IL LAVORO D`EQUIPE IN HOSPICE: DALLA TEORIA AL MODELLO

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IL LAVORO D`EQUIPE IN HOSPICE: DALLA TEORIA AL MODELLO
UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DEL PIEMONTE ORIENTALE
“AMEDEO AVOGADRO”
FACOLTA’ DI MEDICINA E CHIRURGIA
DIPARTIMENTO DI SCIENZE MEDICHE
MASTER UNIVERSITARIO DI PRIMO LIVELLO
IN CURE PALLIATIVE
TESI DI MASTER
IL LAVORO D’EQUIPE IN HOSPICE: DALLA TEORIA
AL MODELLO APPLICATIVO
Relatore: dr.ssa CESARINA PRANDI
Candidato:CHIARA BIDER
Anno accademico 2003/2004
1
INDICE
INTRODUZIONE ...................................................................... 6
PARTE PRIMA.......................................................................... 8
CAPITOLO 1 ...................................................................................... 8
IL GRUPPO DI LAVORO .................................................................. 8
1.1
I FONDAMENTI TEORICI SUL GRUPPO ........................... 8
1.2
DA CHE COSA SI DISTINGUE UN GRUPPO DI
LAVORO.............................................................................. 12
1.3
I CONFINI DEL GRUPPO ................................................... 13
1.4
UN MODELLO TEORICO-APPLICATIVO DI TEAM
BUILDING ........................................................................... 14
1.5
GRUPPO DI LAVORO, TEAM O EQUIPE? ....................... 14
CAPITOLO 2 ................................................................................... 17
IL GRUPPO DI LAVORO NEI SERVIZI DI ASSISTENZA ALLA
PERSONA......................................................................................... 17
2.1
CONSIDERAZIONI GENERALI......................................... 17
2.2
L’OGGETTO DI LAVORO.................................................. 18
2.3
IL BURN OUT...................................................................... 20
2.4
LA SODDISFAZIONE ......................................................... 22
2.5
GLI INDICATORI POSITIVI............................................... 23
2.6
I CONFLITTI........................................................................ 27
CAPITOLO 3 .................................................................................... 29
I GRUPPI DI LAVORO IN CURE PALLIATIVE E IN HOSPICE .. 29
3.1
GRUPPI DI LAVORO IN CURE PALLIATIVE E
LEGISLAZIONE .................................................................. 29
2
3.2
DIFFERENZE TRA GRUPPO MULTIDISCIPLINARE E
INTERDISCIPLINARE........................................................ 30
3.3
CARATTERISTICHE DI GRUPPI DI CURE PALLIATIVE
EFFICACI............................................................................. 31
3.4
POSSIBILI OSTACOLI PER I GRUPPI .............................. 32
3.5
IL CICLO VITALE DEI GRUPPI ........................................ 33
3.6
I RUOLI ALL’INTERNO DELL’EQUIPE........................... 34
3.7
DALLA RICERCA NELLA LETTERATURA IL
RACCONTO DI UN’ESPERIENZA .................................... 36
3.8
ALCUNE IMMAGINI NARRATIVE................................... 37
Il corpo curante:............................................................................ 37
La sofferenza degli operatori: ....................................................... 38
Il privilegio degli operatori: .......................................................... 39
Il clima: ........................................................................................ 39
L’impotenza: ................................................................................ 40
Le emozioni:................................................................................. 40
Le regole:...................................................................................... 40
La valorizzazione dei ruoli:........................................................... 40
L’utopia: ....................................................................................... 41
CAPITOLO 4 ................................................................................... 42
GLI HOSPICE IN ITALIA................................................................ 42
4.1
CENNI STORICI .................................................................. 42
4.2
CARATTERISTICHE DELL’ORGANIZZAZIONE
HOSPICE.............................................................................. 43
4.3
ANALISI DELLA COMPLESSITA’ ORGANIZZATIVA... 43
3
PARTE SECONDA.................................................................. 47
CAPITOLO 5 .................................................................................... 47
UNA RICERCA QUALITATIVA..................................................... 47
5.1
PREMESSA.......................................................................... 47
5.2
GLI OBIETTIVI DELLA RICERCA.................................... 48
5.3
LO STRUMENTO ................................................................ 48
5.4
IL METODO......................................................................... 49
5.5
LE FASI DELL’INDAGINE................................................ 50
5.6
L’ANALISI DEI DATI ......................................................... 52
Considerazioni sugli hospice coinvolti nella ricerca:..................... 52
Il genere e l’équipe: ...................................................................... 52
Il turn over:................................................................................... 54
Tabella turn over........................................................................... 55
Le caratteristiche più importanti richieste a chi lavora in hospice: 56
Gli obiettivi: ................................................................................. 58
Le regole:...................................................................................... 60
Il modello di presa di decisione: ................................................... 60
Il metodo di lavoro: ...................................................................... 62
L’integrazione tra i ruoli: .............................................................. 63
Il clima, la comunicazione, il senso di vicinanza:.......................... 64
Il coordinamento:.......................................................................... 66
Episodi significativi per la vita del gruppo:................................... 66
Sull’oggetto di lavoro: .................................................................. 67
5.7
I LIMITI DELLA RICERCA ................................................ 69
CONCLUSIONI ....................................................................... 70
4
RINGRAZIAMENTI ............................................................... 73
BIBLIOGRAFIA ...................................................................... 74
ALLEGATI .............................................................................. 77
5
INTRODUZIONE
Il lavoro d’équipe viene spesso menzionato nei contesti di cure
palliative e di hospice, in cui si ritiene indispensabile che più figure
professionali collaborino, al fine di rispondere al complesso insieme
dei bisogni che vivono i pazienti alla fine della vita unitamente alle
loro famiglie.
Lo spunto per intraprendere una tesi su questo argomento è nato dalla
riflessione che a fronte di un utilizzo molto comune nel linguaggio
corrente di lavoro d’équipe, e di una sua pratica sperimentazione dal
momento che lavoro come infermiera professionale in un’hospice,
non corrisponda nella mia formazione, e probabilmente anche in
quella di altri operatori, una chiara conoscenza di cosa esso sia e di
quali meccanismi e presupposti ne stiano alla base.
Per questo motivo ho scelto di dedicarmi a questo approfondimento,
nella convinzione che al di là del risultato pratico di stesura della tesi,
ne avrei tratto un beneficio e un’utilità per il mio percorso lavorativo.
La prima parte riguarda la ricerca bibliografica.
Nel primo capitolo ho affrontato il tema del gruppo in generale e del
gruppo di lavoro ripercorrendo sommariamente le acquisizioni a cui
nel corso del tempo si è arrivati grazie agli apporti di alcuni studiosi e
ricercatori, completandolo con una breve analisi etimologica dei
termini più usati per indicare il gruppo di lavoro.
Nel secondo capitolo ho preso in considerazione che cosa caratterizza
il gruppo di lavoro nell’attività di assistenza socio-sanitaria alle
6
persone, in generale, con particolare riferimento alla problematica del
burn out e all’oggetto di lavoro.
Nel terzo e quarto capitolo sono entrata in merito alla specificità del
lavoro d’équipe in hospice, identificando le principali problematiche
e le caratteristiche organizzative, e contestualizzando sommariamente
la presenza degli hospice in Italia. Questa parte è stata completata con
l’apporto di alcune suggestive immagini narrative provenienti da
letture riguardanti la vita degli hospice.
La seconda parte è costituita da una ricerca qualitativa condotta in tre
hospice dell’Italia del Nord, mediante delle interviste ad alcuni
operatori sul loro vissuto di lavoro d’équipe, con lo scopo di
verificare con quale modalità venivano nella realtà applicati alcuni
dei principi teorici ricavati dalla ricerca bibliografica e con lo scopo
di aprire spunti per ulteriori ricerche e approfondimenti.
7
PARTE PRIMA
CAPITOLO 1
IL GRUPPO DI LAVORO
1.1
I FONDAMENTI TEORICI SUL GRUPPO
Fin dall’antichità vi è stato il desiderio di conoscere i meccanismi che
regolano i comportamenti e i modi di pensare del gruppo. Infatti già nella
Republica di Platone e nella Politica di Aristotele si trovano riflessioni
sui fenomeni collettivi. Tuttavia solo negli ultimi decenni si è arrivati a
studiare scientificamente il gruppo in generale e in particolare il gruppo
di lavoro.
Attingendo nella documentazione della storia più recente possiamo
incontrare:
a) teorie che focalizzano maggiormente l’aspetto psicologico e i bisogni
individuali di cui ogni persona è portatrice1: in queste teorie prevale la
soggettività e l’affettività.
b) altre teorie che mettono in luce le variabili sociali all’interno del
gruppo2: in queste teorie prevale la coscienza di avere qualcosa in
comune, con un sistema di regole e ruoli nell'ottica di interagire.
1
2
(Sanderson 1940, Deutsch 1949, Cattel 1951, Maisonneuve 1973, Doise 1977 )
(Small 1905, Homans, Bales 1950, Newcomb 1951, Olmsted 1959)
8
Alcuni studiosi tuttavia hanno individuato un approccio psicosociale,
cioè che contemplasse contemporaneamente e appositamente la realtà
individuo e la realtà collettivo.
Elton Mayo, tra il 1924 e il 1933, orienta la sua ricerca sull’incidenza
delle condizioni ambientali sull’efficienza dei gruppi di lavoro,
scoprendo, contrariamente alle ipotesi di base, che sui gruppi sottoposti
all’esperimento il variare delle condizioni ambientali non produceva
effetti sensibili alla produttività, che rimaneva in ogni caso sensibilmente
superiore a quella dei gruppi di controllo. Da qui la rilevazione del
cosiddetto “fenomeno Hawthorne”, un elemento X che incideva
positivamente sulla produttività aumentando il morale dei membri del
gruppo e che era stato individuato nella particolare situazione
psicologica di essere oggetto privilegiato d’attenzione e sperimentazione,
che è un elemento di gratificazione collettiva assai potente.3 Quindi il
grande apporto di Mayo è la comprensione che se si tiene conto delle
dimensioni affettive nei gruppi di lavoro si sviluppa una produzione
migliore;
Kurt Lewin, uno studioso di origine tedesca esponente della
Gestalttheorie, introduce un nuovo lavoro che rappresenta “una tappa
fondamentale per tutta la psicologia e per le scienze sociali in generale,
sia per l’originalità dell’approccio, sia per la novità delle intuizioni, sia
per la fecondità della ricerca”4. “Nell’analisi lewiniana il gruppo è un
fenomeno, non una somma di fenomeni rappresentati dall’agire e dal
pensare dei suoi membri; è cioè un’unità, per cui l’analisi può
focalizzarsi non solo sulle persone del gruppo, ma sul gruppo in sé”5.
3
(Mayo,1969).
(Kaneklin, 1993)
5
(Amerio, 1982)
4
9
Ciò significa che l’essenza non è la somiglianza o la dissomiglianza tra i
suoi membri, bensì la loro interdipendenza.
Un altro studioso di fondamentale importanza, W.R.Bion, incomincia ad
occuparsi per la prima volta di gruppi durante la seconda guerra
mondiale, quando si trova a dirigere un reparto di riabilitazione in un
ospedale psichiatrico militare. In quella occasione (che divenne famosa
come “l’esperimento di Northfield”), constata che stimolare un’attività
di cooperazione in un gruppo poteva determinare una attenuazione della
nevrosi
nei
singoli.
In
seguito
opera
un
grosso
lavoro
di
approfondimento delle dinamiche di gruppo.
Bion sostiene che l’individuo in un gruppo torna ad usare come per una
regressione, dei meccanismi mentali primitivi attraverso i quali perde la
propria individualità e accetta di far parte del gruppo.
Inoltre, all’interno dei gruppi di lavoro, che si riuniscono quindi per “fare
qualche cosa”, per un obiettivo razionale, compaiono delle tendenze
emotive molto potenti che a volte favoriscono e a volte ostacolano gli
individui nel raggiungimento dell’obiettivo del gruppo.
Sono gli assunti di base, nello specifico:
a) dipendenza: si fonda sull’assunzione che il gruppo si riunisce allo
scopo di essere sostenuto da un capo, il quale provvederà al suo
nutrimento materiale, spirituale e alla sua protezione. I membri pensano
che il leader sia onnipotente e che possa risolvere tutti i problemi.
b) attacco-fuga: il gruppo si comporta come se si fosse incontrato per
combattere qualcosa o per fuggirla. I membri si riferiscono al leader per
trovare l’azione più conveniente.
c) accoppiamento: qualunque siano i problemi del gruppo, ci sarà in un
futuro un prossimo evento che li risolverà; il gruppo si comporta come se
10
due di loro potessero far coppia e assumersi l’incarico di creare il nuovo
leader e quindi la salvezza, un messia che risolva tutti i problemi.
Gli assunti di base rappresentano i meccanismi di difesa del gruppo.
In questo caso il gruppo opera a livello emotivo e le emozioni sono
istantanee ed involontarie.
Quindi gran parte del comportamento irrazionale e caotico presente nei
gruppi è dettato da assunti di base comuni a tutti i suoi membri
Secondo Bion il “buon spirito di gruppo” pare essere associato a:
-1 uno scopo comune
-2 il riconoscimento da parte di tutti i membri dei “legami” del gruppo
-3 la capacità di assorbire nuovi membri e di perderne altri senza timore
che vada persa l’individualità del gruppo (cioè carattere flessibile)
-4 assenza di sotto-gruppi interni con legami rigidi o esclusivi
-5 ogni singolo membro viene valutato per il contributo che porta al
gruppo
-6 il gruppo deve avere la capacità di affrontare il malcontento
all’interno di se stesso ed i mezzi per poterlo dominare
-7 il gruppo minimo è costituito da tre persone.
Il lavoro di Bion è quindi importante perché aiuta a comprendere alcuni
aspetti della vita del gruppo e sottolinea come la dimensione razionale e
quella affettiva siano strettamente correlate.6
Altri studiosi di particolare interesse sono Rogers7 che fa emergere la
dimensione relazionale, l’accettazione dell’altro e la non direttività; e
molti altri studiosi che hanno percorso approcci di tipo psicoanalitico
(M.Klein, E. Jacques ecc.).
6
7
(Bion, 1961).
(Rogers, 1965).
11
1.2
DA CHE COSA SI DISTINGUE UN GRUPPO DI LAVORO
Un gruppo è un insieme numericamente ridotto di persone in interazione
tra di loro. L’interazione è l’azione reciproca tra gli individui del gruppo
ed è caratterizzata dall’influenzamento, dal fare insieme e dall’agire
contingente (qui e ora).
Il gruppo vive quindi la coesione, che permette di far emergere le
uguaglianze, di far riconoscere il gruppo come proprio, fissando dei
legami, evidenziando i vantaggi e il piacere dell’essere insieme. La
coesione può anche esprimersi attraverso l’ostilità e la conflittualità. Il
contrario della coesione è l’indifferenza per gli altri individui, la non
percezione di essere con altri.
Il gruppo di lavoro si distingue sostanzialmente per il fatto che si passa
dall’interazione
all’integrazione
attraverso
l’interdipendenza.
L’interdipendenza è la consapevolezza dei membri di dipendere gli uni
dagli altri, di essere uniti pur nelle differenze, e “implica la sofferta
elaborazione dei confini del gruppo e dei limiti che impone agli
individui” 8.
L’interazione porta alla fusione, l’integrazione porta allo scambio.
I vantaggi e i costi dell’integrazione sono distribuiti tra tutti i soggetti
coinvolti. Si sviluppa la collaborazione, vi è una continua negoziazione
di obiettivi, metodi, ruoli, coordinamento, vi è la condivisione delle
decisioni e dei mezzi per mettere in atto gli obiettivi.
8
(Quaglino, Casagrande, Castellano, Gruppo di lavoro, lavoro di gruppo, 1992).
12
1.3
I CONFINI DEL GRUPPO
“Membership” è l’essere membro di un gruppo, è la necessità di
riconoscersi come individualità unica, irripetibile, originale, che
riconosce gli altri come risorsa per la sua espressione. E’ il soddisfare i
propri bisogni in un gruppo. C’è tuttavia una forma di membership
patologica che impedisce di vedere il gruppo, che fagocita il diverso da
sé, lo nega, lo espelle.
I bisogni individuali che il gruppo può ragionevolmente soddisfare sono
la stima, l’autostima, l’identità, la sicurezza, il bisogno di contribuire.
“Groupship” è l’essere gruppo, è il noi al quale ci si riferisce. Il bisogno
fondamentale è quello di esistere e viene soddisfatto attraverso
l’appartenenza e il mettersi a servizio del gruppo stesso. Svolge tre
funzioni: alimentare la vita interna, differenziare il gruppo rispetto ad
altri gruppi, mettere il gruppo in comunicazione con l’esterno.
“Leadership” è la funzione che opera un equilibrio tra membership e
groupship, e quindi presidia la soddisfazione dei bisogni individuali e
dei bisogni di gruppo. E’ un “essere con”. Il cammino verso
l’integrazione di un gruppo si apre con il riconoscimento di questo
profondo legame tra i due ordini di bisogno e dell’esigenza di un terzo
livello in grado di comprendere e contenere entrambi.9.
9
(Quaglino, Castellano, Casagrande, Gruppo di lavoro, lavoro di gruppo, 1992).
13
1.4 UN MODELLO TEORICO-APPLICATIVO DI TEAM
BUILDING
Gli studiosi Quaglino, Castellano, Casagrande propongono un modello
teorico-applicativo per la lettura e l’intervento di “costruzione di gruppi
di lavoro”, nel quale si individuano, oltre ad altri elementi, sette fattori
principali da analizzare che qui sintetizzo:
OBIETTIVO : è l’espressione del risultato atteso dal gruppo.
METODO : è l’insieme delle modalità e dei principi di funzionamento, è
la regola del lavoro.
RUOLI: è l’insieme dei comportamenti che ci si aspetta dai vari
componenti del gruppo.
LEADERSHIP: è il fattore di snodo tra i tre precedenti e i tre successivi,
è la funzione riequilibratrice tra individuo e gruppo.
COMUNICAZIONE: è l’elemento che “fa” il gruppo, e permette lo
scambio di informazioni, finalizzandolo al raggiungimento di risultati.
CLIMA: è l’atmosfera del gruppo, è l’insieme delle percezioni, dei
vissuti, dei sentimenti dei membri.
SVILUPPO: è la crescita delle competenze del gruppo e la parallela
crescita del sistema di competenze individuali.
1.5
GRUPPO DI LAVORO, TEAM O EQUIPE?
Nei contesti lavorativi vengono utilizzati molto questi termini, e risulta
interessante un approfondimento etimologico.
Gruppo rinvia a un radicale germanico “cruppa” o “kruppa” con un
significato di “forma rotondeggiante per assemblaggio di cavi” e anche
di “groppo”, nodo.
14
Quaglino e Cortese10 richiamano la densità simbolica di questa duplicità
di significati, la natura circolare del fare gruppo e la condizione di
intreccio di essere gruppo, e individuano la possibilità di successo di un
gruppo se riesce a esprimere "quell'uomo" in più che esso rappresenta
(consentito da costruire la circolarità e consolidare i legami).
Franca Olivetti Manoukian11 rileva invece come “groppo” implica
qualcosa di intricato più che di integrato: sono tuttora aperti molti
interrogativi sul come questa rappresentazione originaria confusa e
faticosa sia andata assumendo nel tempo quegli elementi di concordanza,
comunanza, affiatamento, compiutezza e quindi di affettività positiva e
di vantaggiosa capacità produttiva che oggi spesso si attribuiscono e si
pretendono nei tanti gruppi di cui ciascuno di noi è parte”.
Team viene usato nei contesti aziendali; è un termine proveniente dal
mondo anglosassone, ha un significato di “squadra” e sembra essere
trasposto dalla squadra di cavalli, dalla muta che era necessario cambiare
per tirare adeguatamente la carrozza. E, rileva Franca Olivetti
Manoukian, “il passaggio è un po’ inquietante. Più che al mettersi
insieme sembrerebbe rimandare al sottomettersi insieme ad un guidatore
che sta in alto, vede il percorso e i relativi ostacoli e tiene saldamente le
redini. Ai singoli è chiesto grande sforzo, grande fatica: se non ce la
fanno altri devono prendere il posto. Si intravvede un’immagine di
squadra al lavoro non così idilliaca….”.
Equipe è un termine della lingua francese che in una sua prima e più
diffusa accezione indica la squadra sportiva o di lavoro e che dal punto
di vista etimologico proviene dal linguaggio marinaresco “équiper”
10
11
(Quaglino, Cortese, Gioco di squadra, 2003).
(Manoukian in Spunti -Semestrale per la ricerca e l’azione nelle organizzazioniStudio APS, febbraio 2001)
15
(=s’embarquer) per contaminazione dallo scandinavo, germanico
“skipa”, “skip” (=barca). In italiano ha tendenzialmente un uso
circoscritto al gruppo di operatori che lavorano in un servizio sanitario
ospedaliero ma soprattutto territoriale e sociosanitario. Rileva ancora
Franca Olivetti Manoukian che “nei periodi di avvio dei servizi che si
occupavano di emarginazione, devianza, disagio minorile ecc. il
riferimento all’équipe richiamava l’importanza di un approccio concorde
e complessivo alle difficoltà portate dagli utenti. L’équipe, con il passare
del tempo, è finita per essere soltanto una riunione periodica a cui spesso
non si è nemmeno interessati a partecipare”.
16
CAPITOLO 2
IL GRUPPO DI LAVORO NEI SERVIZI DI ASSISTENZA
ALLA PERSONA
2.1
CONSIDERAZIONI GENERALI
Una considerazione importante riguarda la ultracentenaria tradizione
sanitaria-assistenziale che è sempre stata fondata sulla relazione
operatore/paziente in visione dualistica (chi cura, chi può, chi guarisce e
chi è malato, chi non sa, chi non può). Il lavorare in équipe nei contesti
attuali sovverte profondamente questa tradizione, innanzitutto perché
riconosce al paziente l’autodeterminazione e identifica nel rapporto con
il paziente la centralità nel progetto di cura, inoltre comporta la
realizzazione di relazioni di più soggetti in interdipendenza tra di loro,
con il paziente, e con le reti famigliari e sociali del paziente.
Un’altra
tradizione
sanitaria-assistenziale
è
sempre
stata
la
scomposizione del lavoro e delle prestazioni, con scarsa attenzione alla
ricomposizione, che in genere è stata delegata al paziente. L’équipe,
mediante le ri-unioni, ha anche il compito di “rimettere insieme ciò che
era stato diviso, per recuperare unità”12
Una suggestiva immagine di équipe viene offerta dal titolo del libro di
Giovanni Braidi13 "Il corpo curante", nel quale viene paragonata ad un
"corpo" che per essere capace di curare deve essere a sua volta curato.
12
13
(Quaglino, Cortese, Gioco di squadra, 2003)
(Braidi, Il corpo curante- Gruppo e lavoro di équipe nella pratica assistenziale,
2001).
17
E'
interessante
l'analisi
etimologica
di
alcune
parole
chiave
comunemente utilizzate nei contesti assistenziali, che l'autore propone:
Mestiere: dal latino "ministerium", (con radice "minus"= meno, piccolo)
indica il compito del servire, e vede l'operatore come piccolo, più
piccolo di un altro più importante da servire e curare.
Servizio: (usata spesso come sinonimo di mestiere) deriva dal lavoro dei
servi e degli schiavi e richiama ad un compito volto all'utile degli altri.
Operatore: deriva dal latino "opus"=opera, indica la dignità del lavoro ed
il compito di chi deve fornire un'opera manuale o intellettuale. Operatore
come piccolo, minore, ma anche fornitore di un servizio che rinforza,
aumenta la potenza, la responsabilità e l'autorità di chi lavora e anche
dell'uomo o della donna cui l'opera é destinata.
Lavoro: (dagli spunti di Tommaso d'Aquino e Carlo Marx) inteso come
opera di trasformazione dalla natura in cultura.
Questo aiuta a definire quindi il mestiere di assistenza alla persona come
"un servire per trasformare qualcosa di naturale e naturalmente doloroso,
in qualcos'altro di più soddisfacente. Per trasformare la sofferenza in un
sogno di crescita personale o professionale".
In questo lavoro si rilevano due tipi di fatica: una legata all'attività fisica
e mentale del mettere in atto l'assistenza, un'altra prodotta dall'incontrarsi
con persone che provano sofferenza, disagio, paura, elementi che
"rimbalzano nel mondo interno dell'operatore".
2.2
L’OGGETTO DI LAVORO
“Il prodotto servizio esige, per essere tale, da parte dell’operatore una
rappresentazione dell’oggetto di lavoro, e non un’idea vaga e
18
approssimativa,
nebulosa,
indefinibile.”14
Tuttavia
non
è
immediatamente evidente che cosa si possa intendere per oggetto di
lavoro.
Esistono sicuramente dei riferimenti esterni, che sono le leggi, i piani, i
progetti-obiettivo e tutti gli atti formali che stanno all’origine della
costituzione dei servizi stessi, e indicano obiettivi e disposizioni
generali.
Poi vi sono altri riferimenti dettati dalle situazioni con cui si entra in
contatto, di sofferenza fisica, psichica, sociale, e più specificatamente si
entra in contatto con una persona.
Ma questo può essere fuorviante, perché può portare a immaginare che
sia quella persona l’oggetto del lavoro, lo svolgere un’attività
trasformativa su di essa.
E’ facile quindi che si oscilli tra la banalizzazione (es.”Noi qui ci
occupiamo di malati terminali”) e l’idealizzazione (es. “Il nostro lavoro è
la relazione con l’altro”) oppure (“Accogliamo quelli di cui nessuno
vuole occuparsi”).
Nel caso della banalizzazione il lavoro diventa esecuzione più o meno
passiva, nel caso della idealizzazione diventa mobilizzazione affettiva
per qualcosa di irraggiungibile: in entrambi i casi l’oggetto è in balia
delle sensazioni dei singoli, e viene presto a noia, non suscita interessi e
interrogativi; a lungo andare può diffondersi la sindrome del burn out.
Come è possibile dare consistenza e concretezza ad un oggetto
immateriale? F.O. Manoukian sostiene che “nella maggior parte dei
servizi esistono persone, operatori e responsabili, che hanno desideri, che
sono sensibili a suggerimenti provenienti dal contesto più ampio, hanno
14
(Manoukian, Produrre servizi, 1998).
19
dei pensieri e delle fantasie: la costruzione di un oggetto comune di
lavoro parte da scintille di questo tipo. Non è detto che le idee debbano
essere dei responsabili. Le rappresentazioni degli oggetti di lavoro a
livello organizzativo si costruiscono pertanto dall’interazione tra
dimensioni soggettive di creatività e iniziativa e confronti con le opzioni
che stanno all’origine dell’istituzione del servizio”.
La rappresentazione dell’oggetto di lavoro del servizio facilita la
determinazione degli obiettivi e permette di rispondere alla domanda
“Che ci facciamo qui noi?”.
“Concludendo, l’oggetto di lavoro non è immediatamente acquisibile e
riconoscibile da tutti quelli che lavorano nel servizio, né percepito subito
chiaramente dall’esterno. Prende corpo a poco a poco attraverso processi
di comunicazione che rielaborano valori e dati, in cui ciascuno può
apportare qualche cosa. L’avere un oggetto di lavoro concretizzato porta
a canalizzare i confitti su qualche cosa di staccato dalle persone, su un
qualcosa di negoziabile in condizioni meno drammatiche.”
2.3
IL BURN OUT
Gli operatori e di conseguenza i gruppi di lavoro in contesti sanitariassistenziali sono esposti al cosiddetto burn out, fenomeno che e' stato
molto studiato e approfondito da vari autori:
Freudenberger: “l'eccessiva richiesta di energie lavorative determina
negli operatori un vissuto di svuotamento e perdita di energia”.15
15
(in Del Rio, Stress e lavoro nei servizi, 1990).
20
Maslach: “visto come perdita progressiva di interesse per la gente per cui
si lavora “.16
Cherniss: “ritirata psicologica dal lavoro in risposta ad un eccessivo
stress o insoddisfazione”. 17
Altri autori quali Perlman, Hartman, Pines, Aronson, ecc... per i quali
comunque il burn out abita il profondo della persona dell'operatore e
attacca le sue motivazioni personali.
Vi sono differenti interpretazioni sulle cause di burn out, che
sostanzialmente si rifanno a una visione prevalentemente psicologica o a
una visione prevalentemente organizzativa.
Nel primo caso si ritiene che coloro che si dedicano a professioni di aiuto
sono persone bisognose di amore, e i più soggetti a burn out sono coloro
che più richiedono riconoscimenti affettivi,oppure coloro che sono
perfezionisti, hanno bisogno di "controllare" tutto e vanno in crisi con le
frustrazioni insite in questo tipo di lavoro.
Nel secondo caso si ritiene che le cause del burn out vadano ricercate
nell'organizzazione del lavoro, i metodi, i ruoli, le risorse, la
comunicazione ecc.
Maslach fa un passo in avanti sottolineando tre componenti interiori che
favorirebbero il burn out:
-l'impotenza
-l'onnipotenza
-la persecuzione,
16
17
(Maslach , La sindrome del burn out, 1992).
(Cherniss, La sindrome del burn out, 1993).
21
ma rileva anche che le ragioni piu' profonde sono nell'organizzazione
quando esaspera gli elementi che favoriscono il burn out: i carichi di
lavoro, l'assenza di stimoli positivi, l'assenza di partecipazione diretta
degli operatori alle strategie, la scarsa autonomia, la pesantezza emotiva
e fisica, il rapporto con colleghi e superiori, la confusione sulle regole
ecc.
Maslach da' anche un'indicazione precisa per cercare di contrastare il
fenomeno: se all'origine c'e' uno stress, un eccesso di varia natura, la
risposta e' l'equilibrio.
Equilibrio tra lavoro e casa, tra stress e calma.
Per dare qualcosa di se stessi occorre controbilanciare dando qualcosa a
se stessi, questo sia riferito all'individuo (lavorare meglio anziché di più,
fissare degli obiettivi raggiungibili, aver cura di sé, creatività, tecniche
di rilassamento e di immaginazione ecc.) sia riferito al gruppo di lavoro
(la gestione della riunione, i gruppi di sostegno professionale,
l'aggiornamento del metodo di lavoro, l'attenzione alle risorse, alla
distribuzione dei compiti, all'ambiente di lavoro...).
2.4
LA SODDISFAZIONE
Gli autori Hackman e Oldham18 evidenziano cinque fattori di
soddisfazione sul lavoro importanti per contrastare il fenomeno burn out:
1- La consapevolezza da parte dell'operatore di come anche il suo
compito concorre al lavoro generale svolto da tutti e dal servizio.
2- La significativita' del lavoro dal punto di vista di senso e valore, in un
progetto costruito insieme.
22
3- Il riconoscimento del lavoro da parte degli altri operatori, dirigenti,
pazienti, famigliari, pubblico.
4- La possibilita' di introdurre nuovi stimoli positivi nel modo di
compiere il lavoro.
5- Rispettivamente autonomia e controllo come poli indispensabili per
un vissuto di contare qualcosa e di sentirsi inseriti in un processo
complessivo di aiuto con verifica dei risultati.
"C'e' in pratica soddisfazione - asserisce G. Braidi - quando un po' tutti si
lavora per il NOI, per costruire il corpo curante..."
2.5
GLI INDICATORI POSITIVI
L'autore suggerisce una serie di indicatori positivi, che esprimono una
buona intesa all'interno dei gruppi assistenziali. E' interessante analizzare
alcuni di tali indicatori proposti da Braidi affiancandoli al modello
teorico proposto da Quaglino:
MODELLO TEORICO19:
INDICATORI20:
Obiettivi
"entrando chiedo ad un qualsiasi operatore
notizie sul progetto che abbiamo in corso per il
Sig: x e questo operatore lo sa riferire; conosce
non solo la parte che gli compete, ma anche
quella degli altri e si sa spiegare il senso del
lavoro di tutti";
18
(in Del Rio, Stress e lavoro nei servizi, 1990).
(Quaglino, Casagrande, Castellano, Gruppo di lavoro lavoro di gruppo, 1992).
20
(Braidi, Il corpo curante, 2001).
19
23
"si considerano le riunioni d'equipe come il
luogo deputato per costruire gli obiettivi
assistenziali";
" gli operatori costruiscono una bella coesione
che pero' non e' totalitarismo. Si arriva ad
essere animati dallo stesso sogno ma non si
arriva ad avere le stesse idee. Ognuno mantiene
le proprie diversita' ma le spende nella
direzione indicata dalla comune identita'".
Metodi
"interrogando 5 o 6 operatori su come si fa
l'igiene personale non solo questi riferiscono
piu' o meno lo stesso modello sul dove, quando,
come, ma dicono cose simili anche sul perche'";
"gli operatori si trovano a occhi chiusi come
una squadra di calcio che ha ben interiorizzato
schemi e tattiche di gioco".
Ruoli
“i conflitti e le diversita' vengono ricomposti in
ordine a quel sogno comune e condiviso che e'
alla base del progetto assistenziale";
"le conoscenze parziali che ognuno si e' fatto si
uniscono alle conoscenze parziali dei colleghi
per disegnare la figura tutta intera dell'ospite e
24
dell'operatore che lo cura".
Leadership
"non si formano gruppetti e sottogruppi, ma le
riunioni d'equipe diventano il tavolo di
concertazione unico in cui anche i disguidi
vengono ricomposti";
"si sente sempre di piu' usare il noi del reparto e
sempre meno l'io del singolo o il noi della
categoria professionale".
Comunicazione
"gli operatori non si sentono più gli unici, i
migliori,
gli
indispensabili,
ma
cellule
importanti di un corpo vivente che ha bisogno
di scambiare energia con le altre";
"arrivano a scambiare serenamente con i
colleghi non solo le mani o i pensieri, ma anche
i sentimenti personali";
"aumentano
la
loro
capacita'
di
critica,
autocritica e accettazione della critica fraterna
che viene dagli altri";
"riducono il pericolo di chiamare dall'esterno
guaritori, giudici o chirurghi, ma imparano a
sbrigare fra loro polemiche e conflitti".
25
Clima
"si cresce nel piacere di ritrovarsi in una
famiglia di servizio unita, seria, sensibile, che
già di per sé carica di senso l'alzarsi alla
mattina e raggiungere il posto di lavoro";
"si danno alla mattina un ciao o un buongiorno
che è già un invito a tavola".
Sviluppo
"si accolgono volentieri operatori o progetti
nuovi";
"si avverte il piacere di inventare e dare al
reparto
piccole
o
grandi
idee
di
miglioramento";
"si accettano come benvenuti tutti quelli che
dall'esterno famigliari, visitatori, tirocinanti,
consulenti, supervisori possono dare contributi
personali o a titolo personale, o chiamati dalla
direzione".
“In queste condizioni”, dice Braidi, “anche gli operatori più gelidi,
difficili, ostili, dall'opposizione permanente, si sciolgono e arrivano a
dare il meglio di se stessi”.
26
2.6
I CONFLITTI
I conflitti nelle équipe rappresentano un dato quanto mai frequente e
causa di grandi sofferenze e amarezze. Secondo l’esperienza di Franca
Olivetti Manoukian,21 i conflitti possono essere modificati, riformulati,
ma non dissolti una volta per sempre. E’ per questo importante e
interessante tentare di conoscerli.
Manoukian ipotizza che alla base della oggettiva difficoltà nei contesti
organizzativi di affrontare e conoscere le micro-conflittualità vi sia un
immaginario sociale di armonia, di convergenza e di omogeneità
necessarie per avere scopi comuni. Anche se gran parte delle teorie più
accreditate sull’organizzazione dà per acquisito che il conflitto è
ineliminabile, l’immaginario tende a considerare le tensioni, le
incertezze, come disordine, come elementi estranei ad ogni realtà
organizzata. Vi è un’elevata aspettativa di essere d’accordo per poter
produrre bene.
La seconda ipotesi è che i conflitti più penosi e travagliati affondino le
radici nelle attese che i singoli portano nelle organizzazioni di lavoro
(dalla retribuzione, a riconoscimenti di posizione sociale e professionale,
ma anche a elementi più spiccioli, quale la disposizione degli arredi, o
l’ubicazione della stanza…). Vi sono inoltre attese più profonde non
esplicitate, spesso cariche di elementi rivendicativi, di accuse e di
denunce, ad esempio informazioni da cui si è stati esclusi, od opportunità
formative che non sono state offerte, ecc. che rappresentano attese di
riconoscimento di sé, che rispondono alla domanda “Chi sono, quanto
21
(Manoukian , Ri-conoscere i conflitti nelle organizzazioni di lavoro, Polemos).
27
valgo?”. I conflitti scoppiano quando le at-tese diventano pre-tese,
quando il tendere verso qualcosa scivola verso il porre innanzi a tutto.
La strada che Manoukian intravvede per affrontare la micro-conflittualità
nei gruppi è, più che cercare di sbrogliare gli intrichi relazionali, quella
di permettere alle persone e ai gruppi di “vedere-sapere” in modo più
esplicito e consapevole l’immaginario
a cui sono attaccati. Questo
potrebbe aprire altri sguardi, altri modi di porsi rispetto al lavoro,
all’organizzazione e alla professione.
28
CAPITOLO 3
I GRUPPI DI LAVORO IN CURE PALLIATIVE E IN
HOSPICE
3.1 GRUPPI DI LAVORO IN CURE PALLIATIVE E
LEGISLAZIONE
Anche la legislazione e i documenti fondanti le cure palliative danno
risalto al lavorare in gruppo. Riporto solo alcuni esempi:
"Le cure palliative sono una cura totale attiva dei pazienti e delle loro
famiglie da parte di un gruppo multiprofessionale quando la malattia non
é più responsiva a trattamenti specifici"22.
Il National Council for Hospice and Specialist Palliative Care Services
23
nei suoi documenti ha sottolineato l'importanza della cooperazione tra
professionisti, la condivisione delle decisioni, il supporto ai membri
dell'equipe.
In Italia il Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri24 del
20/01/2000 indicante i requisiti strutturali, tecnologici e organizzativi
minimi per i centri residenziali di cure palliative, menziona “équipes
multiprofessionali costituite da personale medico, infermieri, psicologi
ecc.” che si incontrano in “riunioni periodiche d’équipe finalizzate alla
definizione, alla verifica ed alla eventuale rimodulazione del piano
22
(Rapporto Tecnico World Health Organization, 1990).
23
(NCHSPCS 1995-1997-1999).
(Decreto-legge 20 gennaio 2000).
24
29
terapeutico, nonché alla verifica e alla promozione della qualità
dell’assistenza”.
Alcune linee guida regionali25 riprendono i concetti di équipe sia
territoriale sia nella struttura residenziale e sottolineano la necessità di
integrazione tra le varie risorse professionali.
3.2 DIFFERENZE TRA GRUPPO MULTIDISCIPLINARE E
INTERDISCIPLINARE
Il gruppo di lavoro che opera in cure palliative é di tipo interdisciplinare
e viene differenziato dal gruppo multidisciplinare conosciuto nella
maggior parte degli ambiti sanitari tradizionali.26
Nel gruppo multidisciplinare gli individui sono conosciuti soprattutto in
base alle loro identità professionali e solo secondariamente per la loro
appartenenza al gruppo; il leader é il membro gerarchicamente piu’
importante; il processo di interazione non é di primaria importanza.
Nel gruppo interdisciplinare l'identità del gruppo prevale su quella degli
individui; i membri condividono le informazioni lavorano insieme in
modo interdipendente per raggiungere gli obiettivi; la leadership è
condivisa tra i membri del gruppo; il processo di interazione é di
importanza vitale per il successo.
Ci puo' essere un gruppo ristretto (core team) composto da quegli
individui che hanno regolari contatti con i pazienti, e un gruppo
allargato. Il gruppo ristretto necessita di comunicare assiduamente per
riadattare continuamente il piano di cura secondo l'evoluzione della
25
26
(in D.G.R. n.15-7336 del 14-10-2002 della Regione Piemonte)
(Cummings, The Interdisciplinary team, 1998).
30
situazione del paziente, nel contempo il gruppo allargato viene tenuto al
corrente e consultato.
Il paziente e la famiglia sono membri centrali nell'equipe di cure
palliative, sono essenziali per sviluppare il piano di cura, sono informati
di cosa sta succedendo e partecipano alle decisioni.
E' il paziente la persona migliore per giudicare qual é il problema di
primaria importanza per lui (che a volte non corrisponde a quello
identificato dal gruppo curante). E' il paziente il miglior maestro del
gruppo, se lo si sa ascoltare. 27
3.3 CARATTERISTICHE DI GRUPPI DI CURE PALLIATIVE
EFFICACI28
1
Un gruppo é un insieme armonico che é più grande della somma
dei suoi componenti individuali.
2
Un gruppo é interdipendente, tutti i membri hanno successo o
falliscono insieme.
3
Un gruppo è stimolante, e sprona i singoli membri a
raggiungimenti più grandi.
4
Un gruppo é divertente, i membri godono del senso di
appartenenza e del cameratismo.
5
Un gruppo è strutturato, e i suoi membri affondano le loro
aspirazioni individuali in un obiettivo più ampio, dal momento
che essi imparano a condividere e a interagire. I ruoli sono definiti
chiaramente.
6
I gruppi richiedono una certa conformità, ma non uniformità.
27
(Cummings, 1998)
28
(Cummings, 1998)
31
7
I componenti del gruppo devono condividere i loro punti deboli
cosÏ come i loro punti di forza.
8
Le conversazioni difficili sono meglio condotte faccia a faccia.
9
I gruppi efficaci sono capaci di affrontare i disaccordi e i
risentimenti in modo costruttivo.
10
I gruppi di cure palliative devono collaborare con gli altri gruppi
sanitari esistenti e non devono oltrepassare un eventuale loro ruolo
di consulenza.
11
I gruppi fiduciosi, sicuri, ammettono ruoli professionali flessibili.
12
E' necessario condividere le decisioni difficili.
13
Gli scambi personali possono condurre a crescita professionale.
14
Una verifica formale migliora le prestazioni future.
3.4
POSSIBILI OSTACOLI PER I GRUPPI
I gruppi possono sentirsi frustrati per molte ragioni. Ci può essere
inizialmente poca fiducia tra le varie discipline rappresentate nel gruppo.
I corsi professionali forniscono poche informazioni riguardo alle risorse
di altre discipline.
I medici, abituati ad un tradizionale ruolo di leader, possono vivere come
un pericolo le infermiere, che vedono nel lavoro in hospice l'opportunità
di espandere il loro ruolo.
Se da un lato il gruppo interdisciplinare ha una grande potenzialità per
lavorare con efficacia, dall’altro è in una condizione di vulnerabilità se
non c’è un efficace coordinamento.
Elementi fondamentali sono la comunicazione e la leadership.
La comunicazione richiede che i membri abbiano l'opportunità di
incontrarsi, di scambiare informazioni, e pianificare gli interventi. Gli
32
incontri possono moltiplicarsi ed espandersi fino a ridurre realmente il
tempo per la cura dei pazienti. A volte il parlare può essere eccessivo, e
l’aspettare che tutti abbiano dato il loro contributo può dilazionare
troppo la presa di decisione. Il concetto di responsabilità condivisa può
significare che nessuno accetti pienamente la responsabilità o si senta
responsabile.
3.5
IL CICLO VITALE DEI GRUPPI
Come ogni individuo e ogni famiglia, anche i gruppi hanno un
prevedibile ciclo vitale.
a) La prima fase è caratterizzata da idealismo, volontarismo, alta
motivazione a iniziare nuovi programmi, disponibilità a giocare diversi
ruoli contemporaneamente. L’interazione c’è ma è spesso superficiale;
c’è molto ascolto ma poca condivisione; si evita di esprimere i
sentimenti; c’è una conflittualità minima. Per avere successo la
leadership deve essere dinamica e spesso carismatica. La competenza del
leader è di solito tecnica e clinica, piuttosto che amministrativa.
L’entusiasmo e l’impegno per un ideale spesso prevale sulla cura di sé e
non vengono riconosciuti i limiti personali.
b) La fase successiva è caratterizzata da una formalizzazione del
programma, con una maggiore definizione dei ruoli, una necessità di
rafforzare il management e di sviluppare una sana situazione finanziaria.
La tensione tra i bisogni immediati del paziente e della famiglia e il
bisogno di pianificare il futuro, tra l’idealismo e il pragmatismo, tra la
delega di responsabilità e il “possesso”, spesso porta a frustrazione, calo
del morale del gruppo, dispendio di energia che rallenta il percorso.
33
La potenzialità di conflitto è alta. Una leadership che ha successo deve
essere poco autocratica e più sensibile alle istanze dell’équipe, poco
basata su attributi personali e più su capacità amministrativa.
c) Se queste istanze di transizione sono negoziate con successo, il gruppo
evolve verso un’ulteriore fase in cui i ruoli sono meglio compresi e
delineati. La presa di decisione è basata sull’esperienza individuale con
comunicazione aperta, e la strutturazione dell’organizzazione diventa più
complessa con aumento di personale e servizi. Può succedere che alcuni
membri più idealistici non condividano la nuova impostazione e lascino
la struttura.
Il programma trova un nuovo equilibrio bilanciando le istanze
idealistiche e umanistiche con una risposta pragmatica alle istanze
finanziarie e legislative del contesto.29
3.6
I RUOLI ALL’INTERNO DELL’EQUIPE
In alcuni ambiti sanitari i ruoli sono molto chiari; ad esempio in sala
operatoria ognuno sa che cosa ci si aspetta da lui e ognuno sa se la sua
prestazione è appropriata. Nei momenti critici non ci si siede affatto a
negoziare.
Nell’ambito delle cure palliative il compito è più variabile e aperto a
interpretazioni. Che cosa significa migliorare la qualità di vita per quel
singolo paziente? Che cosa è necessario per raggiungere quell’obiettivo?
Chi è più adatto per quel compito? Da chi il paziente preferirebbe essere
aiutato? Qual è il ruolo di ogni singolo membro del gruppo per
raggiungere quell’obiettivo?
29
(Cummings, 1998)
34
I ruoli possono non essere definibili chiaramente. Il membro del gruppo
che è presente in quel momento farà del suo meglio per alleviare la
situazione. Può trattarsi di un’infermiera che ha un colloquio d’aiuto con
una famiglia turbata, o un assistente spirituale che aiuta un paziente a
trovare una posizione comoda. Purtroppo lo sconfinare dai ruoli
tradizionali può anche portare a confusione e conflitto.
Idealmente l’opinione di ciascun membro dell’équipe è considerata in
modo uguale e complementare a quella degli altri, e tutte sono integrate
per un migliore approccio di cura. Nella pratica può succedere
diversamente.
Ogni disciplina valuta il problema dal proprio punto di vista e ognuno
potrebbe interpretare una stessa informazione per arrivare a valutazioni
diverse. I conflitti si verificano quando ogni membro sente che il suo
contributo dovrebbe avere la priorità o si sente non considerato dal resto
del gruppo.
Molti pazienti, a causa della malattia, scarsa cultura, o reticenza, hanno
difficoltà nell’esprimere i propri desideri e le proprie preferenze in un
ambiente sanitario e gli operatori delle varie discipline (medici,
infermieri, assistenti ecc.) dovrebbero sentirsi come gli avvocati del
paziente. Se ognuno vede la propria relazione con il paziente come più
pregnante rispetto a quella degli altri, questo è terreno per un conflitto.
Se i membri del gruppo intendono lavorare insieme senza conflitti non
dovuti, devono essere maturi all’interno della loro disciplina, confidare
nella loro capacità, ed educare gli altri membri
sulle abilità di cui
dispongono. Allo stesso tempo devono essere flessibili e pronti a
permettere agli altri membri di invadere il loro campo senza sentirsi
35
minacciati. I conflitti di ruolo possono essere negoziati e superati se il
paziente è tenuto al centro e si punta sul suo benessere.30
3.7
DALLA RICERCA NELLA LETTERATURA IL RACCONTO
DI UN’ESPERIENZA
Un lavoro di ricerca relativamente recente31 riporta l'esperienza
effettuata presso il Centro Specialistico Residenziale di Cure Palliative
Marie Curie di Belfast (Irlanda del Nord).
Lo scopo dello studio e' stato quello di esplorare il lavoro di gruppo e le
dinamiche in quel setting multiprofessionale e valutare eventuale
cambiamenti e benefici prima e dopo un laboratorio di formazione sul
gruppo (teambuilding workshop).
Gli autori, pur riconoscendo il limite dello studio ristretto ad un solo
centro, sottolineano che i risultati sono almeno in parte concordanti con
quelli di altri studi precedentemente pubblicati, in particolare di Warren,
Houston, Luquire (1998 )32, di Charnley (1999)33 e di Newton and
Waters (2001).34
Complessivamente il lavoro di formazione sul gruppo e' stato utile nel
promuovere la comprensione reciproca dei ruoli e sviluppare buone
relazioni di lavoro. Dalle risposte dei partecipanti alla ricerca e' stato
chiaro che fornire cure palliative di alto livello produce una
considerevole tensione sul gruppo, ma la formazione ha permesso di
30
(Cummings, 1998)
(Donaghy, Devlin, An evaluation of teamwork within a specialist palliative care
unit, 2002)
32
(Warren, Houston, Luquire, Collaborative practice teams: from multidisciplinary
to interdisciplinary, 1998).
33
(Charnley, Occupational stress in the newly qualified staff nurse, 1999).
34
(Newton , Waters, Community palliative care clinical nurse specialists'
descriptions of stress in their work, 2001).
31
36
lavorare sui punti di debolezza del gruppo e di apprezzare i punti di
forza. Ha potuto inoltre mettere in luce aspetti del lavoro che in
precedenza non erano stati considerati.
Lo studio quindi sottolinea l'importanza di un gruppo collaborativo ed
evidenzia la necessità di dare un buon supporto all'equipe offrendo la
possibilita' ai membri di partecipare a esercitazioni di sviluppo del
gruppo in un contesto neutrale, ma solo se lo staff non si sente gia'
sovraccaricato. Sta ai dirigenti scegliere accuratamente i tempi e le
modalita'.
3.8
ALCUNE IMMAGINI NARRATIVE
Alcuni brani tratti per lo più da testi narrativi francesi sull’esperienza di
assistenza in cure palliative e in hospice offrono uno spunto suggestivo
e toccante, un canale più diretto per comprendere meglio i concetti
teorici.
Il corpo curante:
“…Il reparto deve essere in grado di prendere cura di se stesso, come di
una persona senza nome, ancora senza età, infinitamente vulnerabile
nelle figure di ciascuno che vi lavora. Tastare il polso al reparto,
alleviare i suoi dolori, tenere sotto controllo le depressioni, le gioie, le
difficoltà, la fatica, sostenere gli sconvolgimenti….”35
35
(in Abiven, Accompagnare il malato terminale, 2001, pag.131)
37
La sofferenza degli operatori:
“…Il percorso personale di R., un’infermiera che è venuta a chiedermi
aiuto, vale la pena di essere riportato. Qualche tempo dopo la morte di
B., per via di un cancro al seno, le infermiere discutevano della
sofferenza che avevano provato nell’assistere questa paziente della loro
stessa età, il cui tumore, particolarmente sgradevole, necessitava di
essere medicato due volte al giorno. R. ha riferito allora di avere
percepito un dolore quasi costante al seno per i due mesi che B. ha
trascorso in reparto. Il dolore è improvvisamente scomparso una sera in
cui l’infermiera era in riposo, a casa. Incuriosita R. chiama l’ospedale e
scopre che B. è appena deceduta. La storia di R .illustra un aspetto
particolare
della
sofferenza
degli
operatori
che
è
legato
all’identificazione con il paziente…R. è un’infermiera molto sensibile e
molto vicina ai pazienti e mi riferisce la fatica a non provare la loro
sofferenza, a non prenderla su di sé. E’ cosciente della necessità di
proteggersi per poter assicurare un buon servizio infermieristico, ma
non desidera nemmeno mettere la corazza…”36
“Le infermiere considerano una fortuna poter parlare in libertà dei
malati con un medico. Non sempre è stato così per loro. Provengono per
la maggior parte da reparti dove ognuno è isolato nel proprio compito,
dove non è possibile discutere dei problemi dei pazienti e tanto meno di
sé, della propria sofferenza (…). In questo reparto, invece, mi sembra
36
(in Accompagnare il malato terminale, pag. 133)
38
che, grazie a una certa disponibilità gli uni verso gli altri, questo
fardello di dolore possa essere sopportato e condiviso.”37
Il privilegio degli operatori:
“…Chi ha il privilegio di accompagnare qualcuno negli ultimi istanti
della vita sa di entrare in una dimensione molto intima…Dopo aver
assistito per anni gli infermi nei loro ultimi istanti, non ho appreso
niente di più sulla morte in se stessa, ma la mia fiducia nella vita non ha
fatto che crescere…”38
Il clima:
“…Ore nove. L’équipe dell’unità si ritrova nella saletta dei medici per
la pausa-caffè del mattino. Per colazione ci sono croissants e brioches al
cioccolato. E’ il dottor Clément che li ha portati. Quando esce di casa al
mattino per recarsi all’ospedale, pensa sempre alle infermiere. Alcune
sono lì dalle sette del mattino per assistere i malati al risveglio.
Passando davanti alla pasticceria, si ferma sempre. E quando arriva in
reparto con il vassoio di paste profumate e il suo largo sorriso, un soffio
di calore e di benessere si diffonde tutt’intorno…”39
37
(in de Hennezel, La morte amica, 1996 pag.34).
38
(in La morte amica, pag.14).
39
(in La morte amica, pag.27).
39
L’impotenza:
“Questa impotenza, accettata ancora una volta, è la nostra forza, lo
sappiamo. Continuare a fare il possibile, in un contesto di impotenza
generale, ha paradossalmente un impatto dirompente”.40
Le emozioni:
“Ci sono giorni in cui la riunione dell’équipe svolge davvero la sua
funzione di valvola di scarico. E questo accade quando le emozioni
vissute sono troppo forti. Si ha un bel cerare di mantenere il distacco,
capita di essere travolti. Probabilmente è anche il prezzo da pagare per
non diventare insensibili e restare molto semplicemente umani”.41
Le regole:
“Michelle ha fissato alcune regole che sono al tempo stesso un
avvertimento e un freno: non parlare del problema che si ha con una
persona senza avere prima cercato di risolverlo direttamente con lei;
non sollevare tale problema nella riunione senza che anche l’altro sia
invitato a parteciparvi42.
La valorizzazione dei ruoli:
“Nella Casa c’è una gerarchia.(…) Una qualità delle relazioni nel
lavoro quotidiano, la valorizzazione costante del lavoro degli infermieri,
40
(in La morte amica, pag.107)
(in La morte amica, pag.117)
42
(in Audouard, Una casa ai confini del mondo, 2001, pag.73).
41
40
la profondità dei sentimenti condivisi, tutto ciò fa sì che, nel rapporto
con l’autorità, non regni la confusione affettiva che contraddistingue
tanti centri (….). Non che tutti i problemi siano risolti, tutti i conflitti
scongiurati,
ma
ci
sono
delle
buone
basi
per
affrontarli
quotidianamente.”43
L’utopia:
“Vivere e lavorare nella Casa è un modo particolare di stare insieme. E’
un modo di essere se stessi nel lavoro, e contemporaneamente, di essere
con gli altri.(…)Questa utopia in atto non è assolutamente una comunità
ideale in cui l’insieme dei rapporti siano perfetti. Indica semmai la
possibilità di fronteggiare le difficoltà umane della vita quotidiana senza
che gli individui sprofondino nella frustrazione e nella ribellione, il
comune destino di tanti gruppi, non solo nel mondo ospedaliero.”44
43
(in Una casa ai confini del mondo pag.45).
44
(in Una casa ai confini del mondo pag.71).
41
CAPITOLO 4
GLI HOSPICE IN ITALIA
4.1
CENNI STORICI
I primi hospice sono nati in Gran Bretagna. Nel 1905 ha origine il St.
Joseph Hospice a Londra, e inizia a svilupparsi l’assistenza ai pazienti
oncologici alla fine della vita. Ma è solo nel 1967, con la fondazione da
parte di Cicely Saunders del St. Christopher’s Hospice in Southeast
London, che viene posta la pietra miliare del movimento hospice.
In Italia, all’inizio degli anni ’60 vengono attivate due strutture con
finalità di hospice: l’Ospedale Sant’Andrea a Roma e il Reparto
Oncologico Ospedale Malpighi di Bologna, promosse rispettivamente
dalla Sede Nazionale e dalla Sezione Bolognese della Lega Italiana per
la Lotta contro i Tumori. Tali esperienze si concludono negli anni ’70,
tuttavia pur lentamente inizia a diffondersi la filosofia degli hospice.45
E’nel 1987 che sorge il primo Hospice in Italia, La “Domus Salutis” di
Brescia, cui fanno seguito a distanza di qualche anno altre strutture a
Milano, Abbiategrasso, Aviano, Busca ecc. Dal 2000 in avanti sono
parecchi i progetti e in discreto numero le realizzazioni, grazie anche ad
uno specifico programma legislativo, finanziario e formativo.
45
(in Vignotto, De Luca, Bertetto, Ciuffreda, Corso di perfezionamento in cure
palliative, 2002)
42
4.2
CARATTERISTICHE DELL’ORGANIZZAZIONE HOSPICE
A parte qualche esperienza “pioniera” meno recente, la maggior parte
degli Hospice sono quindi strutture “giovani”, con specifici requisiti,
obiettivi e modelli organizzativi previsti dalle leggi in materia, ma con
una breve esperienza gestionale e assistenziale.
Solo alcuni Hospice sono inseriti e operano nell’ambito di Reti di Cure
Palliative, e comunque l’irregolare distribuzione sul territorio nazionale
non garantisce ancora l’equità al soddisfacimento del bisogno di cure
palliative residenziali.
Le équipe degli Hospice sono costituite dalle seguenti figure
professionali: Medici, Infermieri Professionali, Operatori Socio Sanitari,
Psicologi, Terapisti della Riabilitazione. Partecipano al lavoro d’équipe
anche gli Assistenti Sociali, gli Assistenti Spirituali, i Volontari.
Essendo l’Hospice una struttura a bassa intensità tecnologica, ma ad alta
intensità assistenziale, sono previsti elevati standard di personale, per i
quali ogni Regione ha previsto dei requisiti minimi.46 Anche la Società
Italiana di Cure Palliative ha previsto un’ipotesi di requisiti minimi.47
4.3
ANALISI DELLA COMPLESSITA’ ORGANIZZATIVA
Abbiamo
potuto
vedere
nei
capitoli
precedenti
l'importanza
dell'integrazione nel lavoro d'equipe.
46
47
(D.G.R. 15-7336 del 14 ottobre 2002)
(www.sicp.it)
43
Secondo Roberto Vaccani
48
"gli strumenti di integrazione seguono di
pari passo la complessità dell'organizzazione: più l'organizzazione é
complessa, più e' differenziata e più necessita di integrazione".
Possiamo quindi analizzare la complessità organizzativa della struttura
hospice secondo i quattro indicatori che l'autore suggerisce:
a)il livello di incertezza che il sistema deve amministrare, in riferimento
agli INPUT e agli OUTPUT.
Il progetto hospice e' basato su un forte concetto di personalizzazione
dell'assistenza, pertanto ad ogni ingresso di un nuovo paziente
corrisponde la formulazione di un piano assistenziale specifico, non
prevedibile a priori, non standardizzabile.
Poiché l'hospice risponde ai bisogni degli utenti per i quali non sono
possibili o non sono indicate le alternative assistenziali offerte dalla rete
di cure palliative, ove questa esiste, deve essere flessibile e tempestivo
nell'accoglienza dei pazienti; questo fatto implica spesso la non
possibilità di bilanciare il peso assistenziale in base al numero di pazienti
ad alta intensità assistenziale e al numero di operatori in turno.
Pur non operando in un contesto di urgenza come il pronto soccorso, si
evidenzia un livello di incertezza alto, in questo senso, legato anche alla
modalità repentina con cui molti pazienti nell'ultimo periodo della vita si
squilibrano dal punto di vista psico-fisico.
Riguardo agli output, anche qui resta alto il livello di incertezza
soprattutto riguardo il risultato di controllo sintomi difficili e
accompagnamento alla morte in situazioni psicologiche, famigliari e
sociali molto complesse.
48
(Vaccani, La sanità incompiuta, 1992
44
Non costituiscono livello di incertezza elevato invece le risorse
tecnologiche (essendo una struttura a basso impatto tecnologico) o
imprevedibilità di leggi e regolamenti.
b)il livello di interdipendenza necessaria a raggiungere i risultati
organizzativi.
Può essere definito come la necessita' di interscambio e di legame che
hanno le parti di un'organizzazione al fine di raggiungere un risultato
soddisfacente.
In hospice risulta essere elevatissima, non solo all'interno dell'équipe
curante, ma occorre anche contemplare gli interscambi con il paziente, la
sua famiglia, la rete sociale, i volontari, gli operatori della rete di cure
palliative, altri operatori sanitari ecc.
Alti livelli di interdipendenza, dice Vaccani, si sposano con strutture di
base più orizzontali che verticali, e con meccanismi premianti non troppo
differenzianti i ruoli.
c)il livello di discrezionalità decisoria decentrata indotto dai beni-servizi
prodotti.
Gli operatori sanitari in genere gestiscono un alto livello di
discrezionalità nell'esercizio del loro mandato, e questo determina una
maggiore complessità rispetto a processi produttivi standardizzabili. Per
quanto riguarda l'hospice si può evidenziare un ulteriore fattore di
discrezionalità legato al fatto che l'obiettivo è legato alla qualità di vita e
alla qualità della morte, elementi estremamente soggettivi, difficilmente
misurabili o comparabili.
45
d)la dimensione.
Maggiore e' la dimensione dell'organizzazione, maggiore e' la
complessità organizzativa. Tuttavia questo indicatore isolatamente non e'
attendibile. L'hospice e' una struttura a dimensioni contenute, per
definizione, ma può risultare molto più complessa di altre organizzazioni
più grandi con processi più standardizzabili.
Ad alti livelli di complessità organizzativa, corrispondono strumenti di
integrazione via via più specifici: da gerarchia e procedure a funzioni
integranti,
ruoli
di
coordinamento,
meccanismi
collegiali
coordinamento, lavoro per obiettivi, piani, programmi.
46
di
PARTE SECONDA
CAPITOLO 5
UNA RICERCA QUALITATIVA
5.1
PREMESSA
Considerando il grande valore e l’ampiezza degli studi sul gruppo di
lavoro, di cui questa tesi ha colto solo alcune piccolissime parti, e
considerando la
molteplicità di fattori in causa (da quelli di tipo
strutturale a quelli di tipo più emotivo) ho ritenuto che la modalità più
pertinente per una discesa sul campo fosse quella di un’indagine di tipo
qualitativo.
La ricerca qualitativa infatti permette di:
-Raggiungere le parti che altri metodi non possono raggiungere -“to
reach the parts that other methods cannot reach”. 49
-Offrire intuizioni su fenomeni emotivi ed esperienziali in ambito
sanitario per determinare che cosa, come e perché -“to offer insight into
emotional and experiential phenomena in health care to determine what,
how, and why”50
49
50
(Pope, 1995)
(Giacomini, 2000).
47
5.2
GLI OBIETTIVI DELLA RICERCA
Gli obiettivi iniziali di questo studio sono stati:
a) Raccogliere il vissuto di alcuni operatori che lavorano in Hospice
riguardo la loro esperienza di lavoro d’équipe;
b) Delineare quali aspetti del modello teorico si potevano ritrovare nelle
realtà osservate, al fine di aprire delle finestre, dare uno spunto per
ulteriori studi.
5.3
LO STRUMENTO
Lo strumento scelto è stata l’intervista semistrutturata, con registrazione
su cassetta e successiva trascrizione cartacea.
Lo strumento è stato costruito nel modo seguente:
Dal modello teorico di Quaglino, Casagrande, Castellano51 sono state
tratte le sette variabili suggerite:
Obiettivo
Metodo
Ruoli
Leadership
Comunicazione
Clima
Sviluppo.
Sono state scritte delle ipotetiche domande da sottoporre agli intervistati
per capire come vivevano nel loro gruppo ognuna delle suddette
variabili.
51
(Quaglino, Casagrande, Castellano, Gruppo di lavoro lavoro di gruppo, 1992)
48
E’ stata fatta un’integrazione con alcune domande più pertinenti
sull’oggetto del lavoro (il rapporto con la sofferenza e la morte), sulle
caratteristiche degli operatori, su alcuni aspetti più generali come la
composizione dell’equipe, e gli anni di attività di quell’hospice.
Una volta raccolte in un unico foglio tutte le domande, sono state
differenziate mediante una colorazione azzurra e rosa, per mettere in
evidenza rispettivamente le domande di tipo più razionale e strutturale e
quelle di tipo più emotivo (questo avrebbe aiutato il lavoro di analisi dei
dati).
Sono state eliminate le domande ridondanti o poco significative, ma
sono state lasciate alcune domande di controllo, che potevano
confermare o disconfermare alcune delle precedenti.
Infine sono state elencate secondo un filo logico che rendesse scorrevole
la conversazione.52
5.4
IL METODO
Il disegno di studio ha previsto la necessità di intervistare figure
professionali diverse, possibilmente operanti in strutture diverse.
Considerando i tempi e le risorse a disposizione è stato scelto di
rivolgere le interviste ad operatori del “core team”, cioè gli operatori che
sono per più tempo a contatto con il paziente (medici, infermieri
professionali, e operatori socio sanitari) di tre hospice diversi, situati nel
Nord Italia.
Per ovvi motivi di incompatibilità non è stata presa in considerazione la
struttura hospice presso cui sto lavorando.
49
5.5
LE FASI DELL’INDAGINE
a) In un primo tempo è stata inviata una lettera di presentazione della
ricerca, in ognuno dei tre Hospice considerati, chiedendo la disponibilità
di collaborare
all’indagine.53 Nella lettera veniva esplicitata la
motivazione e gli obiettivi della ricerca, garantendo alla struttura e alle
persone coinvolte la tutela della privacy e della riservatezza dei dati, e
quindi la non possibilità di identificazione degli operatori intervistati e
della sede di lavoro.
Veniva inoltre chiaramente indicata la necessità di intervistare
singolarmente un medico, un infermiere professionale, e un operatore
socio-sanitario, per un tempo indicativo di circa un’ora, con utilizzo di
registratore. Nel testo era inoltre sottolineato che lo scopo dell’intervista
era quello di cogliere un vissuto personale e soggettivo del lavoro di
gruppo, e quindi l’operatore non veniva intervistato in qualità di
“rappresentante” di una categoria.
Al termine della lettera veniva proposto di inviare ad ognuna delle
strutture partecipanti una copia del lavoro globale svolto.
b)Ottenuto il consenso delle singole strutture e un appuntamento per il
giorno e l’ora delle interviste, è stato inviato un fax di ringraziamento e
di conferma, allegando una traccia generale dei temi sui quali si sarebbe
svolto il colloquio .54
c) I gruppi di interviste si sono svolti come da programma e vi è stata la
massima collaborazione sulle modalità e sui tempi. In tutte e tre le
52
53
(Vedi allegato 1)
(Vedi allegato 2).
50
esperienze, oltre alla registrazione su nastro, sono stati presi alcuni
appunti per fissare maggiormente alcuni concetti. Le interviste sono state
svolte con la medesima modalità, seguendo un’ identica traccia.
d)Terminata la fase precedente, si è provveduto a trascrivere su computer
le registrazioni dei testi integrali delle interviste. Sono state differenziate
le domande dalle risposte scrivendo le prime in corsivo.
e)Tutte le interviste sono state raccolte in un file e i testi sono stati
stampati singolarmente, un testo per ogni intervista, ottenendo 9 testi.
(Questo accorgimento, unitamente alla differenziazione delle domande e
delle risposte, e alla precedente individuazione delle domande di tipo
razionale e di quelle di tipo emotivo, hanno facilitato l’analisi dei dati).
Per i sopracitati motivi di garanzia di privacy nella presente tesi non
sono indicate le strutture coinvolte, i dati relativi all’anno di apertura
dell’hospice, o la composizione specifica dell’équipe, né sono allegati i
testi integrali delle interviste, poiché
il tutto potrebbe rendere
riconoscibile la provenienza. Le strutture hospice presenti attualmente
nelle regioni dell’Italia Settentrionale sono infatti ancora in numero
piuttosto contenuto.
I testi integrali delle interviste sono depositati presso la Relatrice della
tesi.
54
(Vedi allegato 3).
51
5.6
L’ANALISI DEI DATI
Nella fase di analisi dei dati, considerando gli obiettivi della ricerca, si è
cercato di riportare l’espressione dei vissuti dei singoli intervistati “tra
virgolette”, raggruppandoli secondo alcune parole-chiave dell’intervista.
Se c’erano delle ripetizioni di concetti simili è stato riportato il più
significativo. In un caso é stata utilizzata una tabella riepilogativa. Ogni
capitolo di raccolta delle voci degli operatori partecipanti è stato
completato con un commento della sottoscritta, con l’obiettivo di
collegare l’apporto teorico alla realtà incontrata.
Considerazioni sugli hospice coinvolti nella ricerca:
Si tratta di strutture abbastanza omogenee dal punto di vista degli anni di
attività (3-5 anni) e del numero di posti letto. Quello che varia è la
composizione numerica dell’équipe e l’inquadramento del personale
(dipendente di struttura pubblica / libero professionista / dipendente di
cooperative).
In tutte le strutture sono rappresentate tutte le professionalità e sono
presenti i volontari. (In una struttura manca temporaneamente il
coordinatore infermieristico).
Il genere e l’équipe:
Si tratta per lo più di équipe miste, con una netta prevalenza di soggetti
femminili. I soggetti maschili hanno per lo più un ruolo medico o di
coordinamento.
Gli intervistati donne dicono:
52
“la presenza femminile al letto dei malati terminali è una presenza molto
valida,
alcune
caratteristiche
sono
molto
idonee
per
l’accompagnamento: la dedizione, la pazienza, la tenerezza in certe
cose senza aspettare il risultato. Però ritengo che in qualsiasi gruppo di
lavoro la figura maschile sia stabilizzante, scioglie alcune tensioni
emotive…”;
“la figura maschile è importante….equilibra le parole, gli screzi, ma
anche se siamo quasi tutte donne siamo un gruppo unito, lavoriamo
bene…”;
“…ci sono utenti che si aprono più con i maschi, è positivo che ci sia
un’équipe mista, ma se siamo in maggioranza femmine non lo trovo un
problema…”;
Gli intervistati uomini dicono:
“in un’équipe tipicamente femminile emergono sia i pregi, come una
maggiore delicatezza e sensibilità, sia una maggiore conflittualità…noi
maschi siamo più grossolani,, a volte, e meno sensibili, ma su alcune
cose lasciamo più correre, però io sono molto contento dell’équipe in
cui lavoro….”;
“quando si ha a che fare con la persona nella sua totalità i due punti di
vista, le due sensibilità colgono sfumature diverse. Sono molto contento
di questo scambio, specialmente nelle cure palliative la sensibilità
femminile è importante”.
E’ un dato di fatto che in campo assistenziale prevalgano le figure
femminili. Dalle voci degli intervistati tuttavia emerge come la presenza
maschile costituisca spesso un elemento riequilibratore delle emozioni e
53
delle tensioni. Sarebbe utile sviluppare ulteriormente l’aspetto delle
dinamiche relazionali sotto questo punto di vista.
Il turn over:
Questo dato è stato analizzato per ogni struttura, confrontando le risposte
del medico, dell’infermiere e dell’OSS, proprio perché il contesto e la
storia dell’hospice hanno influito in maniera diversa. La percezione
avuta dagli intervistati fa emergere come elementi importanti l’oggetto
del lavoro, che rappresenta un impatto duro nell’iniziare un’attività in
hospice anche se ci sono state informazioni preventive, gli aspetti
relazionali nel gruppo, e alcune vicende personali nella storia degli
operatori.
54
medico
Tabella turn over
infermiere
Hospice A
“C’è stato un elevato turnover,
soprattutto per chi non aveva
mai lavorato in cure palliative,
il contrasto stridente con
precedenti esperienze è stato
scioccante. Non tutti sono stati
in grado di mettere a
disposizione
relazione
e
tecnica,e contemporaneamente
sostenere le emozioni che
quotidianamente sono evocate..
In più ci sono stati contrasti
interpersonali.”
“Sono qui da poco
tempo, ma secondo me
c’è stato turn over sia
per il tipo di lavoro,
perché finché non lo
provi non ti rendi conto
di quanto sia pesante
fisicamente
e
psicologicamente;
sia perché essendo
un’équipe
prevalentemente
femminile c’è stato
qualche contrasto”.
Hospice B
“Penso che il turn over sia
stato scarso, e per lo più
determinato da fatti strutturali
e logistici o da motivi
personali”
Hospice C
“C’è stato un po’ di turnover,
per qualcuno si è trattato di
fare i conti con una situazione
diversa da quella che si
immaginava, un grosso carico
relazionale, una disponibilità di
tempo di ascolto, di ritmi
completamente diversi da quelli
a cui si è abituati… In sostanza
l’aspetto emotivo del carico da
sostenere in questo lavoro è
decisivo”.
“Sono qui dall’inizio,
turnover scarso, per
quanto pesante possa
essere il lavorare in
hospice, in realtà stai
bene,lavori bene in
gruppo, ci scambiamo
molto… Penso però che
ad un certo punto hai
bisogno anche di altre
esperienze, credo si
possa uscire e tornare
con
un
altro
bagaglio…rischiamo se
no di rimanere troppo
chiusi..”
“Sono qui dall’inizio,
c’è stato un po’ di turn
over… direi che più
determinante è stato
l’aspetto di contatto
con la morte e gli
aspetti
relazionali
legati ai pazienti, alle
loro richieste”.
OSS
“Sono qui da poco tempo, ma
il turn over che c’è stato non
mi stupisce, si ha l’impatto
con un lavoro duro, non mi
stupirei se qualcuno dicesse –
io non ce la faccio-.Il difficile
è riuscire a mettere tutto
l’amore senza metterti tu
dentro, dare tutto quello che
puoi
sinceramente
e
onestamente, ma poi devi
uscire dalla porta e andare a
casa. Lo devi imparare tutti i
giorni, non ti abitui mai,
l’individuo è unico; riesci a
non coinvolgerti per tante
persone, e poi arriva quello
che ti fa cascare…”
“Sono qui dall’inizio, turn
over scarso, io comincio a
sentire il peso di questi anni
in hospice, ci sono stati dei
cambiamenti strutturali, e poi
ho un famigliare ammalato di
tumore, e questo mi ha colpito
molto. Ma sono trattenuta
dall’idea di andare via perché
so che uscita da questa porta
non sarà più così, si sa
benissimo che l’approccio con
il paziente non sarà così…”
“Sono qui dall’inizio, c’è
stato un po’ di turn over, forse
per un non buon inserimento
nel gruppo…”
55
Le caratteristiche più importanti richieste a chi lavora in hospice:
E’ stato chiesto agli intervistati di indicare possibilmente alcune
caratteristiche di tipo professionale e alcune di tipo emotivo.
Professionali:
“una che vale per tutte è la motivazione, diffido molto di chi viene qui in
quanto deluso da precedenti esperienze, in genere finisce male. Invece
chi esprime una motivazione a lavorare in questo ambito è già un
gradino sopra…Dal punto di vista tecnico si richiede la disponibilità ad
imparare le tecniche in uso in cure palliative, l’attenzione nel metterle
in pratica con l’ammalato, la verifica dei risultati quotidianamente, se
non di ora in ora”.(medico).
“elasticità: per quanto esistano dei protocolli e delle regole generali
devi comunque adattarli alla situazione…” (infermiera).
“puntualità (se non sei puntuale il tuo collega deve coprire il tuo
ritardo, e puoi mettere sotto pressione l’équipe, che poi non ha la stessa
efficienza)” (OSS).
“motivazione individuale professionale, condividere il fatto che
l’hospice è una struttura che può migliorare la qualità di vita dei malati
e delle famiglie”.(medico).
“una solida, grossissima, irrinunciabile preparazione in ambito clinico,
la capacità di discriminare il segno dal sintomo, saper cogliere il
bisogno del paziente per attivare le risposte giuste in autonomia, in
équipe in base alla situazione. Al contrario di quello che si pensa
nell’immaginario collettivo che in questo campo si tiene solo la mano
del paziente, è fondamentale la preparazione”(medico).
56
Emotive-relazionali:
“L’evitare atteggiamenti da ”prima donna”, la disponibilità all’ascolto
e al sostegno di paziente e famiglia, la trasparenza nei rapporti tra i
membri del’équipe, il confrontarsi direttamente e privatamente in caso
di conflitto …”(medico).
“la serenità, cioè che di base siano persone solari, allegre, ottimiste;
l’aver almeno iniziato a elaborare il problema morte…; la pazienza, la
comprensione”’ (infermiera).
“una grande onestà, la sincerità (non puoi dire bugie o dare false
speranze)…avere una vita fuori dall’hospice… una grande pazienza…
riuscire a dare a tutti senza giudicare e senza basarsi su antipatie e
simpatie…”(OSS).
“una stabilità, un compenso individuale interiore altrimenti la prima
urgenza ti destabilizza subito… Accettare di fare i conti con il concetto
di morte, della tua morte…la capacità di lavorare non da libero
battitore, ma con gli altri, almeno provarci…) (medico).
“una propria capacità di conoscersi, di mettersi in gioco, di riuscire ad
esprimere anche le proprie paure….riuscire a riconoscere se ti stai
identificando con un paziente o con un modello famigliare, capire che
quella non è la tua famiglia…(infemiera)
“la relazione, l’empatia con il paziente…”(OSS).
“una grossa capacità di ascolto, la voglia di fermarsi, di dare tempo, di
far parlare le persone, di lasciarsi un po’ guidare nel percorso…la
disponibilità a mettersi in gioco con il resto dell’équipe, la capacità di
condividere, di non aver la pretesa di fare di testa propria sempre… la
tolleranza alla frustrazione, alla sconfitta come è classicamente intesa
57
in medicina (è necessario scrollarsi di dosso l’obiettivo della vita
salvata, della prognosi allungata….)” (medico).
“l’umanità, il saper ascoltare non solo il paziente ma anche i famigliari,
a volte sono nervosi o scontrosi perché hanno paura, bisogna cercare di
capirli….”(OSS).
Gli obiettivi:
L’aspetto degli obiettivi è complesso. Ascoltando le varie esperienze
l’impressione è che risulta essere fondamentale l’input che dà l’ente
dell’organizzazione: se a questi livelli c’è una sensibilità e un progetto
chiaro, anche nel gruppo e negli individui si ha più dimestichezza con gli
obiettivi. Viceversa il gruppo e gli individui vivono più difficoltà.
E’ comunque un aspetto che non è risolto una volta per tutte, ma va
continuamente presidiato, cementato, revisionato. Nella realtà pare
confermarsi il concetto che i coordinatori hanno il compito di equilibrare
gli obiettivi individuali, di gruppo e organizzativi.
“Secondo me andare dietro ad uno stesso obiettivo è una necessità,
malgrado poi a volte ci siano delle diversità…Se ti trovi con un senso di
mani vuote e dici “ma che lavoro è, non vinco mai” allora vuol dire che
avevi tutto un altro obiettivo, sono sbandamenti che possono capitare a
tutti, e poi si ritorna ….”(OSS).
“L’obiettivo generale della qualità di vita è condiviso,ognuno di noi poi
ha una sua visione personale per cui può succedere che discutiamo
anche animatamente su quale è l’obiettivo…Ci è capitato più volte
comunque e capita che ci fermiamo un attimo a riflettere su “chi
siamo”.
Questo
è
positivo
perché
ti
permette
di
ritornare
all’origine…Ad esempio si discute su quanto è giusto o non è giusto
58
sedare un paziente, in base agli obiettivi…Sulla condivisione degli
obiettivi generali con l’organizzazione ad alti livelli allora abbiamo
fatto una fatica incredibile, le cure palliative in genere non sono così
conosciute….”(infermiera).
“Gli obiettivi sono stati condivisi, esplicitati all’inizio, poi la stessa
formazione continua che facciamo sia in moduli interni, sia attraverso
esperienze quantomeno regionali punta a questo, per impedire derive
che possono esserci, si fa presto ad abbassare la guardia….C’è stata
una grande sensibilità dell’ente pubblico e del no-profit che ha permesso
di mettere delle buone fondamenta, poi si cammina ma siamo
sostenuti…”(medico ).
“All’inizio la nostra mission era quella di dare una accoglienza ai
malati del nostro territorio e anche di altre zone, cercando di rispettare
le valenze culturali, in modo che l’hospice fosse un patrimonio della
popolazione, con un interscambio; inoltre la missione era intensificare
l’impegno di accoglienza anche per chi veniva da lontano, chi era
sradicato dalla propria realtà: recuperare questi legami ricostruendone
altri…Tuttavia i problemi con l’organizzazione ad alto livello ci ha
messo in seria difficoltà….”(medico ).
“Dal punto di vista organizzativo c’è assoluta condivisione di obiettivi;
se l’obiettivo dell’erogazione
e delle finalità del nostro servizio è
ultrachiaro a tutti, i coordinatori devono intervenire più frequentemente
sugli aspetti d’équipe e individuali…qui il concetto di assistenza
paziente-centrica è abbastanza consolidato, qualche volta bisogna
ridefinirlo nell’ambito dell’interazione tra i tre, nel senso che di fronte a
proposte un po’ strane, ad esempio operative, qualche volta ci si
dimentica che l’obiettivo è quello…. Il lavoro del coordinatore è allora
59
anche quello di far coincidere il benessere dell’ammalato e le esigenze
del reparto…” (medico ).
Le regole:
In generale tutti hanno riconosciuto l’importanza e la necessità delle
regole. La percezione è che nelle realtà dove le regole sono condivise e
rispettate, e sono adattabili alla situazione, vi è anche il giusto equilibrio
tra autonomia e controllo, che è uno dei fattori di soddisfazione (vedi
cap.2.4).
“Il miracolo è che le persone hanno mantenuto lo stile di lavoro e le
indicazioni acquisite all’inizio. Lo zoccolo duro ha saputo trasmettere a
chi entrava successivamente lo stile di lavoro e di vita maturato, per non
disperdere un patrimonio”……..Molte cose le hanno in mano gli
infermieri e ne sono ben felice, qui le regole sono condivise.”(medico).
“Direi che assolutamente le regole sono fondamentali, penso che siano
rispettate anche senza particolari problemi, direi che il gruppo è un
buon gruppo”. (medico).
“Secondo me le regole verso gli utenti qui sono fuori luogo. Tra di noi le
regole ci sono, qualcuna
chiara e tonda, altre fatte dalla
consuetudine…”(OSS ).
“Ce ne sono un sacco di regole sottintese, sono una routine e vengono
rispettate, assolutamente sì”(infermiera).
Il modello di presa di decisione:
Risulta essere un dato assodato che in hospice le decisioni si prendono
collegialmente, in un’équipe più o meno allargata a seconda del tipo di
60
decisione e della situazione. In genere le riunioni plenarie con tutta
l’équipe si verificano con una frequenza non superiore ai 2-3 mesi, date
le difficoltà legate alla turnazione sulle 24 ore per 7 giorni settimanali.
Alle altre riunioni partecipa chi è in turno, in genere.
Alcune risposte mettono in luce il concetto che tutti hanno l’opportunità
di portare informazioni, condividere osservazioni e pareri, ma che la
decisione
di
tipo
clinico-terapeutico
appartiene
al
medico.
Contrariamente a quello che succede nei normali setting sanitari,
nell’ambito delle cure palliative realmente ogni figura professionale,
volontari compresi, assume importanza nelle tappe che portano alla presa
decisione; nelle grosse decisioni, come ad esempio la sedazione
terminale, tutti si sentono molto coinvolti.
“Diciamo che le decisioni importanti le prendiamo nella riunione
d’équipe. Abbiamo una modalità di strutturazione della riunione
d’équipe con ordine del giorno, orario di inizio e di fine, i punti
all’ordine del giorno non vengono modificati, c’è un verbale utilizzato
soprattutto da chi è stato assente. La riunione deve portare ad un
risultato, è inutile lasciare cadere i problemi, perché la prossima volta
ci sono di nuovo. Per carità la riunione d’équipe consente di scaricare
emozioni, tensioni, però bisogna prendere decisioni operative…Sì, mi
sento molto soddisfatto di questo modo di lavorare in équipe (medico).
“Le riunioni che riguardano il gruppo vengono prese da tutto il gruppo.
Quando facciamo il briefing al mattino (a cui partecipano tutti,
compresi i volontari) condividiamo le decisioni terapeutiche, si rivede la
quotidianità del paziente, non solo clinicamente, ma anche ad esempio
se sono insorti problemi psicologici”(infermiera).
61
“Io personalmente non mi sento stretta, se ho qualche discrepanza
vengo ascoltata, questa è una cosa che mi ha colpito” (OSS).
“Ci sono diverse tipologie di consultazione, si possono fare delle mini
riunioni, altre più allargate. Per le altre decisioni si fa una riunione
d’équipe con tutti, convocata una settimana prima, in media una ogni
due o tre mesi…”(medico).
“Se ci sono delle decisioni grosse da prendere cerchiamo di farlo tutti
insieme, quando non è possibile si passa la voce durante le consegne,
anche con biglietti scritti per arrivare comunque ad una decisione
comune”(infermiera ).
“ C’è una parte clinica ci competenza del medico, su come trattare quel
sintomo, sul resto è un vagliare i bisogni della persona e questo non lo
decide mai il singolo medico…”(medico).
“Di solito si fa una riunione, di solito la decisione viene discussa…Sì
sono soddisfatta perché comunque ognuno è libero di dire la
propria”.(OSS).
Il metodo di lavoro:
Vi sono alcune differenze tra i tre hospice, alcuni hanno più procedure e
protocolli, altri sono nella fase di costruzione di strumenti. Emerge
l’importanza di linee comuni da saper gestire con elasticità applicandole
al singolo paziente.
Tutti danno molta importanza alla consegna al cambio turno e, sebbene
vi sia cura della documentazione scritta nella cartella (integrata oppure
no), molto spazio viene anche riservato alla trasmissione orale delle
informazioni.
62
Risulta essere un dato condiviso che i ritmi del lavoro si adeguano ai
ritmi dei pazienti e non viceversa, come avviene nelle altre strutture di
ricovero, per cui i metodi di lavoro richiedono molta flessibilità e
adattamento.
“Il briefing mattutino dura circa 15-20 minuti, ma essendo fatto tutti i
giorni uniforma molto il modo di lavorare…”
“Abbiamo un sacco di procedure, moltissime schede infermieristiche
specifiche (es. gestione medicazione, drenaggi, catetere vescicale…); di
volta in volta segnamo gli interventi specifici e sappiamo che ogni
settimana si fa questo, ogni tre giorni si fa un’altra cosa…. Si fa tutti
allo stesso modo…”
“Abbiamo protocolli presi dalla letteratura scientifica medicoinfermieristica, questo ha aiutato molto ad avere un metodo comune…”
“Ognuno di noi ha un suo stile, le linee di fondo sono comuni…”
“…il paziente sente se il gruppo cammina insieme…”.
L’integrazione tra i ruoli:
Tutti gli operatori intervistati hanno dichiarato di percepire nel loro
lavoro l’integrazione tra i diversi ruoli, e non sono emersi nell’intervista
elementi di gelosia o di rivalità. E’ un elemento fondante della
strutturazione del lavoro che a quanto pare condiziona tutto il resto. Vi
sono delle difficoltà, talvolta, legate anche a situazioni oggettive come
carenza di personale, o personale che non ha ancora interiorizzato la
filosofia dell’hospice.
Le espressioni più significative sono state:
“Vedo l’integrazione soprattutto nei momenti critici, clinici e relazionali,
in cui ci si ferma, medico, infermiera e in qualche caso anche l’OSS, in
63
sala medica a tavolino e si analizzano i problemi ipotizzando delle
soluzioni; oppure anche nella riunione d’équipe, non c’è chi sputa
sentenze e chi obbedisce, ma c’è una collaborazione trasversale”.
“Soprattutto nelle ore che precedono e seguono la morte, ad esempio c’è
chi parla con il parente, chi veste la salma, si vede proprio la sinergia
scattare”.
“L’integrazione la percepisco sul campo; ieri è successo che un paziente
voleva scendere dal letto, ed era confuso, allora è corsa una volontaria
insieme a me, abbiamo evitato che cadesse, poi è venuta l’infermiera e
abbiamo valutato per una terapia al bisogno, cioè siamo stati tutti
insieme a valutare che cosa era bene per lui…”.
“La percepisco maggiormente nel briefing quotidiano, noi infermiere
parliamo, i medici ascoltano, anche le OSS intervengono, e poi si
decide”.
“Difficoltà di integrazione la percepisco maggiormente con le
infermiere nuove, che non sono abituate a discutere con il medico ma ad
eseguire quello che ha detto il medico…non sono abituate a farsi
domande su quello che stanno facendo…”.
“Nei momenti di carenza di persone o di intensità di urgenze si fa
fatica…”.
Il clima, la comunicazione, il senso di vicinanza:
“..riuscire a far sentire che sto cogliendo che siamo un po’ tutti stanchi
e lo sono anch’io…cerco di riservarmi un sensore anche per queste
cose…ci sono momenti in cui bisogna ascoltare, proprio per accogliersi
nella fatica…..io direi che dal clima sereno che c’è spero di lavorare qui
fino a 80 anni, e questo è condiviso da tutti…”
64
“Io ho lavorato cinque anni altrove e cinque anni in hospice, non ho una
grossa esperienza di gruppi, però rispetto al gruppo dove lavoravo
prima c’è una differenza abissale”.
“…speriamo di mantenerlo questo clima…siccome c’è un turnover non
si sa mai…abbiamo faticato un po’ ad instaurarlo…”.
“…ci sono stati dei momenti difficili, ma adesso è un bel momento…”.
“A volte bisogna cercare un po’ di mediare, sdrammatizzare un attimo,
non tutto è un attacco personale…”.
“Può succederti di non sentirti ascoltato in certi momenti, anche per
delle difficoltà individuali a rapportarsi con gli altri, è successo anche a
me e sicuramente succede ad altri”.
“Apertura, sostegno, calore….forse quando abbiamo aperto non dico
non ce ne fosse neanche uno, ma sicuramente la situazione era molto
diversa da adesso….si era abituati ad una maggior freddezza anche
relazionale e interprofessionale”.
“…le informazioni lasciate in sospeso nel nostro ambiente secondo me
rischiano di rendere più difficoltosa proprio la comunicazione. Per
questo mi sono attrezzato con il quadernone per i messaggi informali
che tutti gli operatori leggono, oltre che il cassetto personale per ogni
operatore dove si mettono i messaggi “.
Si percepisce che come in tutti i gruppi ci sono momenti sereni e altri più
difficili, in generale il clima e la comunicazione sono considerati buoni.
E’ evidente nelle risposte come il clima in genere positivo vissuto
attualmente sia il frutto di un paziente lavoro di costruzione, attento ai
particolari e ai gesti quotidiani. In alcuni casi un miglioramento del
clima e della comunicazione si è verificato in occasione dell’uscita dal
gruppo di alcuni individui e con l’ingresso di altri.
65
Il coordinamento:
Dalle risposte risulta percepito come faticoso, anche se le persone si
esprimono poco su questo aspetto. La difficoltà viene più vista
nell’oggetto piuttosto che in elementi di opposizione, poiché si tratta di
coordinare sia l’assistenza diretta ai pazienti, sia il gruppo stesso, sia i
lavori di gruppo, i contatti con l’esterno… Emerge che se manca il
coordinatore tutto è più difficile, anche se poi nel gruppo alcune persone
riescono a identificare delle strategie per supplire a questo ruolo.
“Chi fa il coordinatore deve avere un investimento dall’alto…”.
“A volte se uno si mettesse nell’ottica di chi deve coordinare non tutto
parrebbe così scontato e facile”
Episodi significativi per la vita del gruppo:
In tutti gli hospice ci sono state delle persone che hanno trascorso i loro
ultimi giorni di vita e sono state accompagnate alla morte in circostanze
particolarmente toccanti, e spesso rappresentano per il gruppo un
elemento di grande significato in termini di affiatamento, vicinanza,
crescita umana e professionale. A volte queste persone, con il loro modo
di essere, hanno saputo essere veramente dei maestri per il gruppo.
“Abbiamo avuto una paziente che nessuno di noi ha scordato, ci ha
arricchito tantissimo, ti parlava a voce bassa, si esprimeva tanto con i
sorrisi e gli sguardi, diceva cose ricche di significato…ci ha uniti, ci ha
accomunati…”.
“..la morte di una ragazza di 21 anni…prima che venisse aveva
procurato ansia perché era la prima giovane così, perché aveva l’età di
66
mio figlio…poi l’ansia è svanita….quando è successo è stata una cosa
molto naturale e serena…la camera era prima piena di gente, è mancata
nel momento in cui c’erano solo i suoi genitori….”.
“…è stato forse, a dimostrazione delle potenzialità di un hospice,
quando abbiamo fatto qui la prima comunione a un bambino figlio di un
paziente piuttosto giovane, dove la cerimonia religiosa, la spontaneità
dell’ammalato ancora presente a se stesso, è stato forse uno dei momenti
più toccanti…si è creato un ambiente di accoglienza alla vita piuttosto
che alla morte…”.
“Avevamo qui ricoverato un ragazzo…lui è morto consapevole,
informato, ha fatto delle scelte religiose, ha scelto quando iniziare la
sedazione…il gruppo è stato certamente molto caricato da questa
situazione, perché con il suo modo di morire è iniziata l’esperienza di
hospice….il suo percorso è stato un po’ una didattica per il gruppo, un
patrimonio comune di cui parliamo ancora adesso…”.
Alcuni operatori hanno individuato come episodi significativi per il
gruppo il momento di passaggio tra una situazione organizzativa ad
un’altra strutturalmente diversa, che ha costituito un elemento di grande
difficoltà: “se prima avevamo un po’ di distacco, questo ha fatto sì che ci
siamo uniti di più, ci ha fatto stringere i pugni e andare avanti…”.
Sull’oggetto di lavoro:
Le situazioni che più mettono in crisi gli operatori paiono essere
l’assistenza a pazienti giovani (per il problema dell’identificazione con
se stessi, o con i propri figli, per una a volte maggiore difficoltà di
comunicazione,
per
l’eventuale
presenza
di
bambini
piccoli);
l’assistenza a pazienti che muoiono improvvisamente per un fatto acuto
67
(es. emorragia); la difficoltà di gestione di sintomi gravi quali la dispnea;
l’assistenza di pazienti che permangono nella fase del rifiuto e della non
accettazione,
che
comunicazione;
muoiono
pazienti
arrabbiati,
assolutamente
o
che
interrompono
disinformati
sulla
la
loro
situazione; la presenza di famigliari che negano l’evidenza e vorrebbero
più interventi.
Sono riconosciute anche alcune difficoltà di tipo soggettivo, poiché ci si
trova ad interagire in certe situazioni influenzati dal proprio vissuto
riguardo a quel tipo di situazione.
Quanto alla modalità di elaborazione della morte, a livello di gruppo si
condividono le esperienze in incontri formali, in genere con l’aiuto di
uno psicologo, a volte in incontri di supervisione, oppure a volte ci si
sostiene a vicenda in modo più informale. Alcune persone sottolineano la
possibilità di esprimere ed accogliere le emozioni.
Ognuno ha poi delle modalità personali per elaborare le separazioni.
“Quello che è importante è quello che tu dai prima; faccio questo lavoro
non per il momento finale, ma per il periodo che c’è prima, e allora il
distacco è più naturale. La consapevolezza di essere stata di aiuto
prima, te lo fa accettare.”
“Quello che posso dire è che qui dentro quando muore qualcuno, si
tratta di una morte condivisa”.
“Nella precedente esperienza di lavoro non mi era mai capitato di
riuscire a vivere certe emozioni e farle circolare, potermi fidare del
gruppo, per cui piangere non è un segno di debolezza da nascondere, e
non provo vergogna quando capita”.
68
5.7
I LIMITI DELLA RICERCA
Si tratta di una ricerca qualitativa, che non ha la pretesa di generalizzare
alcune affermazioni o alcuni dati riscontrati. Si può paragonare ad una
fotografia, scattata in queste realtà del Nord Italia, e come in tutte le
fotografie vengono messi in primo piano alcuni elementi, mentre altri
rimangono sullo sfondo o non sono neppure compresi nel campo visivo.
Inoltre in questo tipo di ricerca ha una sua influenza anche il punto di
vista del fotografo, in questo caso la sottoscritta.
Sono stati intervistati solo i componenti del “core team”, che sono a più
stretto contatto del paziente quotidianamente, tuttavia per avere una
visione globale più significativa occorrerebbe ascoltare anche il vissuto
di altri componenti dell’équipe, quali lo psicologo, il volontario,
l’assistente spirituale, l’assistente sociale.
In questo tipo di analisi, con intervista individuale, difficilmente
emergono esplicitamente elementi quali i conflitti personali, le difficoltà
di comunicazione, il burn out, gli equilibri di potere ecc. Questo tipo di
elementi probabilmente potrebbero venire raccolti maggiormente
mediante osservazioni prolungate delle dinamiche relazionali, ma ritengo
che per questo occorra avere una formazione e delle competenze in
campo psicologico.
69
CONCLUSIONI
Il lavoro di ricerca bibliografica e qualitativa che ho svolto, pur tenendo
conto dei sopracitati limiti, mi ha permesso di giungere alla
consapevolezza che il lavoro d’èquipe in un hospice è fondamentale
per la sua esistenza e sopravvivenza.
Occorre tuttavia non idealizzarlo o enfatizzarlo poiché come tutte le
realtà umane è vulnerabile, è soggetto ad alti e bassi, può essere risorsa
e criticità al tempo stesso.
Fondamentale per chi si accinge a lavorare in un hospice è la
disponibilità a mettersi in gioco per lavorare in gruppo: se una persona
predilige lavorare individualmente è meglio che scelga altri setting
sanitari.
Una riflessione mi viene suggerita dal constatare il fatto che in genere
lavorare in hospice non è molto ambito da infermieri, medici, operatori
socio sanitari, forse per quell’immaginario collettivo di tristezza, di
ambiente lugubre perché vi aleggia la morte, di “intollerabilità”
dell’oggetto di lavoro.
Sicuramente l’oggetto di lavoro (il rapportarsi con la morte, la
sofferenza e il limite) ha un impatto pesante sulle persone; tuttavia le
proprie risorse personali di elaborazione e reinvestimento nella vita,
unitamente al supporto che si riceve e si dà nell’équipe condividendo le
proprie emozioni e i propri vissuti, possono far sì che ci sia serenità e
normalità anche in contesti così difficili. Incontrate nella loro realtà, le
persone che lavorano in hospice non sono apparse tristi o afflitte, ma
serene e motivate alla vita e al loro lavoro.
70
Rimane latente e sempre possibile il verificarsi del burn out e su questo
aspetto va mantenuta alta l’attenzione sorvegliando gli elementi che lo
favoriscono e promuovendo nel contempo gli elementi di soddisfazione
che lo prevengono (vedi capitolo 2.3 e 2.4).
L’équipe dell’hospice deve avere chiari e sempre presenti gli obiettivi
generali (la mission) e deve sapere che per quanto riguarda gli obiettivi
specifici sui singoli pazienti occorre avere una grande duttilità, una
capacità di adattamento, un’intensa comunicazione tra gli operatori,
poiché gli obiettivi in hospice cambiano repentinamente in base
all’evoluzione della storia del paziente. Sul presidio degli obiettivi
generali ha un ruolo importante l’ente responsabile dell’organizzazione,
sul presidio di tutti gli obiettivi hanno un ruolo importante i coordinatori,
ma ognuno dovrebbe essere responsabilizzato a mantenere alta la guardia
su questi aspetti.
Un’altra consapevolezza acquisita è quella che è importante formarsi
non solo per gli aspetti tecnici e relazionali verso il paziente, ma anche
per apprendere a come lavorare in gruppo, poiché probabilmente alcune
delle difficoltà, dei conflitti, delle incomprensioni potrebbero essere
risparmiati se si conoscessero maggiormente alcuni aspetti organizzativi
e alcuni punti di debolezza, e viceversa potrebbe essere favorito lo
sviluppo degli individui e del gruppo, se si conoscessero alcuni punti di
forza.
Sicuramente non si possono annullare i conflitti, i periodi difficili i
periodi di incertezza. Tuttavia molto si può fare in termini di passaggio
di informazioni e di modalità di comunicazione tra le persone, di
presidio di alcuni elementi del clima, quali il sostegno, il rispetto dei
ruoli, l’apertura, il feedback.
71
La presente ricerca ha voluto cogliere il “corpo curante” dell’hospice,
abitualmente impegnato sul campo a cercare una qualità di vita migliore
per e con i pazienti e le famiglie, in un’ottica di più ampio respiro. Ha
voluto aprire qualche finestra per individuare aspetti su cui approfondire
le ricerche, le conoscenze, nella speranza che si sviluppino
collaborazioni e comunicazioni tra strutture simili.
Concludo citando una frase di Antoine Audouard, che esprime con
un’immagine quello che a volte si vive tra operatori, con i pazienti, tra
strutture: “Ognuno di noi è un’isola, e il mare che ci separa dalle altre
isole dell’arcipelago è lo stesso che ci avvicina a loro.” 55.
55
(Audouard, Una casa ai confini del mondo, pag.73).
72
RINGRAZIAMENTI
Un grazie particolare va agli operatori degli hospice che hanno accettato
di partecipare alle interviste e di mettersi in gioco: sono le loro parole e
la loro esperienza preziosa a dipingere il quadro della realtà che qui
emerge.
Un ringraziamento alla Relatrice della tesi, che durante una coinvolgente
lezione d’aula mi ha ispirato l’argomento di questo lavoro, e rappresenta
per me un punto di riferimento molto importante.
Un ringraziamento ai miei colleghi e alla Struttura presso cui lavoro per
il sostegno e la comprensione che mi hanno riservato.
Un ringraziamento alle persone amiche che mi hanno dato indicazioni e
consigli utilissimi.
Infine un grazie ai miei famigliari che hanno saputo aiutarmi e hanno
generosamente condiviso con me questo percorso.
73
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76
ALLEGATO 1
TESTO DELL’INTERVISTA
DATI DA CHIEDERE ALL'INIZIO:
Da quanto tempo è funzionante l'hospice?
Da quante persone è composta l'équipe?:
-Responsabile medico:
-Medici:
-Responsabile infermieristico:
-infermieri professionali:
-O.S.S.:
-Psicologo:
-Fisioterapista:
-Assistente spirituale:
-Volontari:
La vostra e' una equipe mista (maschile femminile)?
1)Questo influisce secondo lei sul modo di lavorare e di vivere il
gruppo? Come?
2)Da quanto tempo lei lavora qui in Hospice?
3)In questi anni c'è stato turn-over?
Secondo lei per quali motivi?
-economici
-insoddisf. prof. rispetto aspett.
-aspetti relazionali
-contatto con sofferenza-morte
4)In base alla Sua esperienza quali sono le caratteristiche piu' importanti
richieste alle persone che lavorano in hospice?
professionali
emotive
1………………
1………………
2……………….
2……………….
3……………….
3………………….
77
5)Gli obiettivi iniziali del gruppo di lavoro in hospice sono stati
esplicitati, scritti?
Tutti li condividono?
Si considera che esistano almeno tre tipi di obiettivi:
quelli dell'organizzazione,
quelli del gruppo,
quelli individuali.
Lei ritiene che nella vostra situazione ci sia equilibrio e chiarezza su
questi aspetti?
6)Ritiene che il Vostro gruppo si sia dato delle regole e le rispetti?
7)Secondo lei come prendete le decisioni?
E' soddisfatto?
8)A suo avviso avete un metodo di lavoro comune?
9)Quanto tempo passate in gruppo?
riunioni formali
riunioni informali
10)Come e quando avviene la "consegna"?
prevalentemente orale
prevalentemente scritta
11)In quali momenti percepisce maggiormente l'integrazione tra i
diversi ruoli?
Viceversa in quali momenti percepisce maggiormente la difficoltà di
integrarsi tra le varie figure professionali?
12)Mi vuole parlare del clima che si instaura quando lavorate?
78
Elementi del clima sono: sostegno, calore, apertura, feedback,
riconoscimento dei ruoli. Che cosa le suggeriscono questi termini?
Lei si sente ascoltato?
Secondo lei le persone si sentono vicine? Chi/come alimenta il senso di
vicinanza?
13)E' soddisfatto dalla comunicazione che c'è all'interno del gruppo?
Quali aspetti positivi?
Quali aspetti negativi?
14)Secondo lei come vi approcciate alla sofferenza e alla morte dei
pazienti?
A questo riguardo, secondo la sua esperienza quali sono gli elementi o le
situazioni che creano maggiori difficoltà negli operatori?
Avete delle modalita' di gruppo o personali per elaborare le separazioni,
la morte?
Avete delle ritualità in occasione della morte dei pazienti?
Lei si sente sorretto?
14)C'è qualcuno che si prende cura del gruppo più di altri?
Il coordinamento del gruppo è a suo avviso faticoso?
Qualcuno contesta oppure ostacola gli sforzi di coordinamento?
15) Ha da raccontarmi un episodio particolarmente significativo per la
vita del gruppo?
16)Di che cosa è maggiormente soddisfatto del suo gruppo di lavoro?
Cosa, per contro, sente che la mette in difficoltà?
Quali cambiamenti apporterebbe al vostro modo di lavorare per renderlo
più efficace?
79
ALLEGATO 2
LETTERA DI PRESENTAZIONE
Ai Coordinatori Medico e Infermieristico
Hospice di …
Sono un'infermiera professionale in servizio presso l'Hospice L'Orsa
Maggiore di Biella. Poiche' frequento il Master di primo livello in Cure
Palliative presso l'Universita' di Novara, sto accingendomi a preparare la
tesi richiesta a fine corso.
Ho scelto come argomento "Il gruppo di lavoro in Hospice" poiche' mi
interessa particolarmente approfondire le risorse e le difficoltà
dell'équipe nei nostri contesti.
La tesi, di cui è relatrice la dott.ssa Cesarina Prandi, sarà costituita da
una parte di ricerca nella letteratura e da una parte di ricerca qualitativa
tramite un'intervista ad alcune persone che lavorano in hospice.
L'intervista ha un carattere anonimo, ha l'obiettivo di far emergere con il
Vostro aiuto alcune problematiche e potenzialita' dei vari gruppi di
lavoro in hospice, individuando elementi e prospettive comuni.
A tal fine Vi chiedo la disponibilita' ad accogliermi presso la Vostra
struttura per un colloquio-intervista da effettuare singolarmente a tre
membri dell'équipe, un medico, un infermiere professionale, un O.S.S..
Per poter cogliere al meglio il Vostro contributo utilizzero' il registratore.
Sottolineo che nella tesi finale non verranno evidenziati o esplicitati
riferimenti, qualifiche o elementi identificativi dell'intervistato e della
sede di lavoro.
Lo scopo del venire a conoscenza della Vostra realta' non vuole essere
per alcun motivo occasione di giudizio, trovandomi oltretutto coinvolta
come Voi in una équipe.
Al termine della ricerca sara' mia premura consegnarVi il risultato del
lavoro.
80
I tempi a mia disposizione per completare la tesi sono purtroppo ristretti,
per questo Vi chiedo di incontrarci nel mese di giugno.
Nell'attesa di un Vostro riscontro Vi chiedo di segnalarmi l'eventuale
necessita' di richieste di autorizzazioni formali o altra documentazione
riteniate necessaria.
Grazie per l'attenzione.
81
ALLEGATO 3
FAX DI CONFERMA
Ai Coordinatori Medico e Infermieristico
Hospice di …
Conferma visita presso la Vostra struttura per interviste.
Come da contatti telefonici intercorsi con …, Vi confermo la data
della mia visita per il giorno … alle ore ….
Vi ricordo che la mia ricerca prevede un'intervista individuale
(penso della durata di un'oretta ciascuna) a tre membri dell'équipe: un
medico, un infermiere professionale, un O.S.S.
Ai fini della tesi il mio obiettivo non è di raccogliere dati statistici
o numerici, ma di rilevare la percezione soggettiva del lavoro d'équipe
dei singoli intervistati, visti individualmente e non come rappresentanti o
portavoce di una categoria.
In particolare il colloquio verterà su alcune parole chiave:
obiettivi, integrazione tra le varie figure professionali, comunicazione,
coordinamento, partecipazione, accompagnamento alla morte.
Ancora un grazie per la disponibilità. A presto.
82