Untitled - Barz and Hippo

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Untitled - Barz and Hippo
Dall’Arabia Saudita il primo film interamente girato in Arabia Saudita, primo girato da una donna arabo-saudita
e prima opera arabo-saudita a partecipare alla Mostra del Cinema di Venezia. Una serie di primati per una
pellicola che guarda al grande cinema iraniano e si propone, come evento in sé e come messaggio che comunica,
di combattere la cultura araba più tradizionalista. Che bandisce le sale cinematografiche dal proprio territorio.
titolo originale:
durata:
nazionalità:
anno:
regia:
sceneggiatura:
fotografia:
montaggio:
musica:
costumi:
distribuzione:
WADJDA
100 MINUTI
ARABIA SAUDITA, GERMANIA
2012
HAIFAA AL-MANSOUR
HAIFAA AL-MANSOUR
LUTZ REITEMEIER
ANDREAS WODRASCHKE
MAX RICHTER
PETER POHL
ACADEMY2
scheda tecnica
interpreti:
REEM ABDULLAH (la madre), WAAD MOHAMMED (Wadjda), ABDULLRAHMAN
ALGOHANI (Abdullah), AHD KAME (Hussa), SULTAN AL ASSAF (il padre).
Haifaa Al Mansour
Haifaa Al Mansour, nata il 10 agosto 1974, è la prima regista donna dell'Arabia Saudita e una tra le più importanti
personalità cinematografiche arabo-saudite, che sono peraltro assai poche, dato che il cinema in Arabia è per lo
più malvisto dalle autorità religiose e politiche. Al Mansour è figlia del poeta Abdul Rahman Mansour, che l’ha
avvicinata al cinema attraverso la visione domestica, in quanto in Arabia Saudita non esistono sale
cinematografiche. Grazie al sostegno della famiglia, si è laureata in letteratura comparata all'Università
Americana del Cairo e ha completato il Master in Regia e Studi Cinematografici all'Università di Sydney. Tuttavia,
fino all’età di 30 anni ha lavorato per una compagnia petrolifera: solo in seguito si è decisa a seguire la sua
passione per il cinema. I suoi primi lavori, i lungometraggi Who?, The Bitter Journey, e The Only Way Out sono
stati selezionati da diversi festival internazionali guadagnandole premi e visibilità. Ha poi girato a Dubai il
documentario Women Without Shadows, che porta alla luce attraverso alcune interviste la condizione delle
donne arabo-saudite, insistendo su un tema già toccato nel corto Who?: le restrizioni imposte alle donne arabosaudite quanto ad abbigliamento. Mostrato in 17 festival, il documentario ha suscitato notevole clamore. Il suo
successo ha provocato dibattito e polemiche, ma anche la nascita di una nuova ondata di registi sauditi, portando
alla ribalta la questione dell'apertura di cinema nel Regno. A causa delle questioni che tocca, il film ha spaccato in
due l’opinione dela popolazione: secondo alcuni, si tratta di uno sguardo occidentalizzato e che offende la cultura
locale non comprendendola. Al Mansour dichiara fra le sue fonti d’ispirazione principali il cinema iraniano di
registi come Kiarostami, Panahi, Samira Makhmalbaf, osservando l’affinità che lega il suo Paese all’Iran, che però
vanta, al contrario dell’Arabia, una tradizione cinematografica ricca e illustre.
Nel 2012 ha girato il suo primo lungometraggio di finzione, il film La bicicletta verde, presentato al festival di
Venezia. Si tratta del primo lungometraggio girato interamente in Arabia Saudita.
La parola ai protagonisti
Intervista a Haifaa Al Mansour
Dev’essere stata dura girare un film in un paese in cui le donne non possono neanche guidare l’auto.
Lo è stato, infatti. Soprattutto le scene all’aperto: dovevo stare chiusa in un camper e comunicare con la troupe
via telefono o walkie talkie ma era complicato, come regista non puoi guardare le cose solo dal monitor. In certi
quartieri non potevo fare altro, in altri invece mi sentivo sicura e allora stavo anch'io per strada. A parte i miei
problemi come regista donna, l’intera troupe, che era mista tedesco-saudita, ha incontrato problemi e resistenze:
nei contesti più conservatori una troupe che gira un film è considerata come qualcosa di immorale.
Gli uomini della troupe come si sono comportati?
In questo gli uomini sono uguali ovunque, non sono mai contenti di essere comandati da una donna... E a volte si
comportano come dei ragazzini. Ma non li ho mai sfidati. Un po’ adulati, casomai: ho sempre mostrato di
apprezzare il loro lavoro. Volevo solo finire il mio film!
Ha avuto problemi con il casting?
È quasi impossibile far recitare una donna saudita. È raro che una donna osi sfidare le convenzioni fino ad
apparire sullo schermo. Trovare la bambina è stato difficilissimo: non potevamo diffondere annunci pubblici, ci
siamo basati sul passaparola e l’abbiamo trovata solo una settimana prima dell’inizio delle riprese.
I genitori della bambina erano contenti che la loro figlia girasse il film?
Lei ci teneva davvero molto, e loro volevano accontentarla: tra qualche anno sarebbe stato impossibile - una
bambina che recita è accettabile, un’adolescente no. Lei stessa ha detto che reciterà fino a 16 anni e poi farà il
medico, sa che i suoi genitori non vogliono che diventi attrice. Speriamo che cambino idea, è così brava! Quando
è arrivata al provino mancava solo una settimana al primo ciak, avevamo visto tantissime bambine e non
avevamo ancora trovato quella giusta - eravamo disperati. Quando è arrivata lei con il suo iphone, i suoi capelli
ricci, i jeans e il giubbotto di pelle abbiamo sentito che era quella giusta. Anche se non sapeva una parola di
inglese conosceva perfettamente Justin Bieber e Selena Gomez, insomma incarnanava perfettamente la tensione
tra modernità, tecnologia e tradizione che volevamo dare nel film.
Che rapporti ha con le tradizioni dell’Arabia Saudita? La sua famiglia d’origine l’ha aiutata?
Non sono molto tradizionalista. Ma vengo da una piccola città, sono andata alla scuola pubblica, sono l’ottava di
12 tra fratelli e sorelle: i miei genitori sono molto, molto sauditi... Però i miei hanno sempreincoraggiato me e le
mie sorelle a fare ciò che desideravamo. Mio padre è un uomo molto fedele, ha avuto solo mia madre per
moglie. Ed entrambi sono molto liberal. Mi hanno sempre sostenuto. Molte delle mie compagne di scuola non
hanno mai potuto sfruttare il loro talento perché non hanno avuto le mie stesse opportunità. I genitori non gliele
hanno date. La società fa pressione: mio padre ogni tanto riceveva lettere da gente che diceva “ma davvero
permetti a tua figlia di lavorare nello spettacolo? Dovresti stare attento”.
Si trova bene nel suo paese nonostante le restrizioni cui sono costrette le donne?
In questo periodo vivo in Bahrein perché mio marito lavora lì, ma torno molto spesso a trovare la mia famiglia.
Per entrare nel paese bisogna mostrare il permesso scritto del coniuge.... Sì, può essere frustrante non poter
entrare in un ristorante perché riservato agli uomini o non poterti vestire come desideri o non guidare l’auto
(fuori dal paese la guido, invece), tuttavia penso che la parte positiva sia preponderante. Lo stesso governo sta
cercando di favorire le donne. Le hanno mandate alle Olimpiadi, per esempio, facilitano la scolarizzazione. Ma la
società è ancora molto religiosa, conservatrice, tribale. Non potrà cambiare in una notte, ci vuole tempo. La
convivenza tra generi non è certo la norma. E anche quando è ammessa, come in campo medico per esempio,
non è ben vista. Ci sono famiglie che impediscono alle ragazze di lavorare in quel settore perché un ambiente
femminile è comunque più virtuoso.
Nel film sembra che anche le donne ostacolino il cambiamento.
E' così ma, come le dicevo, stanno cambiando. Le porto un esempio personale: mia cognata era molto, molto
tradizionalista. Ha iscritto sua figlia a scuole molto vecchio stile, non ha mai permesso che uscisse dal paese.
Eppure alla fine l’ha mandata negli Stati Uniti con una borsa di studio, e questo è un cambiamento enorme: loro
vivono in una piccola città dove tutti chiacchierano e non si vuole che queste cose succedano. Ma adesso anche
lei vuole dare più opportunità alla figlia. Le ragazze saudite hanno i loro sogni, sono ambiziose, hanno accesso a
tante risorse (come Internet) per poter realizzare se stesse. Sarà difficile tagliarle fuori e tenerle sempre sotto
controllo.
E gli uomini?
Anche loro sono vittime, in parte. Nel film il padre di Wadjda è vittima della madre, che gli impone di sposare
un’altra donna per cercare di avere un figlio maschio. Lui ama sua moglie e non ne sente il bisogno, ma non
riesce a resistere alle pressioni della sua famiglia d’origine, della società, delle tradizioni. Non è lui il cattivo: è la
situazione a essere viziata, creando una dinamica insalubre tra uomini e donne.
Quali sono i film che guardava da bambina e che l’hanno fatta innamorare del cinema?
Quelli che arrivavano da Bollywood, dall’Egitto e dall’America. I film americani, per quanto prevedibili, erano
quelli che più mi emozionavano e catturavano la mia attenzione.
Qualche titolo o qualche nome?
I fratelli Coen; e il neorealismo di Ladri di biclette, naturalmente.
Lei ce l’aveva una bici, da piccola?
Sì, ma la usavo solo in cortile... E qualche volta la sera, per strada: quando in giro non c’era nessuno. Le attività
all’aperto non sono consentite alle ragazze: non sono proibite dalla legge, ma è come se lo fossero.
Dove hai trovato l’ispirazione per questa storia?
Ho una nipote, è molto sveglia e attiva, ma la sua famiglia è tradizionalista e le ha imposto di rimanere a casa
come tutte le altre ragazze. Ho creato la mia storia pensando a lei.
Che effetto si aspetta dal suo successo?
Spero che il mio film incoraggi molte ragazze del mio Paese a diventare filmaker.
Sono stata minacciata di morte, ma non me ne preoccupo: qua, chiunque lavori nei media le riceve. Ma per
vedere il film, i Sauditi dovranno andare nel Bahrein. Io stessa se voglio vedere un film devo ricorrere a un dvd, e
non posso recarmi personalmente nel negozio, perché l’accesso alle donne è proibito.
Il film è una coproduzione tedesco-saudita, prodotto dalla berlinese Razor Film Produktions con il supporto della
Rotana Studios, dell’Emiro e Principe Al Walid Bin Talal, nipote del re Abd Allah, nonché l’uomo più ricco del
Medio Oriente e il tredicesimo più ricco al mondo.
Per me è stato importante avere un supporto internazionale, per essere sicura che il mio film potesse essere
distribuito all’estero. In Arabia purtroppo non potrà essere visto. Tuttavia il coinvoglimento dell’Emiro nelle
produzioni dei Rotana Studios fa sperare in un futuro più aperto verso il cinema. Ci sono tanti ragazzini con in
mano una videocamera. E una volta che i film diventeranno una realtà, apriranno anche i cinema.
Com’è stato accolto il film in Arabia?
In Arabia il film è stato preso in maniera molto positiva e questo perché io cerco comunque di rispettare le regole
e la cultura. Cerco di girare dentro al sistema anche se con i miei lavori sto esprimendo me stessa. Nel mio paese
l’orgoglio nazionale è molto forte perciò le autorità arabe sono state molto fiere del fatto che il film è stato
presentato a Venezia. Non dobbiamo dimenticare che il cinema è il modo di intrattenimento con il quale
permettiamo alla gente di viaggiare almeno con la mente.
Recensioni
Roberto Nepoti. La Repubblica
Wadjda ha dieci anni e vive alla periferia di Riyadh, capitale dell'Arabia Saudita. Un tantino ribelle, la bambina
non si sottomette all'amichetto Abdullah, col quale gioca dopo la scuola: per stargli alla pari, anzi, decide di
procurarsi una bella bicicletta verde con cui batterlo in velocità. Sua madre, però, è contraria: perché nel loro
Paese anche una bici, in mano a una creatura di sesso femminile, è avvertita come un minaccioso sintomo di
emancipazione. Allora Wadjda decide che si procurerà da sola i mezzi necessari; ma l'unica via sembra vincere
una gara di Corano che mette in palio un premio in denaro. Anche essere donna e regista, come Haifaa AlMansour, è una trasgressione nella sua terra; e soprattutto in un Paese che non ha sale cinematografiche. Dal
neorealismo di 'Ladri di biciclette' al cinese 'Le biciclette di Pechino', e oggi con 'La bicicletta verde', le due ruote
assumono un valore simbolico per raccontare un'epoca attraverso una storia privata. Haifaa possiede un acuto
senso dell'osservazione e lo mette al servizio di un film da osservare nei dettagli (…).
Luca Chiappini. Everyeye.it
E’ appena uscito nelle sale italiane La bicicletta verde di Haifaa Al-Mansour, prima regista donna dell’Arabia
Saudita e, in generale, una delle figure di spicco della cinematografia nazionale. Regista audace, con i suoi
cortometraggi e documentari ha dimostrato una certa capacità, oltreché il coraggio a trattare argomenti delicati
come la tolleranza, il ruolo della donna, il fondamentalismo e i rischi dell’ortodossia. Il film è una summa degli
ideali e dell’impegno di Haifaa contro i luoghi comuni e i tradizionalismi (…).
Wadjda è una ragazzina vivace ed estroversa della periferia di Riyāḍ, capitale dell’Arabia Saudita. Ribelle a suo
modo, non incline ad abbassare il capo di fronte a nessuno, veste Converse All Stars sotto la tunica nera,
dimentica frequentemente di coprirsi col velo, vende trecce colorate alle compagne (scoubidou), battibecca con
gli altri ragazzini e tenta di essere più forte di loro. Una piccola furia esplosiva nel tradizionalismo imperante
dell’ambiente in cui vive, non a caso spesso in difficoltà con la preside della sua scuola, la fondamentalista Hussa
(Ahd Kamel, popolare attrice e regista attiva perlopiù a New York), e con la madre (Reem Abdullah), benché più
flessibile. A complicare la vicenda per Wadjda, già mal vista a scuola, è la sua nuova ossessione: comprare la
bicicletta verde del negozio sotto casa per poter gareggiare con l’amico Abdullah (Abdullrahman Al Gohani) e
batterlo in corsa. Due sono i problemi: da una parte, non è tollerato che le donne vadano in bicicletta (se
vogliono sperare di sposarsi, un giorno), dall’altro, la bicicletta costa 800 riyāl, circa 165 €. Una somma enorme
per la piccola, che tuttavia non si perderà d’animo e comincerà a cercare tutti i modi per tirare su la grana. Fino
alla svolta: una gara di canto del Corano con un montepremi di 1.000 riyāl. E’ l’occasione che stava aspettando.
Ora però deve farsi riammettere alla classe di religione da cui era stata espulsa, imparare a leggere e a cantare il
Corano, superare un quiz a domande strettamente religiose.
Affresco della decadenza di tradizionalismi e stringente ortodossia, grande protagonista del film è la donna in
senso generale. Gli uomini in questo film sono marginali (...). Le donne del film non sono per forza migliori, ma
sono certamente più dinamiche e affiora percettibilmente la volontà di infrangere il claustrofobico ambiente
maschilista. Se Wadjda è senz’altro il personaggio positivo per eccellenza, speranzoso messaggio per nuove
generazioni più aperte e per un futuro più roseo, ruoli più controversi spettano agli adulti (...). Spicca anche un
dettaglio non trascurabile: in tutto il cast, i personaggi femminili sono dotati di un nome, mentre tutti i
personaggi maschili sono etichettati solo in relazione con i personaggi femminili (amante di Abeer, il padre, lo zio
di Abdullah, il negoziante, e così via). L’unico vero personaggio maschile è il giovane Abdullah, figura positiva e,
assieme a Wadjda, speranza per una generazione che possa rompere i tradizionalismi. Emblema di questa nuova,
promettente generazione è il gareggiare in bicicletta tra i due bambini (…).
Alessandra Levantesi Kezich. La Stampa
Considerate le gravi forme di discriminazione alle quali è soggetta la donna nei paesi arabi wahabiti, un film
girato a Riyadh a firma di una regista del gentil sesso è già di per sé una notizia; se poi aggiungiamo che si tratta
di una piccola storia di emancipazione femminile, l'interesse aumenta. E, tuttavia, ancor più importante è che la
saudita Haifaa Al Mansour abbia esordito (grazie anche al Torino Film Lab tra l'altro) con una commedia assai
graziosa e accattivante. (...) In una chiave di denuncia improntata ad affettuosità verso le protagoniste piuttosto
che ad accesi toni polemici, il film scorre con piglio fresco e vivace e la deliziosa Waad Mohammed si dimostra un
vero talento naturale.
Gabriella Gallozzi. L’Unità
A Venezia 2012 è stato un po' il caso del festival, passato nella sezione Orizzonti. La bicicletta verde, infatti, oltre
che un piccolo grande film è anche una sorta di manifesto contro l'oppressione delle donne, tanto da aver
ottenuto il sostegno di Amnesty International. Si tratta, infatti, della prima pellicola girata da una regista in Arabia
Saudita, paese dove le donne non hanno diritto al voto, né alla patente e dove persino il cinema è bandito: le
sale sono proibite ed i film si vedono solo a casa. È con tante proiezioni in famiglia, infatti, che si è formata Haifaa
Al Mansour, la regista che ha sfidato gli infiniti impedimenti imposti dal durissimo regime wahabita (la divisione
tra donne e uomini è rigorosisima, anche per strada. Figuratevi una troupe!) per girare questa favola dai toni
realistici, capace di mettere l'accento sulle contraddizioni di un paese diviso tra modernità e medioevo. Una
favola che parla di libertà attraverso il sogno di una ragazzina di dieci anni, Wadjda che come tante sue coetanee
vorrebbe una bicicletta per fare a gara col suo amichetto di giochi. In Arabia Saudita, però, anche questo è vietato
alle donne. Figurarsi ad una ragazzina che già a scuola ha i suoi problemi per la sua esuberanza e il suo desiderio
di conoscere il mondo. Nella sua stanza, una volta spogliatasi dal burka, la vediamo ascoltare la «musica del
diavolo» e fare braccialetti di filo da vendere alle sue compagne. Un modo anche questo per racimolare il denaro
necessario per comprare la sua bici. Ma la prima a rimproverarla è sua madre. Nonostante viva a sua volta con
disagio le rigide imposizioni religiose, la donna teme lo spirito «ribelle» di Wadjda. E dal canto suo cerca
piuttosto di assecondare i desideri del marito che la «minaccia» di sposare un'altra donna (la bigamia è legale)
per avere il desiderato figlio maschio. Attraverso una solida sceneggiatura il film ci accompagna, quasi in modo
documentaristico, attraverso le vite quotidiane di madre e figlia, mostrandone le difficoltà e gli impedimenti,
senza mai cadere nel didascalico o nella denuncia retorica. Assistiamo così alle continue discussioni della madre
con l'autista: non potendo portare la macchina, come ogni donna saudita, anche lei è obbligata ad avere
qualcuno che l'accompagni sul posto di lavoro, molto lontano da casa. E non è che un esempio del regime di
segregazione vissuto dalle donne. Wadjda, però, a tutto questo non ci sta. E comprare quella bella bici esposta
nel negozio di giocattoli diventa la sua ribellione. Tanto da decidere di partecipare ad una gara di Corano per
ottenere il premio in denaro, necessario per l'acquisto. Da ribelle si trasforma così, «momentaneamente» in
devota, convincendo persino la preside bigotta, la stessa che nonostante pubbliche professioni di fede non
disdegna le visite di «un ladro notturno». Alla fine il premio Wadjda lo vincerà, ma non tutto andrà come
previsto. La bici però sarà sua ugualmente e insieme alla bici arriverà anche la consapevolezza che le cose si
possono cambiare. Anche per sua madre che grazie alla figlia ritroverà dignità e libertà perdute.
Cristina Piccino. Il Manifesto
Wadjda ha un sogno: comparsi la bicicletta che vede tutti i giorni tornando a casa da scuola, e sfrecciare per le
strade della città più veloce del ragazzino amico del cuore. Sembra una cosa semplice, eppure per lei non lo è.
Infatti Wadjda (la bravissima Waad Mohammed) vive in Arabia Saudita dove per le donne tra le tante cose è
vietato anche andare in bicicletta. Wadjda ha conquistato il pubblico dell'ultima Mostra di Venezia, dove era nella
sezione Orizzonti, arrivato come il primo film di una regista donna in Arabia Saudita, Haifaa Al Mansour prodotto
senza alcun supporto nonostante i sempre più frequenti investimenti culturali dei grandi capitali arabi. Ma forse
la storia era poco nei canoni ammessi, anche se poi Haifaa Al Mansour non è mai aggressiva, e nemmeno
giudicante, ma avvicina i diversi aspetti dell'universo femminile. Con una narrazione semplice, in cui gli
schematismi occidentali rispetto al soggetto lasciano il posto a uno sguardo amoroso, una empatia coi
personaggi, e con gli interpreti (stupenda anche Reem Abdullah che è la madre), anche quelli meno «positivi». Il
titolo italiano, 'La bicicletta verde', ci porta subito a pensare ai 'Ladri di biciclette' di De Sica, il riferimento non è
nemmeno troppo casuale. Haifaa Al Mansour sembra, infatti, guardare alla lezione del cinema iraniano di
Kiarostami che, a sua volta, ha sempre dichiarato nei suoi primi film un debito col neorealismo italiano, nella
scelta di mettere al centro i ragazzini che diventano la voce, e il racconto, dei conflitti e anche di una possibile
ribellione.
Anna Maria Pasetti. Il Fatto Quotidiano
Wadjda ha 10 anni e uno sogno nel cassetto: la magnifica bicicletta verde del negozio accanto per gareggiare
coll'amico coetaneo Abdullah. Peccato le sia vietato, essendo una cittadina dell'Arabia Saudita che, oggi come
allora, mantiene la condizione femminile a un livello di segregazione e sudditanza. Il 'fuoco sacro' della bambina
però non conosce ostacoli né regole, portandola diritta al suo obiettivo, con la sorprendente complicità della
madre. Presentata a Venezia 2012 in Orizzonti, la delicata e divertente 'commedia-in-favola' 'La bicicletta verde'
sarà ricordata quale il primo film diretto da una donna saudita. Qualcosa di straordinario, se si pensa che tuttora
in Arabia è vietato frequentare le sale cinematografiche. Va detto che la regista è straniera di formazione (Egitto,
Australia) ovvero dotata di uno sguardo 'emancipato' sia nel cine-linguaggio, sia nelle tematiche. Oggi Haifaa Al
Mansour è tornata a risiedere a Riyadh, ostinata come la sua giovane protagonista a immaginare un futuro
migliore per le sue concittadine. Da non perdere.
Mariarosa Mancuso. Il Foglio
Il portone di casa in metallo grigio sembra la saracinesca di un garage. Il rumore che fa chiudendosi ricorda le
celle carcerarie chiuse dai secondini. La prigione però sta fuori, nelle strade alla periferia di Riyad, Arabia Saudita:
le donne escono con la palandrana e non possono guidare. Non esistono cinema, pericolosi luoghi satanici; solo
Dvd di contrabbando, da guardare in casa tra persone fidate, sia mai che qualcuno denunci il misfatto. Tra le
pareti domestiche, le regole si allentano. Sono consentiti pantaloni e camicette scollate, sempre che il marito non
si metta di traverso (qui si fa vedere poco, quindi la consorte legittima sospetta stia cercando un'altra moglie
capace di mettere al mondo il sospirato erede maschio). “La bicicletta verde” è un film unico, girato da una
regista che ha studiato all’università americana del Cairo e ha preso un master all’università di Sydney, sfidando
le regole che consentono solo agli uomini di dare ordini a una troupe (se proprio insistono, ma non è che finora
abbiano mai insistito: non si danno altri film girati in Arabia Saudita). Basterebbe per aver voglia di vederlo.
Faremmo un torto però alla spericolata Haifaa Al-Mansour, che firma anche il copione senza puntare sugli
handicap. Gioca alla pari con cinematografie più fortunate, nonché dotate di gloriosa tradizione. La storia di
Wadjda, ragazzina decenne che a tutti i costi vuole una bicicletta per sfidare l’amichetto che una volta gliel’ha
prestata (sul terrazzo di casa, e già lì si corrono dei rischi ben diversi da una sbucciatura alle ginocchia), fila veloce
tra molte sorprese. Mai ricattatoria verso lo spettatore, mai ripiegata su se stessa: ha tutto quel che un film deve
avere, dal preciso disegno dei personaggi a un mondo lasciato indovinare senza bisogno di sottolineature. La
bicicletta verde costa 213 dollari, difficili da racimolare vendendo oggettini. La ragazzina comunque ci prova,
prima di decidere per una competizione scolastica. (...)
Marco Minniti. Movieplayer
(…) Presentato nella sezione Orizzonti della 69esima edizione del Festival di Venezia, La bicicletta verde
rappresenta un'opera importante in molti sensi. Intanto, quella di Haifaa Al-Mansour è la prima pellicola girata
interamente nel regno saudita, malgrado il film si avvalga anche dell'apporto di capitali e maestranze tedesche;
inoltre, si tratta dell'esordio nel lungometraggio di fiction da parte della regista, già nota per alcuni corti e per un
documentario discusso nel suo paese, ma apprezzatissimo a livello internazionale, come Women Without
Shadows. Quello che salta subito all'occhio del film di Al Mansour, tuttavia, è il suo tono originale e abbastanza
insolito per una produzione araba appartenente (genericamente) al filone 'di denuncia': la storia di Wadjda,
infatti, pur nel suo realismo, resta il ritratto di una ragazzina che sogna e cerca, grazie a un'inesausta fiducia nei
suoi mezzi, di trovare il suo posto in una società che le va stretta. La carta vincente del film è di fatto l'equilibrio
tra una narrazione che non fa sconti a un sistema che resta profondamente misogino e patriarcale, e una
leggerezza nel tono che riesce a cogliere nell'umanità dei personaggi una speranza di evoluzione e cambiamento.
La bellissima interpretazione dell'esordiente Waad Mohammed, sguardo vispo ed ironico, occhi aperti e sempre
curiosi sul mondo, dona al film un importante valore aggiunto; la giovane protagonista incarna al meglio questo
personaggio nei cui occhi, e nella cui testardaggine, la sceneggiatura sembra individuare una reale, e non
utopica, speranza di cambiamento per un'intera società. Speranza che si scontra con una struttura sociale in
bilico tra un'interpretazione formalmente 'moderata' dei precetti islamici e una sostanziale chiusura al
cambiamento, risultato di secolari e stratificate usanze, che si sono radicate ben al di là degli insegnamenti di una
religione. Una chiusura incarnata dal personaggio, duro e meschino, dell'insegnante, che esprime comunque un
"non detto" di frustrazione e privazioni che non può non suscitare pena; e che fa sentire la sua influenza anche
sulla madre di Wadjda, donna che comunque, nel corso del film, subirà un'evoluzione che la porterà a
riacquistare una dignità e una capacità di autodeterminazione.
In tutto questo, l'oggetto bicicletta rappresenta un emblema, il doppio simbolo di un'infanzia che Wadjda è ben
decisa a non farsi negare, e più in generale di una speranza di trasformazione, sfida scandalosa a una società che
vuole negare alla donna persino il più basilare diritto alla visibilità. Un oggetto-simbolo che si contrappone a
quello desiderato dalla madre, il vestito con la quale quest'ultima spera di riconquistare un uomo nei confronti
del quale mantiene una subalternità, che il semplice possesso dell'oggetto non farebbe che ribadire. Attraverso
la bici, inoltre, Wadjda punta a raggiungere quella "parità", quella a cui lei realmente aspira, nei confronti del suo
amico Abdullah; parità da quest'ultimo non certo avversata, ma al contrario incoraggiata e stimolata. Dal nucleo
rappresentato dai due ragazzini, sembra dirci la regista, può passare l'inizio di un cambiamento: o forse,
semplicemente, una semplice ma concreta speranza in questo senso. Senza illusioni o facili ottimismi, ma con la
concreta consapevolezza di un percorso da fare, e della necessità di iniziarlo.
Annalaura Imperiali. Closeup
La storia che questa regista porta con sé alla 69° Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia
racconta un tassello di vita della piccola Wadjda, ragazzina di dieci anni che vive in un sobborgo di Riyadh, la
capitale dell’Arabia Saudita. Pur essendo nata in un mondo estremamente conservatore, Wadjda ama divertirsi, è
intraprendente e si spinge sempre un po’ più in là del dovuto nel cercare di farla franca. Dopo un litigio con il suo
amico e coetaneo Abdullah, un ragazzino del vicinato con cui, sempre in base alle regole a cui deve sottostare il
genere femminile, non potrebbe giocare, la bambina vede una bella bicicletta verde in vendita. Incarnando il
desiderio d’evasione di Wadjda e la sua aspirazione volta al sentirsi uguale ad un maschio della sua stessa età,
questa bicicletta diventa il motore di ricerca dell’intero film. Lo attraversano anche temi quali il rapporto filiale sia
rispetto alla figura materna che a quella paterna, la gelosia tra moglie e marito e l’indiscussa sacralità del Corano
all’interno della religione musulmana. Il tutto giocato sul labile confine tra ciò che è permesso e ciò che è proibito
in un regime politico e umano caratterizzato dall’assoluta mancanza di libertà.
Privo di mezzi termini, ricco di inquadrature fisse e forte del proprio realismo evidente, Wadjda gioca un ruolo
significativo nell’ambito degli spaccati sul mondo orientale che continuano ad evidenziare background culturali
che, pur sembrando notevolmente lontani dal nostro beneamato occidente, esistono e si avvicinano sempre di
più in rapporto direttamente proporzionale al tempo che passa.
Le interpretazioni spontanee e pulite dei due bambini protagonisti determinano, come anche in molti altri film in
cui l’infanzia gode di una posizione privilegiata davanti agli occhi del pubblico, un necessario avvicinamento alla
storia da parte di chi la guarda dall’esterno.
I linguaggi sono talmente diretti e privi di sovrastrutture da non poter dare adito a doppie interpretazioni.
Una nota particolare va sicuramente alla scelta dei costumi; tradizionali all’esterno, più liberi e occidentali
all’interno delle case private, essi giocano un ruolo centrale in Wadjda dal momento che si fanno specchio in
parte delle volontà di trasgressione femminili e in parte degli schermi psicologico-sociali dietro a cui si celano le
verità più profonde.
Un bel film, tanto intenso nel suo svolgimento quanto leggero nei suoi ingenui punti di comicità.