Ritratto barocco romano

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Ritratto barocco romano
RITRATTO BAROCCO
Ritratti del ‘600 e ‘700 da raccolte private
Tivoli, Villa d’Este
4 luglio – 2 novembre 2008
SAGGIO di Francesco Petrucci
RITRATTO BAROCCO ROMANO
La definizione di Barocco, estesa alle manifestazioni artistiche e culturali che
interessarono la penisola e in particolare Roma – suo centro di irradiazione internazionale
– tra il secondo quarto del ’600 e il terzo quarto del ’700, trova una compiuta applicazione
nella ritrattistica.
Se il fine dell’arte barocca è quello di educare, convincere e commuovere attraverso gli
strumenti della tecnica e dell’immaginazione, facendo ricorso all’allegoria e alla metafora
celebrativa, i ritratti di pontefici, monarchi e principi eseguiti nel corso di due secoli
rientrano appieno in tale categoria estetica.
Sono “ritratti monumento”, che devono eternare i personaggi in posa, destando
ammirazione e nel contempo soggezione, essere un monito per chi li ammira,
nell’esaltazione del prestigio e del potere assoluto di una sola classe sociale: l’aristocrazia.
Ambientazioni opulente e fastose, ostentate senza alcuna remora morale, fanno parte
dell’apparato iconografico; la ricchezza della materia e il gusto per il particolare decorativo,
furono chiamate a collaborare al fine di esprime le esigenze di prestigio e un potere che
doveva sembrare caduto dal cielo, per volontà divina. Generazioni di blasonati rampolli
atteggiati da super-uomini posarono così per specialisti della fisionomia come Rubens,
Bernini, Algardi, Van Dyck, Velázquez, Maratta, Mignard, Rigaud, Batoni e Mengs, tra i
protagonisti di quella stagione dell’arte occidentale che seppe meglio interpretare i
desiderata della classe privilegiata.
Se in architettura il berniniano Baldacchino di San Pietro (1624-’33) è stato definito il
“manifesto” del Barocco, in scultura il gruppo di Apollo e Dafne del Bernini (1622-’25)
viene considerato una precoce manifestazione del nuovo stile, in pittura il trionfalismo
barocco trova una prima grande manifestazione nella volta del Palazzo Barberini di Pietro
da Cortona (1632-’39). Nel campo del ritratto credo invece che il cardinale Bentivoglio di
Van Dyck (Firenze, Palazzo Pitti) (fig. 1), dipinto a Roma nel 1623, debba invece essere
considerato il primo vero ritratto barocco, nella sua commistione tra naturalismo e aulica
esaltazione della figura; l’aspirazione alla monumentalità e ad una superiore dignità, la
fastosità dell’ambientazione con il teatrale ampio tendaggio, la colonna, le stoffe preziose
e persino la brocca di fiori sul tavolo, il moto impresso dalla torsione laterale della figura
alle vesti, fanno di questo capolavoro un modello per la ritrattistica cardinalizia successiva.
Tale esempio è seguito in scultura dal berniniano busto del cardinale Scipione Borghese
del 1632 (fig. 2), eroica e nel contempo vitalissima rappresentazione di un principe di
Santa Romana Chiesa. Seguiranno sulla scia del “ritratto ideale” i busti di Francesco I
d’Este e Luigi XIV (fig. 3), che sublimano il personaggio nello stesso eloquio solenne,
patetico ed eroico nel contempo (1).
L’artista che forse seppe meglio illustrare ed esaltare il fasto e la superiorità
dell’aristocrazia, il suo senso del gusto e di raffinata eleganza, l’aura di distanza
irraggiungibile, sia nei portamenti che nel decoro dei lussuosi abiti, fu Anton Van Dyck,
prima nelle opere genovesi e poi soprattutto in quelle realizzate durante il lungo soggiorno
inglese. Superbi esempi di ritratto celebrativo sono la scenografica parata collettiva dei
conti di Pembrocke e il ritratto equestre di Maurizio di Savoia (figg. 4, 5), veri e propri
monumenti pittorici che travalicano i tempi.
Soltanto Batoni oltre un secolo dopo riuscì a rievocare tale fasto, esaltato dalle inimitabili
ambientazioni nella Roma dei Cesari con cui le gloriose effigi dei “milordi” dialogavano,
quasi come una sfida all’eternità.
Scriveva il poeta Marino “è del poeta il fin la maraviglia” e persino i ritratti degli artisti
sembrano improntati a tale principio nell’epoca dello stupore. Ne è un esempio all’insegna
della spettacolarità il ritratto di Mario de’ Fiori eseguito da Morandi (Ariccia, Palazzo Chigi)
(fig. 6), ove il pittore si volge al riguardante, interrotto nell’esecuzione di un vaso di fiori che
è lo stesso da lui dipinto nel quadro, in un gioco di rimandi capziosi, o l’autoritratto di
Andrea Pozzo in bilico sul cornicione di una delle volte che deve dipingere (Firenze, Uffizi
e Chiesa del Gesù) (fig. 7).
Ampio spazio trova nell’immaginario barocco il ritratto allegorico, espresso al massimo
grado in scultura dai monumenti funerari di Urbano VIII e Alessandro VII del Bernini, con la
rappresentazione delle virtù accanto al ritratto del pontefice, modelli per tutti i monumenti
papali successivi sino allo scorcio del ’700. Il fine è persuadere che qualche cosa di non
vero possa divenire reale, attraverso la capacità di vedere al di là delle apparenze. Anche
in pittura abbiamo svariati esempi nel genere, soprattutto nella Francia di Luigi XIV.
Straordinario in tal senso è il ritratto del marchese Nicolò Pallavicini come allegoria delle
virtù di Carlo Maratta (Stourhead, Wiltshire, The National Trust), eseguito a Roma negli
ultimi anni del ’600 (fig. 8).
La continuità tra i due secoli e il sopravvivere della cultura del Barocco in contemporanea
con l’affermarsi del Neoclassicismo, è rappresentata dal dipinto di Francesco Manno Pio
VI che accoglie il progetto della Sagrestia Vaticana (Ariccia, Palazzo Chigi, Collezione
Lemme) (fig. 9), firmato e datato 1785, prima dell’imminente metamorfosi del pittore
siciliano in un artista neoclassico.
Gabriele Paleotti nel Discorso intorno alle immagini sacre e profane del 1582 dedica
ampio spazio al ritratto secondo il principio del “decoro”, soprattutto in merito al carattere
simbolico del ritratto del monarca, raccomandando che “nei ritratti di persone di grado e
dignità dovriano i patroni procurare che fossero espressi con la gravità e decoro che
conviene alla condizione loro…” (2).
La funzione eminentemente morale della ritrattistica tridentina assume particolare enfasi
nel ’600, nel più vasto contesto della “iconocrazia” dell’arte barocca (Vittorio Casale). Nel
trattato di Domenico Ottonelli e Pietro da Cortona, una sorta di manuale teorico del nuovo
gusto seicentesco, si sottolinea che “…non si doverebbero honorar con le Statue, ne si
doverebbero dipingere, se non que’ Personaggi, che con la sincerità de’ costumi; e con
l’esempio della virtù possano eccitar gli altri all’esercitio delle lodevoli, e generose opere. E
per tal rispetto gli antichi Savi della Gentilità procuravano di tenere, per ornar le case loro,
l’immagini d’huomini illustri, e di Personaggi molto qualificati”. Vengono citati poi gli esempi
di Plinio, Valerio Massimo e Seneca. Il trattato prosegue: “E chi procurerà così fatte figure,
senza dubbio abbellirà con ottimo ornamento la sua habitatione, onorerà Personaggi
meritevoli del Ritratto, gioverà non poco à molti Spettatori, e non si pentirà d’imitare in una
cosa buona l’instituto de’ Romani…”.
La produzione ritrattistica del ’600 rientra dunque in quello che Casale definisce “il motivo
conduttore” del trattato, cioè “l’efficienza delle immagini”, la volontà precisa dell’arte
barocca “di incoraggiare” l’uso “di figure edificanti” (3).
Se il fine è la persuasione e il mezzo è l’immagine comunicativa, la ritrattistica seisettecentesca deve essere vista nel più generale contesto iconografico, iconologico e
simbolico dell’arte barocca, che vuole stupire, meravigliare, ma soprattutto educare e
persuadere.
A riguardo monsignor Giovan Battista Agucchi nel suo noto Trattato sulla Pittura del 1610
(vedi la fondamentale edizione critica a cura di Denis Mahon), sosteneva che la forma più
evoluta di ritrattistica era quella che andando oltre la somiglianza al soggetto, raffigurava i
personaggi come avrebbero dovuto essere, in funzione della loro posizione nel mondo.
Le concezioni idealistiche prospettate da Lomazzo, Federico Zuccari, la pubblicazione
postuma nel 1646 di una parte dello scritto dell’Agucchi nella raccolta di incisioni desunte
da disegni di Annibale Carracci, il trattato di Vincenzo Danti del 1657, come pure la
proclamazione ufficiale da parte di Giovan Pietro Bellori dei suoi principi sull’arte nel noto
discorso all’Accademia di San Luca del 1664, costituirono una affermazione ufficiale delle
teorie classiciste e di stampo neoplatonico che informarono l’arte seicentesca, con riflessi
anche nel genere qui trattato.
Il rifiuto del naturalismo, propugnato invece nella ritrattistica da Vincenzo Giustiniani nel
suo Discorso sopra la Pittura (1617-18) e meno evidente nella teoria dell’Agucchi legata
alla pratica carraccesca di osservazione del vero, è reso esplicito da Bellori; tuttavia
l’auspicio ad un superamento della natura nell’aspirazione ad un tipo di “bellezza ideale”,
metafisica, incontra obiettive difficoltà nella ritrattistica, finalizzata comunque alla
somiglianza fisionomica.
Tuttavia una calibrata correzione dei difetti fisici, che non allontani dal riconoscimento del
soggetto, e soprattutto il tentativo di rifletterne la “bellezza morale”, il rigore, la
compostezza e l’austerità, informano buona parte della ritrattistica romana della seconda
metà del ’600 e del ’700 (con riflessi nella ritrattistica francese a cavallo tra i due secoli),
secondo le applicazioni pratiche che di tali teorie diede il Maratta in pittura; si tratta in
sostanza di conciliare, secondo le idee del Lomazzo, una corretta rappresentazione
improntata alla riconoscibilità, con un’aulica idealizzazione che nobiliti il personaggio,
evidenziando così la noblesse et grandeur di cui parla il marchese di Chantelou nel suo
diario del viaggio del Bernini in Francia (4).
Bellori nel suo celebre discorso L’Idea del pittore, dello scultore e dell’architetto letto nel
maggio 1664 all’Accademia di San Luca “essendo principe il Signor Carlo Maratti”,
nell’esaltare la concezione idealizzante di Tiziano colta dal poeta Marino, condanna la
posizione del Castelvetro “volendo questi che la virtù della pittura non consista altrimente
in far l’immagine bella e perfetta, ma simile al naturale, o bello, o deforme; quasi l’eccesso
della bellezza tolga la similitudine. La qual ragione del Castelvetro si restringe alli pittori
icastici e facitori de’ ritratti, li quali non serbano idea alcuna e sono soggetti alla bruttezza
del volto e del corpo, non potendo essi aggiungere bellezza, né correggere le deformità
naturali, senza torre la similitudine, altrimente il ritratto sarebbe più bello e meno simile. Di
questa imitazione icastica non intende il filosofo – Aristotele –, ma insegna al tragico li
costumi de’ migliori, con l’esempio de’ buoni pittori e facitori d’imagini perfette…Il far però
gli uomini più belli di quello che sono comunemente ed eleggere il perfetto conviene
all’idea” (5).
Il ritratto di un papa, di un cardinale e di un principe, deve quindi essere compreso in
questo contesto. Il suo fine non è quello di riflettere la psicologia, l’animo e l’interiorità del
personaggio – come arbitrariamente e forzatamente è stato sostenuto e applicato
all’esame della ritrattistica tra ’500 e ’700 –, ma il suo stato sociale e la funzione nella
società. Anzi, maggiore attenzione viene prestata al “dover essere” o “voler essere”, che
all’“essere” effettivo. Si tratta in sostanza di una ritrattistica “politica”, che vuole convincere
e trasmettere valori più generali, non investigare i moti interni di ogni individuo.
Il ritratto di un pontefice esprimerà quindi spiritualità e fermezza nel ruolo supremo di
custode del dogma, quello di un cardinale la posizione politica nella struttura organizzativa
della Chiesa, il ritratto del principe, autorità, casta e il compito militare di difensore del
cattolicesimo. Gli artisti con maggiore propensione naturalistica, come Velázquez o
Baciccio, riescono a raggiungere un perfetto equilibrio tra caratterizzazione e
idealizzazione (figg. 9-15).
Sarà difficile perciò poter desumere da un ritratto ufficiale dell’età barocca il vero carattere
di un individuo; anzi, spesso è più agevole leggervi la personalità del ritrattista che non
quella della ritrattato, cioè la diversa condizione mentale in cui questi si pone di fronte al
suo modello.
Così la ritrattistica è un riflesso della cultura e dei valori dell’epoca in cui vive l’artista,
seguendo tra ’600 e ’700 un principio idealizzante, di selezione della realtà, indirizzata
verso un fine pratico e comunicativo di idee, in cui la forma, l’apparenza, assume un valore
preminente.
Nell’età barocca le tipologie ritrattistiche auliche sono funzionali al significato politico e
propagandistico assunto nella gestione del potere dalle personalità eminenti, celebrando
la loro virtus e il successo raggiunto. Lo schema del ritratto è quindi perfettamente
aderente al ruolo sociale del personaggio, in un meccanismo di riconoscimento di
immediata intellegibilità. Ritratti di tipi sociali come le maschere della commedia dell’arte,
cioè tipologie e non singole identità.
Il nobile si distingue per le “caratteristiche superiori – fra cui primeggiano gli avi, il denaro e
un secolare prestigio –”, scrive Francesco Calcaterra. Quello che differenzia un
aristocratico da un ricco borghese è infatti, tra l’altro, la disponibilità di una galleria di ritratti
di antenati, accomunati da uno stesso codice iconografico: tra la metà del ’500 e la prima
metà del ’600 il principe della Chiesa è un militare armato, nel suo ruolo di difensore del
Cattolicesimo.
La distinzione del soggetto di elevato lignaggio quale baluardo contro l’eresia e le insidie
espansionistiche degli infedeli, predilige nel ’500 la sua veste di condottiero; la
riconoscibilità passa qui attraverso un codice iconografico che va reiterato per stabilire una
corrispondenza omologica tra avi e discendenza. A partire dalla seconda metà del ’600
prende invece sempre più piede l’aspetto laicale e nel ’700 quello intellettuale, soprattutto
con la circolazione delle nuove idee illuministe.
Il prototipo del ritratto dell’aristocratico è costituito nel Rinascimento dall’effigie del sovrano
europeo; sono un modello di riferimento i ritratti dinastici di Carlo V e Filippo II di Tiziano,
raffiguranti il monarca in veste militare, in posa eretta, gambe aperte e leggermente
ruotate, vestito di armatura con la mano sull’elmo e una poggiata sulla spada, come un
grande condottiero. Tiziano è autore di mirabili ritratti di principi italiani come Pier Luigi
Farnese (Napoli, Capodimonte) o Francesco Maria della Rovere (Firenze, Uffizi), sempre
in armatura quali eroici generali. Nasce così il “ritratto da parata”.
La ritrattistica aulica e celebrativa ha una codificazione nella produzione del pittore
fiammingo Anthonis Mor, noto come Antonio Moro, che fu il massimo specialista presso le
corti europee della seconda metà del ’500, con continui spostamenti tra le Fiandre,
l’Inghilterra, la Spagna, la Germania, il Portogallo e l’Italia, eseguendo ritratti di regnanti e
degli uomini più potenti d’Europa. Personalità come Filippo II, il duca d’Alba ed Alessandro
Farnese posarono per lui, andando a raggiungerlo persino a Bruxelles. Se le sue
composizioni seguono l’esempio di Tiziano, la pittura è estrememente levigata, attenta ai
dettagli fino al parossismo; il codice linguistico si rinnova, sviluppando una ritrattistica
iconica e ieratica consona all’austero cerimoniale della corte asburgica.
Tale consuetudine conosce un superamento nel corso del ’600, quando il principe viene
rappresentato con le insegne e il costume del suo ruolo specifico (prefetto di Roma,
conservatore, etc.) e soprattutto nella ritrattistica della seconda metà del secolo in abiti alla
moda, con Ferdinand Voet. Preziosi jabots ricamati, sofisticate tessiture impreziosite da
galani e nastrini, vaporose parrucche, si sostituiscono all’elmo e all’armatura. L’eleganza e
la forma prendono il sopravvento su consuetudini rappresentative ancora di carattere
feudale.
Jean Delumeau pone l’accento sulla smilitarizzazione e clericalizzazione dell’aristocrazia,
avvenuta progressivamente dopo la fine delle guerre d’Italia nel 1559. Se gli aristocratici di
rango elevato non sono più generali, i nobili di estrazione provinciale non sono più capitani
e sono costretti a diventare cortigiani, entrando nei “ruoli” della “famiglia” di un principe o di
un cardinale, di cui costituiscono il “seguito”, fornendo una coreografica e scenografica
cornice al fasto barocco delle corti.
Tuttavia nella ritrattistica questo cambiamento è più lento e non immediato. Il processo di
identificazione – come riconoscibilità tipologica – con gli avi, induce artisti e committenti a
reiterare la vecchia iconografia militare ancora nel ’600 per più di qualche decennio: “il
mestiere delle armi è il più nobile” dice Calcaterra e farsi ritrarre da condottiero è
considerato sinonimo di rango superiore. “Un nobile non dimentica che l’origine è
cavalleresca, guerriera, e che ciò legittima, giustifica il potere che si è arrogato”. Lo
dimostra il Ritratto di Michele Peretti di Pietro Fachetti (Roma, Galleria Nazionale d’Arte
Antica), databile attorno al 1608.
La ritrattistica del potere è quindi tipologica e non psicologica, come ho avuto modo di
rimarcare in altre sedi, rientrando nella politica della comunicazione.
Spesso per le famiglie papali l’armatura testimonia un incarico militare in seno allo Stato
della Chiesa; ma talora i personaggi sono dei millantatori, condottieri di un esercito
inesistente formato da pochi “bravi” o dalle milizie feudali, ma che amano farsi raffigurare
in veste di imperatori romani o di grandi strateghi, come Paolo Giordano Orsini duca di
Bracciano (anche se in questo caso ci sono ulteriori implicazioni di carattere culturale) (fig.
16).
Bisogna specificare che nell’età barocca non esiste differenza tra il ritratto del principe e
quello del cortigiano, tra la nobiltà papalina e quella minore, che viene a costituire la corte
dei nipoti di papi o cardinali.
Un imprescindibile termine di confronto è rappresentato nella seconda metà del ’600 dalla
corte di Luigi XIV, un sovrano che riuscì ad imporre usi, costumi, comportamenti e la moda
francese in tutta Europa, eclissando definitivamente l’influsso che la Spagna aveva invece
esercitato non solo in Italia nella prima parte del secolo. Un’opera emblematica è lo
straordinario arazzo, realizzato dalla manifattura Gobelin su cartoni di Le Brun, raffigurante
L’incontro tra Luigi XIV e Filippo IV all’Isola dei Fagiani per il matrimonio del re con Maria
Teresa d’Austria, avvenuto nel 1660 (Parigi, Mobilier National et Manifactures des
Gobelins) (fig. 17).
L’arazzo, realizzato tra il 1665 e il 1668, ci sembra particolarmente interessante in questa
sede per vari aspetti. È palese il contrasto, evidenziato anche dalle relazioni
contemporanee, tra l’abbigliamento dei francesi e quello degli spagnoli: i primi vestiti
secondo l’ultimissima moda, fatta di esteriorità, effeminata eleganza e ostentazione,
ricoperti di preziose stoffe, galani e nastrini colorati, tutti in parrucca; i secondi negli
anacronistici abiti cinquecenteschi, ancora con gorgiere, mantelle e semplici corsetti.
Alcuni francesi si volgono al riguardante, quasi nella vanità di essere osservati, mentre tutti
gli spagnoli sono concentrati sulla figura del loro sovrano. Mentre l’abbigliamento di Filippo
IV è ben distinto da quello del suo seguito, evidenziandone il superiore ruolo di monarca,
Luigi XIV è praticamente vestito come i suoi cortigiani. I francesi, vanitosi come pavoni che
fanno la ruota, sono peraltro rappresentati – escluso il secondo sulla sinistra – privi della
spada, ben evidente invece negli spagnoli, re compreso. È un cambiamento epocale
nell’iconografia dell’aristocrazia, che dilagò attraverso il veicolo della moda ben presto in
tutta Europa. Il culto dell’apparenza, tipico della cultura teatrale e melodrammatica del
barocco, trova in questo arazzo una delle espressioni più emblematiche.
L’artista che seppe meglio interpretare questo momento sociale e di trasformazione del
gusto fu, non solo a Roma e in Italia, il ritrattista Ferdinand Voet (1639-1689), detto
“Monsù Ferdinando” o “Ferdinando de’ ritratti”. Fu per eccellenza vero ritrattista di corte, in
ragione del suo peregrinare per le corti d’Italia e d’Europa, fino al trasferimento negli ultimi
anni della sua vita a Parigi, ove divenne “Pittore di Sua Maestà Cristianissima”. Voet fissa
in Italia il ritratto del cortigiano: il principe gentiluomo del papa, il nobile in decadenza
gentiluomo del principe, senza distinzione gerarchica nell’esteriorità dell’immagine, come
fece Luigi XIV con la sua corte. Naturalmente c’era dietro, nell’epoca dell’assolutismo
monarchico, un piano politico ben preciso: quello di relegare la nobiltà ad un ruolo politico
marginale, di semplice scenografia attorno alla figura del re o del principe, simile ai suoi
cortigiani solo nell’apparenza degli indumenti. Tutto è disposto secondo severe norme di
cerimoniale (fig. 18).
Cristina di Svezia, che mise su una vera e propria corte nella Roma papale, nel ritratto di
Voet agli Uffizi è vestita alla moda come una “bella”, sebbene il pomo e il manto
d’ermellino poggiato sul trono ne denuncino il rango. Tuttavia nel ritratto ufficiale con il
leone, documentato negli inventari di Palazzo Riario e noto attraverso la versione del
Castello Reale di Strömsholm (impropriamente attribuita a Ehrenstrhal) e quella già in
collezione Garagnani, è abbigliata all’antica, come regina di Saba (il leone di Giuda
diventa il simbolo del regno del figlio Menelik).
Il Maratta (1625-1713) ritrae i “milordi” inglesi e scozzesi in “abito pittoresco all’antica”,
come senatori, consoli o generali romani; lo stesso dicasi per la moglie Francesca Gommi
(Londra, Walpole Gallery e collezione Koelliker), più in abito classico e idealizzato che
moderno: è la ricerca dell’universale che va oltre il particolare della moda; tuttavia Maffeo
Barberini è raffigurato secondo le nuove tendenze, come pure il gentiluomo del Museo
Statale di Berlino o il cosiddetto Maestro di Cappella della Galleria Nazionale d’Arte Antica
di Roma. Emerge quindi un ruolo non secondario del maestro marchigiano anche nella
interpretazione iconografica di questo processo sociale (figg. 20, 21).
Non sono emersi invece ritratti di principi del Baciccio (1639-1709), di cui peraltro sono
noti numerosi ritratti di papi e cardinali. Tuttavia le dame raffigurate dal genovese sono
fantasiosamente vestite come matrone fuori dal tempo, in un abbigliamento a metà strada
tra la moda contemporanea e la citazione classica erudita, con vesti tempestate da gioielli,
perle incastonate e preziosi damaschi; come Giulia Massimo in veste di Cleopatra (fig.
22), la dama del Blanton Museum o la dama della collezione Durini (Milano, Castello
Sforzesco). Tali ritratti femminili del Baciccio sono un corrispettivo del fasto esuberante
delle carrozze del barocco romano.
Dalla funzione ufficiale esaltante il decoro del ruolo, si passa addirittura al ritratto in
vestaglia con carattere esplicitamente intimo, secondo una consuetudine francesizzante
diffusa da Voet, ma che avrà notevoli sviluppi in tutta Europa. Ne sono mirabili esempi il
Ritratto di Flavio Chigi in vestaglia e il Ritratto del marchese Francesco de’ Cavalieri della
collezione Sgarbi, datato 1671, o quello del conte di Lisbourne. È una ulteriore
innovazione, che capovolge i termini della questione: dall’esteriore all’interiore, dal
pubblico al privato (fig. 23).
Se nella prima metà del ’700 seguendo l’influsso francese riprende vigore il ritratto militare
del principe (c’è la guerra di successione spagnola che in qualche modo coinvolge l’Italia)
(fig. 24), nella seconda metà e verso la fine del secolo acquista una preminenza assoluta il
ritratto dell’aristocratico in abito civile, spesso vestito da gentiluomo di campagna;
sull’esempio del Voet si diffonde anche la moda del ritratto in abito da camera, come fece
Pietro Nelli con i Rospigliosi, sebbene in un maniera più aulica. Il nobile si fa ritrarre in
pose ambientate, che mettono in evidenza i suoi interessi eruditi, antiquari, di bibliofilo,
musicista o archeologo, come un artista o un borghese. Ne sono un esempio i vari ritratti
di Agostino Masucci, Pier Leone Ghezzi, Jean François de Troy, Pierre Subleyras, Anton
von Maron, Pietro Labruzzi, Teodoro Matteini, Bernardino Nocchi e molti altri (figg. 25-29).
Una delle ultime sontuose macchine barocche della ritrattistica papale è il bizantino ritratto
di Clemente XIII Rezzonico di Mengs, sfarzoso nella ricchezza di stoffe, velluti e dorature
(vedi opera in mostra). Tutto comunque finalizzato, nella poetica della mimesi o imitazione,
ad maiorem Dei gloriam, allo scopo cioè che l’opera umana accresca la gloria e il prestigio
di Dio in terra.
L’interesse antiquario e intellettuale riflesso dalla nuova cultura illuminista, prevale nella
seconda metà del ’700 e nel periodo neoclassico. Le rappresentazioni eseguite da
Pompeo Batoni di nobili inglesi a Roma per il loro Grand Tour fanno scuola, imitate anche
da altri specialisti come Anton von Maron. I viaggiatori inglesi sono in posa nella
campagna romana, vicino ad oggetti di scavo sparsi al suolo, al cospetto di monumenti
famosi dell’antichità (figg. 30-33).
Batoni codificò infatti la tipologia del ritratto del grand-touriste, raffigurato spesso a figura
intera, presso le vestigia dell’antichità classica, con importanti sculture e reperti in primo
piano, architetture romane antiche e moderne sullo sfondo. Una sorta di costoso souvenir
che i viaggiatori potevano riportare in patria dopo il loro viaggio di formazione culturale.
Anzi Batoni fu talmente preso da tali continue richieste, da dedicare poco tempo a ritrarre
invece la nobiltà romana, che si servì di altri ritrattisti a più basso costo e meno impegnati.
Come ricordava Clark non fu Batoni ad inventare il ritratto dei “milordi” in vacanza romana,
ma nessuno come lui riuscì a raggiungere un così alto livello di raffinatezza ed eleganza,
monumentalità e qualità coloristica, che ha un precedente solo nella ritrattistica inglese di
Van Dyck, forse conosciuta da Batoni attraverso stampe o modelli mostratigli dai suoi
committenti britannici.
È una ritrattistica con forte impronta idealizzante, nella piena tradizione romana, che
migliora le fisionomie dei modelli e ne monumentalizza l’immagine con un allungamento
delle figure e degli arti. Tuttavia l’artista seppe coniugare la costante aspirazione classica
con un senso del naturale proprio della cultura dell’età dell’illuminismo, introducendo talora
una vena di sottile malinconia e di introspezione in alcune sue prove.
Sigismondo Chigi si fa raffigurare da Ludwig Güttenbrun mentre tiene una statuina
classica o un libro, da Gaspare Landi e Teodoro Matteini con Ennio Quirino Visconti a
Castel Fusano di fronte ai reperti archeologici da lui recuperati. Non mancano tuttavia
ancora alcuni ritratti che immortalano i principi nella vanagloria delle onorificenze ricevute
o nei ruoli ufficiali in seno alla Chiesa, come il Ritratto di Agostino II Chigi Cavaliere del
Toson d’Oro di Peter Kobler (Ariccia, Palazzo Chigi) o il monumentale Ritratto equestre
del duca Luigi Braschi già in collezione Theodoli di Bernardino Nocchi, sfarzoso nel
vistoso abbigliamento e nella pomposa inquadratura di fronte alla Basilica Vaticana (figg.
34, 35).
Ma il vento rivoluzionario cominciava a spirare anche tra le piazze di corte e i saloni
principeschi di Roma. Di lì a poco non ci sarebbe più stata differenza tra il ritratto borghese
e quello di una classe avviata a un inesorabile declino, che segnerà anche la fine del ruolo
guida di Roma nelle arti. Le concezioni illuministe e i rivolgimenti imposti dalle idee
progressiste e di emancipazione sociale di stampo francese, portarono infatti dall’ultimo
quarto del ’700 ad una progressiva omologazione del ritratto nobiliare con quello
borghese, senza distinzione formale e tipologica (6).