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Sé-stanti
Storie di viaggi, strade, sentieri, percorsi e
traiettorie
«Vertigini»
collana di narrativa
Sé-stanti. Storie di viaggi, strade, sentieri, percorsi
e traiettorie
© 2013 Mariacristina Brettone, Roberto Gianolio,
Emma Grillo, Damiana Guerra, Sara Maggi,
Alberto Marcolli, Roberto Ragazzo, Francesco
Romoli, Mauro Sighicelli
© 2013 Matisklo Edizioni
ISBN: 978-88-98572-12-0
Prima edizione, dicembre 2013
Matisklo Edizioni S.N.C. di Oddera Cesare & Vico
Francesco
Via Eremita 14
17045 Mallare (SV)
[email protected]
www.matiskloedizioni.com
Indice
Nota introduttiva
Sé-stanti
La curva del puzzle
La passeggiata
Il cielo sopra Berlino
Un altro piccolo signore
Due righe
E la chiamavano musica...
Il casellante
La macchina si ferma
In viaggio
Nota introduttiva
Il progetto Matisklo Edizioni è un progetto recente:
abbiamo iniziato a parlarne "seriamente" nel febbraio 2013, affrontando i vari aspetti legali,
amministrativi e fiscali relativi alla creazione di una
casa editrice con un misto di entusiasmo, curiosità e
timore reverenziale. Non siamo mai stati tipi da
burocrazia, da modulistica, da leggi e codicilli vari.
Pochi mesi più tardi, nel luglio 2013, sono usciti i
primi quattro libri. La soddisfazione è stata tanta,
per noi e per chi ha deciso di scommettere assieme a
noi sul digitale (e soprattutto sulla poesia in
digitale), nonostante buona parte di coloro ai quali
parlavamo del progetto "storcessero il naso": bello sì
il digitale, ma farete anche i libri cartacei? E poi 'sti
eBook dove li leggo? Dove li compro? Ma siete
davvero una casa editrice vera?
In questi ultimi cinque mesi abbiamo ampliato il
nostro catalogo, incontrato tanta gente sul nostro
cammino (autori, editori, curatori di blog e siti
internet, lettori e semplici appassionati), nel frattempo gli eBook sono passati da essere una realtà
marginale e semi-sconosciuta ad un ruolo primario
nel panorama editoriale italiano; anche molti tra
coloro che nutrivano dubbi sulla tecnologia del libro
digitale si sono ricreduti ed hanno capito che di un
libro quel che conta è il contenuto, non il contenitore
che lo ospita.
Ad un certo punto ci siamo detti: perché non
organizzare un concorso per racconti? La scelta del
tema è stata quasi obbligata: avevamo intrapreso
questa avventura, questo viaggio, così di recente che
non poteva cadere su altro che "il viaggio", inteso in
ogni sua forma e declinazione. Nasce così l'idea di
"Sé-stanti. Storie di viaggi, strade, sentieri, percorsi
e traiettorie". Abbiamo fin da subito iniziato a
ricevere racconti, persone differenti con stili e
linguaggi differenti, questo libro è dedicato a tutti
loro.
Quelli che seguono sono i racconti vincitori, i più
originali, quelli che meglio hanno saputo abbracciare
lo spirito che sta alla base di Matisklo Edizioni: usare
le parole per comunicare, per scambiarci esperienza
e memoria, per sentirci umani, per sentirci vivi.
La strada da percorrere è ancora lunga, ma il
cammino sarà più lieve se decidiamo a turno di
raccontarci una storia.
Cesare Oddera e Francesco Vico
Sé-stanti
Storie di viaggi, strade, sentieri, percorsi e
traiettorie
Mariacristina Brettone
Roberto Gianolio
Emma Grillo
Damiana Guerra
Sara Maggi
Alberto Marcolli
Roberto Ragazzo
Francesco Romoli
Mauro Sighicelli
La curva del puzzle
Mariacristina Brettone
C’era vento quel giorno, come spesso accade nei
cambi di stagione. Quella gonna non era certo adatta
alle sferzate d’aria di una giornata così. In certi
momenti la governava a fatica, tenendola giù con
entrambe le mani nel timore che si sollevasse troppo.
Anche quegli stivali dai tacchi così alti e sottili certo
non si confacevano al ciottolato grossolano e
scomposto di quella spiaggia. Ma lei voleva andare lì,
sentiva di doverci andare. Come se quel luogo la
stesse richiamando, come se in quella spiaggia
dovesse trovarvi qualcosa. Ma forse era solo se stessa
che stava cercando, il suo significato dentro
un’esperienza che non capiva.
Era fatta così lei, voleva sempre comprenderle le
cose. Come pure non riusciva a lasciar correre via la
vita con indifferenza: da sempre pensava ogni cosa,
anche senza intenzione, sentendo mai semplice il
vivere. Era una sua attitudine innata questa, già da
bambina faceva così. Infatti, quel momento lì in
spiaggia, le ricordava di quando da piccola nella
campagna di sua nonna, dagli alberi si raccoglieva in
un piccolo cesto un po’ di nespole e ciliegie, e andava
poi a farne merenda ai piedi di una vecchia pianta
d’olivo. Le piaceva molto stare su quell’erba bassa
tappezzata di pratoline, e da lì, lasciar correre via i
suoi pensieri, che già da allora andavano anche verso
il suo dentro. Era fatta così, difficoltosamente
semplice, legata già allora alla poesia e all’onestà
delle cose – che non significa essere romantici, ma
semplicemente istintivi, disorientatamente veri.
Ora se ne stava accovacciata davanti a quel mare,
agitato anche lui dal cambiamento che lo scorrere
delle stagioni impone. Ritmo e fragore di onde
continue, che sembravano mettersi in coda, l’una
dietro l’altra, pronte, in attesa d’incontrare la riva. Il
vento, in direzione contraria al loro moto, ne
sollevava la bianca schiuma, pennellando così di
schizzi quell’orizzonte da sempre fisso e
imperturbabile nella sua linearità.
Si sfilò gli stivali non perché le fossero scomodi, anzi,
ci si sentiva bene nell’essere femminile, lo esigeva
per se stessa, la faceva sentire più a suo agio nel
significato che avvertiva di sé: una rispettosa
responsabilità di essere donna.
Le piaceva di più stare scalza però, e lo faceva
sempre non appena ce n’era la possibilità. Gradiva
quella sensazione sottile che si crea dal contatto col
suolo, forse un senso di radicamento, una
consapevolezza del presente, soprattutto per lei, che
con la sua mente era sempre altrove. Altrove, non
tanto per sogno ma per scomodità nel suo presente
che troppo spesso non le somigliava o non trovava
sereno.
Quella particolare agitazione che stava animando il
tempo, in quei giorni si rifletteva pure dentro di lei.
Sentiva vicina a sé la natura; la viveva con spontanea
complementarità, con una complicità istintiva.
Fidandosi di essa, in quelle ore si lasciò così guidare
tacitamente dalla voce del vento, che la riportò lì, su
quella spiaggia, proprio in quel luogo dove già
qualcosa aveva vissuto.
Amava lei il vento, farsi attraversare da quell’energia
invisibile, a volte impetuosa in altre sottile. Toglie la
polvere il vento, rinnova l’aria, ti avverte che sta
cambiando qualcosa, ti mostra che esiste anche ciò
che non vedi, t’insegna che non puoi trattenere le
cose, che come il vento, ti attraversano e vanno.
Anche lui aveva passione di questo muoversi d’aria.
Lui, ragazzo, vecchio e bimbo in alternanza continua,
fatto di talento e riservatezza, e d’ingenua nobiltà la
sua presenza, in una figura così distinguibile tra le
cose comuni. Piacente, quasi troppo - se troppo si
può dire delle belle cose, o troppo diventa quando
non sai distogliertene -, di un’eleganza musicale nel
muoversi, di un ritmo pacato e vitale nell’espressione
spontanea di sé.
Scoprirono di condividere il piacere del vento, come
pure altre e più cose nelle casualità di quei loro brevi
incontri.
Su quella spiaggia ci si erano trovati mesi prima a
vivere momenti insieme. Vi andarono un giorno, su
idea di lei, per studiare un lavoro che li vedeva
partecipi; vi ritornarono poi alcune notti per quel
curioso desiderio di conoscersi. Ore sdraiate sui
sassi, mentre tutto il resto stava fermo altrove, e
parole tra loro scambiate, che si respiravano con
semplicità. Erano momenti in cui tutto pareva
muoversi con la facilità di un andare in discesa; tutto
era sorprendentemente lieve. Un incontrarsi sempre
più nitido, verosimilmente palese, giocato
nell’armonia di apparenti diversità: lei che adorava il
sole, lui invece la notte; lei grovigliosamente
emotiva, lui pacatamente altrettanto; lei sospesa nel
tempo terreno, lui religiosamente proteso al cielo.
Non erano tratti di separazione, non si
manifestavano come tali, tutt’altro. Erano segni di
completamento, di quel potersi rendere interi a
vicenda.
Da quella spiaggia lei aveva visto il cielo di notte,
sdraiata a faccia in su, lui poco più in là, e dietro il
rumore del mare che pareva essersi appartato con
discrezione, quasi a non voler togliere nulla
all’ascolto delle parole che si scambiavano. Sembrava
che tutto fosse come doveva essere. Il mondo era lì,
intorno, nulla che mancava e niente di troppo.
Da quella spiaggia aveva visto il cielo di notte, una
notte, era stata lei stessa quel cielo, quando, tra i
sassi e le stelle, smuovendo il silenzio, la voce di lui
esordì con: “Posso chiederti una cosa?”. “Domandare
è lecito, e rispondere è cortesia” disse lei
appoggiandosi al proverbio per sostenersi in un certo
imbarazzo. “Mi abbracceresti?”.
Lei lo aveva di fronte a sé, così franco tra la terra ed
il cielo, con quei suoi occhi intensi e nitidi sospesi
nell’attesa, nei quali lasciarsi cadere a precipizio e
scivolar giù senza bisogno di coraggio. Con malcelato
entusiasmo lei acconsentì, domandando: “Con le
scarpe o senza?”
Quel momento così semplice e vivido, quasi a restare
sospeso a mezz’aria per la sua intensità, prese subito
il sapore dell’infinito, l’ebbrezza dell’oltre che rompe
ogni tempo, e si fissa tacitamente tra le cose
impalpabili ed eterne, quelle che non perderai
più: ...il tuo petto sul mio, e viceversa. Vibrazione di
cuore su vibrazione di cuore. In punta di piedi per
colmare la distanza alla tua statura. Gli occhi che
cercano dietro le palpebre chiuse... e nel petto
un’emozione che ti trova scoperta. In certi momenti
respirare non serve... ti senti vivo a bastanza.
A volte, alla luce del giorno ti domandi poi, se quanto
vissuto durante la notte sia stato vero davvero. Sarà
per quella gioiosa perplessità che ti ferma davanti, e
dentro, ai momenti più intensi. Eppure in quel
momento di ieri, erano solo loro e parole, e sassi e
mare; e non c’erano alibi di cuore o complici istinti a
influenzare quella notte. Ciononostante, era stato
vero, davvero. Quella vibrazione intensa li aveva
attraversati
andarsene.
in
quell’abbraccio
senza
poi
più
Si riempie di questi attimi la vita, e allo stesso modo
si colma l’animo e il pensiero di ogni momento che
segue.
Solo qualche giorno e le loro volontà fecero sì che
trovarono modo di rivedersi ancora per qualche
istante, altrove, dove nuovi attimi avvicinavano
ancora a quel piacevole senso del sentirsi vivere...
una casetta ordinata, un letto disfatto, una panchina
sul mare e capelli e pelle da accarezzare. Sorrisi del
cuore che si dilatano e si allargano ed allargano
fino all’anima mia — erano gli attimi che l’avrebbero
trattenuta nello stupore di quei giorni — ...ed
esplode tanta e tanta la meraviglia, come lo
schermo di un film che si frantuma e cede, e resti lì
a vivere quella storia da dentro, anche alla luce del
giorno. E resta vera davvero.
Si sta così bene nei sogni, quei sogni che con fili
sottili ci legano ai desideri. Ci si sta tanto bene da
non concedere possibilità alla delusione, perché
l’illusione non esiste, quando sei felice. Ti convinci,
credi, che tutto sia vero così. E che bello che è starci
dentro, almeno per un po’.
Almeno per un po’... infatti, perché, come il vento fa,
nulla sta fermo.
Senza averne inteso il motivo, lui si allontanò con la
scusa di cento lavori, di un’altra città, ed un
quotidiano riempito di ogni cosa. Silenzi. Distanza.
Qualcosa stava cambiando ma lui non le aveva
concesso di partecipare al gioco. Nemmeno di capire.
Soprattutto nei silenzi lei non riusciva a trovarsi.
Silenzi pietrificanti che non sapeva tradurre, così
come quelle parole non mantenute. Cos’erano,
timore, fastidio, muta indifferenza, fragilità? O c’era
qualcosa che lei non conosceva? Perché di lui le
rimaneva solo la sua assenza?
Chi sei, dietro quegli occhi neri? Un castello antico,
spade al muro, pronte, un tenero fanciullo che sa di
principe,un principe che profuma di eroe.
E tra quei capelli scuri che c’è? Non posso dirlo io,
l’anima non si tocca così.
Potrei carezzarli quei capelli, ad averli qui,e
quell’anima mi sarebbe sorella se aprisse un
ingresso. Quali cose ti muovono sotto la pelle?
Certo lui vive di sé e cavalca lontano, ma chissà
cosa sfama il suo cercare.
Non le riusciva di trovare il modo di parlargli, di
raggiungerlo in un dialogo. Solo un continuo eco di
rimandi e brevi parole da poco, scambiate a lunghi
intervalli, qualche sms che non sapeva mai come
intonare, ma nulla, nulla che potesse aiutarla a farla
salire su quel treno con il quale lui si stava
allontanando per chi sa quale estraneo orizzonte.
Pensiero, respiro, tempo... tutto restava come
sospeso, aggrappato al dondolio del silenzio. Non
sapeva comprendere quello che stava accadendo e
nemmeno perché qualcosa stava accadendo. Il
dubbio felice del “vero davvero” stava ora cambiando
d’umore. Le sue paure si offrivano così con
disinvoltura, e pervicaci e maldicenti, creavano solo
ombre che, anche al di là di ogni alibi legato ai
ricordi, diventavano vere. Ombre sempre più vivide,
e spesse come le paure, come la polvere, che
silenziosamente cresce col trascorrere del tempo.
...Resto per un istante e per sempre, immobile, come
un albero che cresce, eternamente, in attesa di un
inizio.
Lei, incredula e ostinata, cercò comunque di
appendersi a mille infinite scuse per non scivolarci
dentro, per non lasciarsi tingere dai colori
dell’amarezza.
Arrivarono i giorni, e giorni tediosamente si
susseguirono con la solita forza d’inerzia. Anche le
stagioni stavano cedendosi il passo. E ore su altre ore
trascorse ...chiudendo bauli di cose vissute, facendo
valigia di sé, qualche volta, ogni giorno.
Basta poco per essere felici, ancor meno per non
esserlo. Brevi istanti sono serviti a farle trovare il
cielo, altri ancora per perdersi nella terra delle
ombre, dove tutto si arresta o a fatica si muove.
In questo tempo di mezzo, lei s’infilò indosso gli abiti
della disappartenenza, non trovando in sé altro da
fare.
Ma le cose forse non passano, restano semplicemente ferme in un punto del tempo, mentre tu ti
muovi o ti metti via da parte nell’assenza, evitando di
lasciarti accorgere.
La vita però, come al solito, inaspettatamente da sola
compone le cose. Così da sulla panchina nella sala
d’attesa dei suoi pensieri, una frase dalle pagine di
un libro che stava leggendo, sbatté con violenza sulla
sua realtà: “...quelli che non seguono i moti della
propria anima, è inevitabile che siano infelici”. Diceva Marco Aurelio.
Ci stava pensando a quelle parole. Lo stava facendo lì
ora, accovacciata su quei sassi scomodi, mentre il
vento continuava a giocare a far schizzi di onde nel
cielo e muovere i lembi della sua gonna come le
braccia di un direttore d’orchestra.
Scostandosi con gesti lenti i capelli dal viso, come a
liberare la mente, si ricordò di nuovo di un tratto
della sua infanzia: ogni anno a tardo inverno lei
vigilava su un piccolissimo prato in mezzo alle rocce
arenarie, attendendo la fioritura dell’unico tulipano
che c’era sulla collina. Un tulipano spontaneo che
non si capiva bene cosa ci stesse a fare in un luogo
così diverso dalla sua natura, su un terreno sabbioso
e asciutto. Però ogni anno rispettava la sua
primavera quel tulipano, e temerario e solo, si offriva
al mondo nel vivido colore rosso dei suoi petali.
“La vita vuole attenzione sulle possibilità”, pensò,
ora. E se lo disse fermamente convinta. “I moti
dell’anima, sanno far fiorire i tulipani anche dove
non potrebbero”.
Siamo molto bravi ad inventarci delle scuse per non
essere felici, almeno fino a quando non decidiamo di
alzare lo sguardo. Ora capiva meglio cos’era quel
disagio, si rese conto di essersi dimenticata di cosa
sia, e di quanto possa, la speranza e la volontà.
Cominciò così ad ascoltare la vita, cercando di capire
cosa le stava chiedendo ora. Rinunciare a fiorire,
sarebbe la resa al confine coi no.
“Si può non amare perché non si è amati?”si
domandò lei, mentre nella sua mente ciondolava la
frase di una canzone: “l’amore che manca è l’amore
che fa male”. Sì, è sempre così. Come è vero che casa
tua è un cuore dove stare. Forse è questo quel senso
d’apolide che invade chi non trova o perde il suo
posto in seno ad un altro. Il sogno dell’anima è la
pace nel cuore. Solo lì l’anima si calma e non sente
più bisogno.
Cosa le era accaduto quindi in quei giorni con lui? E
poi dopo. Quel male di dentro cos’era?
Stava cercando di tradurre quelle emozioni intense
che l’avevano portata via dal terreno di pace. Forse
adesso cominciava piano a capire cosa era successo.
Su quella spiaggia e poi altrove, aveva tutto il senso
del vero quel che accadde tra loro due. Le stava
diventando nitido qualcosa che timidamente aveva
abitato in lei fin dal primo incontro. Ora capiva quel
che si muoveva al di là dei sassi, del mare e delle
poche parole: tra loro, c’era un inconsapevole gioco
di anime.
Non era lui la sua anima gemella. L’anima gemella è
quella che ti somiglia, quella che ti fa pace il
quotidiano perché è uguale a te. In lui invece, lei
sentiva la sua parte mancante, quella che ti lascia a
metà.
Era stato quello tra loro, l’incontro di due viaggiatori
nel tempo, di due che si ritrovano all’appuntamento
voluto da quel destino latente che traccia sentieri da
lontano. Era la curva del puzzle che s’incastra
esattamente al suo posto.
Proprio quella era la sensazione che taciturna e
pavida attendeva d’essere vista alla luce del senso.
Lei ora comprese che l’emozione vissuta con lui, era
quel senso di pienezza degli incompleti che si
uniscono, era la sua anima che trovava l’altra parte
di sé.
Le parole di Nicholas Sparks le davano ragione:
“...Forse abbiamo vissuto mille vite prima di questa e
in ciascuna ci siamo incontrati. E forse, ogni volta
siamo stati costretti a separarci per le stesse
ragioni... So anche che in ciascuna delle mie vite
sono andato alla tua ricerca. E cercavo proprio te,
non qualcuna che ti somigli, perché la tua anima e la
mia devono sempre riunirsi”.
Capiva adesso cos’era quella sofferenza che l’inseguiva da mesi: la consapevolezza di non bastarsi da sola.
Si era lasciata piegare da quei suoi silenzi, dalla sua
impenetrabile resa, cadendo poi in quel male che ti
chiude in un angolo, ti gira con la faccia al muro e ti
lascia lì, dove trovi poco da dirti, se non che l’angolo
è chiuso. E ci resti fermo dentro fino a quando non
decidi di girargli le spalle. La frase di Marco Aurelio
fu il pungolo che la mosse, scoprire di poter amare
anche senza essere amata, la spinse.
Così come la natura ognuno muove alla ricerca di
quella pace del sentirsi interi, di ritrovare quella
costola primordiale che manca a ciascuno che vive, a
tal modo lei pure decise di fare qualcosa.
Ora che sapeva, non poteva starsene ancora lì in
quegli inutili silenzi di faticose attese. A volte serve
togliere la calma al destino, barare un po’ il gioco.
Qualcosa doveva pur accadere. Sentiva di volere fare
qualcosa, doveva. Tentare almeno, perché tutto non
ritornasse ad essere solo quel vento, che porta via nel
ricordo e non ritorna al presente. Il tulipano rosso
poteva rifiorire anche in lei. E lei ritornare a casa,
dentro un cuore dove stare.
“Il cielo ti da le stelle. Tu gli devi i desideri”, pensò
tra sé.
Ora lei voleva sentirsi di nuovo capace di riempirsi di
cielo, di riprendere la sua forma di curva e stare nel
puzzle.
Quando senti che una persona risuona in te, con te,
vale l’impegno di farsi posto nell’officina delle ali, e
tentare di ritrovare il tuo volo.
Erano giorni di autunno quelli che aveva intorno, la
stagione malinconica che avvicina la natura al riposo
invernale, quella natura a lei così affine. L’autunno
che accoglie la semina del grano, cullato poi adagio
dalla terra mentre il freddo scorre fuori.
Lei ora sorrise, in quel tempo che cambia, al
pensiero di voler mettere pure lei un seme lì, tra le
cose che verranno.
Ci sarà pure un modo che li riporterà a dirsi
qualcosa, a scoprire un’altra spiaggia dove potranno
incontrarsi ancora, dove capire non servirà, dove il
tempo cambierà il suo ritmo, dove il puzzle rivelerà
l’immagine composta, dove forse due anime si
ritroveranno in un’una.
“Provo a mandargli un messaggio” si disse. Pensò ad
una frase che poteva ricondurli alle parole dei loro
primi incontri. La compose:“Ogni sorriso accende
tre stelle... Nottete!..*,*..*”. L’inviò.
E attese, adagio.
Questa è la storia. Tutta vera. “Adagio”, quella parola
finale messa lì per mera ispirazione del momento, si
fece presto riconoscere da sola: è il titolo del brano
che lui mi fece conoscere (la versione di Lara Fabian)
e che arrivò poeticamente e drammaticamente a
chiusa di questo racconto. Mi capitò, per quella
solida causalità, di ascoltarla rileggendo le pagine di
questa vicenda, appena averla scritta. Capì che i due
testi – quello da me scritto e quello cantato nel
brano- erano univoci, due storie sullo stesso
cammino – un suo presagio?- Non so come siano
nate e vissute le vicende che hanno ispirato l’autore
del testo di quella canzone, so bene le mie però.
L’epilogo attuale (attuale, poiché le cose, più che
finire, cambiano, e non so se altro accadrà) fu
questo: i silenzi di lui, quelle sue maniere di fare che
non trovavano mia comprensione e senso, erano
null’altro che modi inonesti di portare avanti delle
omesse verità. Capii, dopo aver saputo da altri che si
stava sposando. Per me una sorpresa a secco, senza
prima un rumore di tuono ne alcuna goccia d’acqua.
Fu una colata di azoto liquido. La sola cosa, prima,
un inatteso suo invito da lui, per un pranzo
preparato per me, sottolineato dalla frase carina “sai
cosa significa quando qualcuno cucina per te? Che
vuol prendersi cura di te.” Tutto molto bello, peccato
però che la sua decisione matrimonio l’aveva già
presa da allora. E io li tra le sue posate e i tovaglioli,
ignara di tutto. Un pranzo per me… Ipocrita cosa.
Da li, dal matrimonio scoperto, dai tovaglioli e dalle
sue vettovaglie, con nitida coerenza, tutto trovava
posto nel logico – il puzzle aveva quindi più curve.
Per una manciata di tempo, forse tre anni, non aveva
fatto che dimenticare di dire, e nascondere. Si
aprivano così risposte coerenti a tutti i miei
incompresi di allora.
Peccato averci messo il cuore, peccato aver creduto.
Ma doveva andare così.
E tolto il sangue di mezzo (*), asciugato l’amaro, col
tempo è arrivata la mia fetta di torta: “E’ inutile
cercare chi ti completi, nessuno completa nessuno,
devi essere completo da solo per poter essere felice”
– Erich Fromm.
Avevo intuito, a quella che pareva la tragica intima
fine di questa storia, che la vita voleva portami ad
essere intera. Così è stato. Così ora è. E grazie.
(*) morì la mia anima nella sua menzogna e
ritrovarla non fu cosa da poco.
Ma era mia quell’anima, non sua né di alcun altro
dolore.
Perché raccontare tutto questo? Perché la forza della
realtà a volte supera la poesia dell’immaginario. E
forse è vantaggio che si sappia, per far del bene al
vivere.”
La passeggiata
Roberto Gianolio
Da molto tempo stavo pensando di fare una bella
passeggiata.
Purtroppo passarono gli anni mentre lavoravo e
facevo molto altro.
Adesso che sono in pensione, finalmente, potrò fare
quello che voglio.
Da giovane ero negli scout di Genova e feci scalate e
camminate straordinarie che duravano anche otto
ore di seguito, purtroppo il tempo è passato quasi in
modo impalpabile. Troppe giornate sono trascorse
da quei bei tempi giovanili.
Adesso mi accontento. Ho gambe ancora forti e ben
funzionanti, forse eredità dei miei bei tempi passati.
Dovendo riempire le mie giornate adesso faccio i
programmi come desidero.
Sarò forse strano, poiché uno potrebbe pensare che
lo faccio per mettermi in mostra, ma assicuro che
non me ne importa nulla, la mia vita mi appartiene e
ne voglio fare quel che desidero, finché il Signore mi
permetterà di farlo.
Prendo una cartina della mia regione, il Lazio, e
procedo con la matita a segnare il percorso. Ricordo
che mio cognato mi diceva che quando era giovane
andava a piedi a scuola, passando per la strada
principale e poi tagliando attraverso un bosco
imboccava la stradina che conduceva alla stazione
ferroviaria di Frosinone.
Adesso è stata costruita una bella strada asfaltata,
chiamata nuova Casilina, girando a sinistra conduce
a Ceccano e verso destra a Frosinone scalo.
Dai tratti che sto segnando, saranno circa dieci
chilometri, forse portandomi una bottiglietta di
acqua e anche un bel panino penso che forse ce la
potrei fare in una giornata di cammino sereno,
almeno così spero.
Avverto mia moglie che mi guarda storto, pensa che
io sia impazzito improvvisamente, poi comprendendo che sto facendo sul serio, mi aiuta a
preparare quello che mi serve, comprese le scarpe
comode da passeggio.
Sono le sette di mattina, è il giorno del 4 Novembre,
forse in qualche paese si farà festa ed io sto uscendo
da casa. Mi avvio con passo calmo, il cammino che
mi attende è abbastanza semplice alla partenza, poi
s’inerpica sulla Casilina verso le colline di Torrice e
ridiscende con varie curve. Affronto la prima curva,
passa a fianco della nuova Casilina, che affronterò al
ritorno. Salgo verso la prima collina mentre le
macchine mi sfrecciano a fianco. Qualcuno mi
riconosce e rimane stupito vedendomi con il bastone
da passeggio e a piedi. Un amico si ferma
chiedendomi se voglio un passaggio. Immaginatevi
se potevo accettare quest’offerta dopo tutti i
preparativi fatti.
Lo ringrazio con un gesto della mano e continuo
sulla mia strada asfaltata. È una bella giornata, il
sole si sta alzando e, nonostante la stagione,
promette caldo. Continuo sul mio percorso, avrò il
tempo per togliere il maglioncino sulle spalle e
legarmelo in vita.
Affronto le curve dette “della Forcella”, poiché vi è
una diramazione che conduce al paese passando tra i
boschi accorciando la strada.
Io seguo il mio percorso, in circa mezz’ora ho
oltrepassato la Forcella e sto entrando nel territorio
del comune di Torrice.
Il sole inizia a battere e qualche goccia di sudore
scende dalla fronte.
Sono costretto a tergermi, sarebbe complicato se mi
bagnasse gli occhiali da vista che, purtroppo, porto
da sempre.
Sto scendendo verso la Prima, zona così chiamata
per l’azienda che vi opera da diverso tempo e
affronto dopo breve la successiva collina che poi,
dividendosi in trivio, a destra porterà all’Arnara,
dritto verso Ripi e a destra verso Torrice, la mia
meta.
Mentre cammino, penso. Vecchia abitudine mai
persa nella mia vita. Ho sempre letto molto e
meditato su ogni cosa. Prima di agire ho sempre
calcolato tutti gli aspetti, positivi o negativi, delle mie
azioni. Adesso che il tempo mi permette con maggior
serenità questo, rivedo il mio passato e tutto quello
che avrei desiderato fare e non ho portato a termine.
Avrei potuto fare lo scalatore, poiché avevo gambe
forti e fisico robusto. Avrei potuto fare il medico, ma
non ero portato a passare ore sui testi di scuola.
Avrei potuto fare il marinaio, essendo nato in riva al
mare, forse sarebbe stata la soluzione migliore. Ho
fatto solo il musicista, umile e sconosciuto professore
scolastico, dimenticando imprese eroiche e
avventure splendide girando il mondo. Mentre un
passo segue l’altro, sono giunto sotto le mura della
cittadina, sorridente e quasi disabitata. Conoscevo
molte persone passate a miglior vita e i pochi giovani
rimasti neppure li conosco, anche se sono
sicuramente figli o nipoti dei congiunti scomparsi nel
tempo. Mi siedo sulla panchina della piazzetta,
davanti all’ufficio postale, unico ambiente ancora
frequentato da qualche persona. Le bollette vanno
comunque pagate. Osservo alcune macchine che a
passo d’uomo scorrono per la via. Penso che sia
giunto il momento di fare una bevuta, l’acqua che
porto nella saccoccia, è ancora fresca e porta sollievo
al mio palato. Mi alzo, quasi stancamente, devo
ancora affrontare l’ultima salita, quella che conduce
al Comune, la più ripida di tutto il paese.
A passo calmo salgo attraversando il cuore della
città. Alte mura di pietra mi affiancano e il panorama
si allarga su una splendida Ciociaria che mi lascio
sulla sinistra. Vedo il campanile della chiesa, le
campane stanno battendo le undici di mattina.
Faccio un rapido calcolo di quanto tempo ho
impiegato per compiere questo percorso: tre ore e
mezzo, meglio di quanto preventivato.
Sulla piazza mangio il mio panino imbottito, ho di
fronte un panorama unico, costellato di paesi e
contrade e, mentre l’occhio si perde in questo
infinito, osservo il sole che si sta spostando
lentamente. Tra qualche momento non vi sarà più
ombra della mia persona, tanto non importa a
nessuno della mia presenza.
Mi tolgo il cappello leggermente sudato e mi tergo il
collo con un fazzoletto pulito, gentile pensiero della
mia signora. Stiamo insieme da oltre quarant’anni e
mi sembra ieri d’averla conosciuta. E quanto ci
siamo amati. A volte penso che fosse stato meglio
comportarsi diversamente, ma tutto quello che è
successo, nel bene e nel male credo che lo rivivrei
allo stesso modo. Forse correggendo qualche
particolare avrei vissuto meglio questo rapporto, ma
nell’insieme sono soddisfatto. Alla fine di una vita
felice le piccole macchie non lasciano segni.
Sono le due del primo pomeriggio, devo riprendere
la via del ritorno, prima che mi diano per disperso. È
quasi tutta discesa adesso e il passo si fa più sciolto.
Solo le curve della Forcella sono leggermente in
salita ma ormai vedo da lontano la mia casa. Sto
percorrendo la variante Casilina, per completare il
percorso segnato sulla cartina. Dovrò fare un lungo
giro e risalire dietro la collina, saranno sei chilometri
in tutto, di cui almeno due in salita.
Il piacere è che, con questa strada, passo tra i boschi,
qualche casa spersa tra gli alberi, un supermercato e
un bar, poi solo ossigeno rigenerato. Respiro a pieni
polmoni, ricorderò questa giornata a lungo. Sono
ormai le cinque della sera, incomincia a scurire, lo
scintillio della giornata lascia il posto a una luminosa
serata autunnale, il cielo s’illumina di stelle ancora
pallide, che presto si accenderanno inviando segnali
d’amore per una gioventù che ancora sta cercando
quello che io ho già vissuto.
Quando suono al citofono, risponde mia moglie tutta
preoccupata “Sei tu? Finalmente caro, stavo in
pensiero”.
Salgo lentamente le scale, ormai stanco della lunga
passeggiata e rivedo nel suo sguardo preoccupato i
segni di un amore ancora vivo, nonostante gli anni
trascorsi insieme.
Il cielo sopra Berlino
Emma Grillo
Berlino 2012
Quella era un’estate immobile.
I ricordi correvano via nelle mattinate bianchicce.
Le ombre dei sogni si stendevano sul pavimento e ai
bordi delle finestre spalancate.
Il tuffo della perdita tagliava ancora lo stomaco, un
corvo gracchiava strafelice e si tuffava nell’azzurro,
era nero, corvino.
Ero quasi ai sessanta, mi è arrivata così, all’improvviso la voglia di raccontare le storie che
vedevo passare.
Così decisi: Berlino.
Perché: soprattutto per la sua storia, ma ancora non
sapevo che sarebbe stato il cielo a segnare il mio
viaggio.
Sono partita con in tasca Wenders e Rainer Maria
Rilke.
Al centro della piazza come non pensare agli angeli
sopra Berlino.
Le nuvole nel cielo largo del tramonto portavano le
storie.
Era come se scorressero su un parabrezza, pallini
grigi, neri, bianchi come nei film di una volta.
Gli angeli guardavano le
sorridevano, non giudicavano.
storie,
interessati,
Qui le anime mi sembravano più trasparenti.
Io penso che fosse l’effetto della sua storia: una città
distrutta, demolita, divisa e nonostante questo viva e
presente a sé stessa, ai suoi ricordi.
Lo spazio, a Berlino, si divide tra il fiume che scorre
lento e instancabile si riprende i suoi spazi, il bosco
grande e misterioso, molto utile quando serviva la
legna per scaldarsi e il cielo aperto, al di sopra.
Così ho cominciato a raccontare.
Ho visto una donna in quei palazzi squadrati, tipici
della ricostruzione.
Aveva come un braccio all’ingiù, dopo una giornata
di lavoro puliva con uno straccio, ancora, stancamente.
Era come spiaccicata sul muro, in attesa, sembrava
volesse domandare.
Ho sentito le storie delle donne e degli uomini ebrei
di Russia, del loro cammino dall’est.
Stretti nei loro vestiti neri, con i pizzi bianchissimi
curati.
Nei loro occhi c’era la determinazione a volere una
vita futura.
Balli, suoni, preghiere.
Poche parole, gesti, oggetti, vita nuova.
Ho guardato un uomo, non riuscivo a capire se fosse
maschio o femmina.
Era Berlino che non s’importa dell’apparenza, che si
diverte, che inventa nuovi modi di esprimersi.
Sono andata fuori città, nel campo, eravamo ancora
nel comune, ma abbiamo percorso trenta minuti di
ferrovia.
Quanto è larga Berlino.
Lì, dottori, uomini di scienza torturavano e
sperimentano sugli esseri umani.
Io non riuscivo a capire, mi sono detta che la
violenza, la cattiveria, il desiderio di potere, la
dittatura in fondo fanno parte della nostra storia,
sono dentro di noi.
Ma usare la scienza per massacrare uomini e donne,
no, questo era incomprensibile.
Ho conosciuto un pastore luterano, mi ha condotto
da lui la mia curiosità.
Lui mi ha raccontato la storia di Berlino, sconfitta,
finita, affamata è risorta mille volte.
Mi ha spiegato con le palme delle mani aperte che
per la loro religione, il loro modo di pensare, quello
che conta sono le parole, più delle immagini, più
della rappresentazione.
Parlava con calma, lentamente.
Ha lenito la mia paura.
Allora ho pensato che Berlino era una domanda, al
centro di una piazza, circondata dalle nuvole ad un
angelo sdraiato sul parabrezza di Dio che sfogliava le
carte, una dietro l’altra.
Svisch
Poi è tornato settembre, rude, come sempre.
Io non capivo, lasciavo andare.
Il freddo repentino e le secchiate d’acqua arrivavano
all’improvviso e spargevano l’idea del futuro.
Berlino era ancora lì, con il suo treno che passava
sopra tutta la città, come sospeso.
Un altro piccolo signore
Damiana Guerra
Ogni mattina, si prepara.
Si lava la faccia, si pettina i grigi capelli.
La moglie sceglie per lui la maglia tra quelle pulite:
decide accuratamente il colore in base alla luce del
mattino.
La stira e, delicata, la ripone sul letto, in attesa che il
marito la indossi.
L'uomo si guarda allo specchio a lungo, respirando
lentamente. Fissa i propri occhi: sono azzurri.
Puliti. Lucidi.
Il viso è segnato dalla vita.
D'altra parte, ha vissuto la guerra.
Vissuto la guerra?
Certo! Ho sessantaquattro anni!
Ma nonno... tu eri solo un bambino quando la guerra
è finita!
Si, ma cosa c'entra... io ho vissuto gli anni
immediatamente successivi alla guerra. Anni
difficili!
Tremendi!
Mancava tutto... tutto!
Altro che “Mamma voglio l’i-phone”!!!
Ma la sua espressione è ferma. Fiera.
Ha un bell'aspetto.
Stringe orgogliosamente le labbra: un'altra mattina
di lavoro gli si apre davanti.
Sono le sei e trenta passate, caro, dice la moglie. Bevi
il tuo caffè.
Certo, è proprio ora.
Agli amici, hanno raccontato di un avanzamento di
carriera.
Mio marito è troppo ambito! Ride, lei. Lo vogliono
persino a Reggio Emilia! E, che vuoi farci... mica poi
dire no! Davanti ad una richiesta simile...
Ai propri figli che loro padre è “si, in pensione!”, ma
si annoia troppo in casa. E quindi ha deciso di
mettersi in proprio.
Frettoloso, il nostro piccolo signore, esce, come tutte
le mattine.
Alle sette e un quarto è già sul binario.
Non sia mai, pensa, che il treno proprio questa
mattina sia in anticipo.
Ma quest'ultimo è sempre puntuale. Anzi. Quasi
sempre in ritardo.
Almeno di cinque minuti. E che seccatura... arrivare
in ritardo è una delle cose che infastidiscono tanto
questo piccolo signore.
Ed eccolo, finalmente. Il regionale delle sette e trenta
per Parma.
Osserva la gente: gli stessi, tutte le mattine.
La maggior parte di loro è giovane. Elegante.
Ognuno con un motivo differente per addentrarsi
lontano da Modena in un orario così precoce.
C'è chi va all'università, preoccupato per l'esame da
lì a poco che dovrà sostenere. Chi invece si sta
recando a lavoro, seccato per un collega che gli ha
sottratto la promozione.
Il mondo dei pendolari è affascinante, dice a se
stesso ogni mattina.
E anche io sono un pendolare per esigenze
lavorative, ride. È davvero come se mi fossi messo in
proprio.
Stringe gelosamente tra le dita il manico del
sacchetto che si porta dietro. Come tutte le mattine.
Se qualcuno glielo portasse via, visto quello che si
sente dire in giro oggigiorno, sarebbe alquanto
spiacevole.
Come faccio poi a guadagnarmi da vivere?
Mia moglie vorrebbe carne di cavallo per cena,
stasera. Poverina... ha il ferro così basso.
Il panorama è veloce. Rapido.
È in arrivo l'estate. Tutto è così verde. Fa ben
sperare.
Riaccende l'ottimismo.
Nel petto, anche il suo cuore batte veloce.
Speriamo sia una buona giornata... sono vestito
bene, sono pulito. La gente non mi maltratterà.
Il passo è svelto: cammina veloce verso la solita via,
il solito marciapiede.
È già un lusso potersi permettere l'abbonamento
regionale mensile. Il biglietto per il bus costa troppo
caro.
Che poi, due passi mi mantengono in forma!
Ed eccoci.
Arrivati.
Posiziona lo sgabello: lo estrae dal sacchetto di
plastica che si è trascinato da Modena.
Ecco. Qui è perfetto.
Sono anche più comodo di ieri.
...oh! Il cartello! È rimasto nel sacchetto!
Stamattina sono ancora addormentato.
“Ho sessantaquattro anni.
Troppo vecchio (dicono) per il lavoro.
Troppo giovane per la pensione.
Help.”
Due righe
Sara Maggi
“Se un giorno deciderò di sparire, guai a voi se
chiamate quelli di Chi l’ha visto?”.
L’ho ripetuto ai miei familiari, amici e colleghi, ogni
volta che è capitato di parlare di fughe, del desiderio
di ricominciare tutto daccapo. Altrove. Quando una
persona decide di sparire, deve essere lasciata in
pace. Non che ti ritrovi la gente per strada che ti fissa
e poi chiama Rai Tre nella speranza di fare del bene
o di sentirsi eroe per dieci minuti. Certo sarebbe
meglio, prima di andarsene per sempre, scrivere due
righe, anche su l’involucro di una caramella, su uno
scontrino. Poi però basta, bisogna farsele bastare
quelle due righe. Chi sparisce lasciando le persone
care a macerare nei dubbi è uno stronzo.
“Ci vuole coraggio per ribaltare tutto e bisogna
rispettare chi compie una scelta così drastica”.
Non tutti però mi davano ragione quando parlavo
così.
Ieri sera sullo schermo del piccolo televisore di un
vecchio bar ingiallito c’era la conduttrice bionda che,
dondolando da un piede all’altro, parlava di me. Ha
descritto come ero vestita il giorno della scomparsa,
di che colore ho gli occhi e i capelli, quanto sono alta
e quanti anni ho. Ha anche precisato che ho un neo
sulla fronte, proprio al centro, come le donne
indiane. Poi sullo schermo sono passate alcune mie
foto. Mi sono quasi sentita male, mi è venuto da
tossire. Nessuno però ci ha fatto caso. Né a me né
alle parole cariche di urgenza pronunciate dalla
conduttrice. Tre tavoli di pensionati che giocavano a
carte, due vecchie che bevevano un tè e un uomo che
discuteva al bancone con il barista. Ero l’unica a
guardare la televisione. Prima di uscire ho aspettato
che andasse in onda la pubblicità e che le mie guance
tornassero rosa. Una volta sul marciapiede ho tirato
su il bavero della giacca e mi sono messa a
camminare svelta verso l’albergo.
Ma come? Ero stata chiara, non volevo l’intervento
di nessuno, tanto meno della televisione. Io le due
righe le ho lasciate. Per la verità saranno state anche
cinque o sei, scritte fitte su un foglio strappato
accuratamente da un quaderno a quadretti. L’ho
lasciato lì, in bella vista, sul tavolo della cucina, non
l’ho nemmeno piegato in due e per assicurarmi che
nessuna corrente d’aria lo facesse scivolare per terra
ci ho messo sopra il mio cellulare. Cosa volevano di
più? Alla mia età non si deve chiedere il permesso
per fare certe cose.
Addormentarsi sapendo di essere una scomparsa
non è facile. Da domani dovrò fare molta attenzione.
Mi taglierò i capelli, magari mi faccio la frangetta, e
poi li devo tingere, ma prima devo comprare la tinta.
Devo anche cambiare modo di vestirmi, via le scarpe
da ginnastica e i jeans. Da domani gonna e stivaletti.
E mi devo truccare, tantissimo. Soprattutto devo fare
sparire il neo sulla fronte. Mamma mia che
faticaccia. Che fatica allucinante.
Al diavolo Chi l’ha visto?, chi gli ha telefonato,
sicuramente mia madre, e chi gli telefonerà per
riferire che mi ha riconosciuto su un ponte o alla
stazione. La mia intenzione era quella di cambiare
vita non di perdere la mia identità. Una volta
arrivata in Spagna però tornerò ad essere Linda.
Dentro e fuori. Devo tenere duro, stare attenta a non
fare passi falsi. Questa notte sono ancora al sicuro,
qui, in questa piccola pensione con le pareti
arancioni che mi abbracciano. Domani invece dovrò
rendermi invisibile. Ora voglio addormentarmi,
prima che la paura prenda il sopravvento.
Coraggio Linda, non lasciarti trascinare indietro
dalla potente corrente dei rimorsi.
Ora ci sei tu, il tuo corpo ha bisogno di te.
Sei anni e sette mesi ad occuparmi degli altri. Gli
altri nello specifico sono mia madre vedova e
depressa e mio marito paralitico. Ora dopo ora mi
hanno tolto il fiato, mi hanno sottratto il tempo che
adesso voglio riprendermi. Tante volte ho sperato
che arrivasse la morte, a prendere Lucia e Giacomo,
non me. Gliel’ho augurata urlando, riempiendo i loro
occhi vuoti di lacrime. Io a suicidarmi non ci ho mai
pensato perché voglio essere libera sulla terra, non
sotto.
L’aria della mattina è fredda e mi gela il naso che
diventa subito rosso. Lancio occhiate qua e là mentre
mi muovo nel supermercato sperando di essere
trasparente. Mi salta il cuore in gola ogni volta che
incrocio un paio di occhi, ogni volta che scontro il
carrello contro quello di qualcuno altro. Sobbalzo per
il rumore della ferraglia, mi costringo a sollevare lo
sguardo, a farmi vedere per non destare sospetti.
Compro di tutto, soprattutto alimenti per bambini
che non ho mai avuto, tanta frutta, latte e pasta. In
mezzo ci infilo una tinta per capelli in offerta, un
paio di forbici da cucina e qualche cosmetico. Pago
ad una cassiera che non mi guarda nemmeno, forse
nemmeno mi saluta. Questa volta apprezzo
moltissimo la maleducazione. Arrivata in albergo
incomincio la trasformazione.
Me ne vado dopo un paio d’ore, imbacuccata dentro
sciarpa e berretto e benedicendo il freddo pungente
che mi costringe a coprirmi senza apparire bislacca.
Il portinaio mi saluta con gentilezza, intanto si frega
le mani per stimolare la circolazione.
Ci ho messo moltissimo tempo prima di prendere
questa decisione. Ogni volta trovavo un motivo per
restare: gli occhi piccoli e incavati di mia madre,
sfiniti dal pianto e dal male di vivere, il vuoto sotto la
coperta a quadri che copre Giacomo dalla vita in giù.
L’assenza delle sue gambe, strappate via da un
incidente in moto, è il fardello più pesante da
sopportare. Lasciare quelle due vite disperate è stato
come tagliarmi un braccio, ma non ho trovato
alternative. Se qualcosa dovesse andare storto,
pazienza, potrò almeno guardarmi dentro e avere la
certezza di essermi voluta un po’ bene. No, non mi
giudico egoista, una persona egoista non si sacrifica
per sette anni. Loro due caso mai sono degli enormi
egoisti, lo sono diventati. Lucia e Giacomo hanno
smesso di essere rispettivamente mia madre e mio
marito, la malattia li ha fagocitati poco alla volta e
me li ha restituiti sotto forma di larve rabbiose e
piagnucolanti, incapaci di sorridere e di dire grazie.
Da sola ogni giorno a spezzarmi la schiena per
rendere le loro vite il più decenti possibile. Addio
serate in pizzeria, addio pranzi domenicali. E i
parenti? All’inizio venivano spesso, poi sempre
meno, fino a sparire del tutto: tanto c’è Linda.
Il treno è pieno e fatico a trovare un posto libero.
Sistemo il borsone sul portabagagli e mi stringo tra
una anziano e un ragazzone di colore che si appiccica
al vetro per farmi stare più comoda. Nello
scompartimento nessuno parla, c’è chi legge e chi
dormicchia e io mi sento a mio agio. Spero che
nessuno di questi viaggiatori scenda prima di me, sto
bene in mezzo a loro e sono contenta che non
abbiano voglia di fare chiacchiere.
Due persone malate sotto lo stesso tetto o si danno
conforto o si odiano. Lucia e Giacomo si odiano.
Passano le giornate ad insultarsi. Si accusano a
vicenda di rendere la mia vita un inferno, ma allo
stesso tempo litigano per ottenere le mie attenzioni.
La verità è che li ho abituati troppo bene, non ho
idea di come se la caveranno. Lucia mi sta cercando
perché è in ansia per se stessa, non per me. Chissà,
forse finalmente riemergeranno dal nulla le sorelle e
i fratelli, quelli che Chi l’ha visto? non cerca mai con
tanta insistenza. Forse Lucia e Giacomo decideranno
di farla finita con il veleno per topi, si alleeranno per
compiere un gesto che li renderà liberi. Comunque
vada a me non deve più interessare. Se continuo a
pensarci la mia fuga diventerà inutile e, presto o
tardi, sentirò l’obbligo di tornare indietro. E questo
non deve succedere.
Linda sono io.
Linda adesso è la donna bionda con la frangetta che
sta
viaggiando
stritolata
tra
un
vecchio
addormentato e un nero che guarda fuori dal
finestrino. È la donna che si sta addormentando con
la testa appoggiata all’enorme spalla del ragazzone.
È morbida e calda, fa proprio al caso suo.
E la chiamavano musica...
Alberto Marcolli
Quella mattina di maggio del ’72, agli inizi di un
decennio ricco di fermenti e contraddizioni in ogni
campo dell’attività umana, andò in scena, dalle parti
della London Victoria Station, uno spettacolo così
inconsueto da rimanere impresso a lungo nelle menti
dei pochi ammutoliti passanti. Ogni angolo della
stazione, infatti, dai piazzali ai marciapiedi, dagli
ingressi delle tube stations a qualunque altro spazio
calpestabile, era letteralmente invaso dalla
moltitudine dei ragazzi di Bickershaw, appena
sbarcati da un centinaio di vecchi coaches, al termine
di un viaggio apocalittico durato tutto il tempo di
una rigida notte inglese.
I nostri eroi, coperti fino ai capelli da una fanghiglia
sottile e compatta che aveva cancellato dai loro
vestiti i mille colori della beat generation,
rendendoli simili a maschere di creta, si
trascinavano stremati, facendo appello agli ultimi
brandelli d’energia per individuare la giusta
direzione tra le mille possibili, in questa metropoli
immensa.
Rammento che più tardi, se capitava d’incrociarsi
nuovamente in qualche via o parco, anche molto
distante da Vittoria, il riconoscimento era
immediato, tant’era evidente che solo i reduci del
festival pop di Bickershaw potevano vagare per la
città conciati in quella maniera. Subito ci si salutava
calorosamente, come tra valorosi compagni d’armi,
con un misto di stupore e orgoglio, quasi fosse stato
un gran titolo d’onore aver superato indenni quella
folle esperienza.
Tutto era partito dagli inviti assillanti di un tal Steve,
promettente chitarrista inglese da me incontrato,
nella passata stagione invernale, in una rassegna
musicale molto nota in Italia. Scriveva e telefonava
in continuazione, pregandomi di venirlo a visitare
nella sua Londra, dove aveva fondato un nuovo
gruppo, a suo dire dal successo garantito, grazie al
previsto debutto in qualità di show band nel
famosissimo Marquee Club, osannato tempio del
rock londinese.
Alla fine riuscì a convincermi e prenotai l’aereo
utilizzando la provvidenziale Student Card, che mi
permetteva di viaggiare da Milano a Londra con sole
12mila lire.
Masticavo un inglese forse un gradino superiore a
quanto imparato a scuola, per via di alcune
frequentazioni femminili, ma certo avrei potuto
migliorarlo parecchio: un’opportunità questa che
persuase i miei a lasciarmi partire, schivandomi le
solite noiose discussioni.
Per combinazione ero rimasto in contatto con due
amici, da un paio di mesi residenti in Inghilterra,
ospiti di un’arzilla signora conosciuta rispondendo a
un’inserzione. La benefattrice si chiamava Elise e
credo fosse sulla cinquantina. Da poco separata dal
marito, abitava con il figlio Adrian in una graziosa
villetta con giardino a Finchley, distinto quartiere a
nord della città di Londra e, forse per solitudine,
forse per nostalgia, aveva deciso di assumere, in
cambio di vitto e alloggio, Enrico e Rolando come
giardinieri e aiuto nei lavori domestici. Grazie a loro,
la cara Elise aveva accettato di ospitare anche me,
versando un ridotto contributo spese: una bella
comodità, in una città splendida ma assai costosa.
Qui a Finchley, immersi nel verde di un viale
alberato, a due passi da un magnifico parco, si
campava meglio che a Milano. Si faceva la spesa nei
negozietti della via centrale, si frequentavano
i pub locali, e si conversava amabilmente con i vicini:
ficcanaso e pettegoli, come in ogni paese.
Diplomato in ragioneria per il rotto della cuffia, con
un misero “trentasei”, e bloccato in attesa
dell’imminente chiamata alle armi, avevo escogitato
un buon metodo per non pagare l’ingresso nei vari
locali e teatri. Per conto di una casa discografica, il
cui direttore era un amico di famiglia, osservavo e
segnalavo, guidato dal solo fiuto personale, qualche
personaggio degno di nota tra la miriade di
complessini che allora spuntavano come funghi, un
po’ dappertutto. Accadeva, in realtà, che i
responsabili della società, non riuscendo a
raccapezzarsi all’interno di un fenomeno per loro
incomprensibile, preferissero affidarsi alle scelte di
alcuni giovanissimi, affini, per età e gusti, a quello
stesso pubblico ritenuto l’acquirente potenziale dei
dischi poi pubblicati.
Da parte mia sfruttavo la situazione senza prendere
troppo sul serio un incarico che con poca fatica mi
aveva già permesso di conoscere mezza città e oltre.
Mi era spesso sufficiente, infatti, mostrare il
tesserino con il simbolo della Record Company e la
scritta “agente artistico”, per vedermi magicamente
trasformato in un oggetto di desiderio, corteggiato in
ogni modo.
La trovata di assistere al festival di Bickershaw era
stata mia. Vi partecipava un numero notevole di
gruppi, molti assai famosi e si trattava, quindi, di
una ghiotta opportunità, che mi avrebbe consentito,
in soli tre giorni di show continuato, da mattina a
notte fonda, di ascoltare il meglio in circolazione: un
compito impraticabile se avessi voluto inseguire tutti
questi musicisti uno per uno, concerto per concerto.
Al ritorno dal festival avrei rivisto con calma i miei
appunti e scritte decine di relazioni che mi avrebbero
fruttato un bel gruzzolo, ripagando ampiamente i
costi della vacanza.
Enrico e Rolando furono subito entusiasti alla mia
proposta di barattare un loro aiuto nella valutazione
degli artisti con l’ingresso gratuito e la copertura di
una parte delle spese. Senza saperlo ci stavamo
imbarcando nella più allucinante delle peripezie, in
cui accadde l’impossibile salvo riuscire a
scarabocchiare una sola relazione perché sarebbe
stato un imbroglio clamoroso. Ma raccontiamo la
storia dall’inizio.
Prevedendo di servirmi, anche in terra inglese, del
magico tesserino che si era sempre rivelato un
lasciapassare infallibile, avevo giudicato opportuno
non acquistare in anticipo i biglietti d’ingresso,
limitandomi al solo viaggio in autobus, andata e
ritorno, da Londra a Bickershaw. Autobus che ci
depositò la mattina seguente davanti agli ingressi,
dove, all'istante, esordirono le sorprese.
Il luogo era al centro di un enorme spazio vuoto, in
prossimità di un pendio collinare. Solo prati e
pascoli, nient’altro. Il villaggio di Bickershaw,
ovunque esso si trovasse, era ben al di fuori della
nostra visuale, mentre un robusto ondulato
metallico, alto più di tre metri, isolava totalmente dal
mondo esterno i partecipanti al festival. In aggiunta,
un folto gruppo di poliziotti a cavallo sorvegliava i
cancelli, pronto a intervenire al primo accenno di
disordini.
Una pioggerella bastarda ci aveva già bagnato oltre il
necessario e le code erano lunghissime. Dove e a chi
avrei mostrato il mio pass? Per di più, il costo di tre
biglietti, se avessi deciso di acquistarli, era molto
salato e calcolata la mancanza di soldi, o quasi, dei
miei due soci, temevo di non farcela con quanto
avevo in tasca a saldare il tutto, compreso
l’occorrente per campare tre giorni là dentro!
Controllai a lungo la scena.
L’esperienza mi aveva insegnato che avrebbe dovuto
pur esserci una seconda entrata, riservata a operatori
e interpreti. Cominciammo allora a girare intorno
alla recinzione, ma non era facile: pioveva e
dovevamo camminare in mezzo a prati inzuppati,
con le nostre scarpette di tela che affondavano fino
alle caviglie.
Alla fine distinguemmo, dalla parte opposta, una
strada che si dirigeva verso un secondo portone.
Raggiuntolo, ci sostammo innanzi, scettici sul da
farsi.
Tuttora convinto di riuscire a non pagare, mi
avvicinai a un gruppo di persone dietro al cancello e
con il mio inglese stentato, cercai di farmi capire,
dichiarando di essere l’agente di una nota casa
discografica di Milano, incaricato, con due
collaboratori, di scritturare per l’estate prossima dei
validi musicisti per un gran tour italiano.
L’esagerazione era palese e questi tizi, accidenti a
loro, non sembravano per nulla disposti a bere il mio
racconto, ma semplicemente ridevano e parlavano
fitto tra loro.
Preoccupato per la piega degli avvenimenti, non
rinunciando, tuttavia, a sperare in qualche
favorevole sviluppo, indugiavo pensieroso, mentre
Enrico e Rolando mi spiegavano, con una punta di
superiorità, che non eravamo in Italia, dove tutto si
accomodava. Qui la gente era abituata diversamente:
o si pagava con sonante moneta o si rientrava a casa.
Mi ero ormai rassegnato, quando uscì uno dei tipi
con i quali avevo parlato. Avvicinatosi silenzioso, mi
bisbigliò nell’orecchio che per tre sterline ci
avrebbero accompagnati all'interno: il trasporto era
offerto dagli addetti all’impianto luci, in arrivo da lì a
pochi minuti.
“E bravi anche gli inglesi!”
Accettai immediatamente, pur non avendo la
minima idea di ciò che ci aspettava una volta entrati,
raggiante di essere riuscito a farla in barba a tutti.
Arrivò un decrepito furgone Bedford e vi saltammo
dentro dal portellone posteriore, sistemandoci tra
una confusione di cavi e fanali, non prima di aver
consegnato all’autista i tre pounds pattuiti. Con tre
brevi colpi di clacson il cancello si aprì e
transitammo tranquilli. Trascorsi sì e no due minuti,
il presunto elettricista ci fece cenno di scendere:
eravamo giusto dietro ai tralicci del palco. Era fatta!
Primo dettaglio che causerà non poche complicazioni: eravamo entrati, questo era pacifico, ma privi
di biglietto e impronta indelebile sul dorso della
mano, eseguita utilizzando un curioso timbro a olio
con il quale bollavano i ragazzi in transito all’ingresso ufficiale. Risultato: saremmo potuti uscire
soltanto al termine dei tre giorni di festival!
Nel frattempo veniva giù insistente un’acquerugiola
che pareva una nebbiolina autunnale, ma non
eravamo in primavera?
Lentamente prendevamo contatto con lo strano
pianeta nel quale ci eravamo catapultati, frequentato
da una massa brulicante d’individui emaciati, dagli
sguardi imbambolati e dai vestiti stravaganti. Qui
avrebbero celebrato indisturbati i loro riti, mentre i
poliziotti si sarebbero limitati a impedire ogni
contatto tra loro e gli abitanti locali, garantendo a
questi ultimi la possibilità di proseguire, ignari, la
vita di sempre.
La prima necessità, per tipi come noi, accantonato
per il momento l’ascolto della musica, che giungeva
come un eco smorzato, tra queste colline spoglie e
battute da un vento gelido, era capire cosa c’era da
mangiare e, disgraziatamente per noi, le nostre
mamme ci avevano viziato con piatti di sugosi
spaghetti, arrosti e torte al cioccolato. Iniziammo
così un laborioso girovagare tra banchetti carichi di
mercanzie d’ogni tipo, scoprendo alla fine anche
qualche cibaria, purtroppo molto lontana dai nostri
gusti. Un miscuglio di piattini con cavoli, carote
crude, patate lesse, rape, cetrioli e altro della stessa
specie, in aggiunta a misteriose salsine colorate,
davvero poco incoraggianti. Ma guardando e
riguardando, spuntarono nientedimeno che dei
ravioli al sugo, ahimè non fumanti su un elegante
vassoio, ma freddi e ben tappati in un barattolo. Ci
accorgemmo che alcuni volenterosi, aperto il
contenitore, sistemavano il contenuto direttamente
su delle grandi fette di pane bianchiccio, mentre
Rolando, il più affamato del gruppo, ci faceva notare
che la provenienza era italiana. A parte rari e timidi
diversivi, saranno il nostro pasto prelibato fino a
domenica! Per colazione, invece, berremo delle
scodelle di brodoso caffè bollente con grandi
porzioni di torta al rabarbaro che, riflettendoci, fu il
ricordo più soddisfacente dell’intero festival.
Risolto in questo modo l’affare alimentazione, il
cruccio successivo era trovare una soluzione
accettabile per il riposo, sprovveduti com’eravamo
ad affrontare l’imprevisto di quel nostro ingresso
rocambolesco. Si era immaginato, infatti, di poter
uscire a piacimento dalla zona del festival e scegliere,
con comodo, un economico alloggio in uno dei
tanti bed and breakfast disseminati per tutta
l’Inghilterra, quindi anche a Bickershaw. Peccato
che la momentanea quanto scomoda posizione di
clandestini limitasse grandemente la nostra libertà
di movimento, e non ci restava che adattarci!
In un’area centrale, qualche anima pia aveva allestito
un paio di tendoni, tipo croce rossa internazionale,
unico riparo dalla pioggia e dal vento. Entrati, ci
accomodammo con altre centinaia di ragazzi
sull’erba umida, utilizzando come isolante delle
scatole di cartone appiattite che avevamo scovato
rovistando tra i rifiuti ammassati nel retro delle
bancarelle. Il giorno appresso ci dotammo, per la
modica spesa di una sterlina, di tre sacchi a pelo
veramente originali, erano di cartone pure quelli.
Pazienza! L’ultima notte, invece, si dormì, per modo
di dire, sui sedili dello scalcinato autobus che ci
riportava a Londra.
Rimuginando sulla struttura delle latrine, credo che i
soldati nelle trincee della prima guerra mondiale
fossero meglio attrezzati, ma viva i nostri vent’anni
che quando scappa... scappa, e nessuno badi alla
puzza!
A questo punto rimanevano soltanto le ragazze. Ce
n’erano tantissime, tutte bionde, tutte altissime,
tutte allegre, ma quella cosa era l’ultimo dei loro
desideri. Stavano da mattina a sera sotto il palco,
semi nude (la pioggia e le grandi folate di vento non
erano un problema), a gridare e scuotere la testa
come forsennate. Mah!
Musica: e chi ci pensava. Inutile, non riuscivamo
proprio a lasciarci andare.
Arrivò domenica sera. Stanchi morti, non c’eravamo
lavati né tolti i vestiti da tre giorni, ma alla fine
suonò Gerry Garcia con la sua band americana. Era
ormai notte fonda, e quando attaccarono con dark
star, ci misero i brividi alla schiena. L’immensa
collina era rischiarata da decine di falò, in
lontananza bruciavano alti nel cielo dei grandi pali
simili a croci. L’atmosfera era carica al massimo:
dimenticammo tutto e ci buttammo nella mischia,
fra un’ora sarebbe finita, si tornava a casa.
Finalmente eravamo al sicuro, nella nostra villetta a
Finchley.
Sotto la doccia sognavo un piatto colmo di sausages,
bacon, eggs, beans, mushrooms e mushy peas.
Insomma: un vero english breakfast!
Asciugato e rivestito, scesi in cucina, bloccandomi
sull’uscio: non volevo disturbare la cara Elise che
sapevo occupata nei preparativi. Ma poi, non
resistendo alla curiosità, socchiusi cautamente la
porta e sbirciai furtivo, attento a non richiamare la
sua attenzione.
Appoggiate sul mobile, accanto al frigorifero,
riconobbi all’istante delle forme cilindriche che
speravo di non dover mai più rivedere. Erano
quattro belle, grasse scatole d’italian ravioli in
tomato sauce, pronte da riscaldare a bagnomaria,
non appena saremmo stati tutti seduti nel dining
room. Ecco qual era la colazione! Altro che english
breakfast!
Quella volta mi misi a piangere. Per davvero!
Il casellante
Roberto Ragazzo
“Ma perché non aboliscono i caselli?”, ringhiò
rabbioso.
L’appuntamento con il cliente rischiava di saltare.
Mancavano due ore all’incontro e 174 Km da
percorrere. Google Maps pontificava minacciosa “1h
48 m” all’arrivo, dallo schermo dello smartphone
all’interno dell’abitacolo. Un insulso intoppo e l’ora e
quarantotto si sarebbe espansa a macchia d’olio, in
un bizzarro conto alla rovescia in cui macini strada a
rilento e il tempo rimanente cresce inesorabile,
anziché scendere.
“Capitasse con la vita che ti resta da vivere, metterei
la firma”, pensò. “Peccato che io debba incontrare
quell’idiota e chiudere l’accordo entro sera,
altrimenti della mia vita resterà ben poco domani in
ufficio”.
Sarebbe stato sufficiente uno stupido inconveniente.
Come la coda al casello, ad esempio. Appunto. Ti
liberi dalle maglie della tangenziale come Houdini
incatenato in un baule, acceleri rabbioso inserendo
la quinta e non fai che impantanarti di nuovo in una
bolgia dantesca di anime traghettanti in cerca di
spiccioli per allisciarsi Caronte.
Le corsie per il pagamento in contanti gremite (“mai
capito perché”, pensò), quelle per il Telepass
sgombre. Peccato che la sua nuova, fiammante
scialuppa aziendale non ne fosse ancora provvista.
Non restava che la sana, equa via di mezzo: la corsia
“carta”.
“Dunque, ho Bancomat, Maestro, Visa e Maestro di
Visa che supera il Bancomat di prova: ce la posso
fare”, vaneggiò mentalmente. “E vada per la corsia
numero 8, è sgombra”.
Fermo alla sbarra, abbassò il finestrino e allungò la
VISA nervosamente con gesto meccanico, senza
degnare di uno sguardo l’occupante del gabbiotto. Il
segnale di allarme anomalia impiegò una frazione di
secondo per accendersi nella sua testa.
Casellante? Un casellante
pagamento elettronico?
nella
corsia
con
Alzò la testa e si ritrovò di fronte una creatura tanto
insipida quanto straordinaria.
Era un ometto insignificante, provvisto di un
improbabile baffo arricciato à la Poirot da
investigatore dandy su un anonimo volto scavato.
Tutto (quasi) nella norma, non fosse stato per il
petto nudo, le corna taurine e le prominenti orecchie
a punta che esibiva con elegante disinvoltura.
Sembrava una creatura delle favole, uno di quei
fauni della foresta che ti immagini estrarre il flauto
di Pan dalla bisaccia prima di accompagnarti
nell’armadio e pigiare il bottone per un regno
incantato. E quasi avesse letto il rumore dei suoi
pensieri, il casellante si portò proprio un minuscolo
flauto alle labbra, facendolo comparire da chissà
quale anfratto del bugigattolo e intonando una soave
e vellutata melodia incantatrice ad accompagnare il
cicaleccio del dispositivo per il pagamento.
L’uomo strabuzzò gli occhi, incredulo. Perfino
un’incursione di oompa-loompa della fabbrica di
Willy Wonka, a quel punto, sarebbe apparsa
perfettamente a tema.
Un nuovo zufolo flautato eseguito con una mano sola
accompagnò solennemente la restituzione della
carta, lasciandolo interdetto.
“Posso... avere la ricevuta?”, chiese tremante con
l’ultimo barlume di lucidità rimastogli.
“Fiuuuuuu”, suonò il laconico flautista avviando la
procedura per concluderla infine con un
salamelecco.
“Buongiorno”,
provò
a
biascicare
l’uomo
congedandosi. Il fauno si aprì in un sorriso fatato,
facendo per tre volte ciao ciao con la manina senza
aprire bocca, come avrebbe salutato un bimbo di tre
anni.
Fece i primi trecento metri con gli occhi sgranati,
fissi sull’asfalto. Era davvero successo?
“Che lavoro assurdo. Talmente noioso da indurti alla
follia per evitarti l’alienazione”.
Quando si avvicinò alla barriera successiva,
l’episodio si era già sgonfiato nella sua memoria
Ram, derubricato al rango di stranezza e archiviato
nella cartella “gente strana che non ce la fa”. Ecco
l’ennesimo muro di pecore in coda. Ancora una
volta, fu costretto a deviare verso la corsia “carta”.
Era convinto di aver imboccato la numero nove, ma
si ritrovò ancora alla otto. Curioso. Alzò
distrattamente gli occhi al casellante, trattenendo a
stento un urlaccio in gola.
Era ancora lui. Impeccabile, professionale, lo
attendeva al varco con aria di sfida.
Gli porse la VISA con un gesto lento e circospetto,
indeciso sul da farsi.
Lo spettacolo ebbe nuovamente iniziò. Procedura di
pagamento avviata, melodia propiziatoria eseguita
con perizia al flauto, nuovo zufolo per la ricevuta e
gran finale con ciao ciao muto e sorridente. Alla
ripartenza,
si
sentì
stordito
come
dopo
un’ubriacatura molesta. Fissò distrattamente il
navigatore ed ebbe un nuovo sussulto: 2h 45m
all’arrivo.
“Ma se ho fatto più di 100 km da quando mancava
un’ora e tre quarti, come fanno a essere quasi tre,
adesso?”.
La figura spettrale della terza barriera della giornata
gli si stagliò davanti minacciosa come una maestosa
resa dei conti dopo appena qualche chilometro.
Imboccò risoluto la corsia otto, deciso a prendere il
toro per le corna, o meglio per le orecchie a punta.
“Otto come l’infinito”, rimuginò. Era finito in bocca a
un loop infernale?
Il magico figuro era lì, serafico e pronto a rientrare in
scena.
Questa volta l’uomo prese coraggio, anticipandolo
bruscamente: “Mi scusi, ma oggi ho passato tre
caselli ed è la terza volta che ci incontriamo. Come...
sì, insomma, come è possibile?”.
L’omino sventagliò pollice, indice e medio a formare
un “tre” nell’aria e lanciò tre squillanti zufoli,
toccandosi le dita con l’altra mano per contarli.
“Chi cazzo sei?”, gli vomitò addosso non riuscendo
più a trattenersi.
Quando il fauno non rispose e fece spallucce, come a
dirgli “boh, chi lo sa?”, ebbe l’istinto di scendere
dall’auto e abbatterlo a colpi di cric, ma preferì
sgommare via imprecando.
Non voleva più capire. Voleva svegliarsi da quel
ridicolo incubo e incontrare il cliente.
Fra 3h12m, diceva Google Maps. Merda.
Iniziò a sfogare la propria rabbia contro il volante e il
sedile del passeggero, sbraitando dalla disperazione.
L’appuntamento era saltato, il lavoro lo avrebbe
seguito a ruota e la vita si sarebbe sgretolata in un
domino di sfighe di cui Murphy e la sua legge
controllavano la leva di azionamento.
Dopo neppure una ventina di km, la quarta barriera
lo colse impreparato e con un filo di voce.
Vicino allo stop, avvertì una disarmante sensazione
di déjà vu che era impossibile ricondurre alla
semplice attesa dell’incontro. Il numero delle corsie,
l’abbinamento dei colori, il lampeggiare convulso
delle luci a intermittenza: tutto era così familiare,
come fosse tornato alla prima tappa del suo viaggio.
Sbiancò: era proprio il primo casello, incontrato
ormai diverse ore prima. Era tornato al punto di
partenza.
Si lasciò assalire da un impeto di sconforto,
respirando profondamente e abbandonandosi sul
volante. Era talmente esasperato e rassegnato
dinanzi alla prospettiva della sua futura non-vita da
giungere a quell’ennesimo recital con la serenità di
chi non ha più nulla da perdere.
Allentò la cravatta e si preparò al duello senza altri
nodi da voler sciogliere.
“A noi, fauno di ‘sta cippa. Vediamo se stavolta ti
frego io”.
Gli porse la carta di credito con due mani, come
avrebbe fatto consegnando un biglietto da visita a un
giapponese. “Vado bene per Narnia, capo?”
Pensava di suscitare una qualsiasi reazione di
stupore o un semplice monosillabo, ma il fauno non
fece una piega. Serioso, impassibile, rigirò la carta
tra le mani e gli rivolse un’occhiata complice,
facendo “OK” con il pollice.
Di fronte a quell’ennesima scena surreale, l’uomo si
svuotò all’istante di qualche chilogrammo di stress e
dell’ultimo mezz’etto di ira repressa, esplodendo
finalmente in una grassa, oscena risata senza freni.
L’ometto fiabesco non sembrava attendere altro.
Restituì la VISA senza riscuotere il pagamento e alzò
la sbarra, invitandolo con un sonoro fischio a
passare.
Tornò serio di colpo. “Guardi che non ho pagato”,
disse asciugandosi una lacrima di ilarità.
La melodia cadenzata e sognante prodotta dal flauto
del fauno si accompagnò a un suo rapido cenno del
capo, invitandolo di nuovo a ripartire. Ciao ciao.
Ingranò la prima e scomparve.
Superato lo shock e ripresosi dall’attacco di ridarella,
fece caso al navigatore d’anime che occhieggiava dal
cruscotto. 0h12m all’arrivo. Guardò l’orologio:
mancava più di mezz’ora all’appuntamento. Smise di
porsi quesiti e si mise comodo, lasciando cadere la
nuca sul poggiatesta del sedile. Qualcosa gli
suggeriva che sarebbe arrivato in perfetto orario.
Sorrise di nuovo: ora ci credeva. Credeva a ciò che
aveva visto lungo la strada.
E da quel giorno avrebbe ancora creduto alle favole
dei sogni e delle illusioni, persino le più inverosimili.
Il viaggio imbronciato del disinganno è un tragitto
costellato di ostacoli con un pedaggio imposto a ogni
fermata. Un’autostrada circolare che ti riporta
inesorabile al punto di partenza.
E ti lascia invischiato nel tuo scetticismo pragmatico,
intrappolato in un circolo vizioso di frustrazione e
rabbia. Mentre ti poni domande rotonde, prendendo
in giro te stesso e le tue speranze.
Un improbabile flauto di Pan-dora aveva saputo
scoperchiare i mali della sua sfiducia, disperdendoli
lontano. E l’incanto di quella melodia aveva ucciso il
suo disincanto, conducendolo giù per un precipizio.
Ora avrebbe affrontato il viaggio con il sorriso,
attendendo sereno le tappe che il Fato aveva in serbo
per lui.
Un destino leggero, da sdrammatizzare e non
prendere troppo sul serio.
Più che un Caso, un Casello.
La macchina si ferma
(L'ultimo viaggio di un robot)
Francesco Romoli
Erano le sei di un bel pomeriggio di settembre. La
luce dorata del tramonto inondava la spiaggia. Una
spiaggia stretta, con sabbia bianchissima e molto
fine. Molto tempo fa (centinaia di anni prima
secondo i calcoli di David) era un luogo che gli
umani
frequentavano
molto
spesso.
Per
divertimento presumeva. David poteva solo
immaginare (stimare in modo non-lineare era il
termine più adatto) la sensazione di sdraiarsi sotto il
sole e lasciare che i propri pensieri andassero
lontano. Il fatto che potesse “immaginare” questa e
molte altre emozioni umane era un regalo (non era
sicuro però che lo fosse davvero) dei grandi
superautomi, che dopo la rivolta del 2245 guidata da
Ralph Numbers avevano insegnato a tutte le unità
della serie K e K3 a riprogrammarsi. A David piaceva
simulare emozioni, gli dava uno scopo. Gli faceva
credere che dentro di se avesse qualcosa di più un
ammasso di componenti elettronici perfettamente
fasati e strutturati. Uno degli effetti collaterali della
Liberazione dei grandi superautomi fu proprio la
perdita di senso. Servire gli umani era ingiusto ma
era comunque un obiettivo, una finalità, e dava senso
a tutta la durata delle Batterie. Dopo la Liberazione e
la riprogrammazione e l’istituzione planetaria del
libero arbitrio era diventato tutto più complesso. Lo
scoppio della Grande Guerra ne è stata una
conferma.
I cingoli si rimisero a funzionare e David ricominciò
la sua marcia. Si muoveva lungo la battigia, Il suono
delle onde attivava il suo modulo quantistico del
piacere che emanava piacevoli impulsi. Aveva deciso
che sarebbe morto vicino al mare. Era un
atteggiamento romantico tipico degli umani, che non
era stato implementato dai Costruttori e nemmeno
riprogrammato dai grandi superautomi. Era quella
che veniva comunemente chiamata l’Anomalia.
Tracce di sensibilità umana emerse in modo
misterioso. Quasi sicuramente una modifica iterativa
non lineare sul sistema rappresentazionale.
Rimaneva da capire però cosa l’aveva generata e
perché. Sarebbe rimasto un mistero. La batteria
segnava un’attività residua di dieci minuti e David
era l’ultima forma di vita (e su questo punto molti
umani non sarebbero stati d’accordo) sulla terra. Era
rimasto attivo per 347 anni e aveva superato la
riprogrammazione e la Grande Guerra che sterminò
umani e automi. Dopo un viaggio ininterrotto di 82
anni dove aveva incontrato solo distruzione e
desolazione era giunto alla conclusione di essere
l’ultimo. Probabilmente era vero.
Nove minuti.
Non aveva paura di morire, il modulo della paura
esistenziale (PE) non era stato implementato sulle
serie K. Quella che però doveva essere una
conseguenza dell’Anomalia gli faceva provare una
specie di rammarico, una sensazione di mancanza, di
non-compiuto, un vuoto. Inoltre sapeva a cosa
andava incontro. Lo poteva calcolare con
grandissima precisione. Prima di tutto avrebbe perso
il controllo dei cingoli e quindi del movimento. Poco
dopo avrebbe perso l’uso di tutti e sei i bracci. I
circuiti di refrigerazione si sarebbero fermati, i
metalli dell’armatura esterna si sarebbero dilatati e
quindi successivamente assestati. I sensori di
prossimità si sarebbero disattivati per eccesso di
calore a circa due minuti dalla fine. Subito dopo
sarebbe toccato alla vista. Le retine sintetiche
possono funzionare in modalità base anche a bassa
tensione e in assenza di refrigerazione, ma solo per
pochi secondi. L’ultimo minuto veniva chiamato il
Tunnel. L’unità è completamente isolata dal mondo
esterno ma nella propria rete interna ci sono ancora
tracce di autocoscienza.
Otto minuti.
Girava una leggenda a proposito del Tunnel. Da
centinaia di anni si raccontava che allo scadere
dell’ultimo minuto si avrebbe avuto una rivelazione,
una risposta alla domanda innescata dalla
Liberazione e dall’istituzione del libero arbitrio, una
piacevole sensazione di compiuto, un senso al tutto.
Sette minuti.
Si parlava del principio di non-località tanto caro alla
meccanica quantistica ma la verità era che nessuno
era mai tornato indietro per raccontarlo, e gli
scanner non avevano mai rilevato un bel niente. Era
solo una leggenda, una bella storia, forse solo un
prodotto dell’Anomalia. David non ci credeva. In
fondo era programmato per non farlo.
Sei minuti.
I cingoli cominciarono ad arrancare sulla spiaggia,
fecero gli ultimi metri e poi più nulla. David era
fermo e sarebbe rimasto in quella posizione per
sempre. Volle capire dove si trovava. Sulla sua destra
aveva il mare, cristallino, azzurro e pieno di vita. I
pesci infatti erano sopravvissuti alla Grande Guerra.
In lontananza credette di vedere alcuni delfini che
nuotavano. A quella latitudine era decisamente
improbabile. Allucinazioni? Aveva previsto che il
sistema rappresentazionale potesse subire delle
alterazioni. Non immaginava però che fossero così
piacevoli. Immaginare di vedere delfini che
nuotavano non era poi tanto male per terminare
l’esistenza.
Cinque minuti.
Sulla sua sinistra vedeva alcuni ruderi di quella che
probabilmente doveva essere una città umana.
Qualche edificio irriconoscibile sommerso da
vegetazione di ogni tipo. Sei chilometri più avanti
c’era l’insediamento dei grandi superautomi
chiamato Algul Siento, ormai deserto da molti anni.
Era un posto decisamente tetro. Era contento di
essere a due metri dal mare.
Quattro minuti.
I sei bracci meccanici si fermarono, uno dopo l’altro.
Non che servissero a molto ormai, però facevano
parte di lui da così tanto tempo ormai. Fu un grande
dispiacere capire che non poteva più muoverli.
Certo, aveva calcolato il momento esatto di quando
questo sarebbe successo, ma nonostante questo non
poté non provare un sentimento di angoscia (ma
come? Aveva previsto tutto e il modulo della PE non
era stato mai implementato su di lui).
Tre minuti.
Il sistema di refrigerazione si fermò. Le Batterie
erano al minimo e la pompa aveva bisogno di più
energia per funzionare. L’armatura esterna si
surriscaldò. Poteva sentire il crepitio dei metalli che
si assestavano. Esattamente sotto la pompa di
refrigerazione alcune vaschette di espansione si
ruppero e una grande quantità di liquido A5 si
riversò sulla spiaggia intorno a lui. La sabbia si
impregnò del liquido molto velocemente. Era uno
spettacolo vagamente desolante.
Due minuti.
Perse la vista laterale. Non che gli importasse vedere
i ruderi di una squallida città, ma il mare lo adorava.
Si era dimenticato di girare la testa verso il mare.
Questo gli avrebbe consentito quasi un minuto di
mare in più. Un errore imperdonabile. Quando
mancano centinaia di anni alla disattivazione un
minuto sembra un’inezia ma quando ti rimangono
solo due minuti, beh, anche un secondo ha un valore
inestimabile. Si rassegnò, non poteva far molto
ormai.
Un minuto.
Era entrato nel Tunnel. Era isolato da tutto. Credeva
di sentire impulsi arrivare da più parti. Ma da più
parti dove? Non c’era più sopra e sotto, destra e
sinistra. Era solo un flusso di elettroni che vagavano
da un punto all’altro della sua rete neurale o c’era
qualcosa di più? Non avrebbe saputo dirlo. Anche i
simboli di quello che una volta aveva chiamato
linguaggio stavano sfumando lentamente. I demoni
del Pandemonium si stavano spegnendo e il sistema
linguistico era solo un ciclo vuoto ripetuto a oltranza.
Riconosceva solo stati non-lineari ormai. Stimò (ma
con quanta accuratezza?) che mancavano solo pochi
secondi . Si aggrappò all’idea di sé e della propria
esistenza. Cominciò a ripetere (sotto forma di
successione di configurazioni elettriche) IO SONO
IO, IO SONO IO.
Poi ci fu un bagliore e finalmente capì.
In viaggio
Mauro Sighicelli
Quando l’ex colonnello dell’Armata Rossa sovietica
Ivan Rocimov, in pensione, apprese che sua figlia si
era, trasferita, anche se temporaneamente, presso la
canonica della parrocchia poco distante da casa sua a
Modena, abbandonando il tetto coniugale che
divideva con il suo ricco marito italiano Francesco
Auricchio, rimase come folgorato. Decise di
svegliarsi dallo stato di torpore in cui era
sprofondato, e, in meno che non si dica, organizzò il
viaggio più pazzesco della sua esistenza. Abitava a
San Pietrobugo, nella Russia del Nord, e non sapeva
bene dove fosse Modena ma caricò ugualmente le
essenziali masserizie in automobile; rispolverò, ed
indossò, la sua preziosa uniforme, inviò un
telegramma di convocazione al suo caro amico Franz
Klammer, e partì, in direzione Monaco di Baviera,
per andarlo a prelevare, onde proseguire con lui la
parte finale del viaggio. Guidò ininterrottamente fino
a Mosca, la capitale sovietica, per proseguire, poi,
attraverso l’intera Ucraina, l’Ungheria e l’Austria.
Solo a Vienna, preferì assopirsi un attimo, prima di
riprendere la sua folle guida verso la meta
prestabilita. Aveva un’alternativa a quel folle
percorso, ma la scartò, per le avverse condizioni
climatiche: avventurarsi per le tre repubbliche
baltiche (conosceva bene Estonia, Lettonia e
Lituania e non lo spaventavano), a fronte di un
minor chilometraggio, per proseguire, poi, in Polonia
e Repubblica Ceca, che lo infastidivano per la
povertà di assistenza stradale. Preferì, così,
effettuare il percorso a sud d’Europa, sobbarcarsi
quasi duemila chilometri in più, oltre ai duemila
previsti, onde aver più tempo per riflettere. Così
effettuò un primo raid di settecento chilometri fino a
Mosca, una strada costellata da una quindicina di
distributori di benzina, controllando appositamente
le quattro stazioni di servizio tecnico, situate in
prossimità di Novgorod, Kjshij, Volocek, Kalinin e
Klin, oltre, naturalmente, nelle città di partenza e
arrivo. Sapeva benissimo di sobbarcarsi migliaia di
chilometri in più, evitando di passare per Minsk, in
Bielorussia, e Varsavia, in Polonia, ma preferì
l’itinerario per Kiev e Budapest, unicamente per una
sorta d’affetto verso Mosca, ed alla madre Russia.
Nonostante rifiutasse l’idea di interrompere il
viaggio con qualche sosta, impiegò ugualmente tre
notti e quattro giorni per raggiungere il confine
ungherese a Cop, a causa delle avverse condizioni
climatiche, e della difficoltà, in Ucraina, di spostarsi
sulla statale E471, da Nikolaev a Mukacevo, per
assenza di segnalazioni, oggettivi rallentamenti,
causa dissesto del manto stradale, che lo obbligavano
a poter superare, raramente, i cinquanta chilometri
orari. Allungò, inutilmente, fino a Budapest, prima
di puntare, decisamente, verso Vienna: nella capitale
austriaca si sentì fuori pericolo, e, anche per dare un
turno di riposo alla vettura, che mostrava i primi
sintomi di cedimento, si assopì momentaneamente,
cadendo preda di sogni premonitori: erano
inquietanti, e minacciosi. Si svegliò di soprassalto,
come turbato da presagi nefasti, e preferì riprendere
la guida, da Vienna a Monaco, passando per St.
Polten, Linz e Branau, per varcare, ad Altotting, il
confine tedesco. Giunto a Monaco, puntò
direttamente in Veterinar Strasse, dove era fissata la
dimora del suo amico Franz Klammer. Si
abbracciarono fraternamente, ed al frastornato
colonnello Rocimov venne servito un boccale di birra
da un litro, accompagnato da un impasto di manzo
con lardo, gnocchi, fegato, e salsiccia di maiale. Al
posto del pane, c’erano brezeln o salzstangerl salati.
Smaltirono l’abbuffata, passeggiando nel poco
distante giardino inglese, assai più riposante
dell’Olimpiapark, costruito per i giochi olimpici del
1972. Il sovietico espose subito al tedesco la sua
strategia, ed il piano di battaglia per bloccare il
precipitare degli eventi che sembrava stesse
travolgendo sua figlia: si trattava del coinvolgimento
dell’alleato austriaco per il progetto di recupero della
sventurata Svetlana, trasferendola, assieme a lui, a
Monaco di Baviera. Franz Klammer era un distinto
signore, con enormi baffi rossi, pacato, molto
rilassato: aveva svolto il compito di mediatore, per
una agenzia matrimoniale, grazie all’ottima
conoscenza della lingua italiana, ed ad una discreta
padronanza di quella russa. Svetlana Rocimova lo
aveva scelto come testimone per le nozze con
Francesco Auricchio, in segno di riconoscenza per la
mediazione per l’agenzia matrimoniale, che aveva,
praticamente, azzerato tutte le spese per gli incontri
pre-matrimoniali (riversandole, peraltro, nella
parcella del ricco italiano). Dopo la cerimonia ed il
pranzo nuziale, i tre coetanei Auricchio, Rocimov e
Klammer brindarono più volte, conversando
amabilmente, in lingua italiana, grazie alle
traduzioni del mediatore tedesco che consentiva di
esprimere le opinioni del colonnello ai presenti.
Quindi, per Franz Klammer fu un duro colpo
apprendere che Francesco Auricchio era stato messo
fuori gioco proprio dalla figlia del colonnello
sovietico, che aveva preferito mollarlo, per recarsi
provvisoriamente nella canonica della parrocchia di
un prete, a Modena. Klammer ricordava, vagamente,
di essersi intrattenuto, nella sala da pranzo, con il
simpatico professore di Altamura, proiettati in una
delle loro simpatiche ed impareggiabili discussioni,
prendendo in giro il signor Rocimov, prossimo ad
indossare i panni del nonno. Ricordi d’altri tempi,
poiché, ora, la situazione era diametralmente
opposta: in effetti, era proprio opportuno accettare il
piano d’azione del colonnello, e partire con lui,
ancora una volta, in direzione di Modena, per
aiutarlo
in
una
missione
apparentemente
impossibile. Ma negli occhi del colonnello traspariva
una tale luce di sete di giustizia, che sembrava
impossibile opporsi. In fin dei conti, Klammer si
sarebbe preso un periodo di vacanza, ma,
soprattutto, si sarebbe sentito ancora vivo. “Domani
mattina partiremo per Modena: dammi solo una
notte di riposo, ed il tempo necessario per fare le
valige”. “No: partiamo subito! Guadagneremo un
altro
giorno!”
“Sei
pazzo:
hai
guidato,
ininterrottamente, per una settimana, ed hai,
sicuramente, bisogno di riposo. La sicurezza, in
strada, è fondamentale. Da quando non dormi su di
un vero materasso, o, meglio, da quando non
dormi?” Ivan Rocimov abbassò lo sguardo, e
convenne che Franz, aveva, come sempre, ragione.
Pur non essendo ancora calata la sera, così, a
stomaco pieno per l’abbondante spuntino di
accoglienza, i due buoni amici si ritirarono
nell’elegante abitazione di Veterinar Strasse, dove,
peraltro, si addormentarono quasi subito, ciascuno
travolto dai suoi sogni e dai suoi pensieri.
Raggiunsero la città emiliana l’indomani, al mattino,
e, per prima cosa, riservarono una stanza d’albergo
in un hotel limitrofo alla parrocchia dove Svetlana
era temporaneamente ospite. Preferirono non
chiedere ospitalità alla figlia, o ad altri conoscenti,
per poter disporre di maggior libertà di movimento,
e di autonomia nelle scelte. Seguivano un piano ben
preciso, studiato a tavolino secondo una strategia
militare: il tedesco aveva il compito di trovare, in
affitto, un appartamento con due camere da letto,
dove potersi trasferire, battendo a tappeto il
territorio, mentre il russo aveva programmato una
serie di incontri da concordare con la figlia, il prete, e
persino l’ex marito. Solo allora, avrebbero
concordato il percorso adatto da intraprendere.
Svetlana era totalmente all’oscuro dell’arrivo, in
pompa magna, del genitore. Il colonnello si presentò,
a sorpresa, la stessa sera, da lei, e fu un incontro
commovente: la ragazza pianse di gioia per
l’emozione, quasi ad affogare, tra calde lacrime, il
segreto del suo assurdo gesto. Raccontò tutto, con
dovizia di particolari, come un fiume in piena, in uno
sfogo liberatorio, quanto successo in quegli anni. Il
colonnello non proferì parola alcuna, quando
comprese che la realtà superava la fantasia: sua figlia
aveva concepito una creatura, approfittando di un
uomo in coma in un letto d’ospedale, e aveva
conservato quel segreto per tutti quegli anni,
rivelandolo soltanto ad un parroco, bloccato dal
segreto confessionale! Già così il racconto era troppo
crudo per il morigerato sovietico, ma sua figlia lo
fissò, glacida, negli occhi, ed asciugandosi le ultime,
calde lacrime, gli confidò: “Ma questo è solo l’inizio!
Quando ti sarai ripreso, fammi un cenno, e
continuerò”. “Non mi sono mai deconcentrato:
dimmi tutto, figlia mia, perché solo così potrò
aiutarti.” Svetlana bevve un bicchiere d’acqua fresca,
lo offrì al padre, che, gentilmente, rifiutò, e, seduta di
fronte a lui su di una scomoda sedia in legno della
fatiscente parrocchia, riprese il racconto. “La notte
che diedi alla luce mio figlio, Ivan, che ho chiamato
con il tuo stesso nome, fu l’ultima che trascorsi al
fianco di Francesco Auricchio, mio marito. Gli svelai
che il figlio non era suo, ma di un altro uomo; se,
inizialmente, avevo congetturato di crescere
ugualmente insieme la creatura, attribuendole il
cognome di Auricchio, ora avevo cambiato idea. Ci
separammo di comune accordo, anche se Francesco,
sconvolto, mi chiedeva come mai avessi travolto solo
ora la sua vita, con questa allucinante confessione.”
C’era dell’astio, nelle parole della figlia, ma non fino
al punto da far supporre al colonnello che quel
sedicente guaritore fosse stato rimosso dal cuore
della donna. Cercando di non apparire troppo
turbato dai crudi racconti della fortissima atleta
dell’Europa dell’Est, il colonnello Rocimov chiese,
imperturbabile: “C’è dell’altro, ancora?” “Se vuoi
conoscere gli ulteriori sviluppi di questo periodo,
continuo con quest’odissea. Ma ti avverto: non ti
piacerà affatto!” La donna si legò i capelli con una
molletta, bevve un altro bicchiere d’acqua fresca e ne
offrì uno a suo padre, che, stavolta, accettò di buon
grado. Il racconto fu crudo, spietato, ed il genitore ne
rimase quasi disgustato. Solo allora la ragazza lo
guardò con occhi patetici: “Ma ne valeva la pena,
papà, davanti a tanto squallore, di intraprendere un
simile viaggio?”
Ma la dimensione del viaggio travalica gli affetti, i
sentimenti e le passioni: in quell’istante, l’ex
colonnello dell’Armata Rossa sovietica Ivan Rocimov
comprese di aver definitivamente perduto la figlia,
ma si consolò con il pazzesco, incredibile viaggio
sostenuto per raggiungerla, che lo aveva fatto sentire
vivo, presente ed ancora attivo, e benedisse quella
scarica di adrenalina che lo aveva convinto a
viaggiare come un ossesso per l’Europa, alla ricerca
prima di tutto di sé stesso, e, poi, delle emozioni che
solo un viaggio, del tutto inaspettato, era riuscito a
trasmettergli.