Le periferie metropolitane. Paesaggi da umanizzare

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Le periferie metropolitane. Paesaggi da umanizzare
Le periferie metropolitane. Paesaggi da umanizzare
di Marco Cuomo
L’umanizzazione del paesaggio urbano attraverso la "...trasformazione come processo protratto nel
tempo..." (P. Eisenman) è un contributo culturale indispensabile per la ricerca analogica sui principi
evolutivi che innescano una mutazione eco-sostenibile dell’architettura.
"...Perché oggi l’architettura deve appartenere al contesto..., altresì dobbiamo armonizzare i
differenti e autonomi frammenti di non-città in un tessuto urbano aggregante..." e non repellente, e
ancora "...bisogna lottare contro la mercificazione delle nostre città..." e ulteriormente ".... le tre
ecologie: sociale, culturale, materiale..." secondo Lucien Kroll sono gli strumenti traduttori per
determinare le scelte socio-politiche volte ad arginare le lacune e le deformazioni ambientali
ereditate dalla cultura modernista, e dunque è indispensabile avere il coraggio di scardinare questo
status figlio della deregulation, immorale assemblaggio di pezzi metropolitani i cui flussi erratici e
non-luoghi incancreniscono e sgretolano l’identità collettiva del paesaggio urbano.
Quartiere di Genova Pegli 3 "le lavatrici"
Foto Marco Cuomo
Gli anatemi sgarbiani sono solo forieri di luoghi comuni che trasformano le periferie in tavolozze
dove "gli architetti potrebbero fare cose formidabili" (Costruire n° 227/2002), ma le nostre periferie
hanno bisogno di cose semplici, e non formidabili, che siano il risultato di una attenta ricerca
metodologica del processo costruttivo tralasciando la kermesse di forme o di volumi griffati.
Le utopie fattibili, di cui parla Aldo Rossi, consentono agli architetti di modificare e umanizzare la
macchina abitativa lecorbusiana nella realtà costruita, al fine di recuperare e rigenerare il landscape
della città.
"...Tutto é paesaggio..." sostiene il maestro belga Lucien Kroll, dove l’architettura delle differenze
trova un equilibrio naturale e non inquinato "dall’ostinazione modernista" a cui i maledetti architetti
contemporanei, citati nel libro di Tom Wolfe, hanno guardato quale modello.
Lucien Kroll
Hellersdorf Berlino, progetto di recupero quartieri prefabbricati, 1995/1998
Foto da modello atelier Lucien Kroll
Dunque risulta scelta efficace e trainante la riqualificazione del tessuto urbano apatico della città
diffusa tramite un operazione di ri-montaggio che sposa la tesi già esposta da Colin Rowe nel suo
libro "Collage city" (1981), in cui si attribuisce all’atto costruttivo la capacità del montaggio per
creare un architettura umana, ed ulteriormente attraverso la sedimentazione anche dei principi di
Christofer Alexander precursore nell’indicare quale metodo evolutivo necessario il lavoro di
équipe tra architetto e utente nelle fasi esecutive del cantiere. Ugualmente, oggi progettisti come P.
Hubner ribadiscono attraverso la loro opera l’indispensabile necessità di un lavoro partecipativo,
ammonendo gli architetti colleghi a non cadere "...nella tentazione di credere che senza di loro non
si riuscirebbe a costruire...".
Il dialogo tra l’uomo e lo spazio in cui quotidianamente abita, garantisce l’armonia e la qualità del
vivere, un bene che è la ragione stessa della vita, e quindi i luoghi aggreganti devono rivestire una
priorità assoluta: le aree aperte, le piazze, le strade, i parchi, i giardini sono infatti il cuore pulsante
di un contesto costruito nel quale la natura é protagonista e consente la realizzazione dell’idea di
strada giardino, cara a Ponti, generatrice di un paesaggio urbano non più schiavo della lava grigia di
cemento ed asfalto.
Lucien Kroll
DORDRECHT, Admiraalsplein, eco-costruction, 2001
Foto da modello atelier Lucien Kroll
Il ricomporre le periferie partendo dai "rottami" e non dalle "rovine" di Vittorio Gregotti
(Architettura, tecnica e finalità, 2002) risulta senz’altro una sfida difficile ma necessaria, vitale per
riuscire a dare delle risposte concrete e non solo teoriche.
"...I progetti dovranno mirare alla qualità del contesto..." (Pierre-Augustin Lefévre): l’architettura
partecipativa ed ecologica non deve essere dunque accantonata in fondo ad un cassetto, ma
divulgata ed arricchita da nuove bio-tecnologie ed aggiornate metodiche progettuali, come la
recente opera di villaggio urbano ecocompatibile di Bill Dunster ubicata nella periferia urbana di
Londra fa ben sperare (VilleGiardini n° 284/2002) in special modo sotto il profilo della
preparazione professionale dei giovani architetti.
La definizione di ecologie urbane risulta pertanto determinante nel concetto di utopia praticabile,
pur correlata alla complessità dell’architettura quale ricchezza generata dal sito urbano e che
induce ad utilizzare la spontaneità del metodo evolutivo progettuale per costituire un’immagine
vivibile della realtà costruita e direttamente codificata nel DNA del contesto.
Il processo spontaneo, che non interviene mai forzatamente sulla morfologia del luogo ma
interagisce emotivamente coi fatti quotidiani, propone elementi costruttivi con dimensioni
equilibrate e materiali ecologici che ben si rapportano alla tradizione edificativa regionale ed ai
modelli architettonici locali.
L’obiettivo perciò è di conservare le continuità geografiche del paesaggio antropico e stabilire un
confronto evolutivo tra ambiente e progetto, così da attuare una metodologia che si integra con il
pensiero di James Wines, fondatore del gruppo americano dei Site, secondo il quale il concetto di
contestualizzazione applicato all’architettura propone una ricerca environmental sul paesaggio e
permette un rapporto tra uomo e ambiente creato da un background composto di acqua, terra e luce.
In special modo il riconoscere all’abitante del sito il potere di prendere decisioni, e il diritto a
modificare il luogo in cui vive, rinforza ulteriormente questo legame inscindibile tra persone e il
genius loci; si richiamano così i "fatti urbani" di Aldo Rossi (in Architettura della città, 1966) e la
loro capacità di ristabilire nuovi equilibri attraverso un processo progettuale di de-costruzione volta
a ricomporre un’umanizzata realtà urbana in cui si vive e non si sopravvive. Come dare corpo
dunque a un’ipotesi di ricomposizione post-modernista delle periferie? proseguendo i suggerimenti
teorici-pratici di Lewis Munford (scomparso nel 1990) che, già nella prima metà dello scorso secolo,
professava la biologia urbana affermando "architetti entrate nelle case e parlate con la gente" in
quanto solo attraverso l’esercizio dell’ascolto si realizzano città a misura d’uomo.