disabili, il loro stipendio se lo guadagnano." Questa persona ci racconta anche di una iniziale diffidenza da parte degli uffici di cui l'ente si compone nei confronti dei disabili. Diffidenza che viene poi superata grazie a diverse 43 cautele: l'intervistato, nel confrontarsi con i dirigenti di questi uffici, ricorda che il disabile inserito deve lavorare, ma non viene considerato forza lavoro in quota all'ufficio con riferimento alla produttività dello stesso (all’interno di un sistema burocratico la soluzione degli eventuali problemi è essa stessa di natura burocratica). Inoltre l'inserimento è monitorato dai servizi, sia in fase iniziale che poi in caso di bisogno nel corso del tempo, e questo alleggerisce il carico e le diffidenze dei referenti. L'intervista effettuata all'ente pubblico conferma una evoluzione recente, riportataci anche da altri intervistati, delle modalità di inserimento delle amministrazioni, che negli ultimi anni passano dalla chiamata numerica all'inserimento mirato e mediato, aprendo nuovi e importanti spazi di definizione e valutazione della qualità dell’inserimento. Il sistema aperto Il sistema aperto rappresenta l'evoluzione dei due sistemi precedenti. Risponde alle esigenze di produzione snella e flessibile e in ragione di un’organizzazione che può essere vasta ma non divisa in “compartimenti stagni” contemporaneamente sviluppa le relazioni personali e professionali sia in senso verticale che in orizzontale, aumentando le possibilità di sviluppo relazionale ed affettivo. Se il fine ultimo è la realizzazione di un maggiore grado di fidelizzazione del lavoratore all'azienda e ai suoi fini, questo sistema sviluppa la potenzialità di un aumento anche del grado di affettività fra i colleghi. Le criticità di questo sistema possono essere individuate nella richiesta di maggiori capacità di adattamento e relazione richieste al lavoratore. Nel contempo questo modello è maggiormente in grado di valorizzare le competenze della persona aiutandone, nel nostro caso, lo sviluppo, e mettendo maggiormente in gioco sul luogo di lavoro il vissuto personale. È però un modello altamente performativo, che bene si adatta al nuovo paradigma produttivo, ma può risultare assai poco accogliente per i soggetti deboli. 44 Il sistema produttivo contemporaneo Un contesto come quello descritto, nel modo in cui si è venuto a modificare profondamente negli ultimi due decenni, può in parte mettere in crisi il sistema degli aiuti agli inserimenti lavorativi dei soggetti svantaggiati. Molti dei mediatori ascoltati sentono il bisogno di aumentare i loro saperi in questo campo, e rilevano la difficoltà dello sviluppare dei percorsi di inserimento in un tessuto produttivo che si è fatto maggiormente flessibile, terziario e competitivo. Come possiamo leggere nella "Terza relazione al Parlamento sullo stato di attuazione della legge 12 marzo 1999, n° 68 "Norme per il diritto al lavoro dei disabili" anni 2004 – 2005" del Ministero del Lavoro e Previdenza Sociale in collaborazione con Isfol e Coordinamento delle Regioni: "la legge 12 marzo 1999, n° 68 […] è la risultante di un lungo percorso di elaborazione in sede parlamentare, che ha avuto reale attuazione solo dal 2000, come superamento della precedente disciplina normativa in materia, dettata dalla legge 2 aprile 1968, n° 482. […] La legge del 1968 era sorta all'interno di un modello di economia fordista basato su grandi concentrazioni industriali, con un modello occupazionale sostanzialmente omogeneo, caratterizzato dal prevalere del lavoro subordinato a tempo indeterminato, fortemente garantito quanto alla stabilità del lavoro. Il passaggio al postfordismo ha comportato un profondo riassetto del mercato del lavoro, dominato da esigenze di articolazione e flessibilizzazione […] che hanno richiamato la necessità di ridefinizione del sistema di welfare e del connesso regime delle tutele, in particolare per le fasce più deboli del mercato. […]. Un primo tentativo di realizzare tale approccio emerge nella Legge quadro per l'assistenza, l'integrazione sociale e di diritti delle persone handicappate" e prosegue poi con migliori esiti nella citata legge 68/99. Nonostante i cambiamenti a livello legislativo ci siano stati, il cambio di paradigma produttivo sembra non essere amichevole nei confronti di una utenza che ha nella maggior parte dei casi bisogno di stabilità e continuità, e che sembra anche identificare il riconoscimento sociale che è parte del valore del lavoro in una forma determinata del lavoro: il lavoro subordinato a tempo indeterminato. Forma del lavoro e stabilità in 45 mansioni e posto di lavoro che sembrano essere sempre meno disponibili nel mondo odierno. L’inserimento lavorativo dei soggetti svantaggiati avviene infatti in un contesto produttivo e sociale che ha fatto di flessibilità e relazionalità i propri principi fondanti. Le conseguenze di questa situazione sull’inserimento dei soggetti svantaggiati in genere sono assai profonde. Attorno al concetto di flessibilità si sono sviluppate molteplici tendenze che hanno interessato l’apparato produttivo e il mercato del lavoro. La diffusione delle politiche aziendali di outsourcing e produzione snella, ovvero di esternalizzazione e riduzione delle dimensioni aziendali hanno accentuato una caratteristica del sistema produttivo italiano ovvero la concentrazione del tessuto produttivo del paese in aziende di piccole o piccolissime dimensioni. Questo fatto se da una parte ha una conseguenza diretta, per quanto concerne l’inserimento lavorativo dei soggetti svantaggiati in termini di riduzione della numerosità delle aziende in obbligo è altresì capace di generare conseguenze indirette ma di grande portata. In questi processi è infatti implicita l’eliminazione di quegli spazi a “bassa produttività”, consentiti dal sistema delle economie di scala, in cui tradizionalmente si inserivano i disabili e i soggetti in difficoltà. L’applicazione della medesima logica produttiva ai rapporti di lavoro ha invece reso sempre più diffuse modalità di inserimento lavorativo – autonome, subordinate o parasubordinate - a basso grado di stabilità e ha in qualche modo modificato i parametri attraverso i quali, consuetudinariamente, si definisce il lavoro “normale”. Il concetto di relazionalità del lavoro rimanda invece alla progressiva terziarizzazione dei processi produttivi e al contenuto “sociale” insito nel lavoro nel campo dei servizi. A differenza di quanto avviene nei settori primario e secondario la produzione di servizi non può essere posta in essere senza la collaborazione del destinatario del servizio. In questo senso la trasformazione dell’apparato produttivo implica uno spostamento di accento dal saper fare al saper essere. Uno spostamento destinato a non rimanere privo di conseguenze sull’inserimento lavorativo dei soggetti svantaggiati. 46 Questo nuovo assetto del mercato del lavoro se da una parte consente maggiore “espressività”, dall’altra contribuisce a destrutturare sempre più la relazione intercorrente tra lavoro e inserimento sociale mettendo sempre più in crisi i soggetti deboli, direttamente per via della riduzione degli spazi di possibile inserimento e indirettamente tramite un diffuso cambiamento di paradigma. I servizi Il sistema dei servizi per il sostegno all'inserimento lavorativo dei soggetti svantaggiati è composito, con una struttura che dal nucleo direttivo centrale si ramifica nelle diverse strutture che operano con i singoli utenti. Questa organizzazione deputata all'inserimento lavorativo è opera anche per il tramite di organizzazioni del privato sociale affrontando con l’utenza i problemi connessi al quadro medico o alla loro grado di partecipazione sociale. Per arrivare all'inserimento lavorativo l’utente sarà monitorato ed accompagnato attraverso diverse fasi da diverse figure del lavoro sociale, fra cui quella del mediatore è forse la più determinante e presente. Proviamo qui a ricostruire uno schema di percorso, con l’avvertenza che il modello che ci accingiamo a descrivere può essere considerato come un tipo ideale ovvero un’astrazione basata sulle ricostruzioni dei processi di lavoro nei casi esaminati. L'estratto di un'intervista ad un mediatore rende l'idea delle descrizioni che abbiamo raccolto in merito: “Il nostro compito per lo più è di prendere in carico utenti giovani, per lo più in uscita dai corsi professionali intorno ai 20 - 22 anni e dopo un periodo di mediamente due o tre anni di tirocini in azienda stabilire quella 47 che definiamo una prognosi di tipo lavorativo. Capire la persona verso quale tipo di progetto, o di inserimento lavorativo può essere avviata, o verso un inserimento lavorativo vero e proprio - l'assunzione in azienda o verso progetti più di tipo socio assistenziale…siamo sul confine fra il mondo sanitario ed il mondo socio-assistenziale. […] Il progetto dell'inserimento lavorativo deve essere interno al più ampio progetto di vita che il servizio disabili ha sulla persona, quindi siamo in contatto con il servizio proponente e abbiamo uno stretto contatto con la formazione professionale, e quindi possiamo conoscere anche in anticipo le persone che ci verranno segnalate. Questo ci consente tutte le informazioni necessarie cliniche e di storia della famiglia. Dalla formazione professionale abbiamo le informazioni più sull'andamento scolastico e sulle autonomie acquisite dalla persona. Partiamo dal dato clinico perché è necessario che le persone che seguiamo abbiano un'invalidità almeno del 46%, quindi ci vuole una diagnosi medica, poi chiediamo la certificazione di idoneità lavorativa, dalla legge 68, quindi acquisiamo queste informazioni, ricostruiamo la storia degli ultimi tempo e avviamo il progetto cercando che sia il più possibile continuativo con la storia della formazione professionale. Spesso il primo tirocinio che noi avviamo è nella stessa sede dello stage della formazione professionale quando questo può essere utile. Per non stravolgere troppo la vita della persona. Nella formazione professionale lo stage è una parte del percorso scolastico, quindi è solo alcune volte alla settimana e poche ore, noi passiamo piano piano a mettere alla prova le persone il più possibile con ritmi e modi tipici del mondo del lavoro. […] poi dipende dalla persona, se una persona arriva da noi che ha 30 35 anni perché per qualche motivo è stata a casa dieci anni, oppure che in qualche modo sono sfuggite alla maglia dei servizi…in questo caso si cerca di ricostruire la storia, anche se è un po’ più difficile, gli strumenti sono un po’ gli stessi. Si riprende contatto a partire dal servizio, e si comincia appunto con tirocini. Uno degli strumenti è l'utilizzo per il 48 primo tirocinio con aziende che conosciamo bene con cui collaboriamo da anni, ci sono molte aziende che sono proprio come collaboratori, oramai collaborano con noi da anni e fanno proprio confronti fra i vari casi, sanno come prenderli, sanno come accogliere il ragazzo nuovo che arriva un po’ spaurito, e poi sanno come accoglierlo metterlo a proprio agio e ci danno rimando. ” Lo schema-tipo sul quale si articola il processo di inserimento sembra esser basato su sette diversi momenti – alcuni centrati sulla persona, altri centrati sull’azienda – in parte sequenziali e in parte paralleli. Le fasi del processo di inserimento a) entrata della persona all’interno dei servizi b) presa in carico della persona (la persona diventa utente) c) accompagnamento dell’utente all’approccio al mondo del lavoro d) individuazione del ruolo d) ricerca aziende e) contatto con l’azienda f) inserimento nel posto di lavoro e accompagnamento In realtà il processo è composto da fasi molto più fluide di quanto possa sembrare nel descriverle sinteticamente: il percorso è infatti costantemente rimodulabile, e quando necessario, può essere interrotto per inserire momenti formativi ad hoc, reindirizzamenti, fino a ripartire nuovamente dall'azione di orientamento. 49 Inoltre alcune fasi, ovvero quelle più basate sul lavoro con la persona, sono spesso basate sul lavoro di equipe con altri servizi: i servizi sanitari che accompagnano la persona nel suo progetto di vita più ampio; l'orientatore che l'ha accolta all'inizio del percorso nei Servizi per l’Impiego; l'equipe interna al centro di mediazione. L’entrata dell'utente all'interno dei servizi di aiuto all'inserimento lavorativo. Nel caso la persona sia disabile dalla nascita arriva ai servizi in oggetto segnalato dal servizio di base che lo segue (USL, servizi sociali, ente formativo ecc.). Se invece l'utente è diventato disabile nel corso della vita, arriverà ai servizi per propria iniziativa. La persona diventata disabile accederà ai servizi sulla base delle informazioni che su questi detiene, o che può acquisire. Il gap informativo, sia esso determinato dal portato culturale del soggetto stesso o dalle informazioni a disposizione sui servizi, può rendere l'accesso difficoltoso, casuale, incerto. Il caso di Bruno è esemplare di questo aspetto. Il suo tragitto all'interno dei servizi è un percorso durato circa otto anni dall'apparire del fenomeno invalidante. Al momento dell’insorgere della disabilità, non sapeva con facilità a chi si dovesse rivolgere: “Il percorso non è stato facile perché sono andato sempre per sentito dire, ma se fai così puoi vedere che...se vai là può darsi che...e capisce che nelle condizioni in cui ero io andare poi a...piangere sostanzialmente...che la parola magari è un po' pesante ma definisce bene, poi...andare...una persona che è sempre stata indipendente, andare a fare delle richieste in una certa maniera...non e stato facile, poi pian piano, andando di qua, andando di là, muovendomi anche con le mie problematiche, sono riuscito a trovare la persona giusta e poi tramite appunto le strutture ad arrivare qua... ” 50 Questa storia mette appunto in evidenza come la mancanza di informazioni a disposizione ha portato la persona a non trovare immediatamente il servizio a cui rivolgersi per la sua particolare condizione. Del resto da alcuni intervistati il servizio viene descritto come: “poco conosciuto… Poca pubblicità, poca informazione. Molte persone non lo sanno. Si iscrivono solo alle liste speciali e poi basta. Ti dicono, poi ti chiameremo. Invece devi fare colloqui con le persone” Anche per gli utenti che sono già inseriti in un contesto di accompagnamento l'incontro con i servizi all'inserimento lavorativo può non risultare semplice. Nel racconto di questa mediatrice vediamo come al servizio si possa arrivare per diverse vie, e per diverse vie ottenere informazioni su di esso: “Le persone devono essere iscritte al Collocamento disabili di Via Cesarea, arrivano anche dai Centri per l’Impiego dislocati in varie zone di Genova. Infatti noi consigliamo a tutti di avere una doppia iscrizione. Arrivano attraverso una rete di informazione che può essere un tam tam, il call center, volantini, attraverso amici etc. Il servizio di orientamento disabili può dar loro un servizio in più rispetto a dei percorsi di lavoro da attivare. L’organizzazione dell’ufficio è fatta di diversi orientatori. Possono anche esserci delle segnalazioni da parte dei servizi sociali, solitamente per situazione psichiatrica o deficit intellettivo.” Nel racconto di un utente troviamo invece la non automaticità dell'accesso: 51 “L’assistente sociale mi aveva un po’ demoralizzato e mi aveva detto che era molto difficile, invece poi tramite una mia amica sono arrivata a questo servizio, mi ha detto che dovevo insistere e vedrai che te lo trovano e infatti così è stato. Prima invece ero solo iscritta alle liste speciali e quando ho chiesto quante persone avevo davanti non me lo hanno potuto dire.” Sembra quindi evidenziarsi come una possibile criticità la diffusione delle informazioni relative al servizio ad un pubblico vasto, che può anche essere composto da persone che si trovano già all'interno dei servizi. Il primo filtro che incontrano tutti gli utenti è, in genere, il servizio di orientamento della Provincia. Sulla base dei colloqui avuti con l'orientatore viene stabilito l'inizio di un percorso per la persona, che può essere indirizzata verso progetti socio assistenziali oppure verso il servizio di mediazione per l'inserimento lavorativo. Come ci racconta un mediatore: “Ogni orientatore ha in carico un tot di persone e dopo l’incontro di accoglienza, decide attraverso i colloqui con la persona quale può essere il percorso. I servizi sono un progetto rivolto a persone che hanno un’invalidità molto forte, a coloro che hanno un’età più avanzata. Da questo poi possono andare al progetto del (...) che è un progetto di esperimento lavorativo per bassa soglia cioè persone con disagio, per esempio ex tossicodipendenti che però si sono trasformati in qualcos'altro o si lavora attraverso borse o tirocini per capire se la motivazione che dichiarano c’è oppure no, per capire la tenuta. Questo è il lavoro dell’orientamento. ” 52 Il lavoro dell'orientatore è un lavoro di codefinizione di un possibile progetto di inserimento socio-lavorativo; codefinizione perché si tratta di un lavoro che avviene con l’utente. L'attuazione e la sperimentazione di questo progetto viene poi attuata dal mediatore o dal servizio a cui l'orientatore ha indirizzato la persona. Questa figura ha il carico di fare una prima selezione degli utenti: vengono infatti inviati ai servizi di mediazione per l'inserimento lavorativo solamente le persone che dimostrano di avere già delle capacità di autonomia o addirittura professionali. Nella mediazione quindi non rientrano tutti i disabili indiscriminatamente ma, come avviene in tutti i processi di selezione lavorativa, la scelta cade sui soggetti che hanno maggiore appeal per il mercato e le parole del nostro intervistato lo descrivono chiaramente. “L’orientatore decide di mandare da noi persone con invalidità lieve, cioè che non ti compromettono troppo rispetto al lavoro e una grossa competenza lavorativa, per esempio una qualifica specifica, una persona spendibile sul mercato come l’informatico, il ragioniere, il saldatore. Risorse legate alla qualifica e alle esperienze lavorative. ” Evidente quindi che come per tutte le altre categorie, anche nel caso della disabilità le competenze pregresse ed eventuali titoli di studio specifici possono rappresentare una carta vincente per il futuro lavorativo del soggetto preso in carico Esistono comunque diversi tipi di mediazione, da quelli che si occupano di tutti i soggetti svantaggiati minimamente in grado di affrontare un percorso di inserimento, a quelli che lavorano solamente con utenti che sono in possesso di capacità e competenze di buon 53 livello, come dicono due nostri interlocutori descrivendo il servizio all'interno del quale operano: “ […] l'area dei servizi di mediazione che prevede stage, colloqui e tirocini è una parte dei servizi di mediazione, l'altro è il collocamento mirato deve vengono segnalati quei disabili che in fase di orientamento in provincia attraverso uno screening del curriculum e una serie di colloqui si ritiene che possono essere in grado di sostenere colloqui di selezione nelle aziende per un'assunzione diretta…” “ […] in particolare il nostro è quello che si può, all'interno di una serie di offerte interne al… e anche rispetto al sistema formativo e orientativo della provincia, è la parte un pochino più evolutiva, nel senso che le persone che arrivano sono persone che tendenzialmente o hanno già esperienze di lavoro oppure hanno comunque un orientamento personale, diciamo, verso l'idea di poter lavorare e sono o potrebbero essere in partenza, in uno stato personale abbastanza integrato. ” Non abbiamo intervistato degli orientatori e le informazioni sulle loro funzioni le abbiamo avute, in quanto inizio del percorso, dai mediatori ascoltati. Non abbiamo quindi elementi di prima mano per poter ragionare su questa fase iniziale. Possiamo però mettere in evidenza che la possibile criticità del dover scegliere un indirizzo piuttosto che un altro per l'utente valutandone le competenze e le autonomie è fortemente attenuata dal fatto che questa figura rimane in contatto con il servizio a cui l'utente viene diretto, valutando sempre la possibilità di una rimodulazione anche radicale del progetto iniziale secondo le risposte dell'utente. 54 La presa in carico In questa fase il soggetto inizia il vero processo di inserimento lavorativo: l'utente passato dal servizio di orientamento incontra il mediatore. Come si svolgono i colloqui e con quali strumenti? Come ci racconta un mediatore: “il colloquio avviene attraverso una scheda, vengono chieste cose soprattutto legate al lavoro, vengono portati qui tutti i documenti in loro possesso, e a quel punto con il curriculum entrano a far parte della nostra banca dati e sono classificati a seconda dell’invalidità, dei diplomi, delle qualifiche che hanno. A quel punto i mediatori ogni volta che gli orientatori ci passano delle persone, ce le passano attraverso una mail formale e attraverso una scheda sulla persona, noi colloquiamo le persone, compiliamo le nostre schede, a quel punto c’è l’incontro domanda offerta. ” Dalle parole precedenti è possibile osservare due degli aspetti che apparentemente caratterizzano il lavoro di mediazione: 1. l’apparente standardizzazione del processo di selezione ed inserimento lavorativo che dalle parole dei vari operatori segue le stesse fasi: “Noi abbiamo una scheda d’ingresso con i dati anagrafici, il titolo di studio, le esperienze pregresse, le cose che vuole fare o non vuole fare e che noi aggiorniamo periodicamente in itinere. Ai colloqui io seguo delle tracce. Il primo colloquio è in genere di conoscenza ma difficilmente si parla della diagnosi a meno che la persona non voglia parlarne, una breve 55 storia personale per chi ha voglia di farla e in genere si parla già di lavoro quindi la domanda classica è “che cosa vorresti o non vorresti fare” e poi “che cosa puoi fare, che cosa non puoi più fare”. 2. la necessità di lavorare in rete con gli altri servizi della Provincia. La realizzazione di un lavoro di rete tra i servizi passa attraverso la disponibilità a superare la tendenza all'autoreferenzialità spesso presente nei servizi: “Il progetto, in teoria, il percorso lo costruiamo noi con la persona e con l’orientatore. Come gruppo e individualmente anche se ci sono delle situazioni in cui le persone arrivano che sono già seguite dai servizi. Il nostro lavoro è anche collegarci in rete perché per costruire un percorso lavorativo, più informazioni hai e meglio puoi mediare. Spesso costruiamo un percorso anche dal nulla, attraverso i colloqui cerchiamo di attivare la situazione che ci sembra meglio. ” Abbiamo parlato di apparente standardizzazione per un motivo preciso: mentre tutti i mediatori hanno riferito all'inizio dell'intervista l'utilizzo di strumenti di supporto al colloquio con l'utente, questo aspetto sembrava passare in secondo piano per tutto il resto del dialogo, che si centrava sulla dimensione di un rapporto maggiormente dialogico e relazionale. Come afferma un nostro intervistato l’empatia risulta essere una caratteristica ed una competenza professionale trasversale: “L’empatia è una caratteristica fondamentale per chi fa questo mestiere perché ti permette di rischiare. A volte l’empatia si ferma li oppure diventa "invischiamento" e se non è rafforzata da una forte professionalità per proteggere una persona non le dai delle possibilità.” 56 Sembra quindi che l'utilizzo di strumenti informativi e di intervista standard si applichi particolarmente all'inizio del percorso, in questa fase di presa in carico dell'utente e svolga una funzione di “ufficializzazione/istituzionalizzazione” della rapporto. Successivamente, per poter portare a termine con successo il progetto di inserimento mantenendo aperta la caratteristica forte di individualizzazione del percorso gli strumenti formali diventano forse meno importanti a fronte invece di una "capacità professionale/personale" di dialogo e di assistenza. L’accompagnamento dell'utente all'approccio al mondo del lavoro. Sulla base delle informazioni dei servizi che hanno accompagnato l'utente fino alla presa in carico e dei colloqui avuti in prima persona, il mediatore inizia a far avvicinare la persona al mondo del lavoro cercando con gli strumenti a sua disposizione di individuare il percorso e la situazione lavorativa più congeniale con le caratteristiche e le competenze del soggetto in carico: “Alcuni disabili stanno in carico da noi nove mesi, perché sono persone più fragili o perché non hanno qualifiche, o perché hanno disabilità gravi o perché sono fuori dal mercato del lavoro da molto tempo. Al termine di questi mesi il nostro obiettivo è di inserirli attraverso tutta una serie di strumenti che sono colloqui per conoscerli meglio, fai un certo tipo di percorso per fargli capire qual è il loro reale profilo e poi fai degli interventi sugli stage, per esempio sulla persona che deve assolutamente cambiare il lavoro che ha fatto per vent’anni perché magari ha fatto solo il muratore e non lo può fare più a quel punto tu devi non solamente 57 trovargli un’occupazione ma anche trovare con lui uno scenario possibile, magari ha solo la terza media, bisogna quindi proporgli di prendere una qualifica e se non accetta di fare dei corsi, lo metti in gioco facendogli fare, accompagnato da te, degli stage in altri ambienti e facendogli capire che può fare il giardiniere, per esempio. A quel punto lo stage diventa un mezzo per far capire a lui che ci possono essere altri percorsi e per te per conoscere la persona, le sue qualità, il suo apprendimento, la sua serietà, le sue motivazioni e il passaggio successivo è quello di cercare le aziende che cercano un giardiniere. ” Nel frammento di intervista sopra riportato si ritrova molto chiaramente evidenziata l’indeterminatezza della durata del percorso di inserimento lavorativo. La funzione che ha questa fase la troviamo descritta anche in altre interviste: “Normalmente, sulla base delle specificità nonché del pregresso formativo/lavorativo della persona, il mediatore cercherà di inserirla in aziende disponibili a "metterla alla prova" tramite tirocini o borse lavoro. È la fase in cui si testano soprattutto le capacità relazionali e pregresse della persona, in cui l'utente viene posto a confronto con il proprio limite” L’individuazione del ruolo La ricerca del ruolo adeguato alla persona è costruita su un percorso continuo di valutazione, riallineamento e individuazione di obiettivi possibili. Un percorso che a volte assume la forma di un ritorno al punto di partenza: 58 “In teoria la porta dell’orientamento è sempre aperta. Queste persone possono uscire dalla mediazione soprattutto motivate, se non sono assunte ci possono essere altri sbocchi, ci sono persone che non hanno assolutamente competenze alle quali consigliamo di fare dei corsi per formarsi o prendere dei voucher. C’è sempre una grossa presa in carico e quando il percorso finisce c’è comunque un’alternativa. E’ capitato che il percorso finisse perché magari alcune persone hanno rinunciato, trovano lavoro con altri canali o perché davvero la loro invalidità li ha fermati. ” L'accompagnamento dell'utente al mondo del lavoro e la definizione del ruolo che può svolgere al suo interno sono due fasi osmotiche, estremamente interrelate. Nonostante questo, qui le analizziamo separatamente in quanto sono due momenti con finalità diverse. Nella prima fase infatti si cerca di appurare le competenze pregresse dell'utente, le sue autonomie anche basali legate alla vita quotidiana, le sue capacità relazionali, e di comprendere se è in grado di confrontarsi con gli obblighi e le modalità del mondo produttivo. Si cerca quindi di ovviare ad eventuali carenze, in un percorso, come detto, di avvicinamento al lavoro. Nella seconda fase il lavoro consiste maggiormente nella definizione di un ruolo lavorativo possibile, nel raffronto con i limiti dell'utente, le sue capacità ed aspirazioni, le possibilità ed esigenze della realtà produttiva, cercando nel contempo di creare un profilo di occupabilità. In entrambe, anche se maggiormente nella seconda, l'utente può essere inserito in azienda per periodi più o meno lunghi utilizzando strumenti contrattuali quali il tirocinio o la borsa lavoro per "metterlo alla prova" o per dotarlo di competenze relative ad una mansione. La messa alla prova può riguardare sia le capacità relazionali e “autonomia” dell'utente, sia il confronto con gli obblighi del lavoro, sia, per utenti meno problematici, il grado di competenze che la persona detiene rispetto ad un ruolo lavorativo. 59 La ricerca aziende. Oltre alle fasi sopra elencate dove l’attenzione è focalizzata sull’utente, a volte in parallelo, a volte come momento sequenziale, il percorso-tipo prevede anche un lavoro rivolto alle aziende. Un lavoro che incomincia con la ricerca. Con il termine ricerca aziende intendiamo sia la ricerca delle aziende disponibili ai tirocini di prova, che normalmente fanno parte della rete di collaborazioni del servizio di mediazione, sia la ricerca delle aziende invece utili e disponibili per l'inserimento lavorativo vero e proprio. Qui entra in gioco la conoscenza del mercato del lavoro locale e dei soggetti imprenditoriali che lo animano. Le aziende in cui compiere gli inserimenti possono essere rintracciate all'interno delle aziende in obbligo per la legge 68/99, o nel bacino imprenditoriale locale. Pur in considerazione del fatto che non tutte le aziende in obbligo sono concretamente disponibili ad inserire un lavoratore disabile è tuttavia evidente che la disponibilità di queste due categorie di soggetti è molto diversa. Non sempre a compiere il lavoro di ricerca è il mediatore. In alcune strutture possono esistere figure incaricate di questo ruolo, oppure il mediatore si appoggia alle strutture deputate della Provincia. Ma i contatti con le aziende possono provenire anche da altri canali: possono fare parte della rete personale del mediatore oppure provenire da precedenti collaborazioni tenute con le agenzie formative per l'implementazione di stage. Abbiamo chiesto come l'azienda era stata rintracciata, e il mediatore di uno dei casi analizzati racconta: “[questa azienda] rappresenta proprio il classico caso di collaborazione. In questo momento credo che abbia inserite quattro persone, e quindi per adesso non ci rivolgiamo più a loro per non sovraccaricarli, ma con loro 60 abbiamo un rapporto molto buono. Il contatto veniva dalla Provincia, ed era nato con una consulenza che la Provincia gli aveva fatto, perché loro si erano rivolti all'ufficio per capire che cosa dovevano fare con la legge 68, per gli inserimenti. ” In un altro caso il contatto era stato procurato dal ricercatore di aziende interno alla struttura in cui il mediatore lavorava. Il referente aziendale di questa realtà ha raccontato come ha conosciuto i servizi: “Questa è la prima assunzione che faccio, prima di Enzo mi capitava saltuariamente di far lavorare qualche ragazzo in stage. E non ne farò altre, perché la ditta è piccola e quindi… […] facevo lavorare dei ragazzi che venivano dai corsi di formazione […] Io non sapevo nulla della possibilità di assumere dei disabili, non ci pensavo nemmeno, poi sono stato contattato da delle persone dei corsi di formazione […] Sono venuti qui, si sono presentati, abbiamo parlato…e io ho accettato di far lavorare questi ragazzi. Anche Enzo è venuto a lavorare qui così, poi abbiamo visto che era bravo con i computer, e in quel momento pensavamo…avevamo un progetto di tipo informatico, pensavamo ad un sito, allora subito pensavamo di farlo lavorare su questa cosa, poi il progetto non è andato avanti, ma loro mi hanno chiesto se potevo anche a farlo lavorare in […] o in […], e abbiamo visto che Enzo poteva lavorare anche lì insomma. Poi mi hanno chiesto se potevo assumerlo, mi hanno spiegato come si faceva tutto. Poi la cosa andavano po’ per le lunghe, allora io mi sono rivolto al mio consulente, ne abbiamo parlato insieme e ho deciso di assumerlo. ” 61 In questo caso l'azienda non si trovava in obbligo di legge, e il contatto proveniva dalla rete di aziende contattate dagli enti di formazione per lo svolgimento degli stage, rete a cui il cercatore interno alla struttura aveva fatto riferimento. Tutti i mediatori descrivono queste tre vie principali: le aziende prese dall'elenco delle realtà in obbligo, quelle provenienti dai contatti del mondo della formazione, i contatti personali del mediatore. Il reperimento delle aziende, grazie all'obbligo creato dalla legge di riferimento, non sembra essere il problema principale. Ma nelle parole dei nostri intervistati sembra che al di fuori dell'area in obbligo non sia per niente facile reperire aziende disponibili, a meno che non esistano contatti precedenti, non si sia già conosciuti. Tantomeno sono diffuse strategie di condivisione delle informazioni; l’azienda, particolarmente quella configurabile come ambiente di lavoro favorevole all’inserimento, è vista come un bene prezioso o come un possibile cliente/“sbocco di mercato” che non va rivelato alla concorrenza (gli altri mediatori). “facciamo una distinzione fra aziende che cerchiamo per i tirocini e quelle che cerchiamo per gli inserimenti veri e propri, per gli inserimenti, soprattutto ultimamente lavoriamo in stretto contatto con la provincia sulla base delle aziende in obbligo per la 68, soprattutto negli ultimi anni, c'è comunque una ricerca nostra autonoma, e per le assunzioni c'è l'obbligo di legge che aiuta molto ” Anche con le aziende soggette ai criteri della legge 68 possono esserci dei problemi: “ […] dal privato si prende quello…insomma senza l'obbligo è difficile. Hai anche meno potere contrattuale. In generale continuano ad esserci dei forti pregiudizi. […] molto spesso c'è la paura data dal pregiudizio e 62 dalla non conoscenza, anche perché molti ancora pensano al disabile pensandolo più come una persona psichiatrica o una persona down, io credo che nell'azienda dove si riesce ad entrare, a parlare, a confrontarsi, a collaborare i risultati buoni ci sono…spesso si trova la porta sbarrata ancora prima, dipende dalle aziende, ci sono aziende che non si dicono interessate e anche di fronte all'obbligo presentano profili molto elevati, per esempio chiedono un disabile, che venga inviato un ingegnere… che può anche succedere con un disabile di tipo fisico, la paura è molto forte per il disabile di tipo mentale, questo fa ancora molta paura” Ci si scontra qui con il pregiudizio. All'interno del mondo aziendale, sul disabile, sul soggetto svantaggiato, pesano ancora grossi pregiudizi e stereotipi, che possono andare dal più pragmatico "sono un peso, non sono produttivi" fino al considerarli come un vero e proprio problema, perché identificati immediatamente con l'immaginario riferito alle persone down o ai malati mentali. I servizi di aiuto all'inserimento svolgono un evidente lavoro di tipo culturale. Ma, nelle parole di una nostra intervistata, considerata come attore esperto del sistema: “Abbiamo deciso di fare una ricerca fra le aziende, ma questa non rivolgendoci a quelle che avevano inserito, ma alle altre, quelle che piuttosto preferiscono pagare la penale. […] Il risultato di questa ricerca è stato che all'interno di queste aziende si trovavano ancora i pregiudizi sui disabili di anni addietro, queste persone non erano nemmeno a conoscenza del nostro servizio. ” Per tutti questi motivi il lavoro con le aziende, che noi qui abbiano scisso in tre momenti successivi - la ricerca, il primo contatto e l'inserimento – risulta essere nel suo insieme particolarmente delicato ed importante. 63 Il contatto con l’azienda. A partire dal primo contatto con l'azienda parte la consulenza alla stessa, finalizzata ad accompagnarla nell'inserimento. Si stabiliscono tempi e modalità dell'inserimento. Si cerca di non "spaventare" l'azienda appesantendola di troppe responsabilità, di provvedere datore di lavoro, o dirigente e colleghi, delle informazioni necessarie sul soggetto. Questo lavoro a volte sembra sommarsi sulla figura del mediatore. Altre è invece scisso e in questo caso il mediatore compie il percorso a partire dal “secondo contatto”, sulla base di un lavoro compiuto da altri servizi facenti capo alla Provincia. Il lavoro di creazione dello "spazio di inserimento" all'interno della struttura si può scindere in due diversi assetti: la "creazione" dello spazio e la "occupazione" dello spazio creato, ovvero il momento dell'inserimento vero e proprio. Nelle affermazioni raccolte tramite interviste questi due momenti appaiono spesso come disgiunti, ma emerge anche un certo grado di sovrapposizione risolto di caso in caso nelle pratiche di lavoro e di coordinamento quotidiane. Operativamente questo processo prende avvio da una presentazione del caso sulla base del quale si cerca di sviluppare un accordo. Nel caso in cui sia un primo contatto, o comunque l'azienda non sia già conosciuta si tratta di un lavoro di particolare importanza. Il mediatore si trova infatti a fare consulenza all'azienda sul ruolo che la persona accompagnata può rivestire all'interno del processo produttivo: “I mediatori nel contempo vanno nelle diverse aziende con una scheda, fanno un’istruttoria, cercano di capire il bisogno dell’azienda, il profilo, il luogo, le barriere architettoniche e cercano di abbinare all’azienda le persone che abbiamo selezionato per quel luogo. ” 64 “Direi che il nostro lavoro è proprio questo, cercare l'azienda che ci faccia entrare, noi abbiamo come modalità di lavoro quella di entrare dentro le aziende, di guardare dentro le stanze vedere come si svolge il lavoro, che è molto diverso dal leggerlo sulla carta o farselo raccontare, per suggerire, ipotizzare delle collocazioni della persona disabile ” “Quando ti presenti all'azienda per presentargli un caso, è un momento molto importante. Devi essere molto chiaro, non devi mentire. Quello che devi fare è un patto chiaro. ” I mediatori ascoltati sembrano trovarsi nella posizione di chi, proveniente da un frame estremamente diverso da quello aziendale, debbono porsi nei confronti di questo in una posizione di convincimento per riuscire a raggiungere l'obbiettivo dell'accettazione dell'utente. Per penetrare all'interno di un frame quale quello produttivo occorre dunque comunicare anche adottando il linguaggio dell’azienda ed incorporarne, anche parzialmente, le istanze. L’inserimento nel posto di lavoro e l’accompagnamento. L'inserimento è il momento in cui il posto creato all'interno dell'azienda dal lavoro che i servizi o il mediatore hanno fatto con l'azienda viene materialmente occupato. L'utente entra sul posto di lavoro che tendenzialmente viene considerato il suo inserimento stabile e definitivo. Il mediatore fa sì che gli vengano affidati ruoli e mansioni che da una parte non travalichino o mettano in stress il limite di cui il disabile è portatore, dall'altra siano però costruttivi e il più possibile inseriti nel contesto, ponendo altrettanta attenzione alle esigenze dell’azienda e del processo produttivo. 65 Durante i primi tempi dell'inserimento il mediatore svolgerà una funzione di monitoraggio, ascoltando ed aiutando a superare i possibili problemi sia dell'utente che dell'azienda nel processo di incontro in corso dei due soggetti. Questo vuol dire che il suo lavoro di accompagnamento successivo all'inserimento si svolge nei confronti di entrambi i soggetti, andando periodicamente sul luogo di lavoro a parlare sia con l'utente che con i suoi colleghi e con il referente aziendale, mediando ancora fra le diverse esigenze, intervenendo nel caso in cui l'utente presenti problematiche fino ad allora non conosciute e impreviste. Il lavoro con la persona può anche continuare a svolgersi tramite colloqui periodici. Da quanto emerge la fase dell'accompagnamento ha un termine ma in realtà i mediatori rimangono poi a disposizione dell'azienda per interventi occasionali, nel caso in cui per esempio le condizione del nuovo assunto dovessero in qualche modo peggiorare, sia per intervenire direttamente (parlando per esempio con la persona in questione), sia per valutare il caso di segnalare la situazione ad altri professionisti del sociale o ai servizi che già lo seguono. […] nel tempo hanno collaborato molto, ogni tanto li abbiamo sentiti anche per inserire dei tirocini di prova, ora non lo facciamo perché ne hanno già tanti […] rimaniamo comunque in contato, anche perché ogni tanto ci chiamano quando hanno dei problemi con le persone già inserite, per esempio Andrea ultimamente ha avuto qualche problema, ha reagito male, era stato ripreso dal capo reparto e ha reagito male, così ci hanno telefonato […] Il lavoro fatto con loro è quello che tentiamo di fare con tutte le aziende: siamo andati in azienda, abbiamo visto come si lavora, che cosa producono, abbiamo cercato insieme quali potevano essere i posti migliori per mettere le persone che gli proponevamo. ” 66 Ciò che invece non sembra essere definito sono i tempi e i modi della collaborazione postinserimento. A partire da quando l’inserimento è dato per effettuato? E per quanto tempo l’azienda può ancora rivolgersi al mediatore nel caso insorgano dei problemi? Nella sfocatura derivante da questa situazione le stesse aspettative delle aziende nei confronti del sistema appaiono quanto mai incerte e mutevoli. Le fasi dell'inserimento e dei primi tempi del lavoro dovrebbero essere in genere poco problematiche, soprattutto quando il soggetto inserito ha già fatto tirocini di prova in altre aziende o, ancora meglio, nella stessa in cui adesso è stato assunto. I problemi possono sorgere nel caso in cui il soggetto non abbia conosciuto precedentemente l'azienda di inserimento finale, oppure nel caso in cui gli vengano cambiati ruoli e mansioni. Problemi che si possono comunque presentare anche in successivi momenti, quando la fase dell'accompagnamento è terminata, e per cui il mediatore rimane comunque sempre a disposizione. Il percorso mutevole Nelle pagine precedenti abbiamo scelto di fare riferimento ad un "oggetto concreto" quale il percorso tipo descritto per riuscire ad affrontare la complessità di quanto emerso dalle interviste rispetto al tema dei servizi, forzando questa complessità in uno schema che poi rispondente alla realtà lo è nella misura in cui riduce per rendere leggibile. Il percorso reale infatti trova il suo maggiore punto di forza, di efficacia, proprio in un aspetto che non è possibile rendere in una descrizione sequenziale: il suo essere individualizzato e quindi totalmente rimodulabile in qualsiasi momento del percorso stesso. Nelle parole di due operatori, che rappresentano comunque le opinioni di molti, forse tutti i mediatori ascoltati: 67 “Punto di forza è questo approccio alla gestione di questi percorsi. Nel 2002 sono stati approntati i primi strumenti, sono stati i tirocini, poi via via si sono affinati andando nella direzione dei bisogni della persona e soprattutto nel personalizzare. Cosa che storicamente, come cultura, nell'ambito da cui vengo della formazione questo non avveniva, ci sono dei contenitori dentro cui devono stare le persone, mentre qua il discorso è stato inverso. Si sono creati percorsi individualizzati, considerando le singole persone. Si è cercato di mettere in campo risorse e strumenti in direzione opposta, nelle due direzioni aziende e persone, per le persone è stato un processo un po' più naturale, per quanto riguarda il servizio un po' più di resistenze per quanto riguarda le aziende…” “Abbiamo anche dei percorsi che non sono finalizzati all'inserimento allo sbocco occupazionale, ma all'osservazione, può essere una presa in carico di pochi mesi con osservazione e formazione I percorsi non sono sempre finalizzati all'assunzione: la particolarità di questo servizio che si è affinata con gli anni è che sono percorsi individualizzati. ” Come dicevamo, i percorsi individualizzati sono rimodulabili: “L'orientatore inizia a definire il progetto dell'utente, poi tutto continua nella collaborazione fra orientatore e mediatore, e ci vuole massima flessibilità, alle volte l'utente può ripartire dall'orientamento, o dalla formazione, si ridefinisce il percorso. ” 68 Il fatto che sia individualizzato è un punto di forza di fronte all'estrema eterogeneità dell'utenza considerata, sia che si parli di disabili in senso stretto, sia che si parli in senso ancora maggiormente ampio di soggetti svantaggiati: “Ci sono persone di tutti i tipi e le età, abbiamo curricula assolutamente ricchi di esperienza, persone che poi devono interrompere per motivi di salute per alcuni periodi, persone che per cause loro personali rispetto all’invalidità devono con noi reinventarsi, diversi tipi di invalidità, oppure persone senza esperienza, quindi fasce di età più giovani dove si possono proporre stage formativi, stage di osservazione, dove c’è anche più disponibilità a fare stage piuttosto che pensare già ad inserirli. ” Individualizzazione che ha due conseguenze dirette: la prima è la possibilità di rimodulare le diverse fasi in ogni momento, di ripeterle, di fluidificarle a seconda delle esigenze e delle risposte del singolo utente. Utente che può anche trovarsi nella situazione, come abbiamo visto in diversi estratti riportati, di interrompere in qualsiasi momento il percorso per poi riprenderlo in altri momenti, o ancora di entrare al suo interno in una situazione che lo porta più velocemente verso l'inserimento finale saltando fasi intermedie. La seconda conseguenza è l'estrema variabilità della durata dei singoli percorsi: prima di arrivare all'inserimento vero e proprio gli utenti compiono percorsi più o meno lunghi, che possono anche durare anni, la cui durata non è stabilita a priori dipendendo sempre dalla risposta della persona. Il rappresentare lo schema pur con tutti i suoi limiti ci ha però permesso di mettere in evidenza alcuni aspetti sensibili, sia come punti di forza che di miglioramento possibile del sistema dei servizi considerato. Emerge da questa panoramica una buona capacità di “fare rete”, un punto considerato estremamente importante dai nostri intervistati. Ma si tratta di un “fare rete” 69 principalmente basato sulla dimensione informativa. Molto meno comune è invece il fare insieme tra strutture diverse. Siamo dunque di fronte ad un sistema in grado di seguire sia il singolo utente, con attenzione alle sue specifiche esigenze, sia di ascoltare e dare credito alle esigenze delle aziende, mettendole in relazione tra loro alla ricerca di un difficile equilibrio volto al raggiungimento dell'obbiettivo, il migliore binomio possibile utente/azienda ma pressoché esclusivamente centrato sulla capacità di sfruttare il capitale sociale e culturale degli operatori che ne fanno parte. Un sistema all'interno del quale emerge in maniera importante e per certi versi critica la figura del mediatore, nodo centrale del percorso che abbiamo cercato di descrivere. Il ruolo del mediatore Il lavoro del mediatore può essere definito come un “ruolo cerniera” la cui funzione è quella di mettere in comunicazione frame, culture e istituzioni estremamente diverse tra loro; l'anello di congiunzione tra il mondo del lavoro e i soggetti svantaggiati. Come si è visto la loro capacità e professionalità nel capire e nel rapportarsi con gli utenti si dimostra non semplicemente importante ma assolutamente fondamentale al fine di cogliere le aspettative e le attitudini dei soggetti disabili ma anche ciò che i soggetti possono fare e quello che vorrebbero fare. Una mediatrice ci racconta come si approcciano agli utenti e come cercano di capire ed interpretare i desideri lavorativi dei loro utenti: “In generale cerchiamo di far sì che questo possa avvenire, la prima domanda sicuramente è “cosa lei vorrebbe fare”, la domanda successiva è 70 “cosa lei può fare”, per la nostra filosofia le due cose sono unite. Cosa tu vuoi fare significa sicuramente rispettarti indipendentemente dalla disabilità. Questo vale per qualsiasi disoccupato, uno può anche aver fatto qualunque tipo di lavoro per sopravvivere, ragion di più bisogna tener conto di quello che il disabile desidera fare ma nel contempo anche quello che può fare, tenendo conto dei limiti. Succede spesso che queste persone abbiano bisogno di capire con te che determinati desideri che hanno sono difficilmente attuabili rispetto alla tua realtà di disabile. Un esempio è stato Francesca: nessuno di noi le ha detto non puoi fare questo, non potrai mai farlo, ma il nostro lavoro è proprio quello del rispetto della persona accompagnato dalla considerazione della realtà oggettiva non solo con i discorsi ma anche con dati concreti, elaborando col mediatore le difficoltà che hai incontrato o incontrerai. Alcune persone hanno bisogno di capire che non è impossibile fare un certo tipo di lavoro ma è difficile. Esistono situazioni dove ti dicono “no, voglio fare solo quel tipo di lavoro”, a quel punto ci diamo del tempo e diamo tempo alla persona di capire che non è possibile, facendole fare anche esperienze diverse.” Un know-how relazionale che si esprime anche nei confronti dell’azienda. Una relazione che deve soddisfare il doppio scopo di "convincere" l’azienda ad assumere un utente e che si concretizza in una forma di consulenza deputata alla definizione di ruoli e mansioni possibili per dei lavoratori svantaggiati. Così la componente di “servizio all'azienda” assume un ruolo almeno altrettanto importante di quello del servizio alla persona da inserire. Anzi, da tutti mediatori ascoltati sembrava emergere una sorta di “priorità dell’azienda”. Come se il lavoro sull’utente fosse dato per scontato le preoccupazioni più diffuse tra gli operatori riguardano la capacità di instaurare e mantenere relazioni positive con il mondo dell’impresa. 71 Nelle parole dei mediatori intervistati si percepisce quasi una volontà forte di rimarcare questo ruolo rispetto all'azienda: “prima si cerca l’azienda, dopo la persona.” In questo si può trovare traccia di un avvenuto passaggio. Come afferma uno di essi: “Per un periodo ci si è portati dietro il retaggio da formazione, dove l'azienda veniva vissuta come una porta da sfondare, riuscire ad entrare, un approccio all'azienda come dover fare una forzatura, questo era l'obbiettivo che si aveva...comunque sia anche questo è stato accettato, magari con un po' di difficoltà, questo è il grosso cambiamento che in quattro anni è avvenuto” D’altronde questo aspetto mette in evidenza la difficoltà di mettere tutti nelle stesse condizioni. Come afferma uno degli intervistati: “la necessità è quella di trovare il posto giusto per la persona giusta, che si può fare in ogni azienda, sarebbe bello poterlo fare in tutte le aziende” Questo lavoro di creazione di un posto di possibile inserimento all'interno di un organico aziendale, che richiede competenze, da parte dell’operatore sull'organizzazione dei processi produttivi, ed è l'aspetto più evidente e pragmatico di un'azione meno definita ma forse anche più importante: il lavoro sulla cultura aziendale. 72 “Si parte dai bisogni e caratteristiche della persona e nello stesso tempo dell'azienda, che possono anche andare fuori dal bulacco e chiedere un ingegnere, allora di fronte al potere contrattuale che hai con l'obbligo di legge, puoi chiedergli di pensare ad altri profili e sottoporgli un utente, può poi succedere che anche una azienda scopra che il disabile può lavorare e produrre in un determinato ruolo, in questo senso facciamo cultura. ” Il frame produttivo, come abbiamo visto, è attraversato ancora oggi da stereotipi consolidati sulla figura del disabile e della persona svantaggiata; stereotipi che sfociano nel pregiudizio e quindi nella discriminazione nell'accesso al lavoro. Trovandosi nel ruolo di accompagnare l'impresa ad accettare questi soggetti, il mediatore tenta di incidere sulla cultura del contesto produttivo con un'azione situata, legata al singolo caso in oggetto, ma la sua azione è destinata a produrre conseguenze sia sull'azienda sia sul frame nel suo insieme. Il mediatore svolge poi le sue funzioni all'interno del sistema di servizi di cui fa parte, e che è nel suo insieme un terzo attore del processo che stiamo analizzando. Un attore dotato di sue specifiche esigenze – la coniugazione di efficacia ed efficienza nell'erogazione del servizio – e della sua specifica mission sociale – l'aiuto all'inserimento lavorativo di soggetti svantaggiati, dei soggetti che hanno maggiori difficoltà nell'accesso al lavoro. Il mediatore si trova così ad operare fra due frame diversi: quello produttivo e quello dei servizi sociali. All'interno di ognuno di essi deve essere in grado di agire e facilitare un lavoro interno di rete, così come di mettere in relazione fra loro le due reti distinte. Il mediatore e il rischio di overload Operando tra più sistemi, sui mediatori si condensano set di aspettative assai diverse tra loro quando non in conflitto. 73 Secondo quanto è stato possibile capire, infatti, al mediatore sono richieste da una parte competenze di natura psicologica, pedagogica, assistenziali e relazionali; dall’altra è richiesta una forte capacità di conoscenza del mercato del lavoro e della sua evoluzione, dei contesti organizzativi e culturali aziendali. Come osserva infatti un’operatrice: “Devi avere delle competenze relazionali di una formazione di tipo psicopedagogico e delle attitudini tue alla relazione buone. E poi lavori sulle aziende dove anche lì metti in campo la capacità che hai di saperti relazionare. A lato anche una buona conoscenza del mercato. Il rischio è che puoi spostarti o troppo sulla persona o troppo sull’azienda e, in questo, tra di noi c’è chi è più forte con le persone e chi con le aziende per attitudine. Una buona conoscenza di cultura azienda aiuta, anzi è fondamentale, lo puoi imparare ma se hai una formazione di questo tipo aiuta e dovrebbe stare nella valigia del mediatore. Sapere com’è strutturata, per esempio, una grande azienda ti facilita. Noi, come mediatori, cerchiamo di non spostarci né da una parte né dall’altra. ” Quest’ultimo set di competenze - la conoscenza mercato del lavoro e la capacità di analisi dei contesti organizzativi e culturali aziendali – appare, sulla base delle nostre interviste, come l’elemento di maggiore debolezza professionale di questa figura. La richiesta che proviene infatti da molti di loro è relativa alla conoscenza del mercato del lavoro, del tessuto economico e delle sue dinamiche produttive, sia in termini generali che di situazioni locali, nonché ad aspetti specifici relativi alla sfera sanitaria e a quella psicologica: 74 “Rispetto a quello che riguarda il mercato del lavoro una conoscenza approfondita dell’organizzazione aziendale e rispetto alle aziende capire le esigenze, i loro bisogni anche per calibrare quelle che sono le ricadute sulle persone alla ricerca di lavoro. Rispetto alle persone l’idea di avere sempre progetti nuovi ma anche di affinare gli strumenti che hai, le tecniche rispetto ai colloqui etc. Anche il discorso di rappresentarli, la supervisione, il coordinamento. Maggiore è il bagaglio del mediatore maggiori sono i successi nella presa in carico della persona. Quindi bisogna sempre rafforzare il lavoro di mediatore, una buona formazione anche rispetto alla malattia per poter meglio entrare in contatto con le persone. ” Siamo dunque di fronte ad una figura professionale che dovrebbe essere in grado di possedere due tipi di know-how molto diversi tra loro. La figura del mediatore diviene dunque il punto di congiunzione di due universi; il fulcro sul quale grava la maggiore responsabilità dell’inserimento. In questo senso uno degli aspetti maggiormente critici deriva dalla trasformazione che sta vivendo in questi ultimi anni il sistema dell’inserimento lavorativo dei soggetti svantaggiati. Di fronte ad un’utenza sempre più ampia e sempre meno riconducibile ai canoni tipici della “disabilità” diviene sempre più importante ampliare lo spettro delle conoscenze dei mediatori alle specificità delle altre forme di svantaggio. Se l’ampliamento del target implica un aumento dei numeri dell’utenza, ciò mette il mediatore di fronte alla necessità di combinare la qualità del lavoro di inserimento con la “quantità”, secondo anche le esigenze legate alla auspicabile efficacia ed efficienza di un servizio che è anche prevenzione della disoccupazione e inclusione sociale insieme. Una sfida tutt’altro che facile. 75 In questo senso si può arrivare a sostenere che i campi di forza cui è soggetto il lavoro del mediatore siano tre: da una parte quelli del soggetto svantaggiato e dell’azienda, dall’altra, terza dimensione di questo ambito professionale, quella dei servizi di inserimento. Prendendo in considerazione i background professionali dei mediatori che sono stati intervistati, nonché le loro rappresentazioni del mondo professionale del quale fanno parte, una delle prime questioni segnalatesi alla nostra attenzione è quella dell’esperienza professionale necessaria per svolgere questo ruolo. In questo senso non stupisce che nel corso della ricerca si siano incontrati mediatori provenienti da diversi ambiti professionali: frequentemente dal mondo della formazione, o dalla psicologia, oppure laureati in una disciplina umanistica con esperienze nei servizi di orientamento, o specialisti di counseling oppure educatori e adesso nella mediazione: “Io sono laureata in pedagogia, ho collaborato con il dipartimento di psicologia dell'università di Genova per qualche tempo appena ero laureata, poi ho trovato lavoro come educatrice presso una cooperativa sociale che lavora con i ragazzi diciamo “con dei problemi familiari” e poi sono arrivata alla mediazione. ” “Io non sono laureato ma ho lavorato tanti anni nella formazione. Ero iscritto a scienze politiche ma poi con il lavoro era difficile dare esami, adesso però mi sono iscritto a scienze della formazione. ” “Io lavoro per una cooperativa che ha un rapporto ormai da lungo tempo con un ente di formazione professionale dove lavoravo sui corsi per ragazzi disabili, ragazzi con patologie di tipo border e questo mi ha permesso in parte di iniziare a lavorare soprattutto con le aziende e questa 76 strada mi ha formato a sufficienza per avere qualche competenza in più per poter entrare in un servizio di mediazione. Da una parte devi avere un tipo di formazione sulla persona e dall’altra devi imparare a rapportarti con le aziende di vario calibro. ” Il lavoro del mediatore sembra però essere costruito sulla tensione di ruolo. Le aspettative dei soggetti con i quali i mediatori entrano quotidianamente in contatto, così come il sistema normativo cui sono sottoposti – valoriale (norma sociale) o legale (norma giuridica) – sono spesso conflittuali ed espongono il mediatore ad un costante rischio di stress e di “inadeguatezza”: “In questo lavoro è necessario mettere dei limiti. In alcuni casi il rapporto che si crea con molti utenti è molto forte e il tuo ruolo va oltre il ruolo di mediatore. Lavorare nella mediazione stanca emotivamente, i casi sono sempre tanti e devi tenere tutto sotto controllo. Lavorare con la disabilità o in generale nel sociale ti consuma e ogni tanto hai bisogno di staccare la spina. ” Questo aspetto, che può costituire un elemento di arricchimento e di scambio all’interno di questa professione, tuttavia fa riflettere non tanto, o non solo, sul know-how più necessario al ruolo di mediatore quanto sui molteplici approcci che possono caratterizzare questo lavoro. Si configura dunque un ruolo lavorativo frammentato – o a rischio di frammentazione – e interpretabile. In questo senso, in un momento in cui il sistema, aprendo a nuove fasce di utenza svantaggiata, evolve, rischia dunque di tramutarsi – in carenza di supporti – in un elemento di grande fragilità. 77 Non è dunque sorprendente che, in modo solo apparentemente paradossale, il principale punto di forza del sistema integrato dei servizi descritto dai mediatori coincida con il punto di più grande debolezza. Né che questo punto risieda nell’ampiezza delle aspettative che si consolidano sulla figura del mediatore e che in qualche maniera possano comportare un rischio di sovraccarico di chi è chiamato a ricoprire questa delicata mansione. 78 Stigma e colpa Massimo Cannarella, Michela Davi L’inserimento di persone soggette a misure alternative al carcere Il lavoro di analisi portato avanti nei paragrafi precedenti in merito ai casi di disabilità è impiegato qui come termine di paragone concettuale per ripercorrere le specificità dell’inserimento delle persone soggette a misure alternative al carcere. Come abbiamo visto, il termine soggetto svantaggiato può comprendere al suo interno situazioni di vita molto differenti, situazione accomunate da una condizione deficitaria dovuta a cause eterogenee. All'interno di questo contenitore concettuale rientrano sia le persone disabili che altri soggetti portatori di diverse situazioni di svantaggio, fra cui la tipologia di utenza di cui si parla in questa parte del rapporto. La prima peculiarità da mettere in evidenza riguarda proprio l'eterogeneità target in questione. All'interno del carcere – e conseguentemente tra le persone soggette a misure alternative alla pena detentiva – troviamo persone completamente diverse accomunate solamente dalla devianza – riconosciuta – e dalla sanzione, ovvero dal fatto di avere compiuto delle azioni illegali e di trovarsi in un luogo di detenzione. Le loro storie sono quindi le più diverse. Di conseguenza l'analisi che possiamo compiere partendo dai nostri 79 casi è necessariamente limitata alle loro specifiche storie di vita ma allo può considerarsi quantomeno indicativa di dinamiche sociali più ampie. Se, in generale le variabili che possono influenzare le possibilità di accesso al lavoro e di partecipazione sociale di queste persone sono le stesse di ogni soggetto svantaggiato: lo stato di salute; i fattori personali, soggettivi; l'ambiente, e la sua cultura, in cui sono inseriti, per i soggetti a misure alternative al carcere entra in gioco anche la logica premiale, o punitiva, dell’amministrazione giudiziaria e penale con la quale viene regolato l’accesso alle misure alternative alla carcerazione. Cionondimeno, in ragione dell’impermeabilità di queste logiche alla tematica dell’inclusione sociale descriveremo i casi di Maria e di Rashid ripercorrendo le loro storie partendo dalla loro storia personale, dal loro stato di salute e dagli effetti del carcere sulla loro “capacità di tenuta”. Stato di salute Per quanto la detenzione non abbia riferimenti alla condizione di salute, l'eterogeneità di questa categoria fa sì che anche questo diventi un elemento importante. All'interno di essa possiamo trovare sia persone in condizioni di salute definibili normali, sia persone con gravi problemi, in grado di condizionare il loro inserimento socio – lavorativo. L'operatore che segue uno dei nostri casi, Maria, racconta ad esempio: “Lei è una ex tossicodipendente, ha pure un grave problema fisico a seguito di una caduta dalla moto e si è massacrata una spalla per cui ogni volta che fa un movimento particolare si scompone. La sua condizione 80 fisica quindi è abbastanza precaria. Non ha l’invalidità per cui bisogna iniziare tutto il percorso anche burocratico.” Nel caso di Maria la condizione di ex tossicodipendente ne condizione gravemente le prospettive lavorative e l'incidente di moto le impedisce di poter svolgere mansioni lavorative fisicamente impegnative. “Io l’avevo messa a […] nel settore […] perché viste le sue condizioni fisiche mi sembrava un buon lavoro, un po’ ripetitivo, un po’ alienante però, se non altro, non doveva sollevare pesi etc. ” Nonostante questo grave handicap Maria si impegna molto sul lavoro ed è particolarmente apprezzata da datori di lavoro e colleghi. Rashid è anche lui un ex tossicodipendente. Prima di arrivare all'inserimento lavorativo ha affrontato un percorso riabilitativo in una comunità. Un percorso difficile, che ha rappresentato per lui una sfida. “Ora sono in una struttura per recupero di tossicodipendenti, sono in affidamento da due anni, ho fatto questo programma terapeutico in cui credo molto , come lavora questo programma qua, adesso sto lavorando come fascia debole, ho il contatto con la Provincia […]La borsa è durata tre mesi, poi non è stato possibile rinnovarla perché non c'erano soldi in cassa, e allora mi sono buttato un po’ giù, perché poi dopo questa esperienza, mi ha fatto comunque piacere iniziare a lavorare dopo due anni di programma terapeutico, ero più lucido, ho cercato di portarla avanti, poi, senza lavoro, ho avuto una piccola ricaduta sull'alcool e da lì sono ripartito di nuovo. ” 81 Nelle sue parole vediamo come il suo stato di salute cambia e di come questo può incidere sulle possibilità e sulla percezione del lavoro. In entrambi i casi è evidente quanto la storia pregressa, anche in termini di cambiamenti nello stato di salute, può rappresentare un fattore che in positivo o in negativo influisce sul possibile percorso socio – lavorativo. Ma soprattutto la questione delle condizioni fisiche indirizza la riflessione verso la questione della multiproblematicità e degli strumenti più adatti ad affrontarla. Fattori personali Gli elementi su cui possiamo maggiormente ragionare e che più si sono rivelati importanti nelle nostre interviste sono sicuramente i fattori personali dei soggetti. Esistono fattori personali che non influiscono strettamente sul rapporto con il lavoro ma descrivono il vissuto di una persona e incidono sul modo di relazionarsi con il mondo circostante. Di Maria il vissuto, raccontato dall’operatore è il seguente: “Ha una situazione familiare molto travagliata, vive con il padre e con il marito straniero che non si capisce bene se lo ha sposato per il permesso di soggiorno o altro, non ha figli. […] Ha una percezione di sé sufficientemente dignitosa, gradevole, cioè entra spesso in una dimensione di difesa perché sente che viene fregata e poi un’altra cosa che dà un po’ il senso di questa appartenenza è anche un po’ l’atteggiamento 82 da furbetta ma questo più o meno è l’atteggiamento di tutte le persone che sono state in carcere. ” Le loro peculiarità influiscono in maniera determinante sul percorso di avvicinamento al mondo del lavoro e alla sua eventuale riuscita. Le storie che abbiamo raccolto sono dense di questi elementi. Il primo aspetto che entrambi hanno in comune è il grado di tenuta rispetto al percorso di inserimento lavorativo. L'incontro con il lavoro e il percorso non è un dato scontato per questo genere di utenti. Le parole dei mediatori infatti sottolineano fortemente l'aspetto legato alla tenuta emotiva dei soggetti rispetto all'impegno lavorativo e in particolare alla difficoltà rappresentate dalla fine della pena: questo momento infatti segna il termine di un processo dove il soggetto è seguito ed è inserito in un sistema di protezione sociale e l'ingresso nella società, dove i salvagenti per gli ex carcerati sono scarsi. Ci racconta a questo proposito una mediatrice: “Sul lavoro sono importanti le capacità relazionali, competenze professionali, cioè se le persone hanno una minima esperienza nella ristorazione piuttosto che nell’edilizia (noi abbiamo a che fare con profili molto bassi) cioè se hanno già fatto delle cose e poi la capacità di tenuta, che è poi l’aspetto fondamentale. Quello che accade, spesso, è che finché le persone sono in borsa-lavoro reggono, poi quando questo diventa un lavoro non ce la fanno, principalmente perché arrivati a quel punto non hanno più il mediatore con cui rapportarsi e poi perché non resistono al cambiamento. Passare da una situazione di utente a una situazione di persona che lavoro li mette in difficoltà. Quello è il momento critico. Lavorare rompe degli equilibri, modifica un sistema che, nel loro caso, non è sempre così facile. ” 83 Esiste dunque un problema di autonomia della persona. Un problema che affonda le radici negli effetti della carcerizzazione sull’individuo e sulla sua identità. Ci sono due elementi che influiscono su questa già difficile situazione, ovvero sul modo in cui affrontano le modalità lavorative: le loro peculiarità caratteriali e di vissuto, e le modalità stesse del percorso in cui sono inseriti. In questo paragrafo parleremo del primo di questi due elementi. Chi ha curato gli inserimenti delle persone soggette a pene sostitutive al carcere, afferma che spesso queste hanno una forte volontà e determinazione di sfruttare al meglio quella che considerano una "opportunità di reinserimento". Anche se i problemi ci sono: queste persone possono avere problemi con l'autorità, o con gli impegni connessi ad un posto di lavoro. Una mediatrice ascoltata racconta: “il primo problema che si può creare è rispetto all’autorità, o al sapere accettare le modalità del lavoro: queste persone hanno lavorato sempre poco, e quindi hanno problemi ad adattarsi a orari, tempi, al fatto di avere un capo...sai, rispetto all’autorità...molti di loro chiedono di lavorare da soli, e i lavori più gettonati sono all’aperto, per ovvi motivi ...comunque, se il lavoro che hanno viene percepito come una possibilità vera, poi questi problemi si superano, alcuni di loro sono molto apprezzati sul lavoro” A questo proposito è emblematico lo sviluppo dell'inserimento lavorativo di Maria, che inizialmente ci è stato raccontato come un successo dal mediatore. Negli stessi giorni in cui doveva essere contattata sul luogo di lavoro per l'intervista, diventa una favola non a lieto fine. La descrizione del mediatore è stata: 84 “Tutta questa storia è stata costellata da sorprese. Dopo è stata spostata da questo stabilimento ad un altro dove facevano […]. Questo committente era severissimo, instaurava delle dinamiche molto competitive con le persone. Lei doveva incollare […], un lavoro di assoluta precisione e lei è stata bravissima, era la più veloce, se non c’era lei il lavoro non funzionava ed è stata molto apprezzata, si è sentita molto gratificata. E lì è scattato qualcosa nel senso che lei si è sentita brava, avevano effettivamente bisogno di lei nonostante ci sono state grosse difficoltà a livello economico però ormai era entrata nelle loro grazie e l’hanno assunta prima che finisse la borsa.” Questa è la storia di Maria, ex tossico dipendente, ex carcerata, con una situazione familiare difficile, che all'interno di un percorso di protezione sociale quale la mediazione, riesce ad inserirsi sul posto di lavoro, ad essere stimata da colleghi e responsabili aziendali. È una storia apparentemente di successo, dove i servizi, il soggetto ed il datore di lavoro in perfetta coordinazione sono riusciti nell'obiettivo finale. Ma è solo la prima parte. È una storia di successo a metà o forse è un'emblematica storia di insuccesso. Il racconto vincente di Maria infatti, termina esattamente nel momento in cui i servizi sociali terminano il loro mandato. Alla conclusione del percorso con il mediatore e nonostante la sicurezza del lavoro Maria non riesce a reggere il confronto con la vita e con le responsabilità. Dopo un periodo di ferie estive non si ripresenta al lavoro e si rende irreperibile sia ai capi dell'azienda che al mediatore. Come descrive perfettamente la mediatrice: “gli ex carcerati non hanno la tenuta”. La “favola” di Maria si conclude male ma evidenzia forse il vero problema rappresentato dall'avviamento al lavoro per gli ex carcerati. Dice infatti un mediatore: “cedono esattamente nel momento in cui gli lasci affrontare la vita da soli”. 85 Il rapporto con il lavoro è problematico anche dal punto di vista prettamente materiale: il rapporto con il denaro. Il datore di lavoro di Rashid racconta: “Sì, l'inserimento di Rashid va bene, ma ci ha dato comunque dei problemi, soprattutto negli ultimi tempi. Ha terminato il percorso in comunità, e a questo punto vuole andare a vivere da solo. Forse per questo, si lamenta dei soldi che guadagna, oppure anche dei piccoli ritardi che possiamo avere, nonostante lui conosca bene la situazione. ” Un altro mediatore racconta a questo proposito: “Il problema non è soltanto sulla tenuta psicologica, in molti casi infatti lasciano il lavoro perché guadagnano molto meno rispetto a quanto guadagnavano prima. Nel "loro" mondo infatti il valore dei soldi è ben differente e quello che guadagnano qui in un mese lì lo guadagnavano in una sera. ” Il rapporto con il lavoro sembra farsi sempre più problematico: anche considerandolo come fonte di reddito non sembra generare grosse soddisfazioni o aspettative. Del resto se le aspettative rispetto a questi percorsi sono positive, i motivi sono ben altri. Il lavoro infatti rappresenta in molti casi non soltanto un mezzo di sostegno economico ma si carica anche di significati legati all'essere accettati e riconosciuti dalla società. Una mediatrice racconta: 86 “L’assunzione è relativa. Molto importante è l’aspetto relazionale. Le persone in difficoltà hanno bisogno di essere agganciate sul piano relazionale, sulla sfera emotiva. Il punto di svolta è che da una parte li porta ad una dimensione un po’ regressiva rispetto al rapporto tra una persona adulta e un contesto lavorativo. Noi scegliamo il lavoro sulla base anche del clima e dell’ambiente ma soprattutto in base all’oggetto del lavoro e le persone in difficoltà riescono a vedere poco l’oggetto lavoro. Infatti quando gli chiedi “che lavoro vuoi fare” gli va bene tutto e hanno bisogno di essere in qualche modo agganciati alla dimensione relazionale, il sentirsi accettati, per loro il lavoro è questo, il lavoro per loro è entrare a far parte di un gruppo. Rispetto ad altre categorie che faticano ad entrare nel mondo del lavoro, questi hanno anche il problema dell’impatto sociale, della legalità, quindi per loro lavoro è soprattutto avere un ruolo significativo, essere accettati, essere identificati. Quindi direi che l’aspetto relazionale è quello che comanda. ” Nel caso degli stranieri, come Rashid, il lavoro è un oggetto particolarmente significante e problematico perché connesso al permesso di soggiorno: “Sto cercando di costruire un po’ il futuro, perché manca solo questa parte un po’ lavorativa che un po’ mi preoccupa, sul fatto…diciamo che ho fatto delle cose come terapeutica, però mi spaventa anche il lavorativo, perché poi quella esperienza negativa che ho avuto è collegata anche al lavoro, al fatto di non averlo, e di trovare delle porte chiuse… io ero regolare quando sono arrivato, ma poi il permesso è scaduto e non ho trovato altri lavori in regola, e non potevo avere il permesso di soggiorno. Se non hai un lavoro non puoi avere il permesso, ma senza quello non puoi lavorare in regola. Ho iniziato a trovare sempre delle porte chiuse, ti trovi le porte chiuse, allora mi arrabbiavo, allora da lì ho provato rabbia, confusione, e ho provato a spacciare, per essere indipendente, lo so che 87 non è bello, ma volevo solo dire che c'entra anche il fatto di non avere un lavoro…e di essere irregolare…è un discorso molto profondo, non so se è il caso ora. ” Quanto detto è ampliato dal fatto che, con l'uscita dal carcere, nella grande maggioranza dei casi essi non otterranno il permesso di soggiorno, ovvero uno status di legalità. Il loro atteggiamento nei confronti dell'inserimento può diventare allora di tipo utilitarista contingente: "poi come dicevo prima con le persone straniere è più complicato, perché spesso mi è capitato che non ne capissero il senso, cioè si mi evito il carcere, ma poi alla fine non mi rimane niente, quindi è inutile che mi affatichi, […] gli immigrati sono poi quelli che hanno più problemi, che affrontano la borsa nella maniera più utilitarista: mi serve adesso, per evitare la galera, ma poi…perché il loro problema è il permesso di soggiorno […] allora lì è meglio magari fare più formazione , in modo tale che se dovessero rientrare al loro paese poi possono usufruirne, spesso mi dicono io ti ringrazio per questa opportunità che mi dai ma poi non mi serve a niente…" Le vere motivazioni al lavoro, l'influenza della legislazione sulla vita dei migranti, la pressione che il raggiungimento di un certo stile di vita e di consumi esercita sull'utente, ci portano a ragionare su quanto le dinamiche sociali influiscono sulle possibilità di inserimento socio – lavorativo di questi soggetti. 88 Ambiente e cultura Sui soggetti a misure alternative al carcere l'ambiente influisce a partire dal forte pregiudizio che spesso inficia le possibilità di accesso al lavoro, in generale, ma anche le possibilità per i mediatori di trovare delle aziende disponibili all'accoglienza. “ [Nella ricerca delle aziende] Ci siamo rivolti anche al mondo lavorativo in generale, però abbiamo riscontrato dei grossi problemi, perché è una fascia di utenza difficile da inserire, ci sono molti pregiudizi. È difficile dove non hai nessuno collegamento, dove non hai alcuna rete d'ufficio o personale che ti inoltra, da zero è davvero molto difficile …è difficile far cadere il pregiudizio”. “le aziende dove inseriamo sono praticamente solo cooperative. Quelle di tipo B. in genere sono realtà che conosco già bene personalmente. Ci si può anche provare con le aziende…io mi appoggio alle mie conoscenze…ma con le aziende è molto difficile…insomma, praticamente sono solo le cooperative.” Il pregiudizio in questo caso ha un ruolo molto forte. Se con i soggetti disabili ci si trovava di fronte ad una barriera superabile con un lavoro di mediazione sostanzialmente afferente al rischio di calo della produttività e al potenziale “disordine” generato dall’inserimento, con le persone soggette a misure alternative al carcere a tutto questo si associa la paura – e lo stereotipo – della pericolosità. Lo stigma si somma alla colpa. In questo senso le difficoltà sono talmente elevate da essere difficilmente superabili con il solo lavoro del singolo operatore della mediazione. Lo sforzo all’inserimento di questo particolare tipo di soggetti svantaggiati non può essere lasciato esclusivamente agli 89 operatori posti “sulla linea del fronte” ma richiede un investimento pubblico più elevato, sia come risorse sia come livello dell’impegno. I servizi che strutturano il percorso di inserimento Il percorso tipo di una persona detenuta che viene diretta ad un inserimento parte da dentro il carcere attraverso una selezione degli assistenti sociali che vi lavorano. Secondo quando dettoci da una mediatrice, per poter accedere ad una pena sostituiva il detenuto deve avere all'esterno un'azienda che lo richieda. Senza un servizio all'esterno tutto questo diventa logicamente difficile, l'importanza di questi percorsi si rivela così strategica non solamente in quanto possibilità di reinserimento, ma anche in quanto possibilità di accesso all'istituto di pena sostitutiva stessa, cioè alla fuoriuscita dal carcere. Dopo la scelta degli assistenti sociali il soggetto viene preso in carico dall'orientatore, che ne disegna un ipotetico progetto e lo mette nelle mani del mediatore incaricato di attuarlo. I criteri di selezione delle persone che possono partecipare al percorso di inserimento, da parte delle strutture dedicate del mondo carcerario, sembrano essere di tipo estremamente pragmatico: viene selezionato chi possiede già delle competenze, più o meno coltivate: “Abbiamo solo una scheda che abbiamo più volte rivisto perché i passaggi sono tanti: c’è l’assistente sociale, l’orientatore, ci siamo noi mediatori e adesso c’entra anche il carcere quindi ci sono linguaggi diversi, esigenze diverse, non è facile avere le informazioni utili, magari ne hai tantissime ma spesso non hai quelle che ti servono. Non abbiamo strumenti standardizzati. La scheda di rilevazione è abbastanza complessa, abbastanza elaborata. La persona ci viene segnalata, l’orientatore fa la 90 verifica, noi contattiamo questa persona, le diamo un appuntamento, facciamo uno o due colloqui e nel frattempo cerchiamo l’azienda adatta. Il problema è che con le persone che abbiamo avuto fino ad ora e col tipo di borse che abbiamo fatto, spesso le aziende erano le cooperative di fascia B perché ti davano la possibilità di conoscere la persona e che capivano questi soggetti e il loro tipo di esigenze. Adesso facciamo un tipo di lavoro diverso, più sistematico, cioè cerchiamo di contattare delle associazioni di varie categorie, tipo cooperative edili, la grande distribuzione, la ristorazione, il porto, le cooperative sociali. Quindi incontriamo gruppi di aziende, presentiamo il progetto della Provincia che rappresenta dei vantaggi per i datori di lavoro e in seconda battuta presentiamo i casi. Le aziende devono essere disponibili, dopo il periodo di prova, ad assumere almeno che la prova vada male. ” Come vediamo nelle parole della nostra intervistata, il percorso tende ad essere breve e rigido, esattamente all'opposto del percorso analizzato per gli utenti disabili. Le motivazioni di questo vanno ricercate in due elementi di fondo: lo scarso investimento di risorse da parte del sistema pubblico e la condizione che il progetto di sostegno termina con la fine della pena del soggetto. La scarsità di risorse rende addirittura instabile il percorso durante il suo svolgimento. Come abbiamo visto, Rashid ci ha raccontato di avere avuto una caduta di motivazione proprio nel momento in cui la borsa si è interrotta per mancanza di risorse mentre il suo progetto di pena alternativa era ancora in corso. Rispetto a quanto avviene per l’inserimento dei disabili, la mancanza di risorse da una parte e la minore esperienza/casistica dall’altra contribuiscono dunque a strutturare un’impressione di minore consolidamento del servizio e delle pratiche. La mancanza della legislazione quadro rende difficile il lavoro in sé, non esistendo né delle risorse dedicate alle imprese che accolgono questi soggetti, né l'obbligo di assunzione 91 Il problema della mancanza dell'obbligo sembra confermato anche dal fatto che le uniche aziende che li accolgono sono cooperative sociali di tipo B, cioè un tipo di soggetto economico nato proprio per includere soggetti portatori di vari tipi di svantaggio. “Il contesto è questo: intanto le cooperative di fascia B senza le borse chiudono perché hanno alcuni settori che si basano su commesse talmente estemporanee che non possono assumere gente, quindi hanno bisogno di borse. ” La mancanza di fondi, la scarsa strutturazione del sistema, possono in qualche maniera influire sulla autorevolezza del mediatore stesso, come rappresentante di istituzioni legittimanti. Un nostro intervistato, nel descrivere il passaggio di fondi a disposizione da un progetto europeo Equal ad un progetto della Regione Liguria, si augura anche che avere alle spalle la Regione e la Provincia possa rendere la sua figura più autorevole e legittimata, per poter meglio agire sulle e con le imprese. Il passaggio al secondo progetto viene poi vissuto positivamente in quanto aumenta maggiormente la messa a sistema con le equipe ed i servizi già approntati e sperimentati dalla Provincia nell'ambito della disabilità. Il fatto che l'azione sociale termina al momento del fine pena crea un problema importantissimo per l'utente. Nelle parole di due mediatrici: “Dove ci sono degli inserimenti vanno in genere sempre abbastanza bene, a livello di ambiente, io ho sempre avuto dei riscontri positivi, c'è da considerare che comunque erano cooperative che avevano molta 92 coscienza dell'utenza che si andavano a inserire, per cui in realtà sono state tutte esperienze positive. I problemi ci sono quando la persona non regge il lavoro, a livello di azienda no. Il loro problema fondamentale, dipende dalla loro problematicità. Spesso accade che non riescono a seguire le regole il ritmo, poi spesso si demotivano, soprattutto verso la fine, quando la prospettiva è la fine della borsa. […] Anche in quei casi in cui poi c'è stato l'inserimento lavorativo ho sempre notato verso la fine un momento di sbandamento, anche nei casi in cui sanno già che ci sarà l'assunzione.” “Noi abbiamo a che fare con persone che hanno fatto un’esperienza di reclusione. Se tu hai il bollino di ex detenuto questo non comporta una facilitazione. In realtà quelli che finiscono la pena sono disperati, il sistema penale è il vero servizio sociale, le persone non chiedono giorni di liberazione anticipata perché quando escono dal carcere sono niente. Lo stato di detenzione di per sé non comporta uno svantaggio accreditato. Dopo 6 mesi uno non è più considerato un soggetto svantaggiato. ” Al termine della pena, queste persone tornano a raffrontarsi con il mondo, e con il mondo del lavoro, senza alcun sostegno, a meno che non riescano a trovarne tramite condizioni che esulano dal loro essere ex carcerati. Anche in questo caso si tratta probabilmente di dover iniziare nuovamente un percorso all'interno di altre strutture, con il necessario iter di colloqui informativi, orientativi, di conoscenza di nuovi referenti o di esplorazione e ricerca di nuove possibilità, che possono essere lunghe e non fruttifere. A tutto questo si aggiunge la fine del periodo detentivo, la fuoriuscita dal carcere, da un ambiente costrittivo, deprivante ma anche contenitivo e "protettivo". Si tratta insomma dell'attraversamento di una soglia, dal conosciuto all'inconoscibile, da una condizione di vita di rigida eterodirezione alla necessità di adattarsi ad una vita “senza 93 istruzioni per l’uso”. Un passaggio che può essere foriero di possibilità, ma che è troppo spesso affrontato senza alcun supporto. Per i soggetti migranti sia il percorso che il fine pena hanno valenza tendenzialmente diversa dai soggetti italiani, in quanto per loro diventa ancora più difficile riuscire ad ottenere un permesso di soggiorno all'uscita dal carcere: "E poi per gli utenti extracomunitari la cosa è ancora peggiore, nella maggior parte dei casi quando finisce la pena non riottengono il permesso di soggiorno, è difficile per tutti: finisce la pena e non hai più aiuti, paletti" Un atteggiamento di questa tipologia di soggetti che può forse essere anche indicatore di atteggiamenti simili tenuti dai carcerati italiani, che anche se non hanno problematiche di soggiorno e cittadinanza si trovano alla fine anche loro, come i carcerati immigrati, a varcare la soglia. Rashid, nonostante il fatto di essere un migrante con tutte le relative problematiche che abbiamo descritto, ha aspettative molto forti dal percorso all'interno del quale è ancora inserito: [ …] Ora sto lavorando con una cooperativa, e nel frattempo mi piacerebbe fare un corso, perché ho scoperto che mi piacerebbe cucinare […]. Perché comunque il programma [di riabilitazione] è un bel programma, ti fanno lavorare anche un po’ sulla responsabilità personale, e poi anche cose pratiche e lì mi ci sono messo, ho messo la mia parte, sicuramente anche per imparare a fare qualcosa. Il primo mese quando sono entrato non davo il giusto senso alle cose terapeutiche che facevano perché ci vuole qualche mese per capire il 94 mondo della comunità come funziona. Ho avuto molte difficoltà, perché sono una persona chiusa, difficilmente mi metto a parlare di me, della mia esperienza. Poi dopo tre mesi ho iniziato a capire a cosa serviva e da lì ci ho messo il cuore…all'inizio era solo non stare in prigione, dopo tre mesi ho iniziato a crederci. […] È stato molto difficile smettere, sono stati due anni difficili, è difficile anche adesso, è una battaglia continua. Anche se la mia borsa è finita, spero di poter continuare a lavorare, di trovare un lavoro, di fare un corso. È tutto difficile, la mia borsa è finita, poi la […] mi ha assunto ancora fino a fine agosto, dopo vorrei lavorare e fare quel corso di panificazione, e con un lavoro trovare una casa. Un lavoro, una casa, dei soldi per vivere: vorrei una vita normale insomma. E' sempre difficile avere il permesso di soggiorno, ma io mi sto iscrivendo al centro per l'impiego…e poi c'è il corso…sono ancora in contatto con [la mediatrice]…dovrei riuscire a prenderlo…" Rashid ha attraversato un percorso di reinserimento più ampio, non solamente legato alla condizione lavorativa. Nel suo caso infatti l'accesso alla pena sostituiva è stato consentito previa la sua partecipazione ad un soggiorno riabilitativo in una comunità di recupero per tossicodipendenti. Entrato in comunità con un atteggiamento utilitaristico, legato solamente all'evitarsi il carcere, "scopre" a partire da lì che può e vuole "uscire fuori" dalla sua situazione di dipendenza e "tornare a vivere una vita normale". Questa molla gli farà vivere il suo inserimento lavorativo in termini più intensi, con la forte speranza di poter continuare a lavorare nella stessa struttura al momento della fine del percorso. Il suo problema si caratterizza adesso in termini lavorativi, perché solamente attraverso l'accesso ad un lavoro si alzano per lui le possibilità di avere un permesso di soggiorno. Questo percorso potrebbe aiutare a riflettere su quanto sia importante per queste persone unire il percorso lavorativo ad un percorso, o meglio ad una motivazione precedente, di reinserimento in una progettualità legale, in cui anche la possibilità di apprendere, o 95 addirittura di svolgere, un lavoro, una professionalità, acquisisce un'importanza non fine a se stessa ma strumentale al raggiungimento del fine più ampio. All'interno del contesto dei servizi così descritto il mediatore ha una posizione simile a quella del mediatore dei servizi ai disabili. La sua funzione risulta però depauperata dalle carenze descritte: il percorso, nonostante la possibilità esista, non è rimodulabile completamente poiché la sua durata è predeterminata per legge. A dimostrazione dell'impegno dei mediatori nonostante questo ostacolo abbiamo il percorso di Maria stessa, che viene reindirizzata da un primo inserimento forse poco adatto al secondo dove viene assunta: “All’inizio non avevamo scommesso nulla su di lei. Io l’avevo messa a […] nel settore assemblaggio perché viste le sue condizioni fisiche mi sembravo un buon lavoro, un po’ ripetitivo, un po’ alienante però,se non altro, non doveva sollevare pesi etc. Sono andata a fare un monitoraggio e sono rimasta sconvolta perché c’era questo capannone enorme con queste persone dentro che sembravano formiche e che facevano dei lavori da psichiatrico e la cosa terribile erano i loro armadietti dove si cambiavano foderati di foto di donne nude e di squadre di calcio. Lei era l’unica donna. E quando ho visto questa realtà ho pensato di toglierla. In seguito la incontro e ho fatto un colloquio con lei per capire come vivesse questa situazione, che a me era sembrata intollerabile, mentre invece lei si trovava molto bene, era molto contenta. Tutta questa storia è stata costellata da sorprese. Dopo è stata spostata da questo stabilimento ad un altro dove facevano cataloghi filatelici. ” L’impressione che scaturisce da un’analisi complessiva delle impressioni avute nei colloqui dagli intervistatori, è però che le limitazioni imposte dalla situazione rendano i mediatori che si occupano dei soggetti a misure alternative al carcere in qualche maniera più disincantati dei loro colleghi che si dedicano mediazione mirata per la disabilità. 96 Riflessioni conclusive Enrico Fravega Nel processo di inserimento lavorativo una fase di particolare rilevanza è rappresentata dal difficile rapporto tra il soggetto svantaggiato e il limite del quale è portatore. Accettare la propria disabilità o i propri errori – a seconda se si tratta di disabili o di persone soggette a misure alternative al carcere – e cercare di superarli rappresenta una fase tanto importante quanto critica non soltanto del processo di inserimento ma dell’intera maturazione della persona. D’altra parte l’esperienza della ricerca ha consentito di definire il limite non già come fatto oggettivo (tangibile e indiscutibile) ma come un costrutto derivante dall’incontro/scontro di elementi “materiali” e “sociali”. Lo svantaggio è dunque la risultante di un processo di costruzione sociale nel quale entrano in gioco fattori eminentemente culturali. Nel testo del rapporto si è spesso fatto ricorso alla metafora del frame un concetto diffuso in sociologia da Erving Goffman che rimanda all’importanza degli schemi interpretativi – e della loro condivisione – per inquadrare le esperienze che si stanno vivendo. La rilevanza di questo concetto si fonda su due elementi: la capacità di connettere gli elementi culturali con l’interazione sociale da una parte e la “molteplicità del keying” dall’altra, ovvero il fatto che la stessa situazione può essere “interpretata” secondo differenti prospettive di analisi. In questo senso nel processo di inserimento lavorativo dei soggetti svantaggiati le attività di framing e di keying appaiono molteplici, ricorsive e mutevoli. Nel campo che è stato studiato entrano infatti in gioco gli stereotipi e le rappresentazioni della propria condizione del 97 soggetto svantaggiato e le sue visioni del lavoro e del ruolo che, a livello più generale, può giocare nella società ma anche le rappresentazioni sociali dello svantaggio e del lavoro dell’operatore e i valori e le culture diffuse sui luoghi di lavoro, ecc. Il lavoro svolto dagli operatori si configura dunque come un’attività di vera e propria mediazione culturale. Un lavoro soggetto però ad un continuo rimodellarsi. In una prospettiva analitica “storica” si può notare poi come il lavoro degli operatori sia mutato in relazione al succedersi dei cambiamenti del paradigma produttivo, che si sposta con sempre maggiore decisione in direzione dell’immateriale e del relazionale e del piccolo, ma anche all’accumularsi – e al consolidarsi delle esperienze fin ad oggi maturate, in particolare nel campo dell’inserimento lavorativo dei disabili. Fare inserimenti lavorativi oggi è dunque cosa profondamente diversa dall’aver svolto la medesima attività, ad esempio, negli anni Ottanta. Da qui le due questioni principali alle quali questo rapporto ha inteso rispondere. La prima riporta l’attenzione sul concetto di limite ricentrando la prospettiva sul sistema dei servizi provinciali; a partire dalle esperienze di eccellenza che il sistema dei servizi per l’inserimento dei disabili è riuscito a generare, come riuscire a migliorare ancora? Come rilanciare l’inserimento di soggetti svantaggiati nel momento in cui la stragrande maggioranza delle imprese è al di sotto della soglia minima dell’obbligo di assunzione? Su quali basi cercare un accordo che consenta lo sviluppo di strategie, autentiche, di responsabilità sociale che leghino territori e imprese? La seconda questione rimanda invece al rapporto intercorrente tra le esperienze relative agli inserimenti lavorativi di persone disabili e gli inserimenti di persone con altri tipi di svantaggio. Se è vero che l’esperienza italiana – e in particolare genovese – nell’inserimento lavorativo di disabili può ancora essere considerata un’esperienza di grande rilievo, è vero anche che se (in accordo con il Regolamento CEE 2204/2002) si ampliano le categorie dell’inserimento lavorativo “tutelato” occorre capire cosa dell’esperienza maturata nel 98 campo della disabilità possa essere tradotto, riconvertito – o adeguato – ad altri tipi di target. Per rispondere alla prima questione occorre ricollocare alcuni degli elementi dei quali si è dato conto nel rapporto all’interno di un’ottica sistemica. Il problema dell’informazione è strettamente correlato con quello dell’accesso ai servizi. Prendendo in considerazione la disabilità i casi studiati hanno messo in evidenza le grandi differenze intercorrenti tra l’essere e il diventare disabile. Una differenza che non attiene la sola sfera della formazione identitaria ma comporta anche diversi percorsi di accesso ai servizi. L’essere disabili dalla nascita comporta una transizione più facile, o fluida, dal sistema sanitario, e/o scolastico, a quello dei servizi del collocamento mirato nel quadro di una relazione che evolve e in qualche modo prevede una sorta di continuità del lavoro di sostegno della persona. Viceversa il diventare disabile, soprattutto quando ciò avviene in età adulta, comporta un complicato processo di riconversione del proprio capitale sociale. Le persone che divengono disabili a seguito di incidenti o malattie invalidanti affrontano un periodo, di durata variabile, nel corso del quale – oltre a dover gestire le conseguenze derivanti dalla nuova “problematica” – debbono individuare le risorse di cui possono fruire. L’esistenza del collocamento mirato e dei servizi che può erogare e delle condizioni di accesso a tali servizi sono tutt’altro che scontate. Da qui discende la necessità di rendere i servizi dedicati ai disabili – e ai soggetti svantaggiati in genere – più visibili e, conseguentemente, più accessibili. La questione dell’accesso non può tuttavia essere ridotta alla sola dimensione informativa, che pure ne rappresenta un aspetto di primaria importanza. L’indeterminatezza e la tortuosità dei percorsi che chi diviene disabile compie alla ricerca di risposte e di sostegno ricorda le rotte che di fatto seguono i naufraghi in balìa delle correnti. Correnti che nella realtà assumono forma di voci, rizomi, passaparola e casualità. 99 Da questo punto di vista non si tratta solo di aumentare la quantità di informazione o, per meglio dire, di aumentare l’informazione sui servizi, quanto quella di aumentarne la qualità. In questo senso occorrerebbe che il processo informativo non si limitasse a statuire l’esistenza di uno sportello o di un servizio ma consentisse una chiara definizione dei diritti e dei doveri della persona e del servizio. Ma anche delle aziende che potrebbero ospitare gli inserimenti. Occorre in altre parole, ridurre i margini di ambiguità e “l’effetto caleidoscopio” che si genera nel ricorrere alle sole risorse relazionali per individuare le risposte di cui si ha bisogno e concorrere alla chiarificazione e alla stabilizzazione delle aspettative di tutti i soggetti che entrano in gioco nel processo di inserimento dei soggetti svantaggiati. Il processo di inserimento evidenzia un aspetto critico nel ruolo del mediatore. Come un Giano bifronte a rischio di schizofrenia l’operatore della mediazione si trova a doversi occupare della persona – con un ruolo caratterizzato da accenti pedagogici e assistenziali – e dell’azienda – con un ruolo oscillante tra la logica del “venditore” di inserimenti e quello del consulente organizzativo. Da qua scaturisce la delicatezza di questo ruolo; da qua scaturiscono anche le sue debolezze e le sue criticità. In questo senso, il lavoro del mediatore – come si è avuto modo di spiegare diffusamente nel rapporto – risente fortemente della dicotomizzazione persona-azienda e i saperi che ne caratterizzano l’azione, lungi dall’essere un corpus integrato, appaiono quasi sempre come troppo vasti perché un singolo operatore possa ragionevolmente esprimere lo stesso livello di competenza su ognuno di essi. In questa difficoltà, cognitiva e culturale, risiedono le molteplici richieste di rinforzo (o sostegno professionale) che riguardano principalmente, anche se non esclusivamente, l’area dell’organizzazione aziendale e quella del mercato del lavoro. Gli operatori della mediazione di fatto lavorano in rete anche con altri servizi, o sportelli - il servizio sanitario, i servizi sociali, l’amministrazione giudiziaria , ecc. – sperimentando quotidianamente la necessità e la difficoltà di questo approccio. Allo stesso tempo però contribuiscono al consolidamento di prassi di tesaurizzazione dell’informazione – circa le aziende disponibili agli inserimenti – che 100 rendono il sistema opaco e frammentato al suo interno. Non stupisce dunque che l’efficacia del servizio dipenda maggiormente dal capitale sociale dell’operatore che dalla forza delle strutture. Nell’ottica di uno sviluppo delle politiche di responsabilità sociale dell’impresa e dei territori appare necessario promuovere lo sviluppo e l’utilizzo di strumenti di condivisione e “pubblicizzazione” dell’informazione. Strumenti finalizzati al potenziamento della capacità del sistema di individuare gli ambienti favorevoli all’inserimento, gli ambienti problematici e di dare altresì un nome alle aziende che compongono l’area dell’irriducibilità. Il lavoro in rete non può essere tuttavia limitato al solo aspetto informativo. Qui infatti origina molta parte della difficoltà del lavoro di mediazione. Se è vero che vi sono alcuni casi di collaborazione interistituzionale di successo è vero anche che le pratiche di lavoro quotidiane degli operatori cercano infatti di far parlare/collaborare insieme enti, istituzioni, organizzazioni no profit – e enti privati – dal basso. Attraverso uno sforzo molto importante ma poco capace di cambiare prassi e politiche. La condizione di multiproblematicità sempre più diffusa, intercettata nel nostro studio attraverso i due casi relativi ai soggetti a misure alternative al carcere - uno in cui il soggetto presentava anche problematiche di natura fisica e uno con lo status di immigrato – pone, ancora più fortemente, alle istituzioni la questione del coordinamento delle azioni. Occorre dunque rilanciare il concetto di “lavoro in rete” integrando, come tessere di un mosaico, attorno ai soggetti svantaggiati, i diversi pezzi di welfare ai quali possono avere accesso. Solo così è possibile ricostruire le loro alternative di scelta tra una serie di vite possibili, ovvero quello che l’economista indiano Amartya Sen definisce capabilities. Un ulteriore aspetto di grande importanza, anche nell’ottica del lavoro in rete, è il rapporto con la galassia delle imprese private. E’ infatti importante ricordare che la stragrande degli inserimenti avviene in aziende in obbligo e che le aziende in obbligo sono sempre meno. Ciò è dovuto da una parte alla riduzione delle dimensioni delle imprese, dall’altro alla possibilità di eludere l’obbligo di inserimento attraverso il pagamento delle sanzioni previste dalla normativa. In questi due aspetti, unitamente alle peculiarità della trasformazione del 101 modello produttivo sopra accennate, troviamo gli elementi di crisi di un sistema per l’inserimento dei disabili nato ai tempi della “fabbrica fordista”. Ma la grande fabbrica non esiste più e con essa è scomparso il mito della produttività su larga scala. Ovvero quello di una produzione massificata capace di generare economie di scala talmente grandi da permettere la sopravvivenza all’interno dell’apparato produttivo di isole a bassa, o minore, produttività. Si dissolve così la possibilità di garantire inserimenti protetti “pro-quota”, ovvero uno ogni n dipendenti. La diffusione delle imprese di piccole dimensioni e delle imprese che vendono servizi, il diffondersi della cosiddetta economia dell’informazione e del lavoro relazionale mutano i contenuti e i contesti. I contenuti perché i processi sopra descritti implicano la sempre maggiore rilevanza dei saper essere sui saperi e sui saper fare. I contesti perché nel processo di riduzione dimensionale si cela anche un processo di sfocatura e di frammentazione dei ruoli e delle figure professionali. Se l’organizzazione fordista del lavoro si basava su una rigida individuazione e separazione delle mansioni, nell’assetto organizzativo che ne ha preso il posto i ruoli sono solo “canovacci” e le mansioni variano continuativamente. In questo contesto è chiaro che l’inserimento di soggetti svantaggiati è particolarmente difficile e che questa difficoltà non può essere lasciata alla sola volontà/capacità dell’operatore. Se dunque si intende non limitare l’inserimento dei soggetti svantaggiati alle poche – e sempre meno numerose – aziende di grandi dimensioni che ancora esistono bisogna individuare le strategie attraverso le quali coinvolgere le imprese che dal punto di vista del personale si collocano al di sotto della soglia dell’obbligo. E qui si ritorna alla valenza culturale del lavoro di inserimento. A partire da quanto appreso attraverso uno dei casi studiati – l’unico di inserimento in aziende non in obbligo – si dimostra che la barriera all’inserimento di soggetti svantaggiati in azienda può essere abbattuta attraverso la “socializzazione”, ovvero attraverso la possibilità di sperimentare, senza il timore di vincoli indissolubili, che l’inserimento non solo non comporterà enormi squilibri all’apparato produttivo, ma potrà “perfino” essere utile. La diffusione dello strumento del tirocinio avrebbe dunque una duplice valenza; da una parte generare 102 nuove esperienze di inserimento, o prova, per i soggetti svantaggiati, e dall’altra contribuirebbe ad un cambiamento culturale nel mondo delle aziende. Soprattutto di quelle più piccole. Ma la questione del rapporto con le aziende si presta ad un’ulteriore riflessione. Se è vero che una caratteristica del tessuto produttivo del terziario post-fordista è il suo essere molecolare è anche vero che considerato nel suo complesso questo ambito produttivo ha una elevata capacità di assorbimento di manodopera. Ciò che dunque sembra sparire se consideriamo le singola aziende – o unità produttive – attraverso un’operazione di aggregazione ricompare. E’ da qui dunque che occorre partire per ripensare le politiche, le forme e le modalità dell’inserimento lavorativo di fasce deboli. Per facilitare l’inserimento dei soggetti svantaggiati occorre dunque stimolare l’organizzazione dei soggetti economici di più piccole dimensioni, su basi territoriali o categoriali. Ed includere questi soggetti – generatori di spazi di inserimento – nel lavoro di rete teso alla ricomposizione di welfare e possibilità di scelta attorno ai soggetti svantaggiati. La seconda delle questioni alle quali questa ricerca intendeva rispondere riguardava l’individuazione degli elementi dell’esperienza dell’inserimento lavorativo dei disabili mutuabili negli inserimenti di altri tipi di soggetti svantaggiati, ed in particolare a quelli dei soggetti a misure alternative al carcere. Da questo punto di vista le divergenze tra i due tipi di inserimento sono notevoli. La prima e, solo apparentemente, più banale di queste divergenze è inerente al diverso grado di consolidamento. L’esperienza pluridecennale dell’inserimento dei disabili è, in questo senso, non è nemmeno comparabile con quella dell’inserimento di soggetti a misure alternative al carcere. Da quanto si è avuto modo di capire, infatti, gli inserimenti di persone soggette a misure alternative alla pena detentiva sono legati a progetti episodici e con scarsa copertura finanziaria e sono, pertanto, scarsamente in grado di incidere sulla progettualità a lungo 103 termine delle persone, ovvero sulla capacità di elaborare strategie. D’altra parte, a rendere più complesso il quadro, occorre anche ricordare che in questi progetti l’inserimento – o reinserimento – della persona nel mondo lavoro e nella società non né un diritto, né una possibilità offerta a tutti ma è un percorso sussunto all’interno della logica premiale, o punitiva, con la quale l’amministrazione carceraria e/o l’amministrazione giudiziaria valutano il caso. Le specificità del target carcerario implicano però un ulteriore riflessione. Mentre i disabili trovano nel lavoro uno spazio ove è possibile costruire senso e autonomia non bisogna dimenticare che i soggetti a misure alternative al carcere provengono da una istituzione totale – come Erving Goffman ha definito quei sistemi chiusi, soggetti ad un potere inglobante, in cui vi sia impedimento allo scambio sociale e all'uscita verso il mondo esterno (orfanotrofi, ospedali psichiatrici, caserme, monasteri e, per l’appunto prigioni, penitenziari o campi di detenzione). In questo senso il significato del processo di istituzionalizzazione non è riducibile alla sola privazione della libertà ma comporta una perdita dell’autonomia capace di generare conseguenze profonde sull’individuo. Apatia, passività, dipendenza e difficoltà a sopravvivere al di fuori dell’istituzione sono alcuni degli esiti di questa condizione. In altre parole i soggetti che sperimentano le misure detentive sono oggetto di un processo di risocializzazione che, date le modalità con cui avviene, è destinato a lasciare profonde conseguenze sulla struttura identitaria. Su queste basi si può rilevare l’importanza che dovrebbe avere un altro percorso di risocializzazione: quello che prende corpo nel processo di inserimento lavorativo. Un percorso che richiederebbe quei caratteri di indeterminatezza (della durata) e reversibilità del processo che informano l’inserimento lavorativo delle persone con disabilità. Un lavoro complesso in quanto non configurabile né come mero inverso del percorso maturato in carcere, né come operazione mirata alla (ri)emersione della persona per come era prima della detenzione. 104 Paradossalmente dunque ciò che andrebbe mutuato dal sistema di inserimento lavorativo dei disabili è la sua storia. Una storia fatta di investimenti: di risorse umane, di saperi, finanziari e simbolici. 105