aldo sandulli - Corte Costituzionale

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aldo sandulli - Corte Costituzionale
ALDO SANDULLI
Discorso pronunciato dal Presidente Sandulli
per celebrare il dodicennio dell'inizio dell'attività
della Corte Costituzionale
Palazzo della Consulta, 3 dicembre 1968
Fonte: www.cortecostituzionale.it
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Con l’odierna celebrazione - cui la Corte attribuisce grande significato
- rinviata finora per varie circostanze, e alla quale la Sua presenza, signor
Presidente, conferisce particolare solennità, la Corte intende ricordare il
compimento, verificatosi quest'anno, del primo dodicennio dall'inizio
ufficiale della sua attività.
Il 23 aprile 1956 essa tenne in quest'aula la sua prima seduta pubblica,
con l'intervento del Capo dello Stato e delle altre massime autorità del
Paese. La presiedeva Enrico de Nicola. Ne facevano parte Gaetano
Azzariti, Giuseppe Cappi, Tomaso Perassi, Gaspare Ambrosini, Giuseppe
Lampis, Mario Cosatti, Ernesto Battaglini, Francesco Pantaleo Gabrieli,
Giuseppe Capograssi, Giuseppe Castelli-Avolio, Antonino Papaldo, Mario
Bracci, Nicola Jaeger, Giovanni Cassandro. Un complesso di personalità di
alto prestigio morale, culturale e politico: tali da conferire eccezionale
decoro all'alto consesso appena venuto a integrare le strutture
caratterizzanti della giovane Repubblica. Il Presidente aveva alle sue spalle
un cursus honorum straordinario, anzi assolutamente eccezionale: era stato
il primo Presidente della Repubblica (e in tale veste aveva apposto la
propria firma alla Carta di fondazione degli ordinamenti repubblicani) e
presidente di entrambi i rami del Parlamento. Tra i giudici della Corte
figuravano poi due ex Ministri, quattro ex costituenti, un ex componente
della Consulta nazionale, alcuni giuristi di eccelsa levatura, tra i quali
spiccavano a lettere d'oro i nomi di Tomaso Perassi e di Giuseppe
Capograssi.
Quei quindici uomini furono in seno alla Corte gli "antenati di se
stessi", come soleva scherzosamente, ma acutamente, dire Mario Bracci,
volendo significare che ad essi (o a quelli che purtroppo in breve volger di
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tempo si affiancarono a loro, in quei primi anni, a riempire i vuoti che le
leggi della vita e della morte crearono nelle loro file) incombeva l'onore o
la responsabilità di fondare lo stile o la tradizione del nuovo organismo:
Mario Bracci, il quale fu uno degli spiriti più eletti e più penetranti che
questo consesso abbia potuto vantare tra i suoi componenti, e disponeva
delle qualità essenziali del giudice costituzionale, possedendo una squisita
sensibilità per il profilo politico degli istituti giuridici e per le implicazioni
giuridiche degli accadimenti politici.
In quella solenne occasione il presidente De Nicola ebbe, tra l'altro, a
sottolineare che il vantaggio precipuo che un organo come la Corte offre è
di "proteggere il Paese da sbandamenti e da errori"; ebbe a ricordare
l'ammonimento di Demostene che "fare le leggi è nulla, applicarle bene è
tutto"; ebbe a proclamare la fede propria e dei colleghi alla Costituzione definita "forza, guida ed egida della Nazione" - una fede, disse,
"accompagnata da una infrangibile fermezza, che non ha nulla da vedere
con l'arbitrio".
Quella data, la Corte - consapevole di esser rimasta fedele all'impegno
morale allora espresso dal primo suo presidente - intende oggi ricordare.
Ché col compimento dei primi dodici anni della sua esistenza - periodo per
il quale la VII disp. trans. Cost. (fatalmente smentita dalle leggi della
natura) aveva preconizzato e previsto una composizione invariata del
Consesso - la Corte è venuta a trovarsi per la prima volta composta
completamente di uomini diversi da quelli che per primi erano stati
chiamati a farne parte. Con l'odierna celebrazione essa intende perciò, da
un lato, rendere un doveroso omaggio a coloro che del suo stile, della sua
forza spirituale, della sua tradizione giurisprudenziale, furono i fondatori e
l'esempio; dall'altro effettuare il bilancio morale dell'opera svolta in questo
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primo periodo della propria esistenza, anche in vista di quel raccordo del
futuro al passato, che - persino lì dove possano apparire opportune delle
svolte (nulla infatti nella storia è statico) - è essenziale condizione
dell'evoluzione o del progresso in ogni attività umana.
Dodici anni non sono molti nella storia di un popolo e neanche nella
vita di un istituto. Quando però il discorso riguarda un istituto di nuova
creazione dell'importanza della Corte costituzionale, essi rappresentano un
periodo abbastanza lungo per un primo consuntivo di larga massima circa
l'inserimento di essa nella compagine della società e dello Stato, circa gli
apporti che ad esso è possibile arrecare alla conservazione e allo sviluppo
del corpo sociale.
Un primo profilo sotto il quale può essere interessante un consuntivo
riguarda le reazioni del corpo sociale e dell'apparato dei pubblici poteri
all'emergere, nella realtà storico-politica del Paese, di questo nuovo
organismo in cui lo Stato di diritto ha voluto, per consapevole scelta,
completarsi.
Per quanto riguarda la coscienza dei cittadini, occorre convenire che
essa si è ben presto dischiusa a una grande fiducia nel nuovo istituto. La
remota sete di giustizia individuale e sociale della nostra gente, rimasta
inappagata nei secoli, ha anzi indotto, specie nei primi anni, molti umili
cittadini a sperare dalla Corte assai più di quanto i propri poteri le
consentissero. Moltissime furono, nei primi anni, - ma molto sono ancora
oggi le istanze di giustizia e di riparazione che da tanti vengono
irritualmente, e perciò vanamente - indirizzate alla Corte.
Pur rivelando la mancanza di una esatta conoscenza dei compiti della
Corte e delle procedure per giungere ad essa, quelle istanze rendono una
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chiara testimonianza dell'immediata acquisizione, da parte della coscienza
popolare, dell'importanza della presenza, nel Paese, di un organo di
giustizia costituzionale e delle ultime implicazioni di tale presenza.
Oggi la Corte - l'esigenza della presenza dell'istituto e del suo
magistero - è profondamente avvertita dal Popolo italiano. Ne rappresenta
una valida conferma la crescente attenzione che la stampa - la più
immediata espressione dall'opinione pubblica - dedica ai problemi e
all'attività della Corte e alle aspettative che ad essa si collegano.
Se è vero - come è vero - che in un regime politico le istituzioni
traggono la propria forza non solo e non tanto da ciò che sta scritto negli
statuti, quanto dalle radici che affondano nel corpo della collettività,
nessuno può dubitare che la Corte sia da considerare solidamente acquisita
al nostro ordinamento costituzionale come una componente essenziale e
caratterizzante del sistema. Non solo sta scritto, ma tutti sono ormai
consapevoli che quest'ultimo non sarebbe quello che è - e sarebbe invece
un sistema diverso - se in esso non fosse presente la Corte; se in esso non
fosse venuto meno quel principio del prepotere assoluto della legge, che gli
uomini della Costituente, nel disegno di difendere la democrazia da sé
stessa, vollero limitare allorché fissarono il principio garantistico dalla
soggezione delle leggi alla Costituzione e della loro sindacabilità in sede di
giustizia costituzionale.
Il sostegno che la Corte trova nel consenso del corpo sociale - del
quale si sente ed è carne e sangue - fa, a propria volta, della sua
giurisprudenza una valida forza nel contesto della società nazionale. Una
forza che sarebbe incompleto e inesatto considerare solo frenante, se è vero
che i precetti della Costituzione vivono storicamente nell'interpretazione
della Corte: sicché questa si rivela capace - attraverso la graduale ed
evolutiva estrazione, da essi, o alla stregua della realtà attuale, di ogni
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possibile loro implicazione - di imprimere nuovi impulsi all'avanzata non
soltanto della giurisprudenza, ma - come l'esperienza ha dimostrato - della
stessa azione delle altre forze politiche e sociali presenti nel Paese, verso
ulteriori traguardi.
Se la penetrazione della Corte nella coscienza del corpo sociale fu, pur
nella sua approssimatività, un fatto immediato e spontaneo, non altrettanto
fu facile però l'inserimento del nuovo istituto nel sistema dei Poteri
tradizionali. Esso veniva ad occupare spazi in precedenza presidiati da altri
Poteri, a esercitare interventi in passato considerati inconcepibili, ad
alterare l'ordine delle primazie.
Sarebbe ingiusto ascrivere però a tali ragioni - come talora, si è fatto
- il ritardo della effettiva realizzazione della Corte, differita di parecchi
anni rispetto all'entrata in vigore della Costituzione. La laboriosità e
lentezza dell'iter di approvazione delle leggi destinato ad attuare gli scarni
precetti dedicati dalla Carta del 1947 alla giustizia costituzionale fu un fatto
naturale, quando si tenga presente la novità e complessità della materia; e il
successivo, quasi triennale ritardo dell'elezione dei giudici di estrazione
parlamentare va spiegato con la difficoltà di raggiungere le necessarie
intese politiche imposte dal quorum fissato dalla legge: chi sa per quanto
ancora si sarebbero protratte le reiterate vicende elettorali di quegli anni,
se, a partire dall'assunzione alla Presidenza della Repubblica di Giovanni
Gronchi, che della necessità della entrata in funzione della Corte fu un
convinto assertore, non vi si fosse impegnato a fondo, con la generosità e
l'immaginativa consuete, l'opera di mediazione spiegata, per ragione
dell'ufficio, da Giovanni Leone, allora Presidente della Camera dei
Deputati.
Non si potrebbero però non far risalire alle ricordate ragioni le
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difficoltà formali e protocollari ormai per fortuna quasi tutte superate relative all'inserimento della Corte nel sistema degli organi supremi dello
Stato. Problemi che - come ben intuirono i primi due Presidenti, De Nicola
e Azzariti, i quali si trovarono a doverli affrontare - non potevano, né
possono esser sottovalutati o trascurati, data l'incidenza che i profili formali
e di prestigio hanno inevitabilmente, a certi livelli, sulla effettività dei
Poteri.
Ma le maggiori difficoltà sono state e sono tuttora rappresentate dalle
lentezze, gli inceppamenti, gli arresti nella essenziale azione di raccordo
dell'operato del Potere giurisdizionale e di quello del Potere legislativo con
l'operato della Corte, non sempre provocata a svolgere la sua necessaria
opera risanatrice, e non di rado esposta alla preoccupazione delle
conseguenze sfavorevoli per il corpo sociale, che i vuoti legislativi da essa
prodotti, quando non vengano prontamente colmati, sono in grado di
suscitare.
Nonostante queste difficoltà la Corte ha assolto tuttavia un ruolo di
grande importanza, da un lato, al servizio del progresso civile della
comunità nazionale, da un altro al servizio della pace sociale.
Il nostro paese e in genere la società moderna (ma il nostro paese in
modo più accentuato di altri) - è caratterizzato da un intenso fenomeno di
pluralismo sociale, il quale non è ancora riuscito a tradursi, se non entro
ristretti limiti, in pluralismo istituzionale. Varie sono quindi le
contestazioni, i conflitti, le occasioni per le une e per gli altri. E, siccome
buona parte di essi toccano, in un modo o nell'altro, gli stessi principi di
base dell'ordinamento, una Corte costituzionale è in grado di assolvere un
ruolo sommamente utile, convogliando entro gli argini di un civile dibattito
giuridico, governato e risolto al di fuori e al di sopra degli interessi dei
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contendenti, contese che altrimenti rischierebbero di sfociare in fatali
scontri oppure in compromessi destinati ad alterare il regime di coesistenza
e di contemperamento fissato dall'ordine costituzionale. Tanto più, poi, un
simile organismo è in grado di assolvere vantaggiosamente tale ruolo, in
quanto la composizione e il modo di rinnovarsi ne assicurino - come i
nostri ordinamenti prevedono - l'apertura all'evoluzione della società in cui
è chiamato ad operare, e, con ciò, quella permanente aderenza del dato
giuridico al dato sociologico, che costituisce un'esigenza fondamentale per
la duttilità e la durevolezza degli istituti giuridici.
È merito della Corte di aver preservato, attraverso le sue sentenze pur nel quadro policentrico del sistema regionale (che più volte ha tutelato
nei confronti dei poteri statali) - il principio dell'unità della Nazione e dello
Stato (massimamente evidenziato nella categorica affermazione del
carattere inderogabilmente unitario della giurisdizione costituzionale), e di
aver segnato (negando tra l'altro ogni potestà normativa delle Regioni in
materia di rapporti internazionali, in materia giurisdizionale e in materia
penale) i limiti al di là dei quali le autonomie regionali avrebbero
compromesso il carattere unitario del regime politico. Ma è pure merito di
sue sentenze l'aver definito certi rapporti tra Poteri dello Stato, come quelli
tra Governo e Consiglio Superiore della Magistratura; mentre è merito
della sua presenza nel sistema se in taluni casi, che pure avrebbero potuto
darvi occasione, sono stati evitati in buon accordo i conflitti che avrebbero
potuto insorgere tra Poteri dello Stato.
Alla definizione dei rapporti tra Poteri possono anzi ascriversi quelle
pronuncie della Corte, le quali hanno affermato l'estensione del sindacato
di legittimità costituzionale: al procedimento di formazione dello leggi;
all'osservanza nella legislazione, oltre che del principio della riserva dì
legge, anche dei limiti delle riserve relative di legge; alla sussistenza di una
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razionalità nelle differenziazioni e assimilazioni di trattamento operate
dalla legislazione; all'osservanza dei limiti esterni di quei giudizi di valore del tipo, ad esempio, dell'«utilità sociale» - soltanto sul presupposto della
positività dei quali la Costituzione consente l'emanazione di norme e
provvedimenti destinati a incidere su certi diritti; all'osservanza del precetto
costituzionale che impone al legislatore di darsi cura della copertura delle
nuove o maggiori spose erariali comportate da innovazioni legislative.
È poi merito di talune sentenze, intervenute in materia di conflitti
sociali, se certe forze non istituzionalizzate sono state poste in grado di
misurare i limiti al di là dei quali la propria azione verrebbe a porsi contro
l'ordine costituzionale.
A parte le pronunce che hanno inciso nell'area dei rapporti tra le
diverse componenti del corpo sociale e del corpo statale - area nella quale,
come risulta da quanto già detto, l'azione della Corte non si è esercitata
soltanto attraverso i giudizi volti alla risoluzione di conflitti - vanno però
ricordati soprattutto gli apporti della Corte al progresso civile e sociale del
Paese.
E prima di ogni altra cosa va ricordato un merito, di immensa portata,
che la Corte consapevolmente e responsabilmente si acquistò fin dal
momento stesso del suo primo apparire sulla scena della storia. Con la
prima sua sentenza - alla quale nessuno di quanti oggi siedono a questo
banco ebbe l'onore di partecipare - essa infatti - rifiutando l'indirizzo
accolto fin allora dai giudici comuni e seguito anche da tribunali
costituzionali di altri paesi - affermò - superando i copiosi dissensi
dottrinali - la soggezione al confronto, di sua competenza, con la nuova
Costituzione, anche delle leggi anteriori a questa; e proclamò l'operatività
immediata, ai fini di tale raffronto, anche di quelle disposizioni della
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Costituzione che, per esser considerate meramente "programmatiche",
solevano essere ritenute prima di allora prive di rilevanza attuale. Fu questa
la breccia storica alla quale il Popolo italiano deve se oggi non sono più in
vigore molte disposizioni della legge di pubblica sicurezza e di altre leggi
che comprimevano talune delle libertà fondamentali dei cittadini o ne
riducevano le garanzie (è il caso di fare espressa menzione delle
disposizioni riguardanti il potere dell'autorità governativa o amministrativa
di istituire pene o stabilirne la misura, il potere prefettizio di ordinanza,
l'istituto della garanzia amministrativa), e se ha potuto aprirsi per la
giustizia, e in particolare per quella penale, un’era di più civili procedure,
rispettose dei diritti della persona umana e delle garanzie destinate a
costituirne l'inseparabile presidio. A quest'ultimo proposito basterà far
cenno: alle sentenze che hanno comportato il venir meno - causa l'assenza
del requisito dalla imparzialità delle competenze giurisdizionali di taluni
Ministri e - causa la mancanza di indipendenza - di quello di taluni organi
inquadrati nella pubblica amministrazione, quali i Consigli comunali o
provinciali, i Consigli di prefettura, le Giunte provinciali amministrative;
alle sentenze che hanno privato il pubblico ministero del potere di
distogliere l'imputato dal giudice precostituito per legge; a quelle,
numerosissime, che hanno inciso nella normativa del processo in vista
dell'assicurazione alle parti - particolarmente all'imputato - del diritto di
azione e di quello di difesa in ogni grado e fase del giudizio.
Non può esser questa la sede per una diffusa disamina della
giurisprudenza della Corte nei primi dodici anni della sua esistenza. Del
resto un'ampia rassegna - limitata peraltro al primo decennio è stata
recentemente pubblicata a cura dell'ufficio studi in un corposo volume (del
quale io mi sono premurato, Signor Presidente, di farLe doveroso omaggio,
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a nome della Corte). Mi limiterò dunque a ricordare, emblematicamente, in
aggiunta a quelle che ho già ricordato, talune soltanto delle pronunce del
dodicennio, che mi paiono più significative, in quanto hanno contribuito,
nel campo dei rapporti civili od economici, in modo particolarmente
rilevante, alla avanzata del Paese verso più evoluti traguardi di civiltà.
In quest'ordine di idee assumono rilievo di primo piano gli apporti
all'effettiva affermazione e al consolidamento dei principio di uguaglianza.
In tale direzione la Corte ha considerato le indicazioni contenute nel primo
comma dell'art. 3 Cost. come meramente indicative di una regola
universale
di
esclusione
di
ogni
ingiustificata
o
ingiustificabile
differenziazione, da parte del legislatore, di fattispecie identiche o affini, e
ha fatto di tale concetto numerosissime applicazioni. Con specifico
riferimento alla posizione dei singoli nella società è da ascrivere a suo
merito se la donna ha potuto finalmente essere ammessa ai pubblici uffici a
parità dell'uomo: se hanno potuto essere eliminati nel processo civile certi
istituti come la cautio pro expensis e il solve et repete, i quali ponevano i
meno abbienti in posizione di deplorevole svantaggio; se, per converso, ha
potuto essere più volto ribadito il principio della legittimità di disposizioni
di favore nei confronti del contraente più debole, e segnatamente del
prestatore d'opera.
Anche nel campo dei rapporti di famiglia la Corte ha annullato talune
disposizioni le quali facevano ingiustamente alla donna (la moglie) una
posizione deteriore rispetto all'uomo o all'uomo rispetto alla donna; ma
purtroppo in questo campo non ha potuto spingersi molto avanti data la
strutturazione unitaria dagli istituti, la quale grava di pericoli la
eliminazione sporadica di questa o di quella pietra che compongono la
costruzione e la creazione di equiparazioni non accompagnate da una
contemporanea normazione integrativa, valida al superamento dei conflitti
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tra i soggetti pariordinati.
Nel campo di quelli che la Costituzione denomina rapporti civili, e
riguardo le libertà fondamentali - le libertà che costituiscono il cardine
essenziale di una società democratica, e anzi di ogni società civile, e tra le
quali si colloca al primo posto la libertà della persona fisica da ogni forma
di restrizione o di coazione -, è da ascrivere a merito della Corte, appunto
sul terreno di quest'ultima libertà, l'espunzione dal testo unico di pubblica
sicurezza di parecchie norme incompatibili con le garanzie a essa assicurate
dalla Costituzione, quali quelle che consentivano all'autorità di polizia di
adottare autonomamente (o cioè indipendentemente dalla pronuncia di un
giudice e fuori dei casi previsti dall'art. 13 Cost.) misure come
l'ammonizione (alla cui eliminazione il legislatore si affrettò a far seguire.
quella del confino di polizia: l. 1453/56), la traduzione da un luogo a un
altro, l'ispezione di parti del corpo non esposte normalmente alla vista
altrui e l'effettuazione di rilievi su di esse. A quest'ultimo riguardo la Corte
ebbe a precisare che la garanzia dell'habeas corpus "non deve essere intesa
soltanto in rapporto alla coercizione fisica della persona, ma anche alla
menomazione della libertà morale, quando tale menomazione implichi un
assoggettamento della persona all'altrui potere".
Ma non meno importanti furono le affermazioni relative alle altre
libertà fondamentali.
In materia di libertà religiosa - la quale, per attenere al foro più
riposto, e perciò più geloso, delle coscienze, ha sempre costituito la pietra
di paragone di un sistema politico autenticamente libero - la Corte, pur
escludendo il contrasto con la Costituzione di quelle disposizioni penali
che accordano una tutela preferenziale alla religione cattolica, "in ragione
della antica ininterrotta tradizione del popolo italiano" di appartenenza a
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essa, ha dichiarato, sul presupposto che la libertà di religione riguarda tutte
le manifestazioni di culto, l'illegittimità di talune norme che richiedevano,
per i culti acattolici, l'autorizzazione governativa per l'apertura di templi e
oratori e sottoponevano l'esercizio della facoltà di tenere cerimonie
religiose alla condizione che la riunione fosse presieduta o autorizzata da
un ministro la cui nomina fosse stata approvata dall'autorità governativa.
Essa ha inoltro dichiarato illegittima quella disposizione la quale,
differenziando le cerimonie di culto rispetto alle altre riunioni, esigeva il
preavviso all'autorità di pubblica sicurezza anche quando dovessero
svolgersi in luoghi non pubblici, ma diversi da quelli destinati al culto.
Con riferimento alla libertà di manifestazione del pensiero - in
relazione alla quale è stato più volte affermato che non tollera alcuna
compressione se non in correlazione alla tutela di altri beni protetti dalla
Costituzione, onde sono state annullate talune disposizioni illegittimamente
limitative del diritto di cronaca giudiziaria - riveste grande importanza
quella sentenza nella quale, dopo aver affermato che la libertà in questione
ricomprende il diritto di diffondere con qualsiasi mezzo ogni forma di
pensiero proprio o altrui, fu stabilito che, quando un mezzo, se lasciato al
libero uso dei privati, sia naturalmente esposto - a causa della sua
limitatezza (come è il caso della televisione, data la limitatezza dei canali a
disposizione) - a diventare oggetto di monopolio o di oligopolio privato,
non contrasta con la Costituzione, e anzi ne seconda l'ispirazione, il fatto
che lo Stato lo riservi a sé, giacché "si trova istituzionalmente nelle
condizioni di obbiettività e imparzialità più favorevoli per conseguire il
superamento delle difficoltà frapposte dalla naturale limitatezza del mezzo
alla realizzazione del precetto costituzionale volto ad assicurare ai singoli
la possibilità di diffondere il pensiero con qualsiasi mezzo": aggiunse però
la sentenza - e il rilievo non rimase senza conseguenze (ma è capace di
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ulteriori frutti) - che "allo Stato monopolista di un servizio destinato alla
diffusione del pensiero incombe l'obbligo di assicurare, in condizioni di
imparzialità e obbiettività, la possibilità potenziale di goderne naturalmente nei limiti che si impongono per questa come per ogni altra
libertà, e nei modi richiesti dalle esigenze tecniche e di funzionalità - a chi
sia interessato ad avvalersene per la diffusione del pensiero nei vari modi
del suo manifestarsi".
Altre importanti decisioni la Corte ha emesso, in annullamento di
leggi che comprimevano la libertà di espatrio, la libertà di insegnamento e
di scuola, la libertà di non associazione. Ma il ricordarli rischierebbe di
trasformare questa parte del mio discorso - il quale, pure, in questo tratto,
assume il carattere di relazione – in un troppo lungo elenco.
Nel campo dei rapporti economici l'avvento della Corte costituzionale
ha contribuito, se possibile ancor maggiormente, alla dilatazione dagli
orizzonti dischiusi dalla Carta del 1947, aprendo alle necessarie
conseguenze l'ispirazione sociale di questa.
La Corte muove dal concetto che, in base alla Costituzione, il lavoro
si colloca come valore essenziale della comunità nazionale, configurandosi
quale fondamentale diritto della persona umana, e che la retribuzione dei
lavoratori, da qualunque soggetto (privato o pubblico) dipendano, - tanto
per la parte corrisposta in vigenza del rapporto di lavoro, quanto per quella
differita al venir meno di questo - rappresenta una entità fatta oggetto, sul
piano morale e su quello patrimoniale, di accentuata protezione. Di qui, tra
l'altro, l'adeguamento di essa, oltre che alla quantità del lavoro prestato, alle
esigenze di vita del lavoratore, e quindi al suo stato familiare, la legittimità,
delle norme che impongano al datore di lavoro la retribuzione anche in
caso di assenza del lavoratore per breve malattia, l'imprescrittibilità del
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diritto alla retribuzione finché duri il rapporto di lavoro, l'impossibilità di
escludere, per qualsiasi causa, il lavoratore, privato o pubblico, dal
trattamento di anzianità, di quiescenza, o di pensione. Di conseguenza la
Corte ha eliminato dall'ordinamento numerose disposizioni contrastanti con
tali insegnamenti.
Sempre in sede di tutela dei lavoratori, la Corte ha giustificato - alla
stregua del precetto costituzionale il quale esige rimozione degli ostacoli
che impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva
partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione economica e sociale
del Paese - quelle disposizioni che impongono l'assunzione degli invalidi di
guerra o del lavoro capaci di attività lavorativa; ha annullato varie norme
non puntualmente rispettose del diritto al riposo settimanale o alle ferie
annuali; ha affermato il diritto a che nell'indennità di anzianità venga
computato ogni periodo trascorso sotto lo armi, anche se in servizio di leva;
ha, dichiarato illegittime le disposizioni. limitative, in caso di infortunio del
lavoratore, della responsabilità del datore di lavoro per i fatti di suoi
dipendenti concretanti un reato.
Ma il maggior merito della Corte in questa materia fu sicuramente di
aver aperto, con una propria sentenza, la strada a quella recente legge che
ha fatto venir meno definitivamente la facoltà del datore di lavoro di
recedere ad nutum dal rapporto di lavoro a tempo indeterminato (l. 15
luglio 1966, n. 604).
In materia di libertà d'intrapresa economica e di proprietà privata - cui
la Costituzione dedica pochi schematici e controversi precetti, dai quali
risulta però evidente l'intento di contemperare i valori dell'individuo con le
esigenze della collettività e di garantire i singoli in relazione ai sacrifici cui
i loro diritti siano esposti - la Corte ha avuto occasione, nel dodicennio, di
fermare taluni importanti punti.
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Tra quelli in materia di impresa, sono da segnalare la determinazione
dei requisiti formali delle leggi di programmazione, il riconoscimento della
legittimità purché sia rispettato il principio della riserva di legge, cui tutta
questa materia è soggetta - della fissazione di prezzi d'imperio,
dell'imposizione di ammassi di prodotti, dell'assoggettamento a monopolio
pubblico di taluni servizi quali la televisione circolare, la produzione e
distribuzione di elettricità, la raccolta e distribuzione del latte,
dell'assoggettamento
di
attività
economiche
ad
autorizzazioni
amministrative volte alla garanzia di interessi costituzionalmente rilevanti,
del divieto di titoli azionari non nominativi. Essa non ha mancato però, a
un tempo, di dichiarare illegittime talune leggi che imponevano al diritto
d'intrapresa economica limiti non rientranti tra quelli previsti dalla
Costituzione.
Con specifico riferimento, poi, al diritto di proprietà - la tutela
costituzionale del quale si estende agli altri diritti reali - ha negato
l'incompatibilità con la Costituzione delle leggi di riforma fondiaria del
1950, della legislazione vincolistica dei fitti di immobili urbani e rustici, di
una legge del 1963 che ebbe a trasformare in perpetui taluni rapporti di
colonia miglioratizia; e ha inoltre affermato l'inerenza dei limiti di distanza
nelle costruzioni e delle zonizzazioni urbanistiche alla funzione sociale cui
la Costituzione condiziona la proprietà privata. Ma l'affermazione più
incisiva in questa materia è che spetta al legislatore di definire, per le
singole categorie di beni, l'entità dalla proprietà privata e il regime di essa:
sicché l'ulteriore precetto costituzionale, in base al quale nessuna
espropriazione può aver luogo senza indennizzo, non può essere inteso se
non in correlazione alla portata che il legislatore abbia dato in via generale,
nella sua scelta politica, alla proprietà delle singole categorie di beni.
Inoltre la Corte ha costantemente insegnato che l'indennizzo spettante agli
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espropriati - pur dovendo rappresentare un ristoro serio e non meramente
simbolico - non deve necessariamente commisurarsi al valore venale del
bene, dovendo piuttosto tendere al contemperamento del diritto privato
sacrificato con gli interessi pubblici ai quali l'espropriazione è preordinata.
Un cenno va fatto infine all'affermazione che, pur confermando il
principio
secondo
cui
le
leggi
tributarie
retroattive
non
sono
necessariamente incostituzionali, esse lo sono però quando manchi un
razionale collegamento tra imposizione retroattiva e capacità di
contribuzione.
Questo, e più, - anche senza far conto, dati l'oggetto e i limiti
dell'odierno discorso, delle pronuncie dell'anno corrente - l'apporto della
Corte all'evoluzione verso più civili ordinamenti. Questo, e più, il
significato della presenza di essa nel sistema che ci regge.
I giudici della Consulta - i vecchi, come i nuovi - non pretendono di
essere immuni dalla fallibilità degli uomini. Essi si ritengono però in grado
di affermare a fronte alta di aver fatto, in coscienza, tutto quanto era in loro
potere per non incorrere in errori. E - forti anche del consenso dell'opinione
pubblica - sono convinti che il loro operato è stato, nel suo complesso,
costruttivo o positivo.
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Il loro Presidente considera però un diritto e un dovere, verso l'istituto
e verso la Nazione, affermare, in questa solenne occasione, che ancor più
proficui sarebbero i risultati, ove la Corte potesse esser definitivamente
affrancata dalla preoccupazione delle conseguenze negative, anziché
positive,
per
la
comunità
nazionale,
dei
vuoti
da
essa
creati
nell'ordinamento, quando non vengano prontamente colmati. Onde essa
non può non compiacersi delle cure recentemente dedicate dalle Presidenze
delle Assemblee legislative alla sensibilizzazione di queste in occasione dei
suoi pronunciati, come pure della accentuata sensibilità verso di essi,
dimostrata in questi ultimi tempi, in più occasioni, dal Governo.
Per la sua parte, la Corte è convinta di aver fatto tutto quanto era
tecnicamente possibile per ridurre al minimo il menzionato inconveniente.
A tal fine ha imboccato, in un primo tempo con larghezza, la via delle
sentenze cosiddette "interpretative di rigetto", nell'intento di non alterare il
sistema quando le disposizioni impugnate siano suscettibili di una
interpretazione - diversa da quella giurisprudenziale - non contrastante con
la Costituzione. Ma su tale strada si è imbattuta nell’ostacolo insormontabile alla stregua del diritto vigente - del geloso e inflessibile
attaccamento dei giudici comuni - al di là delle pronuncie della Corte e dei
consensi da queste riportate ad opera della dottrina - alle loro
interpretazioni. In un secondo tempo si è orientata nel senso di un ricorso
sempre più frequente alle caducazioni meramente parziali, potenziate
attraverso l'espediente di quelle sentenze che il linguaggio tecnico ha
definito "manipolatorie": sentenze volte a far sopravvivere i testi legislativi
ristrutturati in una formulazione sostanzialmente nuova e diversa rispetto a
quella originaria, risultante dall'espunzione di quegli aspetti, non espliciti,
del contenuto di quella, che risultino incompatibili con la Costituzione, e
talora addirittura dall'evocazione nei vuoti in tal modo determinati, di altri
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elementi già presenti nell'ordinamento. Tale strada però non è in grado di
far fronte ai casi in cui di una disposizione o di un complesso di
disposizioni nulla è salvabile, come pure a quelli in cui il venir meno di una
disposizione o di una parte di essa comporta l'esigenza di un'opera
sostitutiva che non compete alla Corte.
Ma anche di altri due aspetti della giustizia costituzionale, dibattuti sia
in sede dottrinale che in sede politica, ritengo opportuno farmi eco in
questa occasione, la quale vede qui riunite le più alte espressioni dei Poteri
statali. L'uno è che, così come oggi è organizzata, la giustizia
costituzionale, da un lato, non copre tutta l'area della legislazione
(lasciando generalmente priva di garanzie quella che, pur interessando, e
talvolta in modo assai incisivo, l'intera comunità, non è in grado di
suscitare questioni idonee a formare oggetto di un giudizio), e dall'altro
giunge generalmente troppo tardi, a situazioni di fatto già pregiudicate (il
che non è senza rischi sul piano della serenità e dell'efficienza dei giudizi).
Il secondo è che l'attuale sistema sottrae alla giustizia costituzionale (e
cioè, si può ben dire, al naturale suo giudice) gli eventuali errori in cui
possano incorrere, nelle materie regolate dalla Costituzione, i giudici
comuni, allorché manchino, in tutti i gradi della giurisdizione, di rimettere
alla Corte una questione relativa alla legittimità di una legge nonostante
che non sia manifestamente infondata, e allorché neghino nel caso singolo,
ai diritti degli interessati, la protezione accordata dalla Costituzione: in tal
modo si rendono possibili disparità di orientamenti, tanto più gravi in
quanto generalmente attengono alla sfera dei diritti fondamentali.
Gli attuali componenti di questo consesso sono fieri di aver raccolto
l'eredità e l'esempio dei loro predecessori, ai quali in questo giorno hanno
voluto rendere onore, e rivolgono a se stessi l'augurio di sapersi mantenere
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degni continuatori della nobile tradizione da essi fondata.
Con lo sguardo a null'altro fisso che alla Costituzione liberamente
datasi ventun anni or sono dal Popolo italiano - appena uscito, ritemprato
nello spirito, dalle dure prove della Resistenza e della Liberazione, e
intensamente impegnato con tutte le sue energie nell'arduo sforzo, della
Ricostruzione - essi se ne considerano custodi sereni, coscienti e fermi. E,
fiduciosi nell'ordinata cooperazione di tutti i Poteri, auspicano che il nuovo
ciclo della loro attività, che si è aperto quest'anno, veda, anche per l'apporto
che essi saranno in grado di darvi, la Nazione - gelosa delle riconquistate
libertà e non dimentica del costo di esse – protesa, nel lavoro, nella
concordia, nella giustizia, e innanzitutto (come l'ora impone) nella
consapevolezza dei valori dello Stato che furono giustamente cari ai nostri
padri, a nuove conquiste di progresso civile.
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