Resp. sociale assunzione soggetti svantaggiati

Transcript

Resp. sociale assunzione soggetti svantaggiati
Provincia di Genova
OSSERVATORIO DEL MERCATO DEL LAVORO
La responsabilità sociale delle
aziende nell'assunzione di soggetti
svantaggiati
A cura di:
Enrico Fravega e Carla Bonatti
La responsabilità sociale delle aziende nell'assunzione di soggetti svantaggiati
Rapporto di ricerca
Il presente rapporto ricerca costituisce una restituzione di un lavoro di indagine svolto da Job Centre s.c.r.l., per
conto della Provincia di Genova, nell’ambito delle attività di ricerca e analisi a supporto dell’Osservatorio sul
Mercato del Lavoro.
Equipe di ricerca:
Claudio Oliva, Enrico Fravega, Carla Bonatti, Massimo Cannarella, Michela Davi
Ringraziamenti:
Grazie ad Andrea, Antonia, Beatrice, Bruno, Enzo, Francesca, Maria e Rashid perché questa non è stata una
ricerca su di loro ma con loro. Grazie a i loro colleghi e datori di lavoro. Grazie agli operatori della mediazione
che si sono resi disponibili aiutandoci a entrare e, forse, a comprendere un po’ del loro mondo.
Grazie anche ad Andrea Sanguineti che ha supportato l’intero processo di ricerca.
L’ambito territoriale di riferimento è la Provincia di Genova.
L’ambito temporale di riferimento è l’anno 2006.
© Job Centre s.c.r.l./Provincia di Genova.
.
Indice
Introduzione
Pag.
1
I casi di studio
Pag.
7
Disabilità e stigma
Disabilità e processo di costruzione sociale
Essere o diventare disabili: che cosa comporta la disabilità
Riconoscere e superare i limiti della disabilità: l’esperienza del lavoro
Lavoro e ridefinizione del sé
Quali aziende?
L’azienda e gli atteggiamenti nei confronti dei disabili
Il sistema produttivo contemporaneo
I servizi
Il percorso mutevole
Il ruolo del mediatore
Pag.
Pag.
Pag.
Pag.
Pag.
Pag.
Pag.
Pag.
Pag.
Pag.
Pag.
16
16
22
27
30
33
39
45
47
67
70
Stigma e colpa
L’inserimento di persone soggette a misure alternative al carcere
Stato di salute
Fattori personali
Ambiente e cultura
I servizi che strutturano il percorso di inserimento
Pag.
Pag.
Pag.
Pag.
Pag.
Pag.
79
79
80
82
89
90
Riflessioni conclusive
Pag.
97
Introduzione
Questa ricerca intende fornire un’istantanea del funzionamento dei servizi della Provincia
di Genova deputati all'inserimento lavorativo dei soggetti svantaggiati.
In base al Regolamento CEE 2204/2002, art. 2 comma f, si definisce lavoratore
svantaggiato, “qualsiasi persona appartenente ad una categoria che abbia difficoltà ad
entrare, senza assistenza, nel mercato del lavoro, vale a dire qualsiasi persona che soddisfi
almeno uno dei criteri seguenti:
i.
qualsiasi giovane che abbia meno di 25 anni o che abbia completato la formazione a
tempo pieno da non più di due anni e che non abbia ancora ottenuto il primo
impiego retribuito regolarmente;
ii.
qualsiasi lavoratore migrante che si sposti o si sia spostato all'interno della
Comunità o divenga residente nella Comunità per assumervi un lavoro;
iii.
qualsiasi persona appartenente ad una minoranza etnica di uno Stato membro che
debba migliorare le sue conoscenze linguistiche, la sua formazione professionale o
la sua esperienza lavorativa per incrementare le possibilità di ottenere
un'occupazione stabile;
iv.
qualsiasi persona che desideri intraprendere o riprendere un'attività lavorativa e che
non abbia lavorato, né seguito corsi di formazione, per almeno due anni, in
1
particolare qualsiasi persona che abbia lasciato il lavoro per la difficoltà di conciliare
vita lavorativa e vita familiare;
v.
qualsiasi persona adulta che viva sola con uno o più figli a carico;
vi.
qualsiasi persona priva di un titolo di studio di livello secondario superiore o
equivalente, priva di un posto di lavoro o in procinto di perderlo;
vii.
qualsiasi persona di più di 50 anni priva di un posto di lavoro o in procinto di
perderlo;
viii.
qualsiasi disoccupato di lungo periodo, ossia una persona senza lavoro per 12 dei
16 mesi precedenti, o per 6 degli 8 mesi precedenti nel caso di persone di meno di
25 anni;
ix.
qualsiasi persona riconosciuta come affetta, al momento o in passato, da una
dipendenza ai sensi della legislazione nazionale;
x.
qualsiasi persona che non abbia ottenuto il primo impiego retribuito regolarmente
da quando è stata sottoposta a una pena detentiva o a un'altra sanzione penale;
xi.
qualsiasi donna di un'area geografica al livello NUTS II nella quale il tasso medio di
disoccupazione superi il 100 % della media comunitaria da almeno due anni civili e
nella quale la disoccupazione femminile abbia superato il 150 % del tasso di
disoccupazione maschile dell'area considerata per almeno due dei tre anni civili
precedenti”.
Mentre lo stesso articolo, al successivo comma g, definisce il lavoratore disabile come:
i.
qualsiasi persona riconosciuta come disabile ai sensi della legislazione nazionale, o
ii.
qualsiasi persona riconosciuta affetta da un grave handicapfisico, mentale o
psichico.
2
L’ampiezza della categorizzazione sopra riportata, all’interno della quale si collocano target
di politiche del lavoro assai differenti tra loro, che, di fatto, ricomprende la maggioranza
degli iscritti ai Centri per l’Impiego, ha comportato la necessità di giungere ad una migliore
definizione dell’oggetto dell’indagine.
In questo senso, in accordo con l’ente committente, si è scelto di limitare il campo della
ricerca a due sottosegmenti appartenenti all’universo dei soggetti svantaggiati: i lavoratori
disabili e le persone soggette a misure alternative al carcere.
La scelta di focalizzare la ricerca su questi due segmenti discende dalla necessità di mettere
a confronto le esperienze maturate, o in corso di maturazione, su un target sul quale esiste
una consolidata prassi di intervento (l’inserimento lavorativo di persone disabili) e quelle
sviluppatesi in un campo ancora “a bassa strutturazione” quale quello delle persone
soggette a misure alternative alla pena detentiva.
L'ipotesi generale di ricerca si basa su uno studio approfondito della situazione, del
comportamento, e dell'inserimento nel mercato del lavoro di questi due target.
I punti chiave su cui si articola il processo di ricerca possono essere sintetizzati in: analisi
della condizione; strategie, ossia azioni intraprese; bisogni espressi e latenti (di
orientamento, di formazione, di utilizzo dei servizi) e aspettative.
I casi analizzati sono stati in tutto otto; sei attinenti all’inserimento di persone disabili e due
relativi a persone soggette a misure alternative alla carcerizzazione.
Ognuno dei casi individuati, laddove possibile, ha comportato la realizzazione di tre
interviste. Per ogni caso è stato infatti intervistato il mediatore che ha seguito l'inserimento,
il datore di lavoro del soggetto e il soggetto stesso. Le interviste realizzate sono di tipo
qualitativo; tale metodologia consente infatti di esplorare in profondità opinioni, vissuti e
rappresentazioni sociali.
3
La strategia complessiva di ricerca ha previsto la necessità di approfondire la condizione
specifica delle persone coinvolte, nei diversi ruoli descritti, nel processo di inserimento
lavorativo o, in un senso più ampio, nel sistema di politiche attive del lavoro.
Si è posto inoltre particolare rilievo ai diversi livelli di aspettativa e utilizzo dei servizi e delle
politiche attive del lavoro, finalizzando tale approfondimento alla raccolta di informazioni
che possano risultare utili alla programmazione dei servizi stessi e alle modalità di
erogazione.
Nell’ambito del progetto complessivo è sembrato opportuno premettere all’indagine una
ricostruzione di elementi di contesto.
La prima fase di progettazione ha previsto, per l’inquadramento generale del fenomeno
oggetto di studio e la realizzazione di alcune interviste in profondità rivolte ad alcuni
testimoni privilegiati (esperti del settore, formatori etc.).
Fin da principio la “discesa sul campo” ha però messo in evidenza alcuni elementi che
hanno imposto ai ricercatori un confronto o una ridefinizione del concetto di soggetto
svantaggiato del quale si sono voluti sottolineare maggiormente gli aspetti soggettivi e
“culturali”.
Per quanto riguarda le aziende ci si è concentrati maggiormente sull’aspetto motivazionale
cercando di evidenziare quali siano i fattori alla base del clima di accoglienza del soggetto
disabile.
Rispetto agli utenti, il nostro intento è stato quello di comprendere quali sono state le loro
traiettorie di vita, quali scelte hanno operato e quali strategie adoperano e hanno adoperato,
quale conoscenza e interpretazione hanno della realtà lavorativa in cui vivono e dei servizi
che li hanno accompagnati.
Lo sviluppo del report si basa su una ricostruzione della questione dell’inserimento
lavorativo considerata a partire dall’esperienza dei casi relativi all’area della disabilità. Da qui
muove la ricostruzione e il confronto dei punti principali emersi dai casi di inserimenti
lavorativi di persone soggette a misure alteranative al carcere.
4
La scelta del metodo
Per riuscire a sviluppare i temi oggetto di indagine si è scelto di utilizzare, nella rilevazione,
tecniche qualitative – ovvero strumenti di ricerca basati sulle narrazioni - che hanno
proprio la caratteristica di comprendere il modo in cui si formano le opinioni, capire in
modo “empatico” quale definizione gli attori danno della loro realtà e approfondire le
motivazioni dell’agire.
Attraverso le narrazioni individuali, infatti, è possibile far emergere sia le letture soggettive e
le rappresentazioni che gli attori hanno delle organizzazioni e del mondo del lavoro, sia i
modi in cui viene prodotta una conoscenza condivisa e intersoggettiva della realtà; le
pratiche discorsive individuali mettono in luce i significati e le norme interiorizzati, così
come le contraddizioni e le ambiguità più o meno consapevolmente percepiti.
Le narrazioni
La narrazione è stata descritta come il canale privilegiato attraverso cui gli individui
comprendono il mondo. Attraverso il racconto vengono operate connessioni, costruiti
schemi di interpretazione, prodotti ordinamenti e classificazioni, assegnando una forma
organizzativa agli eventi della vita sulla base di un ordine temporale e di uno schema
interpretativo che prevede l’intenzionalità dei personaggi (Gherardi, Poggio, 2003).
Introdurre un ordine, inserire gli eventi all’interno di una trama, permette di affrontare la
molteplicità di esperienze e percezioni che caratterizza sempre più la vita degli individui; la
collocazione delle azioni e delle percezioni all’interno di un tracciato narrativo rappresenta
per gli individui un processo di ordinamento perché fornisce una cornice di riferimento e
permette di dare un senso alle azioni e agli eventi e di rendere significativa l’esperienza
(Ibidem).
5
Ciò che viene trasmesso con i racconti è l’insieme di regole pragmatiche che costituisce il
sapere sociale: ciò che bisogna saper intendere, saper dire, saper fare; grazie agli esempi
concreti e situati di azioni si ricostruiscono dei modelli, dei casi paradigmatici per il
comportamento.
Inoltre, ogni cultura è caratterizzata da strutture linguistiche e le costruzioni di storie si
caratterizzano da impostazioni discorsive e narrative: “le parole vincolano il dire” (Ibidem).
Per questo decostruire il testo narrativo è interessante, poiché significa non solo analizzare
ciò che il testo dice, ma anche ciò che non dice o che avrebbe potuto dire e che emerge in
modo autonomo rispetto al discorso.
Tutto l’impianto dell’indagine, in linea con lo spirito di fondo del progetto, sono il frutto
della collaborazione con la provincia, i cui funzionari hanno partecipato attivamente alla
progettazione e alla realizzazione.
6
I casi di studio
Massimo Cannarella, Michela Davi
Bruno1
Bruno ha 55 anni, ha iniziato il percorso con solo il titolo di licenza media inferiore, in
seguito ha frequentato dei corsi di informatica sul posto di lavoro. La sua invalidità nasce
da una malattia degenerativa che lo ha colpito una decina di anni fa circa e che gli
impedisce di camminare adeguatamente.
Ha attraversato quindi un periodo di disoccupazione legata al fatto che non poteva più
svolgere il suo lavoro precedente di tipo operaio artigianale. Lavoro che gli consentiva di
mantenere la sua famiglia: la moglie prima dell'accadimento non lavorava. Le conseguenze
del fatto invalidante sono state quindi di impoverimento dell'intero nucleo familiare.
Rivoltosi inizialmente ai servizi sociali soprattutto per un aiuto di tipo economico, è
arrivato poi ai servizi di mediazione mirata.
Dopo alcune esperienze di tirocinio in azienda e cooperativa che non hanno avuto
successo, è stato inserito in un ente pubblico, dove si trova tuttora.
1 I nomi delle persone a cui faremo riferimento nel report sono di fantasia e sono utilizzati esclusivamente al
fine della narrazione.
7
Abbiamo contattato prima il mediatore che lo ha seguito, poi per suo tramite Bruno, e per
ultimo abbiamo intervistato la persona che ha seguito il suo inserimento all'interno
dell'ente.
Il mediatore ci ha supportati nelle interviste a Bruno e al responsabile aziendale, avvisandoli
del nostro successivo contatto.
Tutte le interviste si sono svolte nel luogo di lavoro dei soggetti, che si sono dimostrati
molto disponibili.
Bruno ha acconsentito in maniera naturale al colloquio, comprendendone immediatamente
il fine. L'intervista si è svolta nel suo ufficio, in un luogo aperto all'ascolto ma non ha
comportato conseguenze sulla disponibilità a raccontarsi dell’intervistato apparso in ogni
momento libero di esprimere le sue opinioni e le sue idee.
Andrea
Andrea ha 27 anni. Possiede il titolo di studio di licenza media inferiore, successivamente
ha seguito un corso professionalizzante specializzato. La sua invalidità è di tipo cognitivo
lieve, e il suo percorso nei servizi è quindi tipico di una persona nata con questo tipo di
limitazione.
Ha seguito un percorso di formazione. In seguito ha svolto alcuni tirocini in azienda, fino
ad entrare nell'azienda in cui lavora attualmente. All'interno di questa ha lavorato per
qualche anno con una catena di tirocini, fino al recente raggiungimento dell’assunzione.
8
Abbiamo contattato prima il mediatore che lo ha seguito, poi per suo tramite il
responsabile aziendale, e abbiamo deciso con lui il momento della nostra presenza in
azienda per l'intervista ad Andrea.
Il mediatore ci ha supportati nelle interviste all'utente e al responsabile aziendale,
avvisandoli del nostro successivo contatto. In particolare, per Andrea, è stato ritenuto
importante avvisare anche la famiglia spiegando il fine dell'intervista, per non generare
incomprensioni e allarmi.
Tutte le interviste si sono svolte quindi nel luogo di lavoro dei soggetti, che si sono
dimostrati molto disponibili.
Le interviste al responsabile aziendale e ad Andrea si sono svolte lo stesso giorno, in modo
da consentire la nostra presentazione alla persona da parte del responsabile.
Per facilitare l’interazione, la presentazione dei ricercatori, e dell’indagine, ha seguito un
registro giocoso. L'intervista è stata fatta nel locale mensa, a quell'ora assolutamente vuoto.
Il clima di lavoro è apparso buono, e tutti i colleghi che incontravano il ragazzo si
soffermavano a scherzare insieme a lui.
Andrea, forse per carattere, forse per come siamo stati presentati, non ha posto il minimo
ostacolo all'intervista, anzi per tutto il suo corso è sempre stato molto rilassato e sorridente.
Enzo
Enzo ha 28 anni e soffre di una patologia psichiatrica. Possiede un titolo di studio
superiore. È all'interno di un progetto realizzato di concerto con il servizio di Salute
Mentale.
9
Ha iniziato il percorso di inserimento che lo ha portato all'attuale posto di lavoro con lo
stage di un corso di formazione. Stanti le sue peculiarità, si è cercato di farlo lavorare
all'interno della stessa azienda dello stage. In questo inserimento era stato apprezzato sia
come persona che per le sue capacità di adempiere al ruolo. Quando la mansione
inizialmente pensata è venuta meno perché si è abbandonato il progetto per cui era stata
pensata, Enzo ha continuato con dei tirocini nella stessa azienda con compiti differenti.
Successivamente è stato assunto nel nuovo ruolo.
Abbiamo contattato prima il mediatore che lo ha seguito, poi per suo tramite il
responsabile aziendale. Il contatto con Enzo sarebbe dovuto avvenire attraverso il
mediatore, che aveva ipotizzato la possibilità di intervistarlo nel luogo dove solitamente si
svolgono i loro colloqui. Lo stesso responsabile aziendale sconsigliava l'intervista in
azienda.
Nel frattempo siamo andati in azienda ad intervistare il responsabile aziendale sul luogo di
lavoro, e Enzo ha avuto modo di “osservare” il nostro intervistatore colloquiare con il suo
datore di lavoro, senza tuttavia conoscerne il motivo - perché non avvertito della ricerca in
corso e del futuro contatto.
A fronte dell'impossibilità di intervistare il soggetto svantaggiato alla presenza del
mediatore ed al fine di tutelare il fragile equilibrio della persona, si è ritenuto opportuno
non procedere all'intervista con Enzo.
Le interviste legate a questo caso si sono così rivelate due - mediatore e responsabile
aziendale – unite all'osservazione del luogo di lavoro e delle mansioni del ragazzo.
Le interviste agli altri due soggetti del caso sono state comunque esaurienti, ed entrambe le
persone estremamente collaborative, compreso il responsabile aziendale, nel farci visitare la
sua realtà produttiva.
10
Beatrice
Beatrice ha 22 anni, ed ha conseguito brillantemente il titolo di licenza superiore.
E' invalida dalla nascita e il suo tipo di handicap fisico (Beatrice é priva di un arto) le
impedisce di poter svolgere alcuni lavori. Dopo il diploma ha provato alcuni lavori ma la
sua disabilità ne ha condizionato la riuscita.
Nonostante queste difficoltà non si é demoralizzata, si è rivolta ai servizi e attraverso
colloqui ed orientamento ha trovato un’occupazione presso una multinazionale della
grande distribuzione con sede anche a Genova. Durante l'intervista si è dimostrata molto
attenta e disponibile; Beatrice si presenta come una ragazza allegra e racconta del percorso
di vita e di lavoro con grande capacità riflessiva.
La mediatrice che segue Beatrice si é dimostrata molto disponibile ad illustrare il caso ed
infatti il contatto e appuntamento con Beatrice sono avvenuti tramite il centro. Nel corso
dell'intervista si é potuto osservare una particolare attenzione verso il caso in questione,
attenzione che supera il livello strettamente professionale ma rientra per alcuni aspetti in
quello personale.
Anche l'azienda si é dimostrata attenta e disponibile al caso. Le interviste dell'utente e del
mediatore si sono svolte al centro, mentre quelle dell'azienda presso gli uffici della stessa.
Francesca
Francesca ha 23 anni. Possiede il titolo di studio di licenza media superiore e recentemente
ha scoperto di avere una malattia degenerativa.
Si presenta come una ragazza molto allegra,
curata, con un forte carattere ed ama
raccontare di se e di come ha affrontato la malattia. Dopo una iniziale difficoltà nel capirne
11
il funzionamento ha trovato forte supporto negli operatori dei Servizi provinciali. Lo sforzo
maggiore è stato riuscire a ripensarsi in termini lavorativi e quindi ricollocarsi non più in un
lavoro che piace ma in uno che la malattia permette di svolgere. Proprio per questo é
consapevole di quanto sia difficile riuscire a condurre una vita "normale" e anche quanto la
sua disabilità, che le causa spesso momenti di forte debolezza, possa condizionare il suo
rendimento sul lavoro. Oggi Francesca lavora presso un importane tour operator nazionale
e svolge un lavoro impiegatizio ma precedentemente infatti era stata impegnata nel campo
della ristorazione.
Il mediatore che segue questo caso era assente per ferie al momento dell'intervista ed è
stato sostituito dalla responsabile del centro per la mediazione; perfettamente a conoscenza
della situazione ha presentato la storia di Francesca ed in questo caso come nel precedente
é stato possibile osservare una relazione forte tra utente e mediatore. Le interviste con
mediatore e utente si sono svolte entrambe presso il centro e nella stessa mattinata ma
separatamente. Al termine del colloquio la ragazza si é recata dai mediatori per salutarli e
raccontare brevemente come procedono gli impegni di lavoro e di vita.
Per l'azienda abbiamo intervistato la responsabile delle risorse umane che, pre-contattata
dagli operatori, si é dimostrata da subito molto disponibile ad illustrare il caso. L'intervista
si é svolta presso la loro sede.
Antonia
Antonia presenta un lieve ritardo e come per molti altri soggetti che hanno questo tipo di
handicap vive un forte senso di persecuzione sulla vita e sul lavoro.
Proprio a causa di questo e su suggerimento dell'operatore che temeva eventuali ricadute
negative sul lavoro del soggetto si é preferito non intervistare l'utente.
12
In questo caso quindi abbiamo dunque intervistato il mediatore e il referente aziendale.
Antonia lavora presso una ditta genovese dove svolge compiti di pulizie. La principale
difficoltà rispetto a questo caso è la particolare tensione psicologica che si crea con Antonia
e la necessità continua di seguire questo utente con particolare delicatezza soprattutto in
termini di relazione.
In particolari condizioni di disagio sembra essere anche la famiglia di origine ma oltre al
racconto del mediatore non è possibile avere ulteriori elementi.
Per l'azienda abbiamo intervistato il proprietario che però oltre alla sua estrema
disponibilità nel concederci tempo non ha dato ulteriori elementi per descrivere la
condizione di Antonia.
In azienda sono contenti del lavoro svolto dalla giovane donna e non rilevano particolari
difficoltà. Anche in questo caso l'intervista si é svolta nella sede dell'azienda
Rashid
Rashid ha 26 anni, è un migrante del Marocco che vive a Genova dal 1996 circa, anno in
cui entra regolarmente con un permesso per ricongiungimento familiare. Rashid ha
conseguito il titolo di licenza media inferiore in Italia.
Qui in Italia inoltre soggiorna la madre, persona con la quale il soggetto dice di non avere
un buon rapporto. Le esperienze lavorative pregresse sono piuttosto scarse.
Ha attraversato un periodo di dipendenza da sostanze, è stato in carcere diverse volte con
pene limitate legate al piccolo spaccio. Dall'ultimo arresto, è entrato in una comunità
terapeutica e successivamente ha ottenuto l'inserimento lavorativo sostitutivo al carcere.
13
Il percorso di inserimento lavorativo si è attuato in due diversi momenti - una borsa
supportata dai servizi e un contratto a tempo determinato – all'interno di una cooperativa
sociale.
Abbiamo contattato prima il mediatore che lo ha seguito, poi per suo tramite Rashid, e per
ultimo abbiamo intervistato la persona che ha seguito il suo inserimento all'interno di una
cooperativa.
Il mediatore, dopo la sua intervista, ci ha accompagnato nell'intervista a Rashid.
Ha preso l'appuntamento nei suoi uffici per garantire sia un tramite che un ambiente
conosciuti, e ha presentato l'intervistatore. Non ha invece presenziato all'intervista e si è
reso disponibile a contattatre il responsabile aziendale che è stato intervistato sul luogo di
lavoro.
Tutte e tre gli intervistati sono stati molto disponibili nei nostri confronti, con un certo
grado di curiosità da parte dell'utente. Rashid si chiedeva perché lo intervistavamo.
Quando, rassicurato anche dalla presenza del mediatore, ha capito che poteva fidarsi, il suo
unico dubbio rimasto è diventato quello dell'essere adeguato alla situazione di intervista,
soprattutto per quanto riguardava la lingua italiana, che si è rivelata in realtà di buon livello.
Maria
In questo caso non é stato possibile intervistare il soggetto a misure alternative al carcere a
causa della sopraggiunta irreperibilità della persona.
Abbiamo inizialmente contattato la mediatrice affinché ci presentasse il caso e ci parlasse
del suo lavoro; l'operatrice é stata estremamente disponibile e l'intervista si é svolta negli
uffici della provincia ma già al termine dell'intervista si evidenziava la strana difficoltà nel
reperire la giovane.
14
Dandoci appuntamento telefonico per qualche giorno dopo, per aggiornarci sulla
situazione, spiegava che era meglio se Maria l'avesse cercata lei "perché almeno a me ha
sempre risposto al telefono".
Dopo un paio di settimane di attesa e considerando il fatto che Maria al termine delle ferie
estive non si era presentata sul posto di lavoro abbiamo in accordo con la mediatrice
desistito dal cercarla.
Quindi il racconto che segue é desunto dalle parole della mediatrice intervistata.
Maria é una giovane donna, ex tossico dipendente, ex carcerata, senza un titolo di studio e
con una situazione familiare difficile; non ha figli e vive con il marito straniero; non si
capisce bene se lo abbia sposato per il permesso di soggiorno oppure no. A seguito di un
incidente presenta anche difficoltà fisiche. Nonostante questo fatto, all'interno di un
percorso di protezione sociale e seguita dai servizi é riuscita fino a qualche giorno prima
della nostra intervista ad inserirsi in una azienda e ad essere apprezzata. Precedentemente
aveva cambiato diverse collocazioni in altre aziende svolgendo sempre lavori duri e
ripetitivi ma riuscendo sempre a dimostrare ottime capacità ed impegno sul lavoro – “tant'è
che se lei non c'era il lavoro non funzionava”. I datori di lavoro l'hanno per questa ragione
assunta prima della fine della borsa.
E' una persona dignitosa che però a volte assume una dimensione di difesa dovuta al
timore di essere ingannata. Maria presenta infatti i tratti “scaltri” di chi ha sperimentato la
condizione carceraria.
L'azienda contattata in periodo di sovraccarico di lavoro presentava iniziali difficoltà nel
concedere l'intervista. Insistendo tuttavia si è ottenuto un appuntamento che poi, in
accordo con il mediatore, è stato annullato perché avrebbe comportato l’immersione in una
situazione di lavoro tanto delicata quanto, in parte, compromessa dagli eventi.
15
Disabilità e stigma
Massimo Cannarella, Michela Davi
Disabilità e processo di costruzione sociale
La speciale situazione del soggetto stigmatizzato consiste nel fatto che la società gli dice, al
contempo, che è membro di un gruppo più vasto, il che vuol dire che è un essere umano
“normale”, ma anche che è un diverso in una certa misura e che sarebbe stolto negare tale
differenza. Questa diversità in se stessa deriva naturalmente dalla società, perché prima che
una differenza possa aver peso, deve essere concettualizzata collettivamente, dalla società
nel suo complesso.
Attraverso questa differenza si costruisce la categoria della diversità e quindi della disabilità.
Emblematica di questo processo è la storia di Beatrice che nonostante un lieve handicap
fisico dalla nascita, ha seguito il normale iter scolastico, si è diplomata con ottimi risultati
presso un istituto tecnico e fino all’età scolare non ha mai percepito significati e ricadute
rispetto alla sua condizione.
“Mi sono diplomata presso un istituto tecnico. Fino a che sono stata a
scuola non ho avuto mai particolari difficoltà. Non mi rendevo conto di
quello che poteva essere il lavoro, all’inizio è stata dura perché io so di
16
essere invalida, l’ho superato e la mia disabilità la vivo tranquillamente
però un conto è saperlo l’altro è quello di doverti rapportare con il
lavoro.”
In queste parole si colgono due elementi particolarmente significativi. Il primo è che si può
essere consapevoli della propria disabilità da sempre ma si diventa disabili e si vivono le
conseguenze della propria menomazione solo quando ci si confronta con un contesto di
“produzione”. Il secondo è che lo stigma del disabile e quindi della diversità non è applicato in
ogni contesto ma cambia a seconda dell’istituzione in cui viviamo. Beatrice infatti fino a quando ha
“vissuto” all’interno del sistema scolastico – dove la sua invalidità fisica non le ha mai
causato particolari svantaggi – non era stigmatizzata come disabile. Lo è di fatto diventata
per la società dal momento in cui è uscita da una realtà sociale – forse di maggiore
protezione come la scuola – e ha iniziata ad inserirsi in un contesto differente.
Utilizzando quindi una metafora si potrebbe dire che si è o meno disabili a seconda del
frame2 in cui ci si trova.
Il passaggio della persona disabile dal mondo della scuola a quello del lavoro mette in luce
l'importanza del frame. Se tradizionalmente infatti questo momento rappresenta
simbolicamente l’ingresso del soggetto dal mondo giovanile a quello adulto, nel nostro
caso segna fortemente il passaggio da un mondo, centrato sui processi di apprendimento e
2 Per frame si intende una cornice di uno spazio sociale all'interno del quale gli attori si muovono e
interagiscono sulla base delle immagini e delle rappresentazioni che esistono all'interno di quel frame. L’idea è
che gli individui impieghino schemi interpretativi al fine di inquadrare ciò che avviene intorno a loro. Tutte le
forme d’interazione fanno ricorso al “framing”, ovvero mettere o togliere cornici ad una realtà per ottenerne
un'altra e quindi passare da uno livello ad un altro. Inoltre, ogni gruppo possiede un suo codice specifico che
lo caratterizza e lo distingue dagli altri (ad esempio, nel gruppo dei barboni è il rifiuto sistematico del lavoro).
La realtà non è unitaria ma è costituita da un complesso di livelli (frame) innestati, dove ogni frame può essere
costruito a partire da un altro frame. Alla base di questo complesso strutturato di livelli, vi è la realtà fisica. La
teoria del frame è un modo di mediare tra il determinismo dei sociologi convenzionali (che non considera la
stratificazione della realtà) e il relativismo degli etnometodologi (che, ignorando la realtà fisica, riduce il
mondo a qualsiasi cosa accada nella nostra mente).
17
socializzazione, culturalmente più “abituato” a vivere e a convivere con la disabilità come il
sistema educativo, ad un altro come il lavoro, centrato invece sulla performance, dove la
disabilità, e lo svantaggio in genere non sembrano ancora avere cittadinanza.
La scuola infatti, più adusa ad accogliere la diversità, porta con se una storia e una cultura
differente rispetto al mondo della produzione, ed è riuscita, per esempio attraverso
l’impiego di strumenti del sostegno a limitare e migliorare la condizione di soggetto debole.
Questo significa che l’handicap se elaborato e inserito in un sistema culturale dove è accolto
e riletto non in chiave di diversità ma di vicinanza, può non rappresentare più uno stigma.
I due sistemi considerati sono entrambi fortemente caratterizzati come ambiti culturali.
Ambiti culturali creati e riprodotti, in funzione principalmente della finalità – pedagogica e
formativa l'uno, produttiva l'altro - dalle persone che vi operano.
È la cultura il fattore che riproduce, evidenzia e concretizza in modo più o meno evidente
le differenze.
In questo senso la disabilità, fatto oggettivo, assume diverse conseguenze ed importanza
per il suo portatore in quanto costruzione sociale. La disabilità diventa importante per il
soggetto svantaggiato in relazione con il mondo che lo circonda, con il cui giudizio,
pregiudizio, ed aspettative deve confrontarsi.
In “Stigma, l'identità negata” Goffman riporta: “Sono nato con una forma di spastica particolare,
derivante da una lesione all’atto della nascita. Non conoscevo la complessa, sorprendente classificazione della
mia malattia finché il termine non divenne popolare e la società insistette perché io ammettessi la mia
infermità così classificata. Fu come diventare membro dell’alcoolisti anonimi. Non si può essere onesti con
noi stessi finché non si scopre chi si è e, forse, finché non si è considerato che cosa la società pensa che siamo o
dovremmo essere.”
Il "che cosa la società pensa che siamo" rivela un meccanismo definitorio generato da
forme culturali condivise, meccanismo che nelle scienze sociali viene identificato nello
stereotipo ovvero in quella via alla semplificazione della realtà che ci consente di leggerne la
complessità, e che nel linguaggio comune viene spesso associato come sinonimo al termine
18
pregiudizio. Pur essendo entrambi giudizi di tipo individuale e sociale, il secondo trae
origine dal primo come stereotipo, "immagine neutra" funzionale alla comprensione, carica
di una valenza emotiva.
Nell'ambito delle dinamiche sociali i giudizi sono basati non tanto su procedimenti logici
quanto piuttosto sull’esigenza di assegnare significato al mondo secondo codici socialmente
condivisi. In questo senso gli stereotipi possono essere concepiti come spiegazioni sociali,
da cui possono nascere pregiudizi.
Come osserva Tentori, il pregiudizio è intrinseco ai sistemi culturali, perché “semplifica le
visioni del mondo riducendole ad un dualismo “consueto”/”consuetudinario” come
equivalente di normale, giusto, valido, contrapposto a “diverso” com’equivalente
d’inquietante, rischioso, ingiusto, cattivo. E poiché la normalità è quella dei nostri modi di
vita, della nostra cultura, della cultura del nostro gruppo o della nostra società, questa
contrapposizione s’incarna nell’opposizione tra “noi” e gli “altri”, tra noi i “normali”, e gli
altri “gli anormali”3.
Lo stereotipo ed il pregiudizio possono portare alla discriminazione, e una discriminazione
può essere vissuta in maniera umiliante anche quando è una discriminazione positiva
dovuta all'attuazione di una legge per l'aiuto all'inserimento lavorativo.
Questa agevolazione ha un costo psicologico in quanto pone in evidenza a se stessi e al
contesto sociale la propria condizione di svantaggio: “è proprio in quanto invalido civile che trovo
lavoro”
Racconta infatti Beatrice:
3
Tentori T., Il rischio della certezza, Edizioni Studium, Roma 1996
19
“Non volevo essere una vittima che si deve far compatire, no
assolutamente… era che non capivo che cosa andava bene per me.”
Questo elemento, che viene sottolineato da numerosi intervistati, riporta quindi l'attenzione
verso il timore di essere discriminati e categorizzati quindi stigmatizzati come disabili.
Siamo di fronte infatti all’agire di un processo culturale, ovvero all’influenza sulla vita
dell’individuo del come la società “valuta”, “giudica”, “apprezza” le persone.
La nozione di disabilità, e tanto di più il concetto maggiormente ampio di svantaggio sociale,
risulta così essere variabile a seconda del frame culturale in cui è collocato, oltre che essere di
per se stesso una sorta di termine ombrello sotto cui ricadono diverse condizioni limitanti
rispetto alla "normalità" delle funzioni percepita dal contesto in cui il soggetto è inserito. Lo
stesso concetto di svantaggio sociale (così come abbiamo visto anche nella definizione del
Regolamento CEE 2204/2202) è un concetto di difficile definizione, che può essere
interpretato in maniera multidimensionale: si può essere considerati appartenenti alla
categoria dei soggetti svantaggiati sia per carenze dovute a motivi clinici (p.e disabili fisici e
sensoriali o cognitivi), sia per motivi legati a carenza di partecipazione ed inserimento sociale (p.e.
migranti o carcerati).
Le due motivazioni individuate sono poi anche interdipendenti fra loro, e spesso
coesistono.
Gli operatori, i referenti aziendali ma anche i soggetti svantaggiati stessi, al fine di
inquadrare l’oggetto disabilità, il disabile, o l’oggetto “carcere” e la persona definibile come
soggetta a misure alternative al carcere fanno ricorso a rappresentazioni sociali – ovvero costrutti
di idee, stereotipi, immagini e retoriche – molteplici e assai differenti tra loro.
Siamo dunque di fronte a un quadro mutevole; che muta in relazione alla prospettiva
adottata ma anche in relazione al fattore temporale.
L’aspetto sociale/temporale risulta molto evidente dalle parole di una mediatrice che
racconta:
20
“Negli anni si è fatta cultura, perché all’inizio l’azienda non voleva il
disabile, immediatamente pensava al down, ma poi capiscono che la
persona è competente anche se disabile. Però devi fare cultura, anche
perché nel disabile c’è anche il diabetico. L’azienda deve capire che tu non
gli stai rifilando un pacco”
Le variabili che influenzano il mondo di vita e le inerenti possibilità lavorative di una
persona disabile possono ricondursi a tre aspetti principali: il suo stato di salute, i fattori
personali del singolo soggetto – storia personale, condizione sociale, carattere, famiglia di
origine e in essere ecc. – e l'ambiente – e la sua cultura – in cui è inserito.
Il primo dei fattori considerati si concretizza nelle narrazioni raccolte sotto la forma del
limite che la condizione di salute della persona crea allo svolgimento delle attività sia
quotidiane che lavorative. Il limite è un fattore centrale in tutte le narrazioni che abbiamo
raccolto. Limite che va riconosciuto, accettato e dove possibile superato.
I fattori personali dell'utente e il frame in cui è inserito si trovano come temi di sfondo nelle
parole degli intervistati, meno definiti del limite ma altrettanto importanti.
Un mediatore ci racconta che:
"Lui è fortunato, ha una famiglia che lo segue molto, in maniera
intelligente"
"È stato accolto bene, per fortuna ha un buon carattere"
oppure un altro afferma che:
"Ancora oggi ci sono molte resistenze all'interno delle aziende ad
assumere queste persone. Soprattutto perché quando si parla di disabili
21
hanno delle immagini definite, […] molti di loro hanno paura che magari
sia un malato di mente, ti chiedono ma non è mica violento? "
Affermazioni che abbiamo riportato fra altre e che mettono in evidenza come i fattori
personali e culturali sono sempre presenti nella definizione e descrizione di un percorso di
vita di una persona svantaggiata.
Essere o diventare disabili: che cosa comporta la disabilità
In apparenza invisibile nelle produzioni discorsive sulla disabilità un aspetto di grande
rilevanza è rappresentato dalla differenza tra le persone disabili dalla nascita e chi lo è
diventato nel corso della vita a causa di incidenti o malattie invalidanti.
Le differenze fra queste due situazioni riguardano non solamente il mero peggioramento
delle condizioni di vita legato all'emergere di una situazione invalidante, ma anche il
cambiamento legato alla percezione di se stessi e della propria condizione nel mondo.
Se infatti la costruzione identitaria è un processo in divenire che si realizza rispetto alle
esperienze della vita, anche per queste persone la questione dell'accettazione della propria
condizione diventa strategica nei diversi momenti di passaggio, fra cui l'entrata al lavoro è
uno dei più importanti.
La testimonianza di Beatrice, giovane di 22 anni, svela a questo proposito quanto il lavoro
di assistenza dei mediatori si riveli strategico per i soggetti disabili dalla nascita al fine di
poter comprendere ed accettare le limitazioni imposte dallo svantaggio:
“Ho 22 anni, mi sono diplomata al Duchessa di Galliera. Finita la scuola,
ho incominciato ad […] lavorando con i bambini, poi ha fatto i centri
22
estivi. Mi sono iscritta al Centro Impiego Invalidi di via Cesarea, ho
conosciuto un’orientatrice che mi ha parlato di quello che potevo fare. Il
mio desiderio era quello di lavorare con i bambini, nel sociale ma mi
rendo conto che mi è particolarmente difficile, per la mia invalidità.
Lavorare con i bambini , prenderli in braccio, giocare.. ci sono tante
attività che a causa della mia invalidità non riuscirei a fare. E poi ci
vogliono diplomi e attestati. Questa persona mi ha consigliato di fare un
corso al (...) per aiutarmi a creare una professionalità.
Loro mi hanno aiutato ad aprire altre porte. Dopo ho iniziato uno stage
lavorativo e dopo tanti colloqui mettevi in pratica quello che ti avevano
insegnato.”
Differente invece è il racconto di Francesca4, che fino alla scoperta della malattia
conduceva una vita normale:
“Prima facevo la cuoca. E poi c’è stato questo cambiamento però ben
superato. Mi sono iscritta al collocamento, alle liste speciali, e poi ho
conosciuto loro, i mediatori che sono veramente bravi. All’inizio quando
sono arrivata qui volevo fare la barista perché era l’ultimo lavoro che
avevo fatto. Avevo lavorato alla […] prima come cuoca e poi mi hanno
messo al bancone. Però quando sono venuta qui a parlare con i mediatori
mi sono accorta che non avrei retto a stare in piedi tutto il giorno. La
malattia mi debilita. Non ce l’avrei fatta.”
4
Francesca è malata di sclerosi multipla
23
Accorgersi ed accettare che non si può condurre la stessa vita di prima, che non si può più
scegliere il lavoro che piace perché troppo faticoso e sostanzialmente che l'esistenza sarà
caratterizzata da forti limitazioni, sono degli elementi che escono fortemente dalle
narrazioni dei nostri intervistati.
In particolare in questi casi affrontare e accettare la propria disabilità si rivela un percorso
lento e difficoltoso e gli interventi dei servizi attraverso psicologi e mediatori si rivelano
fondamentali.
Racconta ancora a questo proposito Francesca:
“Tutti mi dicevano che era impossibile trovare un lavoro se avevo una
certa patologia. Poi loro mi hanno aiutata, mi hanno aiutato a capire.
Questo è stato bello di loro, perché io non capivo niente. Io non capivo
che cosa andava bene per me. Io ero carica e dicevo io ce la faccio. Non
riuscivo ad ammettere che non ce la potevo fare, invece loro col tatto
piano piano mi hanno aiutato a capire che era naturale avere delle
difficoltà. Io non potevo stare in piedi 5 ore… non ce la faccio
fisicamente, mi stanco.”
La malattia si può rivelare un'esperienza che rafforza il carattere. Nella difficoltà alcuni
soggetti trovano risorse che altrimenti non saprebbero di avere. La malattia in questi casi, in
particolare se affrontata all'interno di un percorso di protezione, almeno apparentemente
viene arginata e limita i suoi “danni”:
“Il mio carattere l’ho sempre avuto .. da quando ho scoperto di essere
malata e sono stata molto debole, ho avuto tanta paura sono diventata
24
forte in un attimo. Ma fa paura solo soffrire… adesso non mi spaventa
più niente. La malattia mi ha rinforzata.”
Emblematico il caso di Bruno che affronta una malattia invalidante in età matura. Prima di
questo evento conduceva una vita da persona adulta, con una professionalità riconosciuta e
maturata nell’ambito dell’imprenditoria artigiana:
"prima della malattia avevo una ditta […] e mi andava bene, avevo anche
un negozio a […]. Tutti mi conoscevano nell'ambiente, e anche adesso
parlano ancora bene di me e di come lavoravo. […]"
La malattia, come una frattura nella sua vita personale e professionale, lo porta ad una
situazione di bisogno estremo:
"…non riuscivo più a lavorare, non avevo più i soldi per vivere, certo,
qualche volta mi davano ancora del lavoro, degli amici con cui avevo
lavorato prima, ma erano proprio aiuti, io in realtà non potevo fare quasi
più nulla."
Attraversa un lungo periodo di ricollocamento, al termine del quale si trova ad essere
occupato con mansioni impiegatizie in un ruolo che normalmente necessita di competenze
diverse e più elevate di cui era in possesso. Lo stimolo al raggiungimento di una nuova
identità sociale e lavorativa lo porta però a superare molti ostacoli:
"Quando mi hanno proposto questo lavoro mi hanno detto che poteva
essere difficile perché non avevo le competenze necessarie. Io avevo
25
provato anche a fare un corso di computer, me lo aveva consigliato il
signor […], quindi qualcosa sapevo, ma…io stesso avevo dei dubbi,
sembrava un lavoro difficile per me. Il signor […] ci ha creduto, perché
ha visto il mio impegno nei precedenti lavori, e poi io sono già abituato a
lavorare e so come si lavora […] oggi sono qua e mi sembra che tutto
vada bene, i miei colleghi credo siano contenti del mio lavoro, anche se a
loro devo veramente tanto, per la pazienza che hanno avuto e i consigli
che tuttora mi danno se ne ho bisogno."
In questo caso, il raggiungimento di un posto di lavoro è dotato di particolare valore. Ma
non è solamente una questione di riconquista delle risorse economiche necessarie.
L'intervistato per tutto il corso del dialogo descrive l'importanza del riappropriarsi di uno
status e di un ruolo. Status e ruolo depauperati dall'occorso, offesi anche dalla necessità di
rivolgersi ai servizi sociali e dall'esito negativo di alcuni inserimenti precedenti, dovuti
probabilmente, nelle parole dell'intervistato, alle sue oramai più limitate capacità, o ad
atteggiamenti utilitaristici da parte di alcuni datori di lavoro. Nel caso in questione è così
ancora più evidente - nel passaggio lungo il suo corso di vita da persona assolutamente
indipendente a persona "che chiede un aiuto… a piangere, diciamo, anche se il termine è un po’ forte" l'importanza del lavoro.
Così come l'importanza
delle risorse che possono essere
movimentate da un evento traumatico e dalle motivazioni che ne scaturiscono, in
particolare se queste si incontrano con l'agire di servizi alla persona individualizzati ed
efficaci.
In tutti i casi considerati ciò che è o diventa rilevante è il confronto con il proprio stato di
salute, nel tentativo, anche riuscito, di accettazione e rielaborazione in positivo della propria
integrità. Questo processo passa attraverso il riconoscimento e il superamento dei limiti che
lo svantaggio può portare, limiti che diventano particolarmente evidenti se messi sotto
stress all'interno di una situazione produttiva.
26
Riconoscere e superare i limiti della disabilità: l’esperienza del lavoro
Generalmente l’accettazione del limite che la disabilità comporta non è un fatto per nulla
scontato; è il risultato di un percorso lungo e doloroso, che oscilla fra atteggiamenti di tipo
depressivo e di tipo “onnipotente”. Come osservano alcuni autori (Mazzonis, Bolchini,
Castellazzi, Noris) “nel primo caso la persona scivola in una dimensione rinunciataria e
impotente arrendendosi oltremisura alle proprie imperfezioni e rinunciando a molte delle
proprie capacità o competenze. Questo atteggiamento rinunciatario tutela da nuove
delusioni: se la persona rinuncia a cimentarsi e impegnarsi, in una parola a partecipare, non
potrà uscire perdente dal confronto. Nel secondo caso invece la persona presenta un
funzionamento fortemente negante la propria diversità che la induce a sfide impossibili,
non tenendo conto delle reali risorse. Da questo esce sistematicamente sconfitta
attribuendo a cause esterne il fallimento. In entrambi i casi si tratta di atteggiamenti
disadattivi, cioè che, anziché diminuire la distanza fra se e gli altri, determinata dalla
disabilità, la incrementano. Inoltre il senso del valore è connesso alla fiducia nel fatto di
essere amati.”
Gli autori descrivono i due estremi di una gamma di atteggiamenti possibili
nell'elaborazione del proprio limite rispetto al raggiungimento di quelle che sono
considerate le normali funzioni all'interno di un processo produttivo.
Sia che il limite sia un fatto fisico, sia che sia un fatto sociale/relazionale, le sue
conseguenze sulle capacità del portatore dipendono dalle attese che la società ha rispetto
alla normalità della performance. Se inserito in un frame che ne tiene conto nelle sue relazioni
ed aspettative, il limite può attenuare le sue conseguenze sulla persona. Persona che non è
solamente il veicolo neutro del suo limite, ma che come abbiamo visto deve con esso
interagire nel confronto con la realtà. Primo compito della persona che incarna l'agire dei
servizi considerati è il tentare di incidere su questi due aspetti: il fattore personale del
soggetto e la cultura del frame aziendale.
27
Nel caso di Beatrice infatti grazie ad un supporto dei servizi le iniziali difficoltà sono state
superate e si è arrivati ad ottimi risultati di impiego:
“Ho iniziato a fare la segretaria in un’azienda ed è andata male perché non
mi insegnavano niente, non mi seguivano però da lì ho capito che non mi
piaceva quel lavoro e che comunque avevo bisogno di qualcuno che
m’insegnasse. Poi ho saputo che [nell’azienda dove lavoro adesso]
cercavano una ragazza per fare la cassiera e al Centro Impiego mi hanno
aiutato ad entrarci, senza di loro non ce l’avrei fatta ad affrontare il
lavoro. Qui ho trovato un ambiente umano, mi hanno rassicurato e con
pazienza mi hanno seguito. Inoltre, hanno anche rischiato su di me che
sono invalida. E sia l’azienda che gli orientatori erano sempre in contatto
tra di loro per farmi affrontare le difficoltà senza traumi.”
La capacità di confrontarsi con il proprio limite si rivela un aspetto importante in tutti i casi
ascoltati. Andrea, affetto da un lieve handicap cognitivo, lavora in un’azienda dotata di
diverse piccole linee di produzione per diversi prodotti. Alla domanda “che lavoro fai”,
Andrea risponde con orgoglio:
“lavoro un po' qui un po' là...vado dove c’è bisogno, una settimana lavoro
in una linea, una settimana nell’altra...oggi ho lavorato [in quella linea],
domani posso essere [in quell’altra]”
Nel corso dell’intervista ripete diverse volte il fatto che passa da una linea all’altra, e
descriverà minutamente le operazioni che svolge in una o due di queste. Il referente
aziendale di questo inserimento riferisce:
28
“il lavoro più grosso con Andrea è stato quello di metterlo in grado di
passare da una linea all’altra. All’inizio lui lavorava in una sola, imparava
quanto era necessario e il resto era un altro mondo, poi quando lo
spostavi ad un’altra subito andava in crisi, non c’era abituato, il
cambiamento lo metteva in crisi. Allora gli lasciavi i suoi tempi, lui
imparava, poi magari lo facevi tornare indietro e poi lo mettevi di nuovo
in un’altra linea e così via. E’ stato un lavoro fatto a passi, con i suoi
tempi. Adesso è in grado di lavorare in tutte le linee e questo per lui è
molto importante”.
Andrea nell’intervista era orgoglioso di saper lavorare in tutti gli ambienti dell’azienda
perché questo aveva rappresentato il progressivo superamento di una parte dei suoi limiti.
Relativamente all’importanza del rapporto con il limite, una nostra intervistata considerata
testimone privilegiato esperto del settore, afferma:
“Il lavoro fatto in questi anni è stato molto importante, è stato soprattutto
inizialmente un lavoro di tipo culturale, prima i disabili erano chiusi in
casa e non si pensava che potessero avere una vita loro [...]
paradossalmente, abbiamo lavorato troppo bene: prima il disabile era
considerato una persona che non era in grado di fare nulla, anche in
famiglia. Adesso, si rischia l’opposto, anche in famiglia, appena un
ragazzo dimostra di sapere usare un computer, ecco: allora è un genio dei
computer, mentre invece...non bisogna negare il limite di questi ragazzi,
bisogna conoscerlo e sapere fino a dove si può arrivare, se no ne risente
anche il ragazzo. ”
Questa descrizione di un percorso di evoluzione culturale della società, un percorso in
qualche misura “storico”, che evidenzia proprio quanto il limite e le capacità attese
29
dipendano dal contesto culturale. Contesto che attraverso la sua azione definitoria e le
conseguenti
possibilità di azione e partecipazione,
influisce sulla costruzione di
un'integrità identitaria dei soggetti, e sulla loro possibilità di ridefinirsi.
Lavoro e ridefinizione del sé
Come abbiamo visto, essenziale per l'inserimento professionale dei soggetti svantaggiati è il
poter dare loro possibilità di crescita e di partecipazione. Questa costruzione di possibilità
dipende dalla cultura del frame in cui operano che, attraverso l'agire o meno stereotipi e
pregiudizi, contribuisce a determinare le loro possibilità di interazione sociale in
concomitanza con i fattori personali e di salute del soggetto.
Nelle condizioni migliori in cui il frame aziendale risulta accogliente, questo può
rappresentare una risorsa estremamente valida per la crescita globale della persona, per
l'innescarsi di un processo di ridefinizione del sé che a partire dalla elaborazione ed
accettazione del proprio stato di salute e dei limiti conseguenti, può arrivare ad un grado
quanto ottimale di partecipazione e qualità della vita.
Se quanto detto fino a qui sembra particolarmente vero per soggetti caratterizzati da
svantaggi di tipo fisico che non intaccano le capacità cognitive della persona, possiamo
considerare a suffragio delle nostre tesi il caso già riportato di Andrea, che nel corso della
sua intervista racconta:
"Certo che con il lavoro normale è meglio. È bello avere uno stipendio.
Con i soldi mi posso così permettere di comprare una macchina, e poi
metterli da parte […] nel tempo libero mi vedo anche con la mia ragazza
[…] ci sto assieme da poco tempo."
30
Contro ogni stereotipo, come si può notare dall’uso dell’avverbio “perfino” (nella citazione
successiva) Andrea ha una "normale" progettualità di vita, ricerca di benessere e vita
affettiva. Come riferisce il suo responsabile aziendale:
"Andrea è particolarmente migliorato nel corso degli anni. È arrivato qui
che era molto giovane e lo abbiamo visto crescere. Anche il lavoro è
servito…adesso Andrea ha perfino una ragazza…"
Il lavoro ed i significati attribuiti ad esso si rivelano nell'esperienza dei nostri soggetti quindi
come una carta vincente per riuscire a rientrare nella società sia come soggetti produttivi
(ovvero come persone che possono svolgere compiti e mansioni al pari di altri lavoratori)
sia come consumatori e quindi a pari condizioni di accessibilità ai beni.
Ciò che accomuna queste due diverse situazioni è alla fine l'esigenza di accettare e elaborare
la propria condizione di diversità per raggiungere una integrità identitaria e sociale.
Attraverso il lavoro ci si realizza come individui, si possono rendono “possibili” progetti
futuri, e ci si può costruire una propria rete di conoscenze.
Racconta a questo proposito Beatrice:
"Grazie al nuovo lavoro che ho trovato ho lasciato la casa dei miei
genitori e adesso divido la casa con due mie amiche. Mi trovo bene, sono
felice, e finalmente ho una mia indipendenza economica che mi permette
di uscire la sera, di comprare quello che voglio."
31
Avere un ruolo lavorativo, acquisire un nuovo status ovvero una riconoscibilità sociale che
va oltre lo “stigma dell’invalido” si rivela in tutta la sua forza come un’acquisizione della
massima importanza nelle parole di una intervistata:
“Con i miei colleghi mi trovo bene, sono tutti giovani, non mi hanno mai
visto come una persona invalida e basta. Anche i miei genitori mi hanno
sostenuto senza farmi mai pesare l’invalidità.”
L'incontro con il lavoro, la realizzazione delle aspettative personali e la conseguente
esperienza con il mondo della produzione si rivelano quindi elementi strategici per creare
una socialità che va al di là della propria condizione, per non essere identificati con essa. Le
nuove relazioni o la nuova immagine che anche gli affetti tradizionalmente più conosciuti e
cari hanno del soggetto, passano attraverso la differente condizione raggiunta di lavoratore.
Essere visti come normali lavoratori, ma anche scoprire una sconosciuta fiducia in se stessi
sono indubbiamente elementi che in soggetti provati dall’esperienza della disabilità, aprono
sguardi verso territori altri:
“Mi ha fatto credere in me, mi ha fatto scoprire una nuova Beatrice , mi
ha aperto un mondo che per me non c’era, mi ha dato più fiducia in me
stessa.”
La soddisfazione degli utenti di avere un lavoro, di essere "bravi" a svolgerlo, è palpabile
nelle loro interviste. Descrivono più o meno minutamente le loro mansioni, e il loro
rapporto con i colleghi. Spesso sono in grado di riferire con precisione le date di
assunzione o di entrata in azienda con altri strumenti (stage, tirocini), o entrambe le cose.
La funzione “sociale” del lavoro nell’inserimento dei disabili tuttavia non deriva
esclusivamente da fattori sociali o di natura soggettiva. Non è infatti scontato affermare che
32
anche per i disabili nella soddisfazione del lavoro svolto un ruolo importante lo gioca la
retribuzione. Nel denaro e nel rapporto con esso sono insiti aspetti profondamente legati
all’identità personale. Nello stipendio è dunque racchiuso un criterio di valutazione
oggettivo e “universale” – ovvero valido anche per i “normali” – del valore della propria
professionalità; una misura standard della propria indipendenza/autonomia.
Quali aziende?
Nei casi presi in considerazione abbiamo rilevato una grande eterogeneità nelle dimensioni
nonché nelle caratteristiche organizzative. Da ciò discendono le molteplici “culture di
accoglienza” con le quali i ricercatori si sono dovuti confrontare.
Situazioni molto diverse; dalla azienda in obbligo a quella che non lo era per le sue
dimensioni, dalla piccola impresa dove il titolare è anche referente per tutto ciò che
riguarda la vita aziendale, alla multinazionale in cui il referente si occupa specificamente del
personale; dalle cooperative sociali all’ente pubblico.
Per quanto riguarda gli inserimenti lavorativi di disabili, la maggior parte di queste sono
soggette all'obbligo di assunzione stabilito dalla legge 68/99, in misura proporzionale al
numero di dipendenti. Sicuramente l'obbligo di legge è il motivo più importante che spinge
un'azienda ad assumere, ma oltre a questo abbiamo constatato anche una motivazione che
prescinde il vincolo legale.
Un dato di cui occorre tenere conto è che l’azienda non è automaticamente disponibile
all’inserimento, anche quando si trova in obbligo.
33
In ogni caso il lavoro da compiere nei loro confronti è sempre importante e delicato. Nel
processo di inserimento va dunque ricercato un accordo che tenga conto delle esigenze
aziendali, valutandole in relazione ai bisogni degli utenti e del servizio.
Dall'esperienza pratica raccontata dai mediatori emergono due categorie principali di
aziende: le aziende che semplicemente adempiono al loro obbligo e le cosiddette aziende
partner che collaborano strettamente con il servizio. Ma una tale categorizzazione tiene
semplicemente conto delle realtà con cui i mediatori si trovano a lavorare, tralasciando
quindi quelle che si pongono come indisponibili. Considerando quindi tutte e tre le
modalità di relazione, possiamo individuare tre categorie: gli ambienti favorevoli, gli ambienti
problematici, l’area dell’irriducibilità.
Gli ambienti favorevoli
In questa categoria si è scelto di includere le aziende con le quali il Servizio è stato in grado
di sviluppare una relazione sinergica. Questo tipo di azienda non si limita infatti ad
adempiere ad un obbligo legale ma si rende disponibile a forme continuate di
collaborazione, ad esempio continuando ad ospitare tirocini o borse lavoro di osservazione
o orientamento anche se non finalizzate all’inserimento.
Molti datori di lavoro o responsabili aziendali, alla luce di una legge, sì obbligatoria, ma
anche portatrice di numerosi strumenti e benefici facilitanti la mirata inclusione sociolavorativa del soggetto debole, hanno affrontato il problema evidenziando che il principio
cardine del nuovo assetto istituzionale affonda le sue radici in un profondo mutamento
culturale che traduce in norma un'esigenza fortemente sentita.
Racconta infatti un responsabile del personale da noi intervistato:
34
“Le dico la verità. Se non ci fossero obblighi non andremmo mai a
cercare invalidi. Ma menomale che c'è questo obbligo altrimenti queste
persone non riuscirebbero mai a trovare una collocazione. È importante
che le aziende che possono accogliere questi soggetti diciamo più deboli
si facciano carico di loro... e poi comunque alcune sono persone super
valide. ”
Questi sono coloro che accolgono positivamente le proposte che facilitano il compito
dell'azienda nell'accogliere la persona disabile.
Racconta infatti un direttore di un'azienda:
“abbiamo chiamato noi l'ufficio della Provincia... il motivo di base è ovvio
è perché siamo in obbligo. Per forza è per quello. Poi però scopri che
molti ragazzi che devono essere inseriti sono bravi e mettono ancora più
impegno nel lavoro rispetto ad altri”.
Sono coloro che attivano le sinergie tra gli organismi responsabili delle singole fasi. In
particolare è lo strumento del tirocinio tutorato ad essere particolarmente utilizzato.
Infatti un responsabile aziendale dice:
“Questa ragazza ha fatto tre mesi di tirocinio e durante il tirocinio ci
siamo incontrati con l'ufficio mediatore. Ma una volta che la persona è
inserita non è più prevista colloqui con il servizio e allora la persona è in
un certo senso affidata al responsabile dell'ufficio dove lavora”.
35
Gli ambienti problematici
Le aziende definibili come “ambienti di inserimento problematico” hanno molte difficoltà
di rapporto con i servizi che curano gli inserimenti dei disabili.
Tali difficoltà possono essere di tipo semplicemente pragmatico, dovute a mancanza di
esperienza o saperi per sviluppare l'accoglienza all'inserimento. Oppure, nei casi peggiori, i
problemi nascono da atteggiamenti strumentali rispetto ai pochi ma alle volte utili vantaggi
che un inserimento temporaneo a costo basso o nullo può rappresentare.
Il momento in cui queste difficoltà vengono superate, comunque le aziende riconsiderate in
questo insieme non riescono però a sviluppare rapporti continuativi e sinergici con i
Servizi. Tengono quindi un atteggiamento squisitamente formale, in cui si è voluto
ricomprendere quel tipo di soggetto economico che si limita ad effettuare gli inserimenti
previsti dalla normativa sulla base delle sue dimensioni.
In questo senso, laddove l’inserimento sia accettato dall’azienda solo per rispondere ad un
obbligo legale, il lavoro dei mediatori risulta fondamentalmente centrato nel trasformare
questa opportunità in un vero e proprio inserimento.
Una mediatrice sostiene:
“Molti imprenditori non sanno che fare, non conoscono.. ci dicono che
non hanno bisogno di nessuno ma in realtà quando poi vai a vedere non è
vero. È che non pensano a che cosa possono fare, magari ti dicono cose
generiche (contabilità) o solo molto specifiche (ingegnere informatico). E
36
allora devi capire e studiare le loro esigenze e la loro struttura
organizzative e valutare con loro di che cosa hanno bisogno”.
Questi sono forse i casi in cui il ruolo del mediatore è più rilevante. Cercare infatti di
intervenire sulla cultura del mondo produttivo riuscendo quindi a produrre degli effetti
positivi per i soggetti deboli dovrebbe essere uno degli obiettivi del compito della
mediazione. Per questo si può dire che ogni volta che gli sforzi degli operatori vanno a
buon fine si registra una modificazione della cultura di una singola realtà aziendale. Un
cambiamento lento che avrebbe bisogno di maggiore sostegno e maggiore visibilità.
Ci sono poi, anche casi di datori di lavoro che approfittano della facilitazione offerta dal
tirocinio per avere personale a costo minore magari in un periodo di maggiore bisogno.
Così l’inserimento avviene solo in quanto coincidente con una strategia opportunistica del
datore di lavoro. Casi come quello di Bruno dove l’azienda, pur al corrente delle sue
problematiche, lo sfrutta finche può:
“Prima di questo lavoro ho fatto altre esperienze che purtroppo non sono
andate bene. Ho fatto un mese di lavoro, in più ad agosto….per […] che
però alla fine della borsa non mi hanno assunto…forse non avevano
bisogno di una persona…cioè la mia malattia impediva che potessi fare
quel lavoro, anche se in quel mese lo avevo fatto meglio che potevo, però
con la malattia… ”
Per capire invece che cosa era successo in questo inserimento, dobbiamo ascoltare il
mediatore che ha seguito Bruno:
37
“Prima di questo inserimento andato bene, Bruno aveva fatto altre
esperienze che lo avevano bruciato. Sia per la sua storia che per quello
che era successo era molto amareggiato, e non si fidava più.[…] in
particolare aveva fatto un mese di lavoro con […] presso […] come […].
Faceva un lavoro che in realtà poteva benissimo fare con la sua malattia, e
in più ci aveva messo molto impegno. Andava bene: del resto un uomo
con la sua esperienza e motivazione sa benissimo come affrontare il
lavoro, non è certo questo il problema. La […] ci aveva chiamati ad
agosto, in periodo di ferie, d'urgenza, chiedendoci una persona perché ne
avevano disperato bisogno. Nonostante le ferie abbiamo acconsentito a
inserire Bruno proprio perché era lui, con la sua situazione e
speravamo…o almeno questo è quello che ci avevano detto. Invece alla
fine del mese non lo hanno assunto, e io ho fatto un casino. Si vedeva che
avevano avuto bisogno solo in quel mese, ma non ci si comporta così,
con una persona che alla fine era sempre più amareggiata ”
Gli ambienti di inserimento problematici hanno comunque una qualche relazione con i servizi.
Esistono altre realtà che tengono atteggiamenti di totale rifiuto rispetto ad ogni forma di
collaborazione con il mondo della mediazione al lavoro.
L’area dell’irriducibilità
Le aziende che si riconoscono in questa tipologia manifestano la loro contrarietà a qualsiasi
tipo di proposta e soluzione arrivando a rifiutare ogni tipo di contatto con Servizi nel
tentativo di prendere tempo e rendere il rapporto impossibile.
38
Con questa tipologia di imprenditori l’opinione comune è che “è una battaglia persa” e non
vale la pena di investire risorse in termini di tempo e di persone.
Sottolinea infatti un mediatore:
“Certo che esistono delle aziende che non vogliono assumere soggetti
deboli. Molti infatti preferiscono pagare una multa, perché non hanno
tempo e voglia di seguire un disabile sul lavoro”.
Le aziende che rientrano in questa tipologia non sono comunque quelle che abbiamo
ascoltato noi, le informazioni su di loro le troviamo solamente nelle interviste agli
operatori. Sono le aziende che più di tutte sono portatrici del pregiudizio legato ai disabili e
alle rappresentazioni legate.
L’azienda e gli atteggiamenti nei confronti dei disabili
Nelle organizzazioni produttive esistono due tipi di interessi contrapposti che sono fonte di
conflitti: da un lato l'organizzazione, i suoi ritmi produttivi e le sue richieste di adattamento,
dall'altra gli uomini e le loro esigenze; il lavoro è un compromesso tra le esigenze soggettive
e le richieste di adattamento. Il risultato di questo compromesso è la stipula di un contratto
psicologico tra le attese e le disponibilità dell'individuo e dell'organizzazione. Spesso nel
caso dei soggetti svantaggiati le esigenze soggettive sembrano prevalere. Di questo hanno
paura le aziende. L’inserimento del disabile può dunque essere vissuto come una minaccia
per il sistema produttivo in quanto capace di incidere sull'integrità dei compromessi che
regolano l'organizzazione.
39
Il titolare di un'azienda di piccole dimensioni non in obbligo ha raccontato la sua
preoccupazione all'inizio dell'inserimento, che la presenza di un dipendente a minore
produttività spingesse i colleghi a "rallentare il passo" ma:
"spiegandogli bene la situazione, hanno capito, e lo hanno accolto. Anzi il
ragazzo è diventato un punto di riferimento, perché ci sono certe cose
cha fa lui, per cui è indispensabile, e anche i colleghi gli vanno a chiedere,
così si è guadagnato anche del rispetto."
Come sottolineano Mazzonis, Bolchini, Castellazzi e Noris “se l'azienda fosse un
organismo immoto, o segnato da dinamiche di cambiamento lente e progressive, il
problema sarebbe certo più limitato, ma la realtà non risponde a questi requisiti: la
globalizzazione del mercato che richiede più alti livelli di competitività, le conseguenti
radicali innovazioni che sono state introdotte nella struttura organizzativa e nel modo di
fare e produrre, che viene richiesto a chi è partecipe dei processi aziendali, disegna un
modello di trasformazione e di cambiamento della struttura produttiva che procede spesso
a balzi e a costo di profonde e dolorose riconversioni”
La struttura organizzativa è indubbiamente una delle variabili che contribuiscono a
differenziare il modello di socializzazione al lavoro. Infatti da questa deriva spesso la
filosofia che produce e costruisce i rapporti lavorativi.
È possibile individuare tre tipologie organizzative: la "bottega artigiana", il sistema burocratico –
organizzativo ed il sistema aperto.
Esistono naturalmente vantaggi e svantaggi oggettivi dei tre sistemi e le risorse umane che
sono parte dell'organizzazione usufruiscono di queste opportunità o subiscono svantaggi. Il
senso di appartenenza, l'identità, la gratificazione, le ansie persecutorie e depressive, il
rapporto con l'autorità, la motivazione lavorativa sono alcuni degli elementi psicologici
soggettivi che trovano nel modello organizzativo di appartenenza una loro collocazione e
40
un loro senso. Importante quindi valutare quando si deve inserire una persona debole
all'interno di una organizzazione quanto i meccanismi di difesa di quella persona sono
compatibili e adattabili con le caratteristiche peculiari di quel sistema.
L'importanza del clima, inteso come somme di variabili psicologiche individuali e variabili
organizzative é indubbiamente l'elemento nodale nel percorso verso l'integrazione
lavorativa dei soggetti deboli
La bottega artigiana
Questo modello organizzativo è costituito da un numero limitato di persone e il sistema è
sostanzialmente strutturato sui legami personali forti. Si riconosce nell'organizzazione una
figura di leader (il maestro) che oltre ad essere gerarchicamente sovraordinato è centrale
rispetto alla produzione. In questi contesti il soggetto debole può essere valorizzato e
protetto da punto di vista psicologico, ma questo non sempre rappresenta un vantaggio.
L'alto livello di protezione e attenzione può in parte impedire uno sviluppo di competenze
professionali o limitare il raggiungimento della parità con i colleghi.
“parlando dei tirocini diciamo che dal punto di vista pratico economico
l'azienda
vantaggi
non
ne
ha,
può
succedere
una
volta
su
cinque…insomma non è previsto dall'azienda, da una parte c'è il buon
cuore, soprattutto all'inizio, quando le prime volte proponiamo un
tirocinio di questo tipo, poi spesso succede che all'interno dell'azienda ci
sono persone che hanno parenti o conoscenti disabili…e non sempre
però è un dato positivo: può essere positivo rispetto alla disponibilità, può
essere un dato negativo quando poi attui l'esperienza, perché tendono a
farsi un progetto loro rispetto all'evoluzione della persona…si fanno
41
un'idea loro di dove la persona deve arrivare spesso connotando troppo
l'esperienza dal punto di vista diciamo morale, però perdono un po' di
vista l'aspetto pratico, pragmatico. La disponibilità ci vuole, ma le aziende
devono fare le aziende. ”
Rispetto ai tempi di adattamento dei disabili le persone intervistate nelle aziende
rispondenti al modello della bottega artigiana hanno dimostrato una sensibilità particolare
verso i disabili che lavoravano presso di loro. Di qui scaturisce il loro modo di assolvere
l’obbligo che gli consentiva di assolvere il loro obbligo in maniera costruttiva e attenta.
Questo atteggiamento può essere sintetizzato in una frase emersa nel corso di una delle
interviste realizzate: "se devo assumerli, allora tanto vale farlo bene."
Sempre nel corso della stessa intervista, questa persona fornisce una motivazione
dell’attenzione dedicata agli inserimenti:
"io devo lavorare qua dentro otto o dieci ore al giorno, la soddisfazione è
lo stipendio, certo devi lavorare bene... ma quello arriva, a fine mese
arriva... allora vuoi mettere con la soddisfazione di vedere crescere queste
persone?"
Il livello di considerazione verso il soggetto svantaggiato è ampio e afferisce anche ad aree
che travalica la dimensione prettamente lavorativa, passando dalle mansioni adeguate alle
sue peculiarità all'attenzione allo stato dei suoi rapporti con i colleghi di lavoro fino ad
arrivare ad una sorta di cura “extralavorativa”.
In questo senso è stato rilevato un atteggiamento “positivo” che, con molta probabilità,
trova la sua origine nel fatto che il processo di inserimento lavorativo del soggetto
rappresenta anche un momento di cambiamento per l’azienda e la sua cultura.
42
"se messa nel posto giusto, se si trova in un ambiente giusto, questa
persona può anche darmi 120, non solo 100. E comunque nella mia
azienda […] ci sono dei posti intoccabili, ma anche altri dove qualunque
persona metto non mi può rendere più di 80."
Rispetto agli inserimenti di disabili, i colleghi sembrano accettare queste persone, pur non
maturando relazioni personali di tipo amicale, pongono attenzione anche a quanto può
accadere nei momenti di entrata o uscita dal lavoro.
Il modello burocratico
Il modello burocratico è assimilabile alla organizzazione della fabbrica fordista. Modello
che attualmente non rispecchia più le attuali forme della produzione, ma del quale
possiamo trovare tracce nella struttura piramidale di alcune aziende di dimensioni medio
grandi o nella amministrazione pubblica.
Nelle nostre interviste abbiamo ascoltato solamente un caso di ente pubblico. Anche in
questo contesto si pone però la questione dell’ equilibrio fra produttività e cura della
persona.
Sfatando un luogo comune, uno dei referenti aziendali intervistati afferma che:
"non esiste più il disabile che viene a lavorare nell'ente pubblico e non
lavora. Anche se disabili, il loro stipendio se lo guadagnano."
Questa persona ci racconta anche di una iniziale diffidenza da parte degli uffici di cui l'ente
si compone nei confronti dei disabili. Diffidenza che viene poi superata grazie a diverse
43
cautele: l'intervistato, nel confrontarsi con i dirigenti di questi uffici, ricorda che il disabile
inserito deve lavorare, ma non viene considerato forza lavoro in quota all'ufficio con
riferimento alla produttività dello stesso (all’interno di un sistema burocratico la soluzione
degli eventuali problemi è essa stessa di natura burocratica). Inoltre l'inserimento è
monitorato dai servizi, sia in fase iniziale che poi in caso di bisogno nel corso del tempo, e
questo alleggerisce il carico e le diffidenze dei referenti.
L'intervista effettuata all'ente pubblico conferma una evoluzione recente, riportataci anche
da altri intervistati, delle modalità di inserimento delle amministrazioni, che negli ultimi anni
passano dalla chiamata numerica all'inserimento mirato e mediato, aprendo nuovi e
importanti spazi di definizione e valutazione della qualità dell’inserimento.
Il sistema aperto
Il sistema aperto rappresenta l'evoluzione dei due sistemi precedenti. Risponde alle esigenze
di produzione snella e flessibile e in ragione di un’organizzazione che può essere vasta ma
non divisa in “compartimenti stagni” contemporaneamente sviluppa le relazioni personali e
professionali sia in senso verticale che in orizzontale, aumentando le possibilità di sviluppo
relazionale ed affettivo. Se il fine ultimo è la realizzazione di un maggiore grado di
fidelizzazione del lavoratore all'azienda e ai suoi fini, questo sistema sviluppa la potenzialità
di un aumento anche del grado di affettività fra i colleghi.
Le criticità di questo sistema possono essere individuate nella richiesta di maggiori capacità
di adattamento e relazione richieste al lavoratore. Nel contempo questo modello è
maggiormente in grado di valorizzare le competenze della persona aiutandone, nel nostro
caso, lo sviluppo, e mettendo maggiormente in gioco sul luogo di lavoro il vissuto
personale. È però un modello altamente performativo, che bene si adatta al nuovo
paradigma produttivo, ma può risultare assai poco accogliente per i soggetti deboli.
44
Il sistema produttivo contemporaneo
Un contesto come quello descritto, nel modo in cui si è venuto a modificare
profondamente negli ultimi due decenni, può in parte mettere in crisi il sistema degli aiuti
agli inserimenti lavorativi dei soggetti svantaggiati. Molti dei mediatori ascoltati sentono il
bisogno di aumentare i loro saperi in questo campo, e rilevano la difficoltà dello sviluppare
dei percorsi di inserimento in un tessuto produttivo che si è fatto maggiormente flessibile,
terziario e competitivo. Come possiamo leggere nella "Terza relazione al Parlamento sullo
stato di attuazione della legge 12 marzo 1999, n° 68 "Norme per il diritto al lavoro dei
disabili" anni 2004 – 2005" del Ministero del Lavoro e Previdenza Sociale in collaborazione
con Isfol e Coordinamento delle Regioni: "la legge 12 marzo 1999, n° 68 […] è la risultante
di un lungo percorso di elaborazione in sede parlamentare, che ha avuto reale attuazione
solo dal 2000, come superamento della precedente disciplina normativa in materia, dettata
dalla legge 2 aprile 1968, n° 482. […] La legge del 1968 era sorta all'interno di un modello
di economia fordista basato su grandi concentrazioni industriali, con un modello
occupazionale sostanzialmente omogeneo, caratterizzato dal prevalere del lavoro
subordinato a tempo indeterminato, fortemente garantito quanto alla stabilità del lavoro. Il
passaggio al postfordismo ha comportato un profondo riassetto del mercato del lavoro,
dominato da esigenze di articolazione e flessibilizzazione […] che hanno richiamato la
necessità di ridefinizione del sistema di welfare e del connesso regime delle tutele, in
particolare per le fasce più deboli del mercato. […]. Un primo tentativo di realizzare tale
approccio emerge nella Legge quadro per l'assistenza, l'integrazione sociale e di diritti delle
persone handicappate" e prosegue poi con migliori esiti nella citata legge 68/99.
Nonostante i cambiamenti a livello legislativo ci siano stati, il cambio di paradigma
produttivo sembra non essere amichevole nei confronti di una utenza che ha nella maggior
parte dei casi bisogno di stabilità e continuità, e che sembra anche identificare il
riconoscimento sociale che è parte del valore del lavoro in una forma determinata del
lavoro: il lavoro subordinato a tempo indeterminato. Forma del lavoro e stabilità in
45
mansioni e posto di lavoro che sembrano essere sempre meno disponibili nel mondo
odierno.
L’inserimento lavorativo dei soggetti svantaggiati avviene infatti in un contesto produttivo e
sociale che ha fatto di flessibilità e relazionalità i propri principi fondanti. Le conseguenze
di questa situazione sull’inserimento dei soggetti svantaggiati in genere sono assai profonde.
Attorno al concetto di flessibilità si sono sviluppate molteplici tendenze che hanno
interessato l’apparato produttivo e il mercato del lavoro. La diffusione delle politiche
aziendali di outsourcing e produzione snella, ovvero di esternalizzazione e riduzione delle
dimensioni aziendali hanno accentuato una caratteristica del sistema produttivo italiano
ovvero la concentrazione del tessuto produttivo del paese in aziende di piccole o
piccolissime dimensioni. Questo fatto se da una parte ha una conseguenza diretta, per
quanto concerne l’inserimento lavorativo dei soggetti svantaggiati in termini di riduzione
della numerosità delle aziende in obbligo è altresì capace di generare conseguenze indirette
ma di grande portata. In questi processi è infatti implicita l’eliminazione di quegli spazi a
“bassa produttività”, consentiti dal sistema delle economie di scala, in cui tradizionalmente
si inserivano i disabili e i soggetti in difficoltà. L’applicazione della medesima logica
produttiva ai rapporti di lavoro ha invece reso sempre più diffuse modalità di inserimento
lavorativo – autonome, subordinate o parasubordinate - a basso grado di stabilità e ha in
qualche modo modificato i parametri attraverso i quali, consuetudinariamente, si definisce il
lavoro “normale”.
Il concetto di relazionalità del lavoro rimanda invece alla progressiva terziarizzazione dei
processi produttivi e al contenuto “sociale” insito nel lavoro nel campo dei servizi. A
differenza di quanto avviene nei settori primario e secondario la produzione di servizi non
può essere posta in essere senza la collaborazione del destinatario del servizio. In questo
senso la trasformazione dell’apparato produttivo implica uno spostamento di accento dal
saper fare al saper essere. Uno spostamento destinato a non rimanere privo di conseguenze
sull’inserimento lavorativo dei soggetti svantaggiati.
46
Questo nuovo assetto del mercato del lavoro se da una parte consente maggiore
“espressività”, dall’altra contribuisce a destrutturare sempre più la relazione intercorrente
tra lavoro e inserimento sociale mettendo sempre più in crisi i soggetti deboli, direttamente
per via della riduzione degli spazi di possibile inserimento e indirettamente tramite un
diffuso cambiamento di paradigma.
I servizi
Il sistema dei servizi per il sostegno all'inserimento lavorativo dei soggetti svantaggiati è
composito, con una struttura che dal nucleo direttivo centrale si ramifica nelle diverse
strutture che operano con i singoli utenti. Questa organizzazione deputata all'inserimento
lavorativo è opera anche per il tramite di organizzazioni del privato sociale affrontando con
l’utenza i problemi connessi al quadro medico o alla loro grado di partecipazione sociale.
Per arrivare all'inserimento lavorativo l’utente sarà monitorato ed accompagnato attraverso
diverse fasi da diverse figure del lavoro sociale, fra cui quella del mediatore è forse la più
determinante e presente.
Proviamo qui a ricostruire uno schema di percorso, con l’avvertenza che il modello che ci
accingiamo a descrivere può essere considerato come un tipo ideale ovvero un’astrazione
basata sulle ricostruzioni dei processi di lavoro nei casi esaminati.
L'estratto di un'intervista ad un mediatore rende l'idea delle descrizioni che abbiamo
raccolto in merito:
“Il nostro compito per lo più è di prendere in carico utenti giovani, per lo
più in uscita dai corsi professionali intorno ai 20 - 22 anni e dopo un
periodo di mediamente due o tre anni di tirocini in azienda stabilire quella
47
che definiamo una prognosi di tipo lavorativo. Capire la persona verso
quale tipo di progetto, o di inserimento lavorativo può essere avviata, o
verso un inserimento lavorativo vero e proprio - l'assunzione in azienda o verso progetti più di tipo socio assistenziale…siamo sul confine fra il
mondo sanitario ed il mondo socio-assistenziale.
[…] Il progetto dell'inserimento lavorativo deve essere interno al più
ampio progetto di vita che il servizio disabili ha sulla persona, quindi
siamo in contatto con il servizio proponente e abbiamo uno stretto
contatto con la formazione professionale, e quindi possiamo conoscere
anche in anticipo le persone che ci verranno segnalate. Questo ci
consente tutte le informazioni necessarie cliniche e di storia della famiglia.
Dalla
formazione
professionale
abbiamo
le
informazioni
più
sull'andamento scolastico e sulle autonomie acquisite dalla persona.
Partiamo dal dato clinico perché è necessario che le persone che
seguiamo abbiano un'invalidità almeno del 46%, quindi ci vuole una
diagnosi medica, poi chiediamo la certificazione di idoneità lavorativa,
dalla legge 68, quindi acquisiamo queste informazioni, ricostruiamo la
storia degli ultimi tempo e avviamo il progetto cercando che sia il più
possibile continuativo con la storia della formazione professionale. Spesso
il primo tirocinio che noi avviamo è nella stessa sede dello stage della
formazione professionale quando questo può essere utile. Per non
stravolgere troppo la vita della persona. Nella formazione professionale lo
stage è una parte del percorso scolastico, quindi è solo alcune volte alla
settimana e poche ore, noi passiamo piano piano a mettere alla prova le
persone il più possibile con ritmi e modi tipici del mondo del lavoro.
[…] poi dipende dalla persona, se una persona arriva da noi che ha 30 35 anni perché per qualche motivo è stata a casa dieci anni, oppure che in
qualche modo sono sfuggite alla maglia dei servizi…in questo caso si
cerca di ricostruire la storia, anche se è un po’ più difficile, gli strumenti
sono un po’ gli stessi. Si riprende contatto a partire dal servizio, e si
comincia appunto con tirocini. Uno degli strumenti è l'utilizzo per il
48
primo tirocinio con aziende che conosciamo bene con cui collaboriamo
da anni, ci sono molte aziende che sono proprio come collaboratori,
oramai collaborano con noi da anni e fanno proprio confronti fra i vari
casi, sanno come prenderli, sanno come accogliere il ragazzo nuovo che
arriva un po’ spaurito, e poi sanno come accoglierlo metterlo a proprio
agio e ci danno rimando. ”
Lo schema-tipo sul quale si articola il processo di inserimento sembra esser basato su sette
diversi momenti – alcuni centrati sulla persona, altri centrati sull’azienda – in parte
sequenziali e in parte paralleli.
Le fasi del processo di inserimento
a)
entrata della persona all’interno dei servizi
b)
presa in carico della persona (la persona diventa utente)
c)
accompagnamento dell’utente all’approccio al mondo del lavoro
d)
individuazione del ruolo
d)
ricerca aziende
e)
contatto con l’azienda
f)
inserimento nel posto di lavoro e accompagnamento
In realtà il processo è composto da fasi molto più fluide di quanto possa sembrare nel
descriverle sinteticamente: il percorso è infatti costantemente rimodulabile, e quando
necessario, può essere interrotto per inserire momenti formativi ad hoc, reindirizzamenti,
fino a ripartire nuovamente dall'azione di orientamento.
49
Inoltre alcune fasi, ovvero quelle più basate sul lavoro con la persona, sono spesso basate
sul lavoro di equipe con altri servizi: i servizi sanitari che accompagnano la persona nel suo
progetto di vita più ampio; l'orientatore che l'ha accolta all'inizio del percorso nei Servizi
per l’Impiego; l'equipe interna al centro di mediazione.
L’entrata dell'utente all'interno dei servizi di aiuto all'inserimento lavorativo.
Nel caso la persona sia disabile dalla nascita arriva ai servizi in oggetto segnalato dal
servizio di base che lo segue (USL, servizi sociali, ente formativo ecc.). Se invece l'utente è
diventato disabile nel corso della vita, arriverà ai servizi per propria iniziativa. La persona
diventata disabile accederà ai servizi sulla base delle informazioni che su questi detiene, o
che può acquisire. Il gap informativo, sia esso determinato dal portato culturale del
soggetto stesso o dalle informazioni a disposizione sui servizi, può rendere l'accesso
difficoltoso, casuale, incerto.
Il caso di Bruno è esemplare di questo aspetto. Il suo tragitto all'interno dei servizi è un
percorso durato circa otto anni dall'apparire del fenomeno invalidante. Al momento
dell’insorgere della disabilità, non sapeva con facilità a chi si dovesse rivolgere:
“Il percorso non è stato facile perché sono andato sempre per sentito
dire, ma se fai così puoi vedere che...se vai là può darsi che...e capisce che
nelle condizioni in cui ero io andare poi a...piangere sostanzialmente...che
la parola magari è un po' pesante ma definisce bene, poi...andare...una
persona che è sempre stata indipendente, andare a fare delle richieste in
una certa maniera...non e stato facile, poi pian piano, andando di qua,
andando di là, muovendomi anche con le mie problematiche, sono
riuscito a trovare la persona giusta e poi tramite appunto le strutture ad
arrivare qua... ”
50
Questa storia mette appunto in evidenza come la mancanza di informazioni a disposizione
ha portato la persona a non trovare immediatamente il servizio a cui rivolgersi per la sua
particolare condizione. Del resto da alcuni intervistati il servizio viene descritto come:
“poco conosciuto… Poca pubblicità, poca informazione. Molte persone
non lo sanno. Si iscrivono solo alle liste speciali e poi basta. Ti dicono,
poi ti chiameremo. Invece devi fare colloqui con le persone”
Anche per gli utenti che sono già inseriti in un contesto di accompagnamento l'incontro
con i servizi all'inserimento lavorativo può non risultare semplice. Nel racconto di questa
mediatrice vediamo come al servizio si possa arrivare per diverse vie, e per diverse vie
ottenere informazioni su di esso:
“Le persone devono essere iscritte al Collocamento disabili di Via
Cesarea, arrivano anche dai Centri per l’Impiego dislocati in varie zone di
Genova. Infatti noi consigliamo a tutti di avere una doppia iscrizione.
Arrivano attraverso una rete di informazione che può essere un tam tam,
il call center, volantini, attraverso amici etc. Il servizio di orientamento
disabili può dar loro un servizio in più rispetto a dei percorsi di lavoro da
attivare. L’organizzazione dell’ufficio è fatta di diversi orientatori.
Possono anche esserci delle segnalazioni da parte dei servizi sociali,
solitamente per situazione psichiatrica o deficit intellettivo.”
Nel racconto di un utente troviamo invece la non automaticità dell'accesso:
51
“L’assistente sociale mi aveva un po’ demoralizzato e mi aveva detto che
era molto difficile, invece poi tramite una mia amica sono arrivata a
questo servizio, mi ha detto che dovevo insistere e vedrai che te lo
trovano e infatti così è stato. Prima invece ero solo iscritta alle liste
speciali e quando ho chiesto quante persone avevo davanti non me lo
hanno potuto dire.”
Sembra quindi evidenziarsi come una possibile criticità la diffusione delle informazioni
relative al servizio ad un pubblico vasto, che può anche essere composto da persone che si
trovano già all'interno dei servizi.
Il primo filtro che incontrano tutti gli utenti è, in genere, il servizio di orientamento della
Provincia. Sulla base dei colloqui avuti con l'orientatore viene stabilito l'inizio di un
percorso per la persona, che può essere indirizzata verso progetti socio assistenziali oppure
verso il servizio di mediazione per l'inserimento lavorativo.
Come ci racconta un mediatore:
“Ogni orientatore ha in carico un tot di persone e dopo l’incontro di
accoglienza, decide attraverso i colloqui con la persona quale può essere il
percorso. I servizi sono un progetto rivolto a persone che hanno
un’invalidità molto forte, a coloro che hanno un’età più avanzata. Da
questo poi possono andare al progetto del (...) che è un progetto di
esperimento lavorativo per bassa soglia cioè persone con disagio, per
esempio ex tossicodipendenti che però si sono trasformati in qualcos'altro
o si lavora attraverso borse o tirocini per capire se la motivazione che
dichiarano c’è oppure no, per capire la tenuta. Questo è il lavoro
dell’orientamento. ”
52
Il lavoro dell'orientatore è un lavoro di codefinizione di un possibile progetto di
inserimento socio-lavorativo; codefinizione perché si tratta di un lavoro che avviene con
l’utente. L'attuazione e la sperimentazione di questo progetto viene poi attuata dal
mediatore o dal servizio a cui l'orientatore ha indirizzato la persona.
Questa figura ha il carico di fare una prima selezione degli utenti: vengono infatti inviati ai
servizi di mediazione per l'inserimento lavorativo solamente le persone che dimostrano di
avere già delle capacità di autonomia o addirittura professionali.
Nella mediazione quindi non rientrano tutti i disabili indiscriminatamente ma, come
avviene in tutti i processi di selezione lavorativa, la scelta cade sui soggetti che hanno
maggiore appeal per il mercato e le parole del nostro intervistato lo
descrivono
chiaramente.
“L’orientatore decide di mandare da noi persone con invalidità lieve, cioè
che non ti compromettono troppo rispetto al lavoro e una grossa
competenza lavorativa, per esempio una qualifica specifica, una persona
spendibile sul mercato come l’informatico, il ragioniere, il saldatore.
Risorse legate alla qualifica e alle esperienze lavorative. ”
Evidente quindi che come per tutte le altre categorie, anche nel caso della disabilità le
competenze pregresse ed eventuali titoli di studio specifici possono rappresentare una carta
vincente per il futuro lavorativo del soggetto preso in carico
Esistono comunque diversi tipi di mediazione, da quelli che si occupano di tutti i soggetti
svantaggiati minimamente in grado di affrontare un percorso di inserimento, a quelli che
lavorano solamente con utenti che sono in possesso di capacità e competenze di buon
53
livello, come dicono due nostri interlocutori descrivendo il servizio all'interno del quale
operano:
“ […] l'area dei servizi di mediazione che prevede stage, colloqui e tirocini
è una parte dei servizi di mediazione, l'altro è il collocamento mirato deve
vengono segnalati quei disabili che in fase di orientamento in provincia
attraverso uno screening del curriculum e una serie di colloqui si ritiene
che possono essere in grado di sostenere colloqui di selezione nelle
aziende per un'assunzione diretta…”
“ […] in particolare il nostro è quello che si può, all'interno di una serie di
offerte interne al… e anche rispetto al sistema formativo e orientativo
della provincia, è la parte un pochino più evolutiva, nel senso che le
persone che arrivano sono persone che tendenzialmente o hanno già
esperienze di lavoro oppure hanno comunque un orientamento
personale, diciamo, verso l'idea di poter lavorare e sono o potrebbero
essere in partenza, in uno stato personale abbastanza integrato. ”
Non abbiamo intervistato degli orientatori e le informazioni sulle loro funzioni le abbiamo
avute, in quanto inizio del percorso, dai mediatori ascoltati. Non abbiamo quindi elementi
di prima mano per poter ragionare su questa fase iniziale. Possiamo però mettere in
evidenza che la possibile criticità del dover scegliere un indirizzo piuttosto che un altro per
l'utente valutandone le competenze e le autonomie è fortemente attenuata dal fatto che
questa figura rimane in contatto con il servizio a cui l'utente viene diretto, valutando
sempre la possibilità di una rimodulazione anche radicale del progetto iniziale secondo le
risposte dell'utente.
54
La presa in carico
In questa fase il soggetto inizia il vero processo di inserimento lavorativo: l'utente passato
dal servizio di orientamento incontra il mediatore.
Come si svolgono i colloqui e con quali strumenti? Come ci racconta un mediatore:
“il colloquio avviene attraverso una scheda, vengono chieste cose
soprattutto legate al lavoro, vengono portati qui tutti i documenti in loro
possesso, e a quel punto con il curriculum entrano a far parte della nostra
banca dati e sono classificati a seconda dell’invalidità, dei diplomi, delle
qualifiche che hanno. A quel punto i mediatori ogni volta che gli
orientatori ci passano delle persone, ce le passano attraverso una mail
formale e attraverso una scheda sulla persona, noi colloquiamo le
persone, compiliamo le nostre schede, a quel punto c’è l’incontro
domanda offerta. ”
Dalle parole precedenti è possibile osservare due degli aspetti che apparentemente
caratterizzano il lavoro di mediazione:
1. l’apparente standardizzazione del processo di selezione ed inserimento lavorativo che
dalle parole dei vari operatori segue le stesse fasi:
“Noi abbiamo una scheda d’ingresso con i dati anagrafici, il titolo di
studio, le esperienze pregresse, le cose che vuole fare o non vuole fare e
che noi aggiorniamo periodicamente in itinere. Ai colloqui io seguo delle
tracce. Il primo colloquio è in genere di conoscenza ma difficilmente si
parla della diagnosi a meno che la persona non voglia parlarne, una breve
55
storia personale per chi ha voglia di farla e in genere si parla già di lavoro
quindi la domanda classica è “che cosa vorresti o non vorresti fare” e poi
“che cosa puoi fare, che cosa non puoi più fare”.
2. la necessità di lavorare in rete con gli altri servizi della Provincia. La realizzazione di un
lavoro di rete tra i servizi passa attraverso la disponibilità a superare la tendenza
all'autoreferenzialità spesso presente nei servizi:
“Il progetto, in teoria, il percorso lo costruiamo noi con la persona e con
l’orientatore. Come gruppo e individualmente anche se ci sono delle
situazioni in cui le persone arrivano che sono già seguite dai servizi. Il
nostro lavoro è anche collegarci in rete perché per costruire un percorso
lavorativo, più informazioni hai e meglio puoi mediare. Spesso
costruiamo un percorso anche dal nulla, attraverso i colloqui cerchiamo di
attivare la situazione che ci sembra meglio. ”
Abbiamo parlato di apparente standardizzazione per un motivo preciso: mentre tutti i
mediatori hanno riferito all'inizio dell'intervista l'utilizzo di strumenti di supporto al
colloquio con l'utente, questo aspetto sembrava passare in secondo piano per tutto il resto
del dialogo, che si centrava sulla dimensione di un rapporto maggiormente dialogico e
relazionale. Come afferma un nostro intervistato l’empatia risulta essere una caratteristica
ed una competenza professionale trasversale:
“L’empatia è una caratteristica fondamentale per chi fa questo mestiere
perché ti permette di rischiare. A volte l’empatia si ferma li oppure
diventa "invischiamento" e se non è rafforzata da una forte
professionalità per proteggere una persona non le dai delle possibilità.”
56
Sembra quindi che l'utilizzo di strumenti informativi e di intervista standard si applichi
particolarmente all'inizio del percorso, in questa fase di presa in carico dell'utente e svolga
una funzione di “ufficializzazione/istituzionalizzazione” della rapporto. Successivamente,
per poter portare a termine con successo il progetto di inserimento mantenendo aperta la
caratteristica forte di individualizzazione del percorso gli strumenti formali diventano forse
meno importanti a fronte invece di una "capacità professionale/personale" di dialogo e di
assistenza.
L’accompagnamento dell'utente all'approccio al mondo del lavoro.
Sulla base delle informazioni dei servizi che hanno accompagnato l'utente fino alla presa in
carico e dei colloqui avuti in prima persona, il mediatore inizia a far avvicinare la persona al
mondo del lavoro cercando con gli strumenti a sua disposizione di individuare il percorso e
la situazione lavorativa più congeniale con le caratteristiche e le competenze del soggetto in
carico:
“Alcuni disabili stanno in carico da noi nove mesi, perché sono persone
più fragili o perché non hanno qualifiche, o perché hanno disabilità gravi
o perché sono fuori dal mercato del lavoro da molto tempo. Al termine di
questi mesi il nostro obiettivo è di inserirli attraverso tutta una serie di
strumenti che sono colloqui per conoscerli meglio, fai un certo tipo di
percorso per fargli capire qual è il loro reale profilo e poi fai degli
interventi sugli stage, per esempio sulla persona che deve assolutamente
cambiare il lavoro che ha fatto per vent’anni perché magari ha fatto solo il
muratore e non lo può fare più a quel punto tu devi non solamente
57
trovargli un’occupazione ma anche trovare con lui uno scenario possibile,
magari ha solo la terza media, bisogna quindi proporgli di prendere una
qualifica e se non accetta di fare dei corsi, lo metti in gioco facendogli
fare, accompagnato da te, degli stage in altri ambienti e facendogli capire
che può fare il giardiniere, per esempio. A quel punto lo stage diventa un
mezzo per far capire a lui che ci possono essere altri percorsi e per te per
conoscere la persona, le sue qualità, il suo apprendimento, la sua serietà,
le sue motivazioni e il passaggio successivo è quello di cercare le aziende
che cercano un giardiniere. ”
Nel frammento di intervista sopra riportato si ritrova molto chiaramente evidenziata
l’indeterminatezza della durata del percorso di inserimento lavorativo. La funzione che ha
questa fase la troviamo descritta anche in altre interviste:
“Normalmente, sulla base delle specificità nonché del pregresso
formativo/lavorativo della persona, il mediatore cercherà di inserirla in
aziende disponibili a "metterla alla prova" tramite tirocini o borse lavoro.
È la fase in cui si testano soprattutto le capacità relazionali e pregresse
della persona, in cui l'utente viene posto a confronto con il proprio
limite”
L’individuazione del ruolo
La ricerca del ruolo adeguato alla persona è costruita su un percorso continuo di
valutazione, riallineamento e individuazione di obiettivi possibili. Un percorso che a volte
assume la forma di un ritorno al punto di partenza:
58
“In teoria la porta dell’orientamento è sempre aperta. Queste persone
possono uscire dalla mediazione soprattutto motivate, se non sono
assunte ci possono essere altri sbocchi, ci sono persone che non hanno
assolutamente competenze alle quali consigliamo di fare dei corsi per
formarsi o prendere dei voucher. C’è sempre una grossa presa in carico e
quando il percorso finisce c’è comunque un’alternativa. E’ capitato che il
percorso finisse perché magari alcune persone hanno rinunciato, trovano
lavoro con altri canali o perché davvero la loro invalidità li ha fermati. ”
L'accompagnamento dell'utente al mondo del lavoro e la definizione del ruolo che può
svolgere al suo interno sono due fasi osmotiche, estremamente interrelate. Nonostante
questo, qui le analizziamo separatamente in quanto sono due momenti con finalità diverse.
Nella prima fase infatti si cerca di appurare le competenze pregresse dell'utente, le sue
autonomie anche basali legate alla vita quotidiana, le sue capacità relazionali, e di
comprendere se è in grado di confrontarsi con gli obblighi e le modalità del mondo
produttivo. Si cerca quindi di ovviare ad eventuali carenze, in un percorso, come detto, di
avvicinamento al lavoro.
Nella seconda fase il lavoro consiste maggiormente nella definizione di un ruolo lavorativo
possibile, nel raffronto con i limiti dell'utente, le sue capacità ed aspirazioni, le possibilità ed
esigenze della realtà produttiva, cercando nel contempo di creare un profilo di occupabilità.
In entrambe, anche se maggiormente nella seconda, l'utente può essere inserito in azienda
per periodi più o meno lunghi utilizzando strumenti contrattuali quali il tirocinio o la borsa
lavoro per "metterlo alla prova" o per dotarlo di competenze relative ad una mansione. La
messa alla prova può riguardare sia le capacità relazionali e “autonomia” dell'utente, sia il
confronto con gli obblighi del lavoro, sia, per utenti meno problematici, il grado di
competenze che la persona detiene rispetto ad un ruolo lavorativo.
59
La ricerca aziende.
Oltre alle fasi sopra elencate dove l’attenzione è focalizzata sull’utente, a volte in parallelo, a
volte come momento sequenziale, il percorso-tipo prevede anche un lavoro rivolto alle
aziende. Un lavoro che incomincia con la ricerca.
Con il termine ricerca aziende intendiamo sia la ricerca delle aziende disponibili ai tirocini di
prova, che normalmente fanno parte della rete di collaborazioni del servizio di mediazione,
sia la ricerca delle aziende invece utili e disponibili per l'inserimento lavorativo vero e
proprio.
Qui entra in gioco la conoscenza del mercato del lavoro locale e dei soggetti imprenditoriali
che lo animano.
Le aziende in cui compiere gli inserimenti possono essere rintracciate all'interno delle
aziende in obbligo per la legge 68/99, o nel bacino imprenditoriale locale. Pur in
considerazione del fatto che non tutte le aziende in obbligo sono concretamente disponibili
ad inserire un lavoratore disabile è tuttavia evidente che la disponibilità di queste due
categorie di soggetti è molto diversa.
Non sempre a compiere il lavoro di ricerca è il mediatore. In alcune strutture possono
esistere figure incaricate di questo ruolo, oppure il mediatore si appoggia alle strutture
deputate della Provincia. Ma i contatti con le aziende possono provenire anche da altri
canali: possono fare parte della rete personale del mediatore oppure provenire da
precedenti collaborazioni tenute con le agenzie formative per l'implementazione di stage.
Abbiamo chiesto come l'azienda era stata rintracciata, e il mediatore di uno dei casi
analizzati racconta:
“[questa azienda] rappresenta proprio il classico caso di collaborazione. In
questo momento credo che abbia inserite quattro persone, e quindi per
adesso non ci rivolgiamo più a loro per non sovraccaricarli, ma con loro
60
abbiamo un rapporto molto buono. Il contatto veniva dalla Provincia, ed
era nato con una consulenza che la Provincia gli aveva fatto, perché loro
si erano rivolti all'ufficio per capire che cosa dovevano fare con la legge
68, per gli inserimenti. ”
In un altro caso il contatto era stato procurato dal ricercatore di aziende interno alla
struttura in cui il mediatore lavorava. Il referente aziendale di questa realtà ha raccontato
come ha conosciuto i servizi:
“Questa è la prima assunzione che faccio, prima di Enzo mi capitava
saltuariamente di far lavorare qualche ragazzo in stage. E non ne farò altre,
perché la ditta è piccola e quindi… […] facevo lavorare dei ragazzi che
venivano dai corsi di formazione […] Io non sapevo nulla della possibilità
di assumere dei disabili, non ci pensavo nemmeno, poi sono stato
contattato da delle persone dei corsi di formazione […] Sono venuti qui,
si sono presentati, abbiamo parlato…e io ho accettato di far lavorare
questi ragazzi. Anche Enzo è venuto a lavorare qui così, poi abbiamo
visto che era bravo con i computer, e in quel momento
pensavamo…avevamo un progetto di tipo informatico, pensavamo ad un
sito, allora subito pensavamo di farlo lavorare su questa cosa, poi il
progetto non è andato avanti, ma loro mi hanno chiesto se potevo anche
a farlo lavorare in […] o in […], e abbiamo visto che Enzo poteva
lavorare anche lì insomma. Poi mi hanno chiesto se potevo assumerlo, mi
hanno spiegato come si faceva tutto. Poi la cosa andavano po’ per le
lunghe, allora io mi sono rivolto al mio consulente, ne abbiamo parlato
insieme e ho deciso di assumerlo. ”
61
In questo caso l'azienda non si trovava in obbligo di legge, e il contatto proveniva dalla rete
di aziende contattate dagli enti di formazione per lo svolgimento degli stage, rete a cui il
cercatore interno alla struttura aveva fatto riferimento.
Tutti i mediatori descrivono queste tre vie principali: le aziende prese dall'elenco delle realtà
in obbligo, quelle provenienti dai contatti del mondo della formazione, i contatti personali
del mediatore.
Il reperimento delle aziende, grazie all'obbligo creato dalla legge di riferimento, non sembra
essere il problema principale. Ma nelle parole dei nostri intervistati sembra che al di fuori
dell'area in obbligo non sia per niente facile reperire aziende disponibili, a meno che non
esistano contatti precedenti, non si sia già conosciuti. Tantomeno sono diffuse strategie di
condivisione delle informazioni; l’azienda, particolarmente quella configurabile come
ambiente di lavoro favorevole all’inserimento, è vista come un bene prezioso o come un
possibile cliente/“sbocco di mercato” che non va rivelato alla concorrenza (gli altri
mediatori).
“facciamo una distinzione fra aziende che cerchiamo per i tirocini e quelle
che cerchiamo per gli inserimenti veri e propri, per gli inserimenti,
soprattutto ultimamente lavoriamo in stretto contatto con la provincia
sulla base delle aziende in obbligo per la 68, soprattutto negli ultimi anni,
c'è comunque una ricerca nostra autonoma, e per le assunzioni c'è
l'obbligo di legge che aiuta molto ”
Anche con le aziende soggette ai criteri della legge 68 possono esserci dei problemi:
“ […] dal privato si prende quello…insomma senza l'obbligo è difficile.
Hai anche meno potere contrattuale. In generale continuano ad esserci
dei forti pregiudizi. […] molto spesso c'è la paura data dal pregiudizio e
62
dalla non conoscenza, anche perché molti ancora pensano al disabile
pensandolo più come una persona psichiatrica o una persona down, io
credo che nell'azienda dove si riesce ad entrare, a parlare, a confrontarsi, a
collaborare i risultati buoni ci sono…spesso si trova la porta sbarrata
ancora prima, dipende dalle aziende, ci sono aziende che non si dicono
interessate e anche di fronte all'obbligo presentano profili molto elevati,
per esempio chiedono un disabile, che venga inviato un ingegnere… che
può anche succedere con un disabile di tipo fisico, la paura è molto forte
per il disabile di tipo mentale, questo fa ancora molta paura”
Ci si scontra qui con il pregiudizio. All'interno del mondo aziendale, sul disabile, sul
soggetto svantaggiato, pesano ancora grossi pregiudizi e stereotipi, che possono andare dal
più pragmatico "sono un peso, non sono produttivi" fino al considerarli come un vero e
proprio problema, perché identificati immediatamente con l'immaginario riferito alle
persone down o ai malati mentali.
I servizi di aiuto all'inserimento svolgono un evidente lavoro di tipo culturale. Ma, nelle
parole di una nostra intervistata, considerata come attore esperto del sistema:
“Abbiamo deciso di fare una ricerca fra le aziende, ma questa non
rivolgendoci a quelle che avevano inserito, ma alle altre, quelle che
piuttosto preferiscono pagare la penale. […] Il risultato di questa ricerca è
stato che all'interno di queste aziende si trovavano ancora i pregiudizi sui
disabili di anni addietro, queste persone non erano nemmeno a
conoscenza del nostro servizio. ”
Per tutti questi motivi il lavoro con le aziende, che noi qui abbiano scisso in tre momenti
successivi - la ricerca, il primo contatto e l'inserimento – risulta essere nel suo insieme
particolarmente delicato ed importante.
63
Il contatto con l’azienda.
A partire dal primo contatto con l'azienda parte la consulenza alla stessa, finalizzata ad
accompagnarla nell'inserimento. Si stabiliscono tempi e modalità dell'inserimento. Si cerca
di non "spaventare" l'azienda appesantendola di troppe responsabilità, di provvedere datore
di lavoro, o dirigente e colleghi, delle informazioni necessarie sul soggetto.
Questo lavoro a volte sembra sommarsi sulla figura del mediatore. Altre è invece scisso e in
questo caso il mediatore compie il percorso a partire dal “secondo contatto”, sulla base di
un lavoro compiuto da altri servizi facenti capo alla Provincia.
Il lavoro di creazione dello "spazio di inserimento" all'interno della struttura si può scindere
in due diversi assetti: la "creazione" dello spazio e la "occupazione" dello spazio creato,
ovvero il momento dell'inserimento vero e proprio.
Nelle affermazioni raccolte tramite interviste questi due momenti appaiono spesso come
disgiunti, ma emerge anche un certo grado di sovrapposizione risolto di caso in caso nelle
pratiche di lavoro e di coordinamento quotidiane.
Operativamente questo processo prende avvio da una presentazione del caso sulla base del
quale si cerca di sviluppare un accordo. Nel caso in cui sia un primo contatto, o comunque
l'azienda non sia già conosciuta si tratta di un lavoro di
particolare importanza. Il
mediatore si trova infatti a fare consulenza all'azienda sul ruolo che la persona
accompagnata può rivestire all'interno del processo produttivo:
“I mediatori nel contempo vanno nelle diverse aziende con una scheda,
fanno un’istruttoria, cercano di capire il bisogno dell’azienda, il profilo, il
luogo, le barriere architettoniche e cercano di abbinare all’azienda le
persone che abbiamo selezionato per quel luogo. ”
64
“Direi che il nostro lavoro è proprio questo, cercare l'azienda che ci faccia
entrare, noi abbiamo come modalità di lavoro quella di entrare dentro le
aziende, di guardare dentro le stanze vedere come si svolge il lavoro, che
è molto diverso dal leggerlo sulla carta o farselo raccontare, per suggerire,
ipotizzare delle collocazioni della persona disabile ”
“Quando ti presenti all'azienda per presentargli un caso, è un momento
molto importante. Devi essere molto chiaro, non devi mentire. Quello
che devi fare è un patto chiaro. ”
I mediatori ascoltati sembrano trovarsi nella posizione di chi, proveniente da un frame
estremamente diverso da quello aziendale, debbono porsi nei confronti di questo in una
posizione di convincimento per riuscire a raggiungere l'obbiettivo dell'accettazione
dell'utente. Per penetrare all'interno di un frame quale quello produttivo occorre dunque
comunicare anche adottando il
linguaggio dell’azienda ed incorporarne, anche
parzialmente, le istanze.
L’inserimento nel posto di lavoro e l’accompagnamento.
L'inserimento è il momento in cui il posto creato all'interno dell'azienda dal lavoro che i
servizi o il mediatore hanno fatto con l'azienda viene materialmente occupato. L'utente
entra sul posto di lavoro che tendenzialmente viene considerato il suo inserimento stabile e
definitivo. Il mediatore fa sì che gli vengano affidati ruoli e mansioni che da una parte non
travalichino o mettano in stress il limite di cui il disabile è portatore, dall'altra siano però
costruttivi e il più possibile inseriti nel contesto, ponendo altrettanta attenzione alle
esigenze dell’azienda e del processo produttivo.
65
Durante i primi tempi dell'inserimento il mediatore svolgerà una funzione di monitoraggio,
ascoltando ed aiutando a superare i possibili problemi sia dell'utente che dell'azienda nel
processo di incontro in corso dei due soggetti.
Questo vuol dire che il suo lavoro di accompagnamento successivo all'inserimento si svolge
nei confronti di entrambi i soggetti, andando periodicamente sul luogo di lavoro a parlare
sia con l'utente che con i suoi colleghi e con il referente aziendale, mediando ancora fra le
diverse esigenze, intervenendo nel caso in cui l'utente presenti problematiche fino ad allora
non conosciute e impreviste. Il lavoro con la persona può anche continuare a svolgersi
tramite colloqui periodici.
Da quanto emerge la fase dell'accompagnamento ha un termine ma in realtà i mediatori
rimangono poi a disposizione dell'azienda per interventi occasionali, nel caso in cui per
esempio le condizione del nuovo assunto dovessero in qualche modo peggiorare, sia per
intervenire direttamente (parlando per esempio con la persona in questione), sia per
valutare il caso di segnalare la situazione ad altri professionisti del sociale o ai servizi che già
lo seguono.
[…] nel tempo hanno collaborato molto, ogni tanto li abbiamo sentiti
anche per inserire dei tirocini di prova, ora non lo facciamo perché ne
hanno già tanti […] rimaniamo comunque in contato, anche perché ogni
tanto ci chiamano quando hanno dei problemi con le persone già inserite,
per esempio Andrea ultimamente ha avuto qualche problema, ha reagito
male, era stato ripreso dal capo reparto e ha reagito male, così ci hanno
telefonato […] Il lavoro fatto con loro è quello che tentiamo di fare con
tutte le aziende: siamo andati in azienda, abbiamo visto come si lavora,
che cosa producono, abbiamo cercato insieme quali potevano essere i
posti migliori per mettere le persone che gli proponevamo. ”
66
Ciò che invece non sembra essere definito sono i tempi e i modi della collaborazione postinserimento. A partire da quando l’inserimento è dato per effettuato? E per quanto tempo
l’azienda può ancora rivolgersi al mediatore nel caso insorgano dei problemi? Nella
sfocatura derivante da questa situazione le stesse aspettative delle aziende nei confronti del
sistema appaiono quanto mai incerte e mutevoli.
Le fasi dell'inserimento e dei primi tempi del lavoro dovrebbero essere in genere poco
problematiche, soprattutto quando il soggetto inserito ha già fatto tirocini di prova in altre
aziende o, ancora meglio, nella stessa in cui adesso è stato assunto. I problemi possono
sorgere nel caso in cui il soggetto non abbia conosciuto precedentemente l'azienda di
inserimento finale, oppure nel caso in cui gli vengano cambiati ruoli e mansioni. Problemi
che si possono comunque presentare anche in successivi momenti, quando la fase
dell'accompagnamento è terminata, e per cui il mediatore rimane comunque sempre a
disposizione.
Il percorso mutevole
Nelle pagine precedenti abbiamo scelto di fare riferimento ad un "oggetto concreto" quale
il percorso tipo descritto per riuscire ad affrontare la complessità di quanto emerso dalle
interviste rispetto al tema dei servizi, forzando questa complessità in uno schema che poi
rispondente alla realtà lo è nella misura in cui riduce per rendere leggibile.
Il percorso reale infatti trova il suo maggiore punto di forza, di efficacia, proprio in un
aspetto che non è possibile rendere in una descrizione sequenziale: il suo essere
individualizzato e quindi totalmente rimodulabile in qualsiasi momento del percorso stesso.
Nelle parole di due operatori, che rappresentano comunque le opinioni di molti, forse tutti
i mediatori ascoltati:
67
“Punto di forza è questo approccio alla gestione di questi percorsi. Nel
2002 sono stati approntati i primi strumenti, sono stati i tirocini, poi via
via si sono affinati andando nella direzione dei bisogni della persona e
soprattutto nel personalizzare. Cosa che storicamente, come cultura,
nell'ambito da cui vengo della formazione questo non avveniva, ci sono
dei contenitori dentro cui devono stare le persone, mentre qua il discorso
è stato inverso. Si sono creati percorsi individualizzati, considerando le
singole persone. Si è cercato di mettere in campo risorse e strumenti in
direzione opposta, nelle due direzioni aziende e persone, per le persone è
stato un processo un po' più naturale, per quanto riguarda il servizio un
po' più di resistenze per quanto riguarda le aziende…”
“Abbiamo anche dei percorsi che non sono finalizzati all'inserimento allo
sbocco occupazionale, ma all'osservazione, può essere una presa in carico
di pochi mesi con osservazione e formazione I percorsi non sono sempre
finalizzati all'assunzione: la particolarità di questo servizio che si è affinata
con gli anni è che sono percorsi individualizzati. ”
Come dicevamo, i percorsi individualizzati sono rimodulabili:
“L'orientatore inizia a definire il progetto dell'utente, poi tutto continua
nella collaborazione fra orientatore e mediatore, e ci vuole massima
flessibilità, alle volte l'utente può ripartire dall'orientamento, o dalla
formazione, si ridefinisce il percorso. ”
68
Il fatto che sia individualizzato è un punto di forza di fronte all'estrema eterogeneità
dell'utenza considerata, sia che si parli di disabili in senso stretto, sia che si parli in senso
ancora maggiormente ampio di soggetti svantaggiati:
“Ci sono persone di tutti i tipi e le età, abbiamo curricula assolutamente
ricchi di esperienza, persone che poi devono interrompere per motivi di
salute per alcuni periodi, persone che per cause loro personali rispetto
all’invalidità devono con noi reinventarsi, diversi tipi di invalidità, oppure
persone senza esperienza, quindi fasce di età più giovani dove si possono
proporre stage formativi, stage di osservazione, dove c’è anche più
disponibilità a fare stage piuttosto che pensare già ad inserirli. ”
Individualizzazione che ha due conseguenze dirette: la prima è la possibilità di rimodulare
le diverse fasi in ogni momento, di ripeterle, di fluidificarle a seconda delle esigenze e delle
risposte del singolo utente. Utente che può anche trovarsi nella situazione, come abbiamo
visto in diversi estratti riportati, di interrompere in qualsiasi momento il percorso per poi
riprenderlo in altri momenti, o ancora di entrare al suo interno in una situazione che lo
porta più velocemente verso l'inserimento finale saltando fasi intermedie.
La seconda conseguenza è l'estrema variabilità della durata dei singoli percorsi: prima di
arrivare all'inserimento vero e proprio gli utenti compiono percorsi più o meno lunghi, che
possono anche durare anni, la cui durata non è stabilita a priori dipendendo sempre dalla
risposta della persona.
Il rappresentare lo schema pur con tutti i suoi limiti ci ha però permesso di mettere in
evidenza alcuni aspetti sensibili, sia come punti di forza che di miglioramento possibile del
sistema dei servizi considerato.
Emerge da questa panoramica una buona capacità di “fare rete”, un punto considerato
estremamente importante dai nostri intervistati. Ma si tratta di un “fare rete”
69
principalmente basato sulla dimensione informativa. Molto meno comune è invece il fare
insieme tra strutture diverse.
Siamo dunque di fronte ad un sistema in grado di seguire sia il singolo utente, con
attenzione alle sue specifiche esigenze, sia di ascoltare e dare credito alle esigenze delle
aziende, mettendole in relazione tra loro alla ricerca di un difficile equilibrio volto al
raggiungimento dell'obbiettivo, il migliore binomio possibile utente/azienda ma pressoché
esclusivamente centrato sulla capacità di sfruttare il capitale sociale e culturale degli
operatori che ne fanno parte.
Un sistema all'interno del quale emerge in maniera importante e per certi versi critica la
figura del mediatore, nodo centrale del percorso che abbiamo cercato di descrivere.
Il ruolo del mediatore
Il lavoro del mediatore può essere definito come un “ruolo cerniera” la cui funzione è
quella di mettere in comunicazione frame, culture e istituzioni estremamente diverse tra
loro; l'anello di congiunzione tra il mondo del lavoro e i soggetti svantaggiati.
Come si è visto la loro capacità e professionalità nel capire e nel rapportarsi con gli utenti si
dimostra non semplicemente importante ma assolutamente fondamentale al fine di cogliere
le aspettative e le attitudini dei soggetti disabili ma anche ciò che i soggetti possono fare e
quello che vorrebbero fare.
Una mediatrice ci racconta come si approcciano agli utenti e come cercano di capire ed
interpretare i desideri lavorativi dei loro utenti:
“In generale cerchiamo di far sì che questo possa avvenire, la prima
domanda sicuramente è “cosa lei vorrebbe fare”, la domanda successiva è
70
“cosa lei può fare”, per la nostra filosofia le due cose sono unite. Cosa tu
vuoi fare significa sicuramente rispettarti indipendentemente dalla
disabilità. Questo vale per qualsiasi disoccupato, uno può anche aver
fatto qualunque tipo di lavoro per sopravvivere, ragion di più bisogna
tener conto di quello che il disabile desidera fare ma nel contempo anche
quello che può fare, tenendo conto dei limiti. Succede spesso che queste
persone abbiano bisogno di capire con te che determinati desideri che
hanno sono difficilmente attuabili rispetto alla tua realtà di disabile. Un
esempio è stato Francesca: nessuno di noi le ha detto non puoi fare
questo, non potrai mai farlo, ma il nostro lavoro è proprio quello del
rispetto della persona accompagnato dalla considerazione della realtà
oggettiva non solo con i discorsi ma anche con dati concreti, elaborando
col mediatore le difficoltà che hai incontrato o incontrerai. Alcune
persone hanno bisogno di capire che non è impossibile fare un certo tipo
di lavoro ma è difficile. Esistono situazioni dove ti dicono “no, voglio
fare solo quel tipo di lavoro”, a quel punto ci diamo del tempo e diamo
tempo alla persona di capire che non è possibile, facendole fare anche
esperienze diverse.”
Un know-how relazionale che si esprime anche nei confronti dell’azienda. Una relazione che
deve soddisfare il doppio scopo di "convincere" l’azienda ad assumere un utente e che si
concretizza in una forma di consulenza deputata alla definizione di ruoli e mansioni
possibili per dei lavoratori svantaggiati.
Così la componente di “servizio all'azienda” assume un ruolo almeno altrettanto
importante di quello del servizio alla persona da inserire. Anzi, da tutti mediatori ascoltati
sembrava emergere una sorta di “priorità dell’azienda”. Come se il lavoro sull’utente fosse
dato per scontato le preoccupazioni più diffuse tra gli operatori riguardano la capacità di
instaurare e mantenere relazioni positive con il mondo dell’impresa.
71
Nelle parole dei mediatori intervistati si percepisce quasi una volontà forte di rimarcare
questo ruolo rispetto all'azienda: “prima si cerca l’azienda, dopo la persona.”
In questo si può trovare traccia di un avvenuto passaggio. Come afferma uno di essi:
“Per un periodo ci si è portati dietro il retaggio da formazione, dove
l'azienda veniva vissuta come una porta da sfondare, riuscire ad entrare,
un approccio all'azienda come dover fare una forzatura, questo era
l'obbiettivo che si aveva...comunque sia anche questo è stato accettato,
magari con un po' di difficoltà, questo è il grosso cambiamento che in
quattro anni è avvenuto”
D’altronde questo aspetto mette in evidenza la difficoltà di mettere tutti nelle stesse
condizioni. Come afferma uno degli intervistati:
“la necessità è quella di trovare il posto giusto per la persona giusta, che si
può fare in ogni azienda, sarebbe bello poterlo fare in tutte le aziende”
Questo lavoro di creazione di un posto di possibile inserimento all'interno di un organico
aziendale, che richiede competenze, da parte dell’operatore sull'organizzazione dei processi
produttivi, ed è l'aspetto più evidente e pragmatico di un'azione meno definita ma forse
anche più importante: il lavoro sulla cultura aziendale.
72
“Si parte dai bisogni e caratteristiche della persona e nello stesso tempo
dell'azienda, che possono anche andare fuori dal bulacco e chiedere un
ingegnere, allora di fronte al potere contrattuale che hai con l'obbligo di
legge, puoi chiedergli di pensare ad altri profili e sottoporgli un utente,
può poi succedere che anche una azienda scopra che il disabile può
lavorare e produrre in un determinato ruolo, in questo senso facciamo
cultura. ”
Il frame produttivo, come abbiamo visto, è attraversato ancora oggi da stereotipi consolidati
sulla figura del disabile e della persona svantaggiata; stereotipi che sfociano nel pregiudizio
e quindi nella discriminazione nell'accesso al lavoro. Trovandosi nel ruolo di accompagnare
l'impresa ad accettare questi soggetti, il mediatore tenta di incidere sulla cultura del contesto
produttivo con un'azione situata, legata al singolo caso in oggetto, ma la sua azione è
destinata a produrre conseguenze sia sull'azienda sia sul frame nel suo insieme.
Il mediatore svolge poi le sue funzioni all'interno del sistema di servizi di cui fa parte, e che
è nel suo insieme un terzo attore del processo che stiamo analizzando. Un attore dotato di
sue specifiche esigenze – la coniugazione di efficacia ed efficienza nell'erogazione del
servizio – e della sua specifica mission sociale – l'aiuto all'inserimento lavorativo di soggetti
svantaggiati, dei soggetti che hanno maggiori difficoltà nell'accesso al lavoro.
Il mediatore si trova così ad operare fra due frame diversi: quello produttivo e quello dei
servizi sociali. All'interno di ognuno di essi deve essere in grado di agire e facilitare un
lavoro interno di rete, così come di mettere in relazione fra loro le due reti distinte.
Il mediatore e il rischio di overload
Operando tra più sistemi, sui mediatori si condensano set di aspettative assai diverse tra loro
quando non in conflitto.
73
Secondo quanto è stato possibile capire, infatti, al mediatore sono richieste da una parte
competenze di natura psicologica, pedagogica, assistenziali e relazionali; dall’altra è richiesta
una forte capacità di conoscenza del mercato del lavoro e della sua evoluzione, dei contesti
organizzativi e culturali aziendali.
Come osserva infatti un’operatrice:
“Devi avere delle competenze relazionali di una formazione di tipo
psicopedagogico e delle attitudini tue alla relazione buone. E poi lavori
sulle aziende dove anche lì metti in campo la capacità che hai di saperti
relazionare. A lato anche una buona conoscenza del mercato. Il rischio è
che puoi spostarti o troppo sulla persona o troppo sull’azienda e, in
questo, tra di noi c’è chi è più forte con le persone e chi con le aziende
per attitudine. Una buona conoscenza di cultura azienda aiuta, anzi è
fondamentale, lo puoi imparare ma se hai una formazione di questo tipo
aiuta e dovrebbe stare nella valigia del mediatore. Sapere com’è
strutturata, per esempio, una grande azienda ti facilita. Noi, come
mediatori, cerchiamo di non spostarci né da una parte né dall’altra. ”
Quest’ultimo set di competenze - la conoscenza mercato del lavoro e la capacità di analisi
dei contesti organizzativi e culturali aziendali – appare, sulla base delle nostre interviste,
come l’elemento di maggiore debolezza professionale di questa figura.
La richiesta che proviene infatti da molti di loro è relativa alla conoscenza del mercato del
lavoro, del tessuto economico e delle sue dinamiche produttive, sia in termini generali che
di situazioni locali, nonché ad aspetti specifici relativi alla sfera sanitaria e a quella
psicologica:
74
“Rispetto a quello che riguarda il mercato del lavoro una conoscenza
approfondita dell’organizzazione aziendale e rispetto alle aziende capire le
esigenze, i loro bisogni anche per calibrare quelle che sono le ricadute
sulle persone alla ricerca di lavoro. Rispetto alle persone l’idea di avere
sempre progetti nuovi ma anche di affinare gli strumenti che hai, le
tecniche rispetto ai colloqui etc. Anche il discorso di rappresentarli, la
supervisione, il coordinamento. Maggiore è il bagaglio del mediatore
maggiori sono i successi nella presa in carico della persona. Quindi
bisogna sempre rafforzare il lavoro di mediatore, una buona formazione
anche rispetto alla malattia per poter meglio entrare in contatto con le
persone. ”
Siamo dunque di fronte ad una figura professionale che dovrebbe essere in grado di
possedere due tipi di know-how molto diversi tra loro.
La figura del mediatore diviene dunque il punto di congiunzione di due universi; il fulcro
sul quale grava la maggiore responsabilità dell’inserimento.
In questo senso uno degli aspetti maggiormente critici deriva dalla trasformazione che sta
vivendo in questi ultimi anni il sistema dell’inserimento lavorativo dei soggetti svantaggiati.
Di fronte ad un’utenza sempre più ampia e sempre meno riconducibile ai canoni tipici della
“disabilità” diviene sempre più importante ampliare lo spettro delle conoscenze dei
mediatori alle specificità delle altre forme di svantaggio.
Se l’ampliamento del target implica un aumento dei numeri dell’utenza, ciò mette il
mediatore di fronte alla necessità di combinare la qualità del lavoro di inserimento con la
“quantità”, secondo anche le esigenze legate alla auspicabile efficacia ed efficienza di un
servizio che è anche prevenzione della disoccupazione e inclusione sociale insieme. Una sfida
tutt’altro che facile.
75
In questo senso si può arrivare a sostenere che i campi di forza cui è soggetto il lavoro del
mediatore siano tre: da una parte quelli del soggetto svantaggiato e dell’azienda, dall’altra,
terza dimensione di questo ambito professionale, quella dei servizi di inserimento.
Prendendo in considerazione i background professionali dei mediatori che sono stati
intervistati, nonché le loro rappresentazioni del mondo professionale del quale fanno parte,
una delle prime questioni segnalatesi alla nostra attenzione è quella dell’esperienza
professionale necessaria per svolgere questo ruolo.
In questo senso non stupisce che nel corso della ricerca si siano incontrati mediatori
provenienti da diversi ambiti professionali: frequentemente dal mondo della formazione, o
dalla psicologia, oppure laureati in una disciplina umanistica con esperienze nei servizi di
orientamento, o specialisti di counseling oppure educatori e adesso nella mediazione:
“Io sono laureata in pedagogia, ho collaborato con il dipartimento di
psicologia dell'università di Genova per qualche tempo appena ero
laureata, poi ho trovato lavoro come educatrice presso una cooperativa
sociale che lavora con i ragazzi diciamo “con dei problemi familiari” e poi
sono arrivata alla mediazione. ”
“Io non sono laureato ma ho lavorato tanti anni nella formazione. Ero
iscritto a scienze politiche ma poi con il lavoro era difficile dare esami,
adesso però mi sono iscritto a scienze della formazione. ”
“Io lavoro per una cooperativa che ha un rapporto ormai da lungo tempo
con un ente di formazione professionale dove lavoravo sui corsi per
ragazzi disabili, ragazzi con patologie di tipo border e questo mi ha
permesso in parte di iniziare a lavorare soprattutto con le aziende e questa
76
strada mi ha formato a sufficienza per avere qualche competenza in più
per poter entrare in un servizio di mediazione. Da una parte devi avere un
tipo di formazione sulla persona e dall’altra devi imparare a rapportarti
con le aziende di vario calibro. ”
Il lavoro del mediatore sembra però essere costruito sulla tensione di ruolo. Le aspettative dei
soggetti con i quali i mediatori entrano quotidianamente in contatto, così come il sistema
normativo cui sono sottoposti – valoriale (norma sociale) o legale (norma giuridica) – sono
spesso conflittuali ed espongono il mediatore ad un costante rischio di stress e di
“inadeguatezza”:
“In questo lavoro è necessario mettere dei limiti. In alcuni casi il rapporto
che si crea con molti utenti è molto forte e il tuo ruolo va oltre il ruolo di
mediatore. Lavorare nella mediazione stanca emotivamente, i casi sono
sempre tanti e devi tenere tutto sotto controllo. Lavorare con la disabilità
o in generale nel sociale ti consuma e ogni tanto hai bisogno di staccare la
spina. ”
Questo aspetto, che può costituire un elemento di arricchimento e di scambio all’interno di
questa professione, tuttavia fa riflettere non tanto, o non solo, sul know-how più necessario
al ruolo di mediatore quanto sui molteplici approcci che possono caratterizzare questo
lavoro.
Si configura dunque un ruolo lavorativo frammentato – o a rischio di frammentazione – e
interpretabile. In questo senso, in un momento in cui il sistema, aprendo a nuove fasce di
utenza svantaggiata, evolve, rischia dunque di tramutarsi – in carenza di supporti – in un
elemento di grande fragilità.
77
Non è dunque sorprendente che, in modo solo apparentemente paradossale, il principale
punto di forza del sistema integrato dei servizi descritto dai mediatori coincida con il punto
di più grande debolezza. Né che questo punto risieda nell’ampiezza delle aspettative che si
consolidano sulla figura del mediatore e che in qualche maniera possano comportare un
rischio di sovraccarico di chi è chiamato a ricoprire questa delicata mansione.
78
Stigma e colpa
Massimo Cannarella, Michela Davi
L’inserimento di persone soggette a misure alternative al carcere
Il lavoro di analisi portato avanti nei paragrafi precedenti in merito ai casi di disabilità è
impiegato qui come termine di paragone concettuale per ripercorrere le specificità
dell’inserimento delle persone soggette a misure alternative al carcere.
Come abbiamo visto, il termine soggetto svantaggiato può comprendere al suo interno
situazioni di vita molto differenti, situazione accomunate da una condizione deficitaria
dovuta a cause eterogenee. All'interno di questo contenitore concettuale rientrano sia le
persone disabili che altri soggetti portatori di diverse situazioni di svantaggio, fra cui la
tipologia di utenza di cui si parla in questa parte del rapporto.
La prima peculiarità da mettere in evidenza riguarda proprio l'eterogeneità target in
questione. All'interno del carcere – e conseguentemente tra le persone soggette a misure
alternative alla pena detentiva – troviamo persone completamente diverse accomunate
solamente dalla devianza – riconosciuta – e dalla sanzione, ovvero dal fatto di avere
compiuto delle azioni illegali e di trovarsi in un luogo di detenzione. Le loro storie sono
quindi le più diverse. Di conseguenza l'analisi che possiamo compiere partendo dai nostri
79
casi è necessariamente limitata alle loro specifiche storie di vita ma allo può considerarsi
quantomeno indicativa di dinamiche sociali più ampie.
Se, in generale le variabili che possono influenzare le possibilità di accesso al lavoro e di
partecipazione sociale di queste persone sono le stesse di ogni soggetto svantaggiato: lo
stato di salute; i fattori personali, soggettivi; l'ambiente, e la sua cultura, in cui sono inseriti,
per i soggetti a misure alternative al carcere entra in gioco anche la logica premiale, o
punitiva, dell’amministrazione giudiziaria e penale con la quale viene regolato l’accesso alle
misure alternative alla carcerazione. Cionondimeno, in ragione dell’impermeabilità di queste
logiche alla tematica dell’inclusione sociale descriveremo i casi di Maria e di Rashid
ripercorrendo le loro storie partendo dalla loro storia personale, dal loro stato di salute e
dagli effetti del carcere sulla loro “capacità di tenuta”.
Stato di salute
Per quanto la detenzione non abbia riferimenti alla condizione di salute, l'eterogeneità di
questa categoria fa sì che anche questo diventi un elemento importante. All'interno di essa
possiamo trovare sia persone in condizioni di salute definibili normali, sia persone con
gravi problemi, in grado di condizionare il loro inserimento socio – lavorativo.
L'operatore che segue uno dei nostri casi, Maria, racconta ad esempio:
“Lei è una ex tossicodipendente, ha pure un grave problema fisico a
seguito di una caduta dalla moto e si è massacrata una spalla per cui ogni
volta che fa un movimento particolare si scompone. La sua condizione
80
fisica quindi è abbastanza precaria. Non ha l’invalidità per cui bisogna
iniziare tutto il percorso anche burocratico.”
Nel caso di Maria la condizione di ex tossicodipendente ne condizione gravemente le
prospettive lavorative e l'incidente di moto le impedisce di poter svolgere mansioni
lavorative fisicamente impegnative.
“Io l’avevo messa a […] nel settore […] perché viste le sue condizioni
fisiche mi sembrava un buon lavoro, un po’ ripetitivo, un po’ alienante
però, se non altro, non doveva sollevare pesi etc. ”
Nonostante questo grave handicap Maria si impegna molto sul lavoro ed è particolarmente
apprezzata da datori di lavoro e colleghi.
Rashid è anche lui un ex tossicodipendente. Prima di arrivare all'inserimento lavorativo ha
affrontato un percorso riabilitativo in una comunità. Un percorso difficile, che ha
rappresentato per lui una sfida.
“Ora sono in una struttura per recupero di tossicodipendenti, sono in
affidamento da due anni, ho fatto questo programma terapeutico in cui
credo molto , come lavora questo programma qua, adesso sto lavorando
come fascia debole, ho il contatto con la Provincia […]La borsa è durata
tre mesi, poi non è stato possibile rinnovarla perché non c'erano soldi in
cassa, e allora mi sono buttato un po’ giù, perché poi dopo questa
esperienza, mi ha fatto comunque piacere iniziare a lavorare dopo due
anni di programma terapeutico, ero più lucido, ho cercato di portarla
avanti, poi, senza lavoro, ho avuto una piccola ricaduta sull'alcool e da lì
sono ripartito di nuovo. ”
81
Nelle sue parole vediamo come il suo stato di salute cambia e di come questo può incidere
sulle possibilità e sulla percezione del lavoro.
In entrambi i casi è evidente quanto la storia pregressa, anche in termini di cambiamenti
nello stato di salute, può rappresentare un fattore che in positivo o in negativo influisce sul
possibile percorso socio – lavorativo. Ma soprattutto la questione delle condizioni fisiche
indirizza la riflessione verso la questione della multiproblematicità e degli strumenti più adatti
ad affrontarla.
Fattori personali
Gli elementi su cui possiamo maggiormente ragionare e che più si sono rivelati importanti
nelle nostre interviste sono sicuramente i fattori personali dei soggetti.
Esistono fattori personali che non influiscono strettamente sul rapporto con il lavoro ma
descrivono il vissuto di una persona e incidono sul modo di relazionarsi con il mondo
circostante.
Di Maria il vissuto, raccontato dall’operatore è il seguente:
“Ha una situazione familiare molto travagliata, vive con il padre e con il
marito straniero che non si capisce bene se lo ha sposato per il permesso
di soggiorno o altro, non ha figli. […] Ha una percezione di sé
sufficientemente dignitosa, gradevole, cioè entra spesso in una
dimensione di difesa perché sente che viene fregata e poi un’altra cosa che
dà un po’ il senso di questa appartenenza è anche un po’ l’atteggiamento
82
da furbetta ma questo più o meno è l’atteggiamento di tutte le persone
che sono state in carcere. ”
Le loro peculiarità influiscono in maniera determinante sul percorso di avvicinamento al
mondo del lavoro e alla sua eventuale riuscita. Le storie che abbiamo raccolto sono dense
di questi elementi.
Il primo aspetto che entrambi hanno in comune è il grado di tenuta rispetto al percorso di
inserimento lavorativo. L'incontro con il lavoro e il percorso non è un dato scontato per
questo genere di utenti.
Le parole dei mediatori infatti sottolineano fortemente l'aspetto legato alla tenuta emotiva
dei soggetti rispetto all'impegno lavorativo e in particolare alla difficoltà rappresentate dalla
fine della pena: questo momento infatti segna il termine di un processo dove il soggetto è
seguito ed è inserito in un sistema di protezione sociale e l'ingresso nella società, dove i
salvagenti per gli ex carcerati sono scarsi.
Ci racconta a questo proposito una mediatrice:
“Sul lavoro sono importanti le capacità relazionali, competenze
professionali, cioè se le persone hanno una minima esperienza nella
ristorazione piuttosto che nell’edilizia (noi abbiamo a che fare con profili
molto bassi) cioè se hanno già fatto delle cose e poi la capacità di tenuta,
che è poi l’aspetto fondamentale. Quello che accade, spesso, è che finché
le persone sono in borsa-lavoro reggono, poi quando questo diventa un
lavoro non ce la fanno, principalmente perché arrivati a quel punto non
hanno più il mediatore con cui rapportarsi e poi perché non resistono al
cambiamento. Passare da una situazione di utente a una situazione di
persona che lavoro li mette in difficoltà. Quello è il momento critico.
Lavorare rompe degli equilibri, modifica un sistema che, nel loro caso,
non è sempre così facile. ”
83
Esiste dunque un problema di autonomia della persona. Un problema che affonda le radici
negli effetti della carcerizzazione sull’individuo e sulla sua identità.
Ci sono due elementi che influiscono su questa già difficile situazione, ovvero sul modo in
cui affrontano le modalità lavorative: le loro peculiarità caratteriali e di vissuto, e le modalità
stesse del percorso in cui sono inseriti. In questo paragrafo parleremo del primo di questi
due elementi.
Chi ha curato gli inserimenti delle persone soggette a pene sostitutive al carcere, afferma
che spesso queste hanno una forte volontà e determinazione di sfruttare al meglio quella
che considerano una "opportunità di reinserimento". Anche se i problemi ci sono: queste
persone possono avere problemi con l'autorità, o con gli impegni connessi ad un posto di
lavoro. Una mediatrice ascoltata racconta:
“il primo problema che si può creare è rispetto all’autorità, o al sapere
accettare le modalità del lavoro: queste persone hanno lavorato sempre
poco, e quindi hanno problemi ad adattarsi a orari, tempi, al fatto di avere
un capo...sai, rispetto all’autorità...molti di loro chiedono di lavorare da
soli, e i lavori più gettonati sono all’aperto, per ovvi motivi ...comunque,
se il lavoro che hanno viene percepito come una possibilità vera, poi
questi problemi si superano, alcuni di loro sono molto apprezzati sul
lavoro”
A questo proposito è emblematico lo sviluppo dell'inserimento lavorativo di Maria, che
inizialmente ci è stato raccontato come un successo dal mediatore. Negli stessi giorni in cui
doveva essere contattata sul luogo di lavoro per l'intervista, diventa una favola non a lieto
fine. La descrizione del mediatore è stata:
84
“Tutta questa storia è stata costellata da sorprese. Dopo è stata spostata
da questo stabilimento ad un altro dove facevano […]. Questo
committente era severissimo, instaurava delle dinamiche molto
competitive con le persone. Lei doveva incollare […], un lavoro di
assoluta precisione e lei è stata bravissima, era la più veloce, se non c’era
lei il lavoro non funzionava ed è stata molto apprezzata, si è sentita molto
gratificata. E lì è scattato qualcosa nel senso che lei si è sentita brava,
avevano effettivamente bisogno di lei nonostante ci sono state grosse
difficoltà a livello economico però ormai era entrata nelle loro grazie e
l’hanno assunta prima che finisse la borsa.”
Questa è la storia di Maria, ex tossico dipendente, ex carcerata, con una situazione familiare
difficile, che all'interno di un percorso di protezione sociale quale la mediazione, riesce ad
inserirsi sul posto di lavoro, ad essere stimata da colleghi e responsabili aziendali. È una
storia apparentemente di successo, dove i servizi, il soggetto ed il datore di lavoro in
perfetta coordinazione sono riusciti nell'obiettivo finale. Ma è solo la prima parte. È una
storia di successo a metà o forse è un'emblematica storia di insuccesso.
Il racconto vincente di Maria infatti, termina esattamente nel momento in cui i servizi
sociali terminano il loro mandato. Alla conclusione del percorso con il mediatore e
nonostante la sicurezza del lavoro Maria non riesce a reggere il confronto con la vita e con
le responsabilità.
Dopo un periodo di ferie estive non si ripresenta al lavoro e si rende irreperibile sia ai capi
dell'azienda che al mediatore. Come descrive perfettamente la mediatrice: “gli ex carcerati non
hanno la tenuta”.
La “favola” di Maria si conclude male ma evidenzia forse il vero problema rappresentato
dall'avviamento al lavoro per gli ex carcerati. Dice infatti un mediatore: “cedono esattamente nel
momento in cui gli lasci affrontare la vita da soli”.
85
Il rapporto con il lavoro è problematico anche dal punto di vista prettamente materiale: il
rapporto con il denaro.
Il datore di lavoro di Rashid racconta:
“Sì, l'inserimento di Rashid va bene, ma ci ha dato comunque dei
problemi, soprattutto negli ultimi tempi. Ha terminato il percorso in
comunità, e a questo punto vuole andare a vivere da solo. Forse per
questo, si lamenta dei soldi che guadagna, oppure anche dei piccoli ritardi
che possiamo avere, nonostante lui conosca bene la situazione. ”
Un altro mediatore racconta a questo proposito:
“Il problema non è soltanto sulla tenuta psicologica, in molti casi infatti
lasciano il lavoro perché guadagnano molto meno rispetto a quanto
guadagnavano prima. Nel "loro" mondo infatti il valore dei soldi è ben
differente e quello che guadagnano qui in un mese lì lo guadagnavano in
una sera. ”
Il rapporto con il lavoro sembra farsi sempre più problematico: anche considerandolo
come fonte di reddito non sembra generare grosse soddisfazioni o aspettative.
Del resto se le aspettative rispetto a questi percorsi sono positive, i motivi sono ben altri.
Il lavoro infatti rappresenta in molti casi non soltanto un mezzo di sostegno economico ma
si carica anche di significati legati all'essere accettati e riconosciuti dalla società.
Una mediatrice racconta:
86
“L’assunzione è relativa. Molto importante è l’aspetto relazionale. Le
persone in difficoltà hanno bisogno di essere agganciate sul piano
relazionale, sulla sfera emotiva. Il punto di svolta è che da una parte li
porta ad una dimensione un po’ regressiva rispetto al rapporto tra una
persona adulta e un contesto lavorativo. Noi scegliamo il lavoro sulla base
anche del clima e dell’ambiente ma soprattutto in base all’oggetto del
lavoro e le persone in difficoltà riescono a vedere poco l’oggetto lavoro.
Infatti quando gli chiedi “che lavoro vuoi fare” gli va bene tutto e hanno
bisogno di essere in qualche modo agganciati alla dimensione relazionale,
il sentirsi accettati, per loro il lavoro è questo, il lavoro per loro è entrare a
far parte di un gruppo. Rispetto ad altre categorie che faticano ad entrare
nel mondo del lavoro, questi hanno anche il problema dell’impatto
sociale, della legalità, quindi per loro lavoro è soprattutto avere un ruolo
significativo, essere accettati, essere identificati. Quindi direi che l’aspetto
relazionale è quello che comanda. ”
Nel caso degli stranieri, come Rashid, il lavoro è un oggetto particolarmente significante e
problematico perché connesso al permesso di soggiorno:
“Sto cercando di costruire un po’ il futuro, perché manca solo questa
parte un po’ lavorativa che un po’ mi preoccupa, sul fatto…diciamo che
ho fatto delle cose come terapeutica, però mi spaventa anche il lavorativo,
perché poi quella esperienza negativa che ho avuto è collegata anche al
lavoro, al fatto di non averlo, e di trovare delle porte chiuse… io ero
regolare quando sono arrivato, ma poi il permesso è scaduto e non ho
trovato altri lavori in regola, e non potevo avere il permesso di soggiorno.
Se non hai un lavoro non puoi avere il permesso, ma senza quello non
puoi lavorare in regola. Ho iniziato a trovare sempre delle porte chiuse, ti
trovi le porte chiuse, allora mi arrabbiavo, allora da lì ho provato rabbia,
confusione, e ho provato a spacciare, per essere indipendente, lo so che
87
non è bello, ma volevo solo dire che c'entra anche il fatto di non avere un
lavoro…e di essere irregolare…è un discorso molto profondo, non so se
è il caso ora. ”
Quanto detto è ampliato dal fatto che, con l'uscita dal carcere, nella grande maggioranza dei
casi essi non otterranno il permesso di soggiorno, ovvero uno status di legalità. Il loro
atteggiamento nei confronti dell'inserimento può diventare allora di tipo utilitarista
contingente:
"poi come dicevo prima con le persone straniere è più complicato, perché
spesso mi è capitato che non ne capissero il senso, cioè si mi evito il
carcere, ma poi alla fine non mi rimane niente, quindi è inutile che mi
affatichi, […] gli immigrati sono poi quelli che hanno più problemi, che
affrontano la borsa nella maniera più utilitarista: mi serve adesso, per
evitare la galera, ma poi…perché il loro problema è il permesso di
soggiorno […] allora lì è meglio magari fare più formazione , in modo tale
che se dovessero rientrare al loro paese poi possono usufruirne, spesso mi
dicono io ti ringrazio per questa opportunità che mi dai ma poi non mi
serve a niente…"
Le vere motivazioni al lavoro, l'influenza della legislazione sulla vita dei migranti, la
pressione che il raggiungimento di un certo stile di vita e di consumi esercita sull'utente, ci
portano a ragionare su quanto le dinamiche sociali influiscono sulle possibilità di
inserimento socio – lavorativo di questi soggetti.
88
Ambiente e cultura
Sui soggetti a misure alternative al carcere l'ambiente influisce a partire dal forte pregiudizio
che spesso inficia le possibilità di accesso al lavoro, in generale, ma anche le possibilità per i
mediatori di trovare delle aziende disponibili all'accoglienza.
“ [Nella ricerca delle aziende] Ci siamo rivolti anche al mondo lavorativo
in generale, però abbiamo riscontrato dei grossi problemi, perché è una
fascia di utenza difficile da inserire, ci sono molti pregiudizi. È difficile
dove non hai nessuno collegamento, dove non hai alcuna rete d'ufficio o
personale che ti inoltra, da zero è davvero molto difficile …è difficile far
cadere il pregiudizio”.
“le aziende dove inseriamo sono praticamente solo cooperative. Quelle di
tipo B. in genere sono realtà che conosco già bene personalmente. Ci si
può anche provare con le aziende…io mi appoggio alle mie
conoscenze…ma
con
le
aziende
è
molto
difficile…insomma,
praticamente sono solo le cooperative.”
Il pregiudizio in questo caso ha un ruolo molto forte. Se con i soggetti disabili ci si trovava
di fronte ad una barriera superabile con un lavoro di mediazione sostanzialmente afferente
al rischio di calo della produttività e al potenziale “disordine” generato dall’inserimento,
con le persone soggette a misure alternative al carcere a tutto questo si associa la paura – e
lo stereotipo – della pericolosità. Lo stigma si somma alla colpa.
In questo senso le difficoltà sono talmente elevate da essere difficilmente superabili con il
solo lavoro del singolo operatore della mediazione. Lo sforzo all’inserimento di questo
particolare tipo di soggetti svantaggiati non può essere lasciato esclusivamente agli
89
operatori posti “sulla linea del fronte” ma richiede un investimento pubblico più elevato,
sia come risorse sia come livello dell’impegno.
I servizi che strutturano il percorso di inserimento
Il percorso tipo di una persona detenuta che viene diretta ad un inserimento parte da
dentro il carcere attraverso una selezione degli assistenti sociali che vi lavorano. Secondo
quando dettoci da una mediatrice, per poter accedere ad una pena sostituiva il detenuto
deve avere all'esterno un'azienda che lo richieda. Senza un servizio all'esterno tutto questo
diventa logicamente difficile, l'importanza di questi percorsi si rivela così strategica non
solamente in quanto possibilità di reinserimento, ma anche in quanto possibilità di accesso
all'istituto di pena sostitutiva stessa, cioè alla fuoriuscita dal carcere.
Dopo la scelta degli assistenti sociali il soggetto viene preso in carico dall'orientatore, che
ne disegna un ipotetico progetto e lo mette nelle mani del mediatore incaricato di attuarlo.
I criteri di selezione delle persone che possono partecipare al percorso di inserimento, da
parte delle strutture dedicate del mondo carcerario, sembrano essere di tipo estremamente
pragmatico: viene selezionato chi possiede già delle competenze, più o meno coltivate:
“Abbiamo solo una scheda che abbiamo più volte rivisto perché i
passaggi sono tanti: c’è l’assistente sociale, l’orientatore, ci siamo noi
mediatori e adesso c’entra anche il carcere quindi ci sono linguaggi
diversi, esigenze diverse, non è facile avere le informazioni utili, magari ne
hai tantissime ma spesso non hai quelle che ti servono. Non abbiamo
strumenti standardizzati. La scheda di rilevazione è abbastanza complessa,
abbastanza elaborata. La persona ci viene segnalata, l’orientatore fa la
90
verifica, noi contattiamo questa persona, le diamo un appuntamento,
facciamo uno o due colloqui e nel frattempo cerchiamo l’azienda adatta.
Il problema è che con le persone che abbiamo avuto fino ad ora e col tipo
di borse che abbiamo fatto, spesso le aziende erano le cooperative di
fascia B perché ti davano la possibilità di conoscere la persona e che
capivano questi soggetti e il loro tipo di esigenze. Adesso facciamo un
tipo di lavoro diverso, più sistematico, cioè cerchiamo di contattare delle
associazioni di varie categorie, tipo cooperative edili, la grande
distribuzione, la ristorazione, il porto, le cooperative sociali. Quindi
incontriamo gruppi di aziende, presentiamo il progetto della Provincia
che rappresenta dei vantaggi per i datori di lavoro e in seconda battuta
presentiamo i casi. Le aziende devono essere disponibili, dopo il periodo
di prova, ad assumere almeno che la prova vada male. ”
Come vediamo nelle parole della nostra intervistata, il percorso tende ad essere breve e
rigido, esattamente all'opposto del percorso analizzato per gli utenti disabili.
Le motivazioni di questo vanno ricercate in due elementi di fondo: lo scarso investimento
di risorse da parte del sistema pubblico e la condizione che il progetto di sostegno termina
con la fine della pena del soggetto.
La scarsità di risorse rende addirittura instabile il percorso durante il suo svolgimento.
Come abbiamo visto, Rashid ci ha raccontato di avere avuto una caduta di motivazione
proprio nel momento in cui la borsa si è interrotta per mancanza di risorse mentre il suo
progetto di pena alternativa era ancora in corso.
Rispetto a quanto avviene per l’inserimento dei disabili, la mancanza di risorse da una parte
e la minore esperienza/casistica dall’altra contribuiscono dunque a strutturare
un’impressione di minore consolidamento del servizio e delle pratiche.
La mancanza della legislazione quadro rende difficile il lavoro in sé, non esistendo né delle
risorse dedicate alle imprese che accolgono questi soggetti, né l'obbligo di assunzione
91
Il problema della mancanza dell'obbligo sembra confermato anche dal fatto che le uniche
aziende che li accolgono sono cooperative sociali di tipo B, cioè un tipo di soggetto
economico nato proprio per includere soggetti portatori di vari tipi di svantaggio.
“Il contesto è questo: intanto le cooperative di fascia B senza le borse
chiudono perché hanno alcuni settori che si basano su commesse
talmente estemporanee che non possono assumere gente, quindi hanno
bisogno di borse. ”
La mancanza di fondi, la scarsa strutturazione del sistema, possono in qualche maniera
influire sulla autorevolezza del mediatore stesso, come rappresentante di istituzioni
legittimanti.
Un nostro intervistato, nel descrivere il passaggio di fondi a disposizione da un progetto
europeo Equal ad un progetto della Regione Liguria, si augura anche che avere alle spalle la
Regione e la Provincia possa rendere la sua figura più autorevole e legittimata, per poter
meglio agire sulle e con le imprese. Il passaggio al secondo progetto viene poi vissuto
positivamente in quanto aumenta maggiormente la messa a sistema con le equipe ed i
servizi già approntati e sperimentati dalla Provincia nell'ambito della disabilità.
Il fatto che l'azione sociale termina al momento del fine pena crea un problema
importantissimo per l'utente.
Nelle parole di due mediatrici:
“Dove ci sono degli inserimenti vanno in genere sempre abbastanza
bene, a livello di ambiente, io ho sempre avuto dei riscontri positivi, c'è da
considerare che comunque erano cooperative che avevano molta
92
coscienza dell'utenza che si andavano a inserire, per cui in realtà sono
state tutte esperienze positive. I problemi ci sono quando la persona non
regge il lavoro, a livello di azienda no. Il loro problema fondamentale,
dipende dalla loro problematicità. Spesso accade che non riescono a
seguire le regole il ritmo, poi spesso si demotivano, soprattutto verso la
fine, quando la prospettiva è la fine della borsa. […] Anche in quei casi in
cui poi c'è stato l'inserimento lavorativo ho sempre notato verso la fine
un momento di sbandamento, anche nei casi in cui sanno già che ci sarà
l'assunzione.”
“Noi abbiamo a che fare con persone che hanno fatto un’esperienza di
reclusione. Se tu hai il bollino di ex detenuto questo non comporta una
facilitazione. In realtà quelli che finiscono la pena sono disperati, il
sistema penale è il vero servizio sociale, le persone non chiedono giorni di
liberazione anticipata perché quando escono dal carcere sono niente. Lo
stato di detenzione di per sé non comporta uno svantaggio accreditato.
Dopo 6 mesi uno non è più considerato un soggetto svantaggiato. ”
Al termine della pena, queste persone tornano a raffrontarsi con il mondo, e con il mondo
del lavoro, senza alcun sostegno, a meno che non riescano a trovarne tramite condizioni
che esulano dal loro essere ex carcerati. Anche in questo caso si tratta probabilmente di
dover iniziare nuovamente un percorso all'interno di altre strutture, con il necessario iter di
colloqui informativi, orientativi, di conoscenza di nuovi referenti o di esplorazione e ricerca
di nuove possibilità, che possono essere lunghe e non fruttifere. A tutto questo si aggiunge
la fine del periodo detentivo, la fuoriuscita dal carcere, da un ambiente costrittivo,
deprivante ma anche contenitivo e "protettivo".
Si tratta insomma dell'attraversamento di una soglia, dal conosciuto all'inconoscibile, da una
condizione di vita di rigida eterodirezione alla necessità di adattarsi ad una vita “senza
93
istruzioni per l’uso”. Un passaggio che può essere foriero di possibilità, ma che è troppo
spesso affrontato senza alcun supporto.
Per i soggetti migranti sia il percorso che il fine pena hanno valenza tendenzialmente
diversa dai soggetti italiani, in quanto per loro diventa ancora più difficile riuscire ad
ottenere un permesso di soggiorno all'uscita dal carcere:
"E poi per gli utenti extracomunitari la cosa è ancora peggiore, nella
maggior parte dei casi quando finisce la pena non riottengono il permesso
di soggiorno, è difficile per tutti: finisce la pena e non hai più aiuti,
paletti"
Un atteggiamento di questa tipologia di soggetti che può forse essere anche indicatore di
atteggiamenti simili tenuti dai carcerati italiani, che anche se non hanno problematiche di
soggiorno e cittadinanza si trovano alla fine anche loro, come i carcerati immigrati, a
varcare la soglia.
Rashid, nonostante il fatto di essere un migrante con tutte le relative problematiche che
abbiamo descritto, ha aspettative molto forti dal percorso all'interno del quale è ancora
inserito:
[ …] Ora sto lavorando con una cooperativa, e nel frattempo mi
piacerebbe fare un corso, perché ho scoperto che mi piacerebbe cucinare
[…].
Perché comunque il programma [di riabilitazione] è un bel programma, ti
fanno lavorare anche un po’ sulla responsabilità personale, e poi anche
cose pratiche e lì mi ci sono messo, ho messo la mia parte, sicuramente
anche per imparare a fare qualcosa.
Il primo mese quando sono entrato non davo il giusto senso alle cose
terapeutiche che facevano perché ci vuole qualche mese per capire il
94
mondo della comunità come funziona. Ho avuto molte difficoltà, perché
sono una persona chiusa, difficilmente mi metto a parlare di me, della mia
esperienza. Poi dopo tre mesi ho iniziato a capire a cosa serviva e da lì ci
ho messo il cuore…all'inizio era solo non stare in prigione, dopo tre mesi
ho iniziato a crederci.
[…] È stato molto difficile smettere, sono stati due anni difficili, è difficile
anche adesso, è una battaglia continua. Anche se la mia borsa è finita,
spero di poter continuare a lavorare, di trovare un lavoro, di fare un
corso. È tutto difficile, la mia borsa è finita, poi la […] mi ha assunto
ancora fino a fine agosto, dopo vorrei lavorare e fare quel corso di
panificazione, e con un lavoro trovare una casa. Un lavoro, una casa, dei
soldi per vivere: vorrei una vita normale insomma. E' sempre difficile
avere il permesso di soggiorno, ma io mi sto iscrivendo al centro per
l'impiego…e poi c'è il corso…sono ancora in contatto con [la
mediatrice]…dovrei riuscire a prenderlo…"
Rashid ha attraversato un percorso di reinserimento più ampio, non solamente legato alla
condizione lavorativa. Nel suo caso infatti l'accesso alla pena sostituiva è stato consentito
previa la sua partecipazione ad un soggiorno riabilitativo in una comunità di recupero per
tossicodipendenti. Entrato in comunità con un atteggiamento utilitaristico, legato
solamente all'evitarsi il carcere, "scopre" a partire da lì che può e vuole "uscire fuori" dalla
sua situazione di dipendenza e "tornare a vivere una vita normale". Questa molla gli farà
vivere il suo inserimento lavorativo in termini più intensi, con la forte speranza di poter
continuare a lavorare nella stessa struttura al momento della fine del percorso. Il suo
problema si caratterizza adesso in termini lavorativi, perché solamente attraverso l'accesso
ad un lavoro si alzano per lui le possibilità di avere un permesso di soggiorno.
Questo percorso potrebbe aiutare a riflettere su quanto sia importante per queste persone
unire il percorso lavorativo ad un percorso, o meglio ad una motivazione precedente, di
reinserimento in una progettualità legale, in cui anche la possibilità di apprendere, o
95
addirittura di svolgere, un lavoro, una professionalità, acquisisce un'importanza non fine a
se stessa ma strumentale al raggiungimento del fine più ampio.
All'interno del contesto dei servizi così descritto il mediatore ha una posizione simile a
quella del mediatore dei servizi ai disabili. La sua funzione risulta però depauperata dalle
carenze descritte: il percorso, nonostante la possibilità esista, non è rimodulabile
completamente poiché la sua durata è predeterminata per legge. A dimostrazione
dell'impegno dei mediatori nonostante questo ostacolo abbiamo il percorso di Maria stessa,
che viene reindirizzata da un primo inserimento forse poco adatto al secondo dove viene
assunta:
“All’inizio non avevamo scommesso nulla su di lei. Io l’avevo messa a
[…] nel settore assemblaggio perché viste le sue condizioni fisiche mi
sembravo un buon lavoro, un po’ ripetitivo, un po’ alienante però,se non
altro, non doveva sollevare pesi etc. Sono andata a fare un monitoraggio e
sono rimasta sconvolta perché c’era questo capannone enorme con
queste persone dentro che sembravano formiche e che facevano dei
lavori da psichiatrico e la cosa terribile erano i loro armadietti dove si
cambiavano foderati di foto di donne nude e di squadre di calcio. Lei era
l’unica donna. E quando ho visto questa realtà ho pensato di toglierla. In
seguito la incontro e ho fatto un colloquio con lei per capire come vivesse
questa situazione, che a me era sembrata intollerabile, mentre invece lei si
trovava molto bene, era molto contenta. Tutta questa storia è stata
costellata da sorprese. Dopo è stata spostata da questo stabilimento ad un
altro dove facevano cataloghi filatelici. ”
L’impressione che scaturisce da un’analisi complessiva delle impressioni avute nei colloqui
dagli intervistatori, è però che le limitazioni imposte dalla situazione rendano i mediatori
che si occupano dei soggetti a misure alternative al carcere in qualche maniera più
disincantati dei loro colleghi che si dedicano mediazione mirata per la disabilità.
96
Riflessioni conclusive
Enrico Fravega
Nel processo di inserimento lavorativo una fase di particolare rilevanza è rappresentata dal
difficile rapporto tra il soggetto svantaggiato e il limite del quale è portatore. Accettare la
propria disabilità o i propri errori – a seconda se si tratta di disabili o di persone soggette a
misure alternative al carcere – e cercare di superarli rappresenta una fase tanto importante
quanto critica non soltanto del processo di inserimento ma dell’intera maturazione della
persona.
D’altra parte l’esperienza della ricerca ha consentito di definire il limite non già come fatto
oggettivo (tangibile e indiscutibile) ma come un costrutto derivante dall’incontro/scontro di
elementi “materiali” e “sociali”. Lo svantaggio è dunque la risultante di un processo di
costruzione sociale nel quale entrano in gioco fattori eminentemente culturali.
Nel testo del rapporto si è spesso fatto ricorso alla metafora del frame un concetto diffuso
in sociologia da Erving Goffman che rimanda all’importanza degli schemi interpretativi – e
della loro condivisione – per inquadrare le esperienze che si stanno vivendo. La rilevanza di
questo concetto si fonda su due elementi: la capacità di connettere gli elementi culturali con
l’interazione sociale da una parte e la “molteplicità del keying” dall’altra, ovvero il fatto che
la stessa situazione può essere “interpretata” secondo differenti prospettive di analisi.
In questo senso nel processo di inserimento lavorativo dei soggetti svantaggiati le attività di
framing e di keying appaiono molteplici, ricorsive e mutevoli. Nel campo che è stato studiato
entrano infatti in gioco gli stereotipi e le rappresentazioni della propria condizione del
97
soggetto svantaggiato e le sue visioni del lavoro e del ruolo che, a livello più generale, può
giocare nella società ma anche le rappresentazioni sociali dello svantaggio e del lavoro
dell’operatore e i valori e le culture diffuse sui luoghi di lavoro, ecc.
Il lavoro svolto dagli operatori si configura dunque come un’attività di vera e propria
mediazione culturale. Un lavoro soggetto però ad un continuo rimodellarsi. In una prospettiva
analitica “storica” si può notare poi come il lavoro degli operatori sia mutato in relazione al
succedersi dei cambiamenti del paradigma produttivo, che si sposta con sempre maggiore
decisione in direzione dell’immateriale e del relazionale e del piccolo, ma anche all’accumularsi –
e al consolidarsi delle esperienze fin ad oggi maturate, in particolare nel campo
dell’inserimento lavorativo dei disabili. Fare inserimenti lavorativi oggi è dunque cosa
profondamente diversa dall’aver svolto la medesima attività, ad esempio, negli anni Ottanta.
Da qui le due questioni principali alle quali questo rapporto ha inteso rispondere.
La prima riporta l’attenzione sul concetto di limite ricentrando la prospettiva sul sistema dei
servizi provinciali; a partire dalle esperienze di eccellenza che il sistema dei servizi per
l’inserimento dei disabili è riuscito a generare, come riuscire a migliorare ancora? Come
rilanciare l’inserimento di soggetti svantaggiati nel momento in cui la stragrande
maggioranza delle imprese è al di sotto della soglia minima dell’obbligo di assunzione? Su
quali basi cercare un accordo che consenta lo sviluppo di strategie, autentiche, di responsabilità
sociale che leghino territori e imprese?
La seconda questione rimanda invece al rapporto intercorrente tra le esperienze relative agli
inserimenti lavorativi di persone disabili e gli inserimenti di persone con altri tipi di
svantaggio. Se è vero che l’esperienza italiana – e in particolare genovese – nell’inserimento
lavorativo di disabili può ancora essere considerata un’esperienza di grande rilievo, è vero
anche che se (in accordo con il Regolamento CEE 2204/2002) si ampliano le categorie
dell’inserimento lavorativo “tutelato” occorre capire cosa dell’esperienza maturata nel
98
campo della disabilità possa essere tradotto, riconvertito – o adeguato – ad altri tipi di
target.
Per rispondere alla prima questione occorre ricollocare alcuni degli elementi dei quali si è
dato conto nel rapporto all’interno di un’ottica sistemica.
Il problema dell’informazione è strettamente correlato con quello dell’accesso ai servizi.
Prendendo in considerazione la disabilità i casi studiati hanno messo in evidenza le grandi
differenze intercorrenti tra l’essere e il diventare disabile. Una differenza che non attiene la
sola sfera della formazione identitaria ma comporta anche diversi percorsi di accesso ai
servizi. L’essere disabili dalla nascita comporta una transizione più facile, o fluida, dal sistema
sanitario, e/o scolastico, a quello dei servizi del collocamento mirato nel quadro di una
relazione che evolve e in qualche modo prevede una sorta di continuità del lavoro di
sostegno della persona. Viceversa il diventare disabile, soprattutto quando ciò avviene in età
adulta, comporta un complicato processo di riconversione del proprio capitale sociale. Le
persone che divengono disabili a seguito di incidenti o malattie invalidanti affrontano un
periodo, di durata variabile, nel corso del quale – oltre a dover gestire le conseguenze
derivanti dalla nuova “problematica” – debbono individuare le risorse di cui possono fruire.
L’esistenza del collocamento mirato e dei servizi che può erogare e delle condizioni di
accesso a tali servizi sono tutt’altro che scontate. Da qui discende la necessità di rendere i
servizi dedicati ai disabili – e ai soggetti svantaggiati in genere – più visibili e,
conseguentemente, più accessibili.
La questione dell’accesso non può tuttavia essere ridotta alla sola dimensione informativa,
che pure ne rappresenta un aspetto di primaria importanza.
L’indeterminatezza e la tortuosità dei percorsi che chi diviene disabile compie alla ricerca di
risposte e di sostegno ricorda le rotte che di fatto seguono i naufraghi in balìa delle correnti.
Correnti che nella realtà assumono forma di voci, rizomi, passaparola e casualità.
99
Da questo punto di vista non si tratta solo di aumentare la quantità di informazione o, per
meglio dire, di aumentare l’informazione sui servizi, quanto quella di aumentarne la qualità.
In questo senso occorrerebbe che il processo informativo non si limitasse a statuire
l’esistenza di uno sportello o di un servizio ma consentisse una chiara definizione dei
diritti e dei doveri della persona e del servizio. Ma anche delle aziende che potrebbero
ospitare gli inserimenti.
Occorre in altre parole, ridurre i margini di ambiguità e “l’effetto caleidoscopio” che si
genera nel ricorrere alle sole risorse relazionali per individuare le risposte di cui si ha
bisogno e concorrere alla chiarificazione e alla stabilizzazione delle aspettative di tutti
i soggetti che entrano in gioco nel processo di inserimento dei soggetti svantaggiati.
Il processo di inserimento evidenzia un aspetto critico nel ruolo del mediatore. Come un
Giano bifronte a rischio di schizofrenia l’operatore della mediazione si trova a doversi
occupare della persona – con un ruolo caratterizzato da accenti pedagogici e assistenziali –
e dell’azienda – con un ruolo oscillante tra la logica del “venditore” di inserimenti e quello
del consulente organizzativo. Da qua scaturisce la delicatezza di questo ruolo; da qua
scaturiscono anche le sue debolezze e le sue criticità.
In questo senso, il lavoro del mediatore – come si è avuto modo di spiegare diffusamente
nel rapporto – risente fortemente della dicotomizzazione persona-azienda e i saperi che ne
caratterizzano l’azione, lungi dall’essere un corpus integrato, appaiono quasi sempre come
troppo vasti perché un singolo operatore possa ragionevolmente esprimere lo stesso livello
di competenza su ognuno di essi. In questa difficoltà, cognitiva e culturale, risiedono le
molteplici
richieste
di
rinforzo
(o
sostegno
professionale)
che
riguardano
principalmente, anche se non esclusivamente, l’area dell’organizzazione aziendale e
quella del mercato del lavoro. Gli operatori della mediazione di fatto lavorano in rete
anche con altri servizi, o sportelli - il servizio sanitario, i servizi sociali, l’amministrazione
giudiziaria , ecc. – sperimentando quotidianamente la necessità e la difficoltà di questo
approccio. Allo stesso tempo però contribuiscono al consolidamento di prassi di
tesaurizzazione dell’informazione – circa le aziende disponibili agli inserimenti – che
100
rendono il sistema opaco e frammentato al suo interno. Non stupisce dunque che l’efficacia
del servizio dipenda maggiormente dal capitale sociale dell’operatore che dalla forza delle
strutture. Nell’ottica di uno sviluppo delle politiche di responsabilità sociale dell’impresa e dei
territori appare necessario promuovere lo sviluppo e l’utilizzo di strumenti di condivisione
e “pubblicizzazione” dell’informazione. Strumenti finalizzati al potenziamento della
capacità del sistema di individuare gli ambienti favorevoli all’inserimento, gli ambienti problematici
e di dare altresì un nome alle aziende che compongono l’area dell’irriducibilità.
Il lavoro in rete non può essere tuttavia limitato al solo aspetto informativo. Qui infatti
origina molta parte della difficoltà del lavoro di mediazione. Se è vero che vi sono alcuni
casi di collaborazione interistituzionale di successo è vero anche che le pratiche di lavoro
quotidiane degli operatori cercano infatti di far parlare/collaborare insieme enti, istituzioni,
organizzazioni no profit – e enti privati – dal basso. Attraverso uno sforzo molto
importante ma poco capace di cambiare prassi e politiche.
La condizione di multiproblematicità sempre più diffusa, intercettata nel nostro studio
attraverso i due casi relativi ai soggetti a misure alternative al carcere - uno in cui il soggetto
presentava anche problematiche di natura fisica e uno con lo status di immigrato – pone,
ancora più fortemente, alle istituzioni la questione del coordinamento delle azioni.
Occorre dunque rilanciare il concetto di “lavoro in rete” integrando, come tessere di
un mosaico, attorno ai soggetti svantaggiati, i diversi pezzi di welfare ai quali
possono avere accesso. Solo così è possibile ricostruire le loro alternative di scelta tra una
serie di vite possibili, ovvero quello che l’economista indiano Amartya Sen definisce
capabilities.
Un ulteriore aspetto di grande importanza, anche nell’ottica del lavoro in rete, è il rapporto
con la galassia delle imprese private. E’ infatti importante ricordare che la stragrande degli
inserimenti avviene in aziende in obbligo e che le aziende in obbligo sono sempre meno.
Ciò è dovuto da una parte alla riduzione delle dimensioni delle imprese, dall’altro alla
possibilità di eludere l’obbligo di inserimento attraverso il pagamento delle sanzioni previste
dalla normativa. In questi due aspetti, unitamente alle peculiarità della trasformazione del
101
modello produttivo sopra accennate, troviamo gli elementi di crisi di un sistema per
l’inserimento dei disabili nato ai tempi della “fabbrica fordista”.
Ma la grande fabbrica non esiste più e con essa è scomparso il mito della produttività su
larga scala. Ovvero quello di una produzione massificata capace di generare economie di
scala talmente grandi da permettere la sopravvivenza all’interno dell’apparato produttivo di
isole a bassa, o minore, produttività. Si dissolve così la possibilità di garantire inserimenti
protetti “pro-quota”, ovvero uno ogni n dipendenti. La diffusione delle imprese di piccole
dimensioni e delle imprese che vendono servizi, il diffondersi della cosiddetta economia
dell’informazione e del lavoro relazionale mutano i contenuti e i contesti. I contenuti
perché i processi sopra descritti implicano la sempre maggiore rilevanza dei saper essere sui
saperi e sui saper fare. I contesti perché nel processo di riduzione dimensionale si cela anche
un processo di sfocatura e di frammentazione dei ruoli e delle figure professionali. Se
l’organizzazione fordista del lavoro si basava su una rigida individuazione e separazione
delle mansioni, nell’assetto organizzativo che ne ha preso il posto i ruoli sono solo
“canovacci” e le mansioni variano continuativamente. In questo contesto è chiaro che
l’inserimento di soggetti svantaggiati è particolarmente difficile e che questa difficoltà non
può essere lasciata alla sola volontà/capacità dell’operatore.
Se dunque si intende non limitare l’inserimento dei soggetti svantaggiati alle poche – e
sempre meno numerose – aziende di grandi dimensioni che ancora esistono bisogna
individuare le strategie attraverso le quali coinvolgere le imprese che dal punto di vista
del personale si collocano al di sotto della soglia dell’obbligo.
E qui si ritorna alla valenza culturale del lavoro di inserimento. A partire da quanto appreso
attraverso uno dei casi studiati – l’unico di inserimento in aziende non in obbligo – si
dimostra che la barriera all’inserimento di soggetti svantaggiati in azienda può essere
abbattuta attraverso la “socializzazione”, ovvero attraverso la possibilità di sperimentare,
senza il timore di vincoli indissolubili, che l’inserimento non solo non comporterà enormi
squilibri all’apparato produttivo, ma potrà “perfino” essere utile. La diffusione dello
strumento del tirocinio avrebbe dunque una duplice valenza; da una parte generare
102
nuove esperienze di inserimento, o prova, per i soggetti svantaggiati, e dall’altra
contribuirebbe ad un cambiamento culturale nel mondo delle aziende. Soprattutto di
quelle più piccole.
Ma la questione del rapporto con le aziende si presta ad un’ulteriore riflessione. Se è vero
che una caratteristica del tessuto produttivo del terziario post-fordista è il suo essere
molecolare è anche vero che considerato nel suo complesso questo ambito produttivo ha una
elevata capacità di assorbimento di manodopera. Ciò che dunque sembra sparire se
consideriamo le singola aziende – o unità produttive – attraverso un’operazione di
aggregazione ricompare. E’ da qui dunque che occorre partire per ripensare le politiche, le
forme e le modalità dell’inserimento lavorativo di fasce deboli.
Per facilitare l’inserimento dei soggetti svantaggiati occorre dunque stimolare
l’organizzazione dei soggetti economici di più piccole dimensioni, su basi
territoriali o categoriali. Ed includere questi soggetti – generatori di spazi di inserimento
– nel lavoro di rete teso alla ricomposizione di welfare e possibilità di scelta attorno ai
soggetti svantaggiati.
La seconda delle questioni alle quali questa ricerca intendeva rispondere riguardava
l’individuazione degli elementi dell’esperienza dell’inserimento lavorativo dei disabili
mutuabili negli inserimenti di altri tipi di soggetti svantaggiati, ed in particolare a quelli dei
soggetti a misure alternative al carcere.
Da questo punto di vista le divergenze tra i due tipi di inserimento sono notevoli. La prima
e, solo apparentemente, più banale di queste divergenze è inerente al diverso grado di
consolidamento. L’esperienza pluridecennale dell’inserimento dei disabili è, in questo senso,
non è nemmeno comparabile con quella dell’inserimento di soggetti a misure alternative al
carcere. Da quanto si è avuto modo di capire, infatti, gli inserimenti di persone soggette a
misure alternative alla pena detentiva sono legati a progetti episodici e con scarsa copertura
finanziaria e sono, pertanto, scarsamente in grado di incidere sulla progettualità a lungo
103
termine delle persone, ovvero sulla capacità di elaborare strategie. D’altra parte, a rendere
più complesso il quadro, occorre anche ricordare che in questi progetti l’inserimento – o
reinserimento – della persona nel mondo lavoro e nella società non né un diritto, né una
possibilità offerta a tutti ma è un percorso sussunto all’interno della logica premiale, o
punitiva, con la quale l’amministrazione carceraria e/o l’amministrazione giudiziaria
valutano il caso.
Le specificità del target carcerario implicano però un ulteriore riflessione. Mentre i disabili
trovano nel lavoro uno spazio ove è possibile costruire senso e autonomia non bisogna
dimenticare che i soggetti a misure alternative al carcere provengono da una istituzione totale
– come Erving Goffman ha definito quei sistemi chiusi, soggetti ad un potere inglobante,
in cui vi sia impedimento allo scambio sociale e all'uscita verso il mondo esterno
(orfanotrofi, ospedali psichiatrici, caserme, monasteri e, per l’appunto prigioni, penitenziari
o campi di detenzione).
In questo senso il significato del processo di istituzionalizzazione non è riducibile alla sola
privazione della libertà ma comporta una perdita dell’autonomia capace di generare
conseguenze profonde sull’individuo. Apatia, passività, dipendenza e difficoltà a sopravvivere al di
fuori dell’istituzione sono alcuni degli esiti di questa condizione. In altre parole i soggetti che
sperimentano le misure detentive sono oggetto di un processo di risocializzazione che, date
le modalità con cui avviene, è destinato a lasciare profonde conseguenze sulla struttura
identitaria.
Su queste basi si può rilevare l’importanza che dovrebbe avere un altro percorso di
risocializzazione: quello che prende corpo nel processo di inserimento lavorativo. Un
percorso che richiederebbe quei caratteri di indeterminatezza (della durata) e
reversibilità del processo che informano l’inserimento lavorativo delle persone con
disabilità. Un lavoro complesso in quanto non configurabile né come mero inverso del
percorso maturato in carcere, né come operazione mirata alla (ri)emersione della persona
per come era prima della detenzione.
104
Paradossalmente dunque ciò che andrebbe mutuato dal sistema di inserimento lavorativo
dei disabili è la sua storia. Una storia fatta di investimenti: di risorse umane, di saperi,
finanziari e simbolici.
105