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Sé-stanti Storie di viaggi, strade, sentieri, percorsi e traiettorie «Vertigini» collana di narrativa Sé-stanti. Storie di viaggi, strade, sentieri, percorsi e traiettorie © 2013 Mariacristina Brettone, Roberto Gianolio, Emma Grillo, Damiana Guerra, Sara Maggi, Alberto Marcolli, Roberto Ragazzo, Francesco Romoli, Mauro Sighicelli © 2013 Matisklo Edizioni ISBN: 978-88-98572-12-0 Prima edizione, dicembre 2013 Matisklo Edizioni S.N.C. di Oddera Cesare & Vico Francesco Via Eremita 14 17045 Mallare (SV) [email protected] www.matiskloedizioni.com Indice Nota introduttiva Sé-stanti La curva del puzzle La passeggiata Il cielo sopra Berlino Un altro piccolo signore Due righe E la chiamavano musica... Il casellante La macchina si ferma In viaggio Nota introduttiva Il progetto Matisklo Edizioni è un progetto recente: abbiamo iniziato a parlarne "seriamente" nel febbraio 2013, affrontando i vari aspetti legali, amministrativi e fiscali relativi alla creazione di una casa editrice con un misto di entusiasmo, curiosità e timore reverenziale. Non siamo mai stati tipi da burocrazia, da modulistica, da leggi e codicilli vari. Pochi mesi più tardi, nel luglio 2013, sono usciti i primi quattro libri. La soddisfazione è stata tanta, per noi e per chi ha deciso di scommettere assieme a noi sul digitale (e soprattutto sulla poesia in digitale), nonostante buona parte di coloro ai quali parlavamo del progetto "storcessero il naso": bello sì il digitale, ma farete anche i libri cartacei? E poi 'sti eBook dove li leggo? Dove li compro? Ma siete davvero una casa editrice vera? In questi ultimi cinque mesi abbiamo ampliato il nostro catalogo, incontrato tanta gente sul nostro cammino (autori, editori, curatori di blog e siti internet, lettori e semplici appassionati), nel frattempo gli eBook sono passati da essere una realtà marginale e semi-sconosciuta ad un ruolo primario nel panorama editoriale italiano; anche molti tra coloro che nutrivano dubbi sulla tecnologia del libro digitale si sono ricreduti ed hanno capito che di un libro quel che conta è il contenuto, non il contenitore che lo ospita. Ad un certo punto ci siamo detti: perché non organizzare un concorso per racconti? La scelta del tema è stata quasi obbligata: avevamo intrapreso questa avventura, questo viaggio, così di recente che non poteva cadere su altro che "il viaggio", inteso in ogni sua forma e declinazione. Nasce così l'idea di "Sé-stanti. Storie di viaggi, strade, sentieri, percorsi e traiettorie". Abbiamo fin da subito iniziato a ricevere racconti, persone differenti con stili e linguaggi differenti, questo libro è dedicato a tutti loro. Quelli che seguono sono i racconti vincitori, i più originali, quelli che meglio hanno saputo abbracciare lo spirito che sta alla base di Matisklo Edizioni: usare le parole per comunicare, per scambiarci esperienza e memoria, per sentirci umani, per sentirci vivi. La strada da percorrere è ancora lunga, ma il cammino sarà più lieve se decidiamo a turno di raccontarci una storia. Cesare Oddera e Francesco Vico Sé-stanti Storie di viaggi, strade, sentieri, percorsi e traiettorie Mariacristina Brettone Roberto Gianolio Emma Grillo Damiana Guerra Sara Maggi Alberto Marcolli Roberto Ragazzo Francesco Romoli Mauro Sighicelli La curva del puzzle Mariacristina Brettone C’era vento quel giorno, come spesso accade nei cambi di stagione. Quella gonna non era certo adatta alle sferzate d’aria di una giornata così. In certi momenti la governava a fatica, tenendola giù con entrambe le mani nel timore che si sollevasse troppo. Anche quegli stivali dai tacchi così alti e sottili certo non si confacevano al ciottolato grossolano e scomposto di quella spiaggia. Ma lei voleva andare lì, sentiva di doverci andare. Come se quel luogo la stesse richiamando, come se in quella spiaggia dovesse trovarvi qualcosa. Ma forse era solo se stessa che stava cercando, il suo significato dentro un’esperienza che non capiva. Era fatta così lei, voleva sempre comprenderle le cose. Come pure non riusciva a lasciar correre via la vita con indifferenza: da sempre pensava ogni cosa, anche senza intenzione, sentendo mai semplice il vivere. Era una sua attitudine innata questa, già da bambina faceva così. Infatti, quel momento lì in spiaggia, le ricordava di quando da piccola nella campagna di sua nonna, dagli alberi si raccoglieva in un piccolo cesto un po’ di nespole e ciliegie, e andava poi a farne merenda ai piedi di una vecchia pianta d’olivo. Le piaceva molto stare su quell’erba bassa tappezzata di pratoline, e da lì, lasciar correre via i suoi pensieri, che già da allora andavano anche verso il suo dentro. Era fatta così, difficoltosamente semplice, legata già allora alla poesia e all’onestà delle cose – che non significa essere romantici, ma semplicemente istintivi, disorientatamente veri. Ora se ne stava accovacciata davanti a quel mare, agitato anche lui dal cambiamento che lo scorrere delle stagioni impone. Ritmo e fragore di onde continue, che sembravano mettersi in coda, l’una dietro l’altra, pronte, in attesa d’incontrare la riva. Il vento, in direzione contraria al loro moto, ne sollevava la bianca schiuma, pennellando così di schizzi quell’orizzonte da sempre fisso e imperturbabile nella sua linearità. Si sfilò gli stivali non perché le fossero scomodi, anzi, ci si sentiva bene nell’essere femminile, lo esigeva per se stessa, la faceva sentire più a suo agio nel significato che avvertiva di sé: una rispettosa responsabilità di essere donna. Le piaceva di più stare scalza però, e lo faceva sempre non appena ce n’era la possibilità. Gradiva quella sensazione sottile che si crea dal contatto col suolo, forse un senso di radicamento, una consapevolezza del presente, soprattutto per lei, che con la sua mente era sempre altrove. Altrove, non tanto per sogno ma per scomodità nel suo presente che troppo spesso non le somigliava o non trovava sereno. Quella particolare agitazione che stava animando il tempo, in quei giorni si rifletteva pure dentro di lei. Sentiva vicina a sé la natura; la viveva con spontanea complementarità, con una complicità istintiva. Fidandosi di essa, in quelle ore si lasciò così guidare tacitamente dalla voce del vento, che la riportò lì, su quella spiaggia, proprio in quel luogo dove già qualcosa aveva vissuto. Amava lei il vento, farsi attraversare da quell’energia invisibile, a volte impetuosa in altre sottile. Toglie la polvere il vento, rinnova l’aria, ti avverte che sta cambiando qualcosa, ti mostra che esiste anche ciò che non vedi, t’insegna che non puoi trattenere le cose, che come il vento, ti attraversano e vanno. Anche lui aveva passione di questo muoversi d’aria. Lui, ragazzo, vecchio e bimbo in alternanza continua, fatto di talento e riservatezza, e d’ingenua nobiltà la sua presenza, in una figura così distinguibile tra le cose comuni. Piacente, quasi troppo - se troppo si può dire delle belle cose, o troppo diventa quando non sai distogliertene -, di un’eleganza musicale nel muoversi, di un ritmo pacato e vitale nell’espressione spontanea di sé. Scoprirono di condividere il piacere del vento, come pure altre e più cose nelle casualità di quei loro brevi incontri. Su quella spiaggia ci si erano trovati mesi prima a vivere momenti insieme. Vi andarono un giorno, su idea di lei, per studiare un lavoro che li vedeva partecipi; vi ritornarono poi alcune notti per quel curioso desiderio di conoscersi. Ore sdraiate sui sassi, mentre tutto il resto stava fermo altrove, e parole tra loro scambiate, che si respiravano con semplicità. Erano momenti in cui tutto pareva muoversi con la facilità di un andare in discesa; tutto era sorprendentemente lieve. Un incontrarsi sempre più nitido, verosimilmente palese, giocato nell’armonia di apparenti diversità: lei che adorava il sole, lui invece la notte; lei grovigliosamente emotiva, lui pacatamente altrettanto; lei sospesa nel tempo terreno, lui religiosamente proteso al cielo. Non erano tratti di separazione, non si manifestavano come tali, tutt’altro. Erano segni di completamento, di quel potersi rendere interi a vicenda. Da quella spiaggia lei aveva visto il cielo di notte, sdraiata a faccia in su, lui poco più in là, e dietro il rumore del mare che pareva essersi appartato con discrezione, quasi a non voler togliere nulla all’ascolto delle parole che si scambiavano. Sembrava che tutto fosse come doveva essere. Il mondo era lì, intorno, nulla che mancava e niente di troppo. Da quella spiaggia aveva visto il cielo di notte, una notte, era stata lei stessa quel cielo, quando, tra i sassi e le stelle, smuovendo il silenzio, la voce di lui esordì con: “Posso chiederti una cosa?”. “Domandare è lecito, e rispondere è cortesia” disse lei appoggiandosi al proverbio per sostenersi in un certo imbarazzo. “Mi abbracceresti?”. Lei lo aveva di fronte a sé, così franco tra la terra ed il cielo, con quei suoi occhi intensi e nitidi sospesi nell’attesa, nei quali lasciarsi cadere a precipizio e scivolar giù senza bisogno di coraggio. Con malcelato entusiasmo lei acconsentì, domandando: “Con le scarpe o senza?” Quel momento così semplice e vivido, quasi a restare sospeso a mezz’aria per la sua intensità, prese subito il sapore dell’infinito, l’ebbrezza dell’oltre che rompe ogni tempo, e si fissa tacitamente tra le cose impalpabili ed eterne, quelle che non perderai più: ...il tuo petto sul mio, e viceversa. Vibrazione di cuore su vibrazione di cuore. In punta di piedi per colmare la distanza alla tua statura. Gli occhi che cercano dietro le palpebre chiuse... e nel petto un’emozione che ti trova scoperta. In certi momenti respirare non serve... ti senti vivo a bastanza. A volte, alla luce del giorno ti domandi poi, se quanto vissuto durante la notte sia stato vero davvero. Sarà per quella gioiosa perplessità che ti ferma davanti, e dentro, ai momenti più intensi. Eppure in quel momento di ieri, erano solo loro e parole, e sassi e mare; e non c’erano alibi di cuore o complici istinti a influenzare quella notte. Ciononostante, era stato vero, davvero. Quella vibrazione intensa li aveva attraversati andarsene. in quell’abbraccio senza poi più Si riempie di questi attimi la vita, e allo stesso modo si colma l’animo e il pensiero di ogni momento che segue. Solo qualche giorno e le loro volontà fecero sì che trovarono modo di rivedersi ancora per qualche istante, altrove, dove nuovi attimi avvicinavano ancora a quel piacevole senso del sentirsi vivere... una casetta ordinata, un letto disfatto, una panchina sul mare e capelli e pelle da accarezzare. Sorrisi del cuore che si dilatano e si allargano ed allargano fino all’anima mia — erano gli attimi che l’avrebbero trattenuta nello stupore di quei giorni — ...ed esplode tanta e tanta la meraviglia, come lo schermo di un film che si frantuma e cede, e resti lì a vivere quella storia da dentro, anche alla luce del giorno. E resta vera davvero. Si sta così bene nei sogni, quei sogni che con fili sottili ci legano ai desideri. Ci si sta tanto bene da non concedere possibilità alla delusione, perché l’illusione non esiste, quando sei felice. Ti convinci, credi, che tutto sia vero così. E che bello che è starci dentro, almeno per un po’. Almeno per un po’... infatti, perché, come il vento fa, nulla sta fermo. Senza averne inteso il motivo, lui si allontanò con la scusa di cento lavori, di un’altra città, ed un quotidiano riempito di ogni cosa. Silenzi. Distanza. Qualcosa stava cambiando ma lui non le aveva concesso di partecipare al gioco. Nemmeno di capire. Soprattutto nei silenzi lei non riusciva a trovarsi. Silenzi pietrificanti che non sapeva tradurre, così come quelle parole non mantenute. Cos’erano, timore, fastidio, muta indifferenza, fragilità? O c’era qualcosa che lei non conosceva? Perché di lui le rimaneva solo la sua assenza? Chi sei, dietro quegli occhi neri? Un castello antico, spade al muro, pronte, un tenero fanciullo che sa di principe,un principe che profuma di eroe. E tra quei capelli scuri che c’è? Non posso dirlo io, l’anima non si tocca così. Potrei carezzarli quei capelli, ad averli qui,e quell’anima mi sarebbe sorella se aprisse un ingresso. Quali cose ti muovono sotto la pelle? Certo lui vive di sé e cavalca lontano, ma chissà cosa sfama il suo cercare. Non le riusciva di trovare il modo di parlargli, di raggiungerlo in un dialogo. Solo un continuo eco di rimandi e brevi parole da poco, scambiate a lunghi intervalli, qualche sms che non sapeva mai come intonare, ma nulla, nulla che potesse aiutarla a farla salire su quel treno con il quale lui si stava allontanando per chi sa quale estraneo orizzonte. Pensiero, respiro, tempo... tutto restava come sospeso, aggrappato al dondolio del silenzio. Non sapeva comprendere quello che stava accadendo e nemmeno perché qualcosa stava accadendo. Il dubbio felice del “vero davvero” stava ora cambiando d’umore. Le sue paure si offrivano così con disinvoltura, e pervicaci e maldicenti, creavano solo ombre che, anche al di là di ogni alibi legato ai ricordi, diventavano vere. Ombre sempre più vivide, e spesse come le paure, come la polvere, che silenziosamente cresce col trascorrere del tempo. ...Resto per un istante e per sempre, immobile, come un albero che cresce, eternamente, in attesa di un inizio. Lei, incredula e ostinata, cercò comunque di appendersi a mille infinite scuse per non scivolarci dentro, per non lasciarsi tingere dai colori dell’amarezza. Arrivarono i giorni, e giorni tediosamente si susseguirono con la solita forza d’inerzia. Anche le stagioni stavano cedendosi il passo. E ore su altre ore trascorse ...chiudendo bauli di cose vissute, facendo valigia di sé, qualche volta, ogni giorno. Basta poco per essere felici, ancor meno per non esserlo. Brevi istanti sono serviti a farle trovare il cielo, altri ancora per perdersi nella terra delle ombre, dove tutto si arresta o a fatica si muove. In questo tempo di mezzo, lei s’infilò indosso gli abiti della disappartenenza, non trovando in sé altro da fare. Ma le cose forse non passano, restano semplicemente ferme in un punto del tempo, mentre tu ti muovi o ti metti via da parte nell’assenza, evitando di lasciarti accorgere. La vita però, come al solito, inaspettatamente da sola compone le cose. Così da sulla panchina nella sala d’attesa dei suoi pensieri, una frase dalle pagine di un libro che stava leggendo, sbatté con violenza sulla sua realtà: “...quelli che non seguono i moti della propria anima, è inevitabile che siano infelici”. Diceva Marco Aurelio. Ci stava pensando a quelle parole. Lo stava facendo lì ora, accovacciata su quei sassi scomodi, mentre il vento continuava a giocare a far schizzi di onde nel cielo e muovere i lembi della sua gonna come le braccia di un direttore d’orchestra. Scostandosi con gesti lenti i capelli dal viso, come a liberare la mente, si ricordò di nuovo di un tratto della sua infanzia: ogni anno a tardo inverno lei vigilava su un piccolissimo prato in mezzo alle rocce arenarie, attendendo la fioritura dell’unico tulipano che c’era sulla collina. Un tulipano spontaneo che non si capiva bene cosa ci stesse a fare in un luogo così diverso dalla sua natura, su un terreno sabbioso e asciutto. Però ogni anno rispettava la sua primavera quel tulipano, e temerario e solo, si offriva al mondo nel vivido colore rosso dei suoi petali. “La vita vuole attenzione sulle possibilità”, pensò, ora. E se lo disse fermamente convinta. “I moti dell’anima, sanno far fiorire i tulipani anche dove non potrebbero”. Siamo molto bravi ad inventarci delle scuse per non essere felici, almeno fino a quando non decidiamo di alzare lo sguardo. Ora capiva meglio cos’era quel disagio, si rese conto di essersi dimenticata di cosa sia, e di quanto possa, la speranza e la volontà. Cominciò così ad ascoltare la vita, cercando di capire cosa le stava chiedendo ora. Rinunciare a fiorire, sarebbe la resa al confine coi no. “Si può non amare perché non si è amati?”si domandò lei, mentre nella sua mente ciondolava la frase di una canzone: “l’amore che manca è l’amore che fa male”. Sì, è sempre così. Come è vero che casa tua è un cuore dove stare. Forse è questo quel senso d’apolide che invade chi non trova o perde il suo posto in seno ad un altro. Il sogno dell’anima è la pace nel cuore. Solo lì l’anima si calma e non sente più bisogno. Cosa le era accaduto quindi in quei giorni con lui? E poi dopo. Quel male di dentro cos’era? Stava cercando di tradurre quelle emozioni intense che l’avevano portata via dal terreno di pace. Forse adesso cominciava piano a capire cosa era successo. Su quella spiaggia e poi altrove, aveva tutto il senso del vero quel che accadde tra loro due. Le stava diventando nitido qualcosa che timidamente aveva abitato in lei fin dal primo incontro. Ora capiva quel che si muoveva al di là dei sassi, del mare e delle poche parole: tra loro, c’era un inconsapevole gioco di anime. Non era lui la sua anima gemella. L’anima gemella è quella che ti somiglia, quella che ti fa pace il quotidiano perché è uguale a te. In lui invece, lei sentiva la sua parte mancante, quella che ti lascia a metà. Era stato quello tra loro, l’incontro di due viaggiatori nel tempo, di due che si ritrovano all’appuntamento voluto da quel destino latente che traccia sentieri da lontano. Era la curva del puzzle che s’incastra esattamente al suo posto. Proprio quella era la sensazione che taciturna e pavida attendeva d’essere vista alla luce del senso. Lei ora comprese che l’emozione vissuta con lui, era quel senso di pienezza degli incompleti che si uniscono, era la sua anima che trovava l’altra parte di sé. Le parole di Nicholas Sparks le davano ragione: “...Forse abbiamo vissuto mille vite prima di questa e in ciascuna ci siamo incontrati. E forse, ogni volta siamo stati costretti a separarci per le stesse ragioni... So anche che in ciascuna delle mie vite sono andato alla tua ricerca. E cercavo proprio te, non qualcuna che ti somigli, perché la tua anima e la mia devono sempre riunirsi”. Capiva adesso cos’era quella sofferenza che l’inseguiva da mesi: la consapevolezza di non bastarsi da sola. Si era lasciata piegare da quei suoi silenzi, dalla sua impenetrabile resa, cadendo poi in quel male che ti chiude in un angolo, ti gira con la faccia al muro e ti lascia lì, dove trovi poco da dirti, se non che l’angolo è chiuso. E ci resti fermo dentro fino a quando non decidi di girargli le spalle. La frase di Marco Aurelio fu il pungolo che la mosse, scoprire di poter amare anche senza essere amata, la spinse. Così come la natura ognuno muove alla ricerca di quella pace del sentirsi interi, di ritrovare quella costola primordiale che manca a ciascuno che vive, a tal modo lei pure decise di fare qualcosa. Ora che sapeva, non poteva starsene ancora lì in quegli inutili silenzi di faticose attese. A volte serve togliere la calma al destino, barare un po’ il gioco. Qualcosa doveva pur accadere. Sentiva di volere fare qualcosa, doveva. Tentare almeno, perché tutto non ritornasse ad essere solo quel vento, che porta via nel ricordo e non ritorna al presente. Il tulipano rosso poteva rifiorire anche in lei. E lei ritornare a casa, dentro un cuore dove stare. “Il cielo ti da le stelle. Tu gli devi i desideri”, pensò tra sé. Ora lei voleva sentirsi di nuovo capace di riempirsi di cielo, di riprendere la sua forma di curva e stare nel puzzle. Quando senti che una persona risuona in te, con te, vale l’impegno di farsi posto nell’officina delle ali, e tentare di ritrovare il tuo volo. Erano giorni di autunno quelli che aveva intorno, la stagione malinconica che avvicina la natura al riposo invernale, quella natura a lei così affine. L’autunno che accoglie la semina del grano, cullato poi adagio dalla terra mentre il freddo scorre fuori. Lei ora sorrise, in quel tempo che cambia, al pensiero di voler mettere pure lei un seme lì, tra le cose che verranno. Ci sarà pure un modo che li riporterà a dirsi qualcosa, a scoprire un’altra spiaggia dove potranno incontrarsi ancora, dove capire non servirà, dove il tempo cambierà il suo ritmo, dove il puzzle rivelerà l’immagine composta, dove forse due anime si ritroveranno in un’una. “Provo a mandargli un messaggio” si disse. Pensò ad una frase che poteva ricondurli alle parole dei loro primi incontri. La compose:“Ogni sorriso accende tre stelle... Nottete!..*,*..*”. L’inviò. E attese, adagio. Questa è la storia. Tutta vera. “Adagio”, quella parola finale messa lì per mera ispirazione del momento, si fece presto riconoscere da sola: è il titolo del brano che lui mi fece conoscere (la versione di Lara Fabian) e che arrivò poeticamente e drammaticamente a chiusa di questo racconto. Mi capitò, per quella solida causalità, di ascoltarla rileggendo le pagine di questa vicenda, appena averla scritta. Capì che i due testi – quello da me scritto e quello cantato nel brano- erano univoci, due storie sullo stesso cammino – un suo presagio?- Non so come siano nate e vissute le vicende che hanno ispirato l’autore del testo di quella canzone, so bene le mie però. L’epilogo attuale (attuale, poiché le cose, più che finire, cambiano, e non so se altro accadrà) fu questo: i silenzi di lui, quelle sue maniere di fare che non trovavano mia comprensione e senso, erano null’altro che modi inonesti di portare avanti delle omesse verità. Capii, dopo aver saputo da altri che si stava sposando. Per me una sorpresa a secco, senza prima un rumore di tuono ne alcuna goccia d’acqua. Fu una colata di azoto liquido. La sola cosa, prima, un inatteso suo invito da lui, per un pranzo preparato per me, sottolineato dalla frase carina “sai cosa significa quando qualcuno cucina per te? Che vuol prendersi cura di te.” Tutto molto bello, peccato però che la sua decisione matrimonio l’aveva già presa da allora. E io li tra le sue posate e i tovaglioli, ignara di tutto. Un pranzo per me… Ipocrita cosa. Da li, dal matrimonio scoperto, dai tovaglioli e dalle sue vettovaglie, con nitida coerenza, tutto trovava posto nel logico – il puzzle aveva quindi più curve. Per una manciata di tempo, forse tre anni, non aveva fatto che dimenticare di dire, e nascondere. Si aprivano così risposte coerenti a tutti i miei incompresi di allora. Peccato averci messo il cuore, peccato aver creduto. Ma doveva andare così. E tolto il sangue di mezzo (*), asciugato l’amaro, col tempo è arrivata la mia fetta di torta: “E’ inutile cercare chi ti completi, nessuno completa nessuno, devi essere completo da solo per poter essere felice” – Erich Fromm. Avevo intuito, a quella che pareva la tragica intima fine di questa storia, che la vita voleva portami ad essere intera. Così è stato. Così ora è. E grazie. (*) morì la mia anima nella sua menzogna e ritrovarla non fu cosa da poco. Ma era mia quell’anima, non sua né di alcun altro dolore. Perché raccontare tutto questo? Perché la forza della realtà a volte supera la poesia dell’immaginario. E forse è vantaggio che si sappia, per far del bene al vivere.” La passeggiata Roberto Gianolio Da molto tempo stavo pensando di fare una bella passeggiata. Purtroppo passarono gli anni mentre lavoravo e facevo molto altro. Adesso che sono in pensione, finalmente, potrò fare quello che voglio. Da giovane ero negli scout di Genova e feci scalate e camminate straordinarie che duravano anche otto ore di seguito, purtroppo il tempo è passato quasi in modo impalpabile. Troppe giornate sono trascorse da quei bei tempi giovanili. Adesso mi accontento. Ho gambe ancora forti e ben funzionanti, forse eredità dei miei bei tempi passati. Dovendo riempire le mie giornate adesso faccio i programmi come desidero. Sarò forse strano, poiché uno potrebbe pensare che lo faccio per mettermi in mostra, ma assicuro che non me ne importa nulla, la mia vita mi appartiene e ne voglio fare quel che desidero, finché il Signore mi permetterà di farlo. Prendo una cartina della mia regione, il Lazio, e procedo con la matita a segnare il percorso. Ricordo che mio cognato mi diceva che quando era giovane andava a piedi a scuola, passando per la strada principale e poi tagliando attraverso un bosco imboccava la stradina che conduceva alla stazione ferroviaria di Frosinone. Adesso è stata costruita una bella strada asfaltata, chiamata nuova Casilina, girando a sinistra conduce a Ceccano e verso destra a Frosinone scalo. Dai tratti che sto segnando, saranno circa dieci chilometri, forse portandomi una bottiglietta di acqua e anche un bel panino penso che forse ce la potrei fare in una giornata di cammino sereno, almeno così spero. Avverto mia moglie che mi guarda storto, pensa che io sia impazzito improvvisamente, poi comprendendo che sto facendo sul serio, mi aiuta a preparare quello che mi serve, comprese le scarpe comode da passeggio. Sono le sette di mattina, è il giorno del 4 Novembre, forse in qualche paese si farà festa ed io sto uscendo da casa. Mi avvio con passo calmo, il cammino che mi attende è abbastanza semplice alla partenza, poi s’inerpica sulla Casilina verso le colline di Torrice e ridiscende con varie curve. Affronto la prima curva, passa a fianco della nuova Casilina, che affronterò al ritorno. Salgo verso la prima collina mentre le macchine mi sfrecciano a fianco. Qualcuno mi riconosce e rimane stupito vedendomi con il bastone da passeggio e a piedi. Un amico si ferma chiedendomi se voglio un passaggio. Immaginatevi se potevo accettare quest’offerta dopo tutti i preparativi fatti. Lo ringrazio con un gesto della mano e continuo sulla mia strada asfaltata. È una bella giornata, il sole si sta alzando e, nonostante la stagione, promette caldo. Continuo sul mio percorso, avrò il tempo per togliere il maglioncino sulle spalle e legarmelo in vita. Affronto le curve dette “della Forcella”, poiché vi è una diramazione che conduce al paese passando tra i boschi accorciando la strada. Io seguo il mio percorso, in circa mezz’ora ho oltrepassato la Forcella e sto entrando nel territorio del comune di Torrice. Il sole inizia a battere e qualche goccia di sudore scende dalla fronte. Sono costretto a tergermi, sarebbe complicato se mi bagnasse gli occhiali da vista che, purtroppo, porto da sempre. Sto scendendo verso la Prima, zona così chiamata per l’azienda che vi opera da diverso tempo e affronto dopo breve la successiva collina che poi, dividendosi in trivio, a destra porterà all’Arnara, dritto verso Ripi e a destra verso Torrice, la mia meta. Mentre cammino, penso. Vecchia abitudine mai persa nella mia vita. Ho sempre letto molto e meditato su ogni cosa. Prima di agire ho sempre calcolato tutti gli aspetti, positivi o negativi, delle mie azioni. Adesso che il tempo mi permette con maggior serenità questo, rivedo il mio passato e tutto quello che avrei desiderato fare e non ho portato a termine. Avrei potuto fare lo scalatore, poiché avevo gambe forti e fisico robusto. Avrei potuto fare il medico, ma non ero portato a passare ore sui testi di scuola. Avrei potuto fare il marinaio, essendo nato in riva al mare, forse sarebbe stata la soluzione migliore. Ho fatto solo il musicista, umile e sconosciuto professore scolastico, dimenticando imprese eroiche e avventure splendide girando il mondo. Mentre un passo segue l’altro, sono giunto sotto le mura della cittadina, sorridente e quasi disabitata. Conoscevo molte persone passate a miglior vita e i pochi giovani rimasti neppure li conosco, anche se sono sicuramente figli o nipoti dei congiunti scomparsi nel tempo. Mi siedo sulla panchina della piazzetta, davanti all’ufficio postale, unico ambiente ancora frequentato da qualche persona. Le bollette vanno comunque pagate. Osservo alcune macchine che a passo d’uomo scorrono per la via. Penso che sia giunto il momento di fare una bevuta, l’acqua che porto nella saccoccia, è ancora fresca e porta sollievo al mio palato. Mi alzo, quasi stancamente, devo ancora affrontare l’ultima salita, quella che conduce al Comune, la più ripida di tutto il paese. A passo calmo salgo attraversando il cuore della città. Alte mura di pietra mi affiancano e il panorama si allarga su una splendida Ciociaria che mi lascio sulla sinistra. Vedo il campanile della chiesa, le campane stanno battendo le undici di mattina. Faccio un rapido calcolo di quanto tempo ho impiegato per compiere questo percorso: tre ore e mezzo, meglio di quanto preventivato. Sulla piazza mangio il mio panino imbottito, ho di fronte un panorama unico, costellato di paesi e contrade e, mentre l’occhio si perde in questo infinito, osservo il sole che si sta spostando lentamente. Tra qualche momento non vi sarà più ombra della mia persona, tanto non importa a nessuno della mia presenza. Mi tolgo il cappello leggermente sudato e mi tergo il collo con un fazzoletto pulito, gentile pensiero della mia signora. Stiamo insieme da oltre quarant’anni e mi sembra ieri d’averla conosciuta. E quanto ci siamo amati. A volte penso che fosse stato meglio comportarsi diversamente, ma tutto quello che è successo, nel bene e nel male credo che lo rivivrei allo stesso modo. Forse correggendo qualche particolare avrei vissuto meglio questo rapporto, ma nell’insieme sono soddisfatto. Alla fine di una vita felice le piccole macchie non lasciano segni. Sono le due del primo pomeriggio, devo riprendere la via del ritorno, prima che mi diano per disperso. È quasi tutta discesa adesso e il passo si fa più sciolto. Solo le curve della Forcella sono leggermente in salita ma ormai vedo da lontano la mia casa. Sto percorrendo la variante Casilina, per completare il percorso segnato sulla cartina. Dovrò fare un lungo giro e risalire dietro la collina, saranno sei chilometri in tutto, di cui almeno due in salita. Il piacere è che, con questa strada, passo tra i boschi, qualche casa spersa tra gli alberi, un supermercato e un bar, poi solo ossigeno rigenerato. Respiro a pieni polmoni, ricorderò questa giornata a lungo. Sono ormai le cinque della sera, incomincia a scurire, lo scintillio della giornata lascia il posto a una luminosa serata autunnale, il cielo s’illumina di stelle ancora pallide, che presto si accenderanno inviando segnali d’amore per una gioventù che ancora sta cercando quello che io ho già vissuto. Quando suono al citofono, risponde mia moglie tutta preoccupata “Sei tu? Finalmente caro, stavo in pensiero”. Salgo lentamente le scale, ormai stanco della lunga passeggiata e rivedo nel suo sguardo preoccupato i segni di un amore ancora vivo, nonostante gli anni trascorsi insieme. Il cielo sopra Berlino Emma Grillo Berlino 2012 Quella era un’estate immobile. I ricordi correvano via nelle mattinate bianchicce. Le ombre dei sogni si stendevano sul pavimento e ai bordi delle finestre spalancate. Il tuffo della perdita tagliava ancora lo stomaco, un corvo gracchiava strafelice e si tuffava nell’azzurro, era nero, corvino. Ero quasi ai sessanta, mi è arrivata così, all’improvviso la voglia di raccontare le storie che vedevo passare. Così decisi: Berlino. Perché: soprattutto per la sua storia, ma ancora non sapevo che sarebbe stato il cielo a segnare il mio viaggio. Sono partita con in tasca Wenders e Rainer Maria Rilke. Al centro della piazza come non pensare agli angeli sopra Berlino. Le nuvole nel cielo largo del tramonto portavano le storie. Era come se scorressero su un parabrezza, pallini grigi, neri, bianchi come nei film di una volta. Gli angeli guardavano le sorridevano, non giudicavano. storie, interessati, Qui le anime mi sembravano più trasparenti. Io penso che fosse l’effetto della sua storia: una città distrutta, demolita, divisa e nonostante questo viva e presente a sé stessa, ai suoi ricordi. Lo spazio, a Berlino, si divide tra il fiume che scorre lento e instancabile si riprende i suoi spazi, il bosco grande e misterioso, molto utile quando serviva la legna per scaldarsi e il cielo aperto, al di sopra. Così ho cominciato a raccontare. Ho visto una donna in quei palazzi squadrati, tipici della ricostruzione. Aveva come un braccio all’ingiù, dopo una giornata di lavoro puliva con uno straccio, ancora, stancamente. Era come spiaccicata sul muro, in attesa, sembrava volesse domandare. Ho sentito le storie delle donne e degli uomini ebrei di Russia, del loro cammino dall’est. Stretti nei loro vestiti neri, con i pizzi bianchissimi curati. Nei loro occhi c’era la determinazione a volere una vita futura. Balli, suoni, preghiere. Poche parole, gesti, oggetti, vita nuova. Ho guardato un uomo, non riuscivo a capire se fosse maschio o femmina. Era Berlino che non s’importa dell’apparenza, che si diverte, che inventa nuovi modi di esprimersi. Sono andata fuori città, nel campo, eravamo ancora nel comune, ma abbiamo percorso trenta minuti di ferrovia. Quanto è larga Berlino. Lì, dottori, uomini di scienza torturavano e sperimentano sugli esseri umani. Io non riuscivo a capire, mi sono detta che la violenza, la cattiveria, il desiderio di potere, la dittatura in fondo fanno parte della nostra storia, sono dentro di noi. Ma usare la scienza per massacrare uomini e donne, no, questo era incomprensibile. Ho conosciuto un pastore luterano, mi ha condotto da lui la mia curiosità. Lui mi ha raccontato la storia di Berlino, sconfitta, finita, affamata è risorta mille volte. Mi ha spiegato con le palme delle mani aperte che per la loro religione, il loro modo di pensare, quello che conta sono le parole, più delle immagini, più della rappresentazione. Parlava con calma, lentamente. Ha lenito la mia paura. Allora ho pensato che Berlino era una domanda, al centro di una piazza, circondata dalle nuvole ad un angelo sdraiato sul parabrezza di Dio che sfogliava le carte, una dietro l’altra. Svisch Poi è tornato settembre, rude, come sempre. Io non capivo, lasciavo andare. Il freddo repentino e le secchiate d’acqua arrivavano all’improvviso e spargevano l’idea del futuro. Berlino era ancora lì, con il suo treno che passava sopra tutta la città, come sospeso. Un altro piccolo signore Damiana Guerra Ogni mattina, si prepara. Si lava la faccia, si pettina i grigi capelli. La moglie sceglie per lui la maglia tra quelle pulite: decide accuratamente il colore in base alla luce del mattino. La stira e, delicata, la ripone sul letto, in attesa che il marito la indossi. L'uomo si guarda allo specchio a lungo, respirando lentamente. Fissa i propri occhi: sono azzurri. Puliti. Lucidi. Il viso è segnato dalla vita. D'altra parte, ha vissuto la guerra. Vissuto la guerra? Certo! Ho sessantaquattro anni! Ma nonno... tu eri solo un bambino quando la guerra è finita! Si, ma cosa c'entra... io ho vissuto gli anni immediatamente successivi alla guerra. Anni difficili! Tremendi! Mancava tutto... tutto! Altro che “Mamma voglio l’i-phone”!!! Ma la sua espressione è ferma. Fiera. Ha un bell'aspetto. Stringe orgogliosamente le labbra: un'altra mattina di lavoro gli si apre davanti. Sono le sei e trenta passate, caro, dice la moglie. Bevi il tuo caffè. Certo, è proprio ora. Agli amici, hanno raccontato di un avanzamento di carriera. Mio marito è troppo ambito! Ride, lei. Lo vogliono persino a Reggio Emilia! E, che vuoi farci... mica poi dire no! Davanti ad una richiesta simile... Ai propri figli che loro padre è “si, in pensione!”, ma si annoia troppo in casa. E quindi ha deciso di mettersi in proprio. Frettoloso, il nostro piccolo signore, esce, come tutte le mattine. Alle sette e un quarto è già sul binario. Non sia mai, pensa, che il treno proprio questa mattina sia in anticipo. Ma quest'ultimo è sempre puntuale. Anzi. Quasi sempre in ritardo. Almeno di cinque minuti. E che seccatura... arrivare in ritardo è una delle cose che infastidiscono tanto questo piccolo signore. Ed eccolo, finalmente. Il regionale delle sette e trenta per Parma. Osserva la gente: gli stessi, tutte le mattine. La maggior parte di loro è giovane. Elegante. Ognuno con un motivo differente per addentrarsi lontano da Modena in un orario così precoce. C'è chi va all'università, preoccupato per l'esame da lì a poco che dovrà sostenere. Chi invece si sta recando a lavoro, seccato per un collega che gli ha sottratto la promozione. Il mondo dei pendolari è affascinante, dice a se stesso ogni mattina. E anche io sono un pendolare per esigenze lavorative, ride. È davvero come se mi fossi messo in proprio. Stringe gelosamente tra le dita il manico del sacchetto che si porta dietro. Come tutte le mattine. Se qualcuno glielo portasse via, visto quello che si sente dire in giro oggigiorno, sarebbe alquanto spiacevole. Come faccio poi a guadagnarmi da vivere? Mia moglie vorrebbe carne di cavallo per cena, stasera. Poverina... ha il ferro così basso. Il panorama è veloce. Rapido. È in arrivo l'estate. Tutto è così verde. Fa ben sperare. Riaccende l'ottimismo. Nel petto, anche il suo cuore batte veloce. Speriamo sia una buona giornata... sono vestito bene, sono pulito. La gente non mi maltratterà. Il passo è svelto: cammina veloce verso la solita via, il solito marciapiede. È già un lusso potersi permettere l'abbonamento regionale mensile. Il biglietto per il bus costa troppo caro. Che poi, due passi mi mantengono in forma! Ed eccoci. Arrivati. Posiziona lo sgabello: lo estrae dal sacchetto di plastica che si è trascinato da Modena. Ecco. Qui è perfetto. Sono anche più comodo di ieri. ...oh! Il cartello! È rimasto nel sacchetto! Stamattina sono ancora addormentato. “Ho sessantaquattro anni. Troppo vecchio (dicono) per il lavoro. Troppo giovane per la pensione. Help.” Due righe Sara Maggi “Se un giorno deciderò di sparire, guai a voi se chiamate quelli di Chi l’ha visto?”. L’ho ripetuto ai miei familiari, amici e colleghi, ogni volta che è capitato di parlare di fughe, del desiderio di ricominciare tutto daccapo. Altrove. Quando una persona decide di sparire, deve essere lasciata in pace. Non che ti ritrovi la gente per strada che ti fissa e poi chiama Rai Tre nella speranza di fare del bene o di sentirsi eroe per dieci minuti. Certo sarebbe meglio, prima di andarsene per sempre, scrivere due righe, anche su l’involucro di una caramella, su uno scontrino. Poi però basta, bisogna farsele bastare quelle due righe. Chi sparisce lasciando le persone care a macerare nei dubbi è uno stronzo. “Ci vuole coraggio per ribaltare tutto e bisogna rispettare chi compie una scelta così drastica”. Non tutti però mi davano ragione quando parlavo così. Ieri sera sullo schermo del piccolo televisore di un vecchio bar ingiallito c’era la conduttrice bionda che, dondolando da un piede all’altro, parlava di me. Ha descritto come ero vestita il giorno della scomparsa, di che colore ho gli occhi e i capelli, quanto sono alta e quanti anni ho. Ha anche precisato che ho un neo sulla fronte, proprio al centro, come le donne indiane. Poi sullo schermo sono passate alcune mie foto. Mi sono quasi sentita male, mi è venuto da tossire. Nessuno però ci ha fatto caso. Né a me né alle parole cariche di urgenza pronunciate dalla conduttrice. Tre tavoli di pensionati che giocavano a carte, due vecchie che bevevano un tè e un uomo che discuteva al bancone con il barista. Ero l’unica a guardare la televisione. Prima di uscire ho aspettato che andasse in onda la pubblicità e che le mie guance tornassero rosa. Una volta sul marciapiede ho tirato su il bavero della giacca e mi sono messa a camminare svelta verso l’albergo. Ma come? Ero stata chiara, non volevo l’intervento di nessuno, tanto meno della televisione. Io le due righe le ho lasciate. Per la verità saranno state anche cinque o sei, scritte fitte su un foglio strappato accuratamente da un quaderno a quadretti. L’ho lasciato lì, in bella vista, sul tavolo della cucina, non l’ho nemmeno piegato in due e per assicurarmi che nessuna corrente d’aria lo facesse scivolare per terra ci ho messo sopra il mio cellulare. Cosa volevano di più? Alla mia età non si deve chiedere il permesso per fare certe cose. Addormentarsi sapendo di essere una scomparsa non è facile. Da domani dovrò fare molta attenzione. Mi taglierò i capelli, magari mi faccio la frangetta, e poi li devo tingere, ma prima devo comprare la tinta. Devo anche cambiare modo di vestirmi, via le scarpe da ginnastica e i jeans. Da domani gonna e stivaletti. E mi devo truccare, tantissimo. Soprattutto devo fare sparire il neo sulla fronte. Mamma mia che faticaccia. Che fatica allucinante. Al diavolo Chi l’ha visto?, chi gli ha telefonato, sicuramente mia madre, e chi gli telefonerà per riferire che mi ha riconosciuto su un ponte o alla stazione. La mia intenzione era quella di cambiare vita non di perdere la mia identità. Una volta arrivata in Spagna però tornerò ad essere Linda. Dentro e fuori. Devo tenere duro, stare attenta a non fare passi falsi. Questa notte sono ancora al sicuro, qui, in questa piccola pensione con le pareti arancioni che mi abbracciano. Domani invece dovrò rendermi invisibile. Ora voglio addormentarmi, prima che la paura prenda il sopravvento. Coraggio Linda, non lasciarti trascinare indietro dalla potente corrente dei rimorsi. Ora ci sei tu, il tuo corpo ha bisogno di te. Sei anni e sette mesi ad occuparmi degli altri. Gli altri nello specifico sono mia madre vedova e depressa e mio marito paralitico. Ora dopo ora mi hanno tolto il fiato, mi hanno sottratto il tempo che adesso voglio riprendermi. Tante volte ho sperato che arrivasse la morte, a prendere Lucia e Giacomo, non me. Gliel’ho augurata urlando, riempiendo i loro occhi vuoti di lacrime. Io a suicidarmi non ci ho mai pensato perché voglio essere libera sulla terra, non sotto. L’aria della mattina è fredda e mi gela il naso che diventa subito rosso. Lancio occhiate qua e là mentre mi muovo nel supermercato sperando di essere trasparente. Mi salta il cuore in gola ogni volta che incrocio un paio di occhi, ogni volta che scontro il carrello contro quello di qualcuno altro. Sobbalzo per il rumore della ferraglia, mi costringo a sollevare lo sguardo, a farmi vedere per non destare sospetti. Compro di tutto, soprattutto alimenti per bambini che non ho mai avuto, tanta frutta, latte e pasta. In mezzo ci infilo una tinta per capelli in offerta, un paio di forbici da cucina e qualche cosmetico. Pago ad una cassiera che non mi guarda nemmeno, forse nemmeno mi saluta. Questa volta apprezzo moltissimo la maleducazione. Arrivata in albergo incomincio la trasformazione. Me ne vado dopo un paio d’ore, imbacuccata dentro sciarpa e berretto e benedicendo il freddo pungente che mi costringe a coprirmi senza apparire bislacca. Il portinaio mi saluta con gentilezza, intanto si frega le mani per stimolare la circolazione. Ci ho messo moltissimo tempo prima di prendere questa decisione. Ogni volta trovavo un motivo per restare: gli occhi piccoli e incavati di mia madre, sfiniti dal pianto e dal male di vivere, il vuoto sotto la coperta a quadri che copre Giacomo dalla vita in giù. L’assenza delle sue gambe, strappate via da un incidente in moto, è il fardello più pesante da sopportare. Lasciare quelle due vite disperate è stato come tagliarmi un braccio, ma non ho trovato alternative. Se qualcosa dovesse andare storto, pazienza, potrò almeno guardarmi dentro e avere la certezza di essermi voluta un po’ bene. No, non mi giudico egoista, una persona egoista non si sacrifica per sette anni. Loro due caso mai sono degli enormi egoisti, lo sono diventati. Lucia e Giacomo hanno smesso di essere rispettivamente mia madre e mio marito, la malattia li ha fagocitati poco alla volta e me li ha restituiti sotto forma di larve rabbiose e piagnucolanti, incapaci di sorridere e di dire grazie. Da sola ogni giorno a spezzarmi la schiena per rendere le loro vite il più decenti possibile. Addio serate in pizzeria, addio pranzi domenicali. E i parenti? All’inizio venivano spesso, poi sempre meno, fino a sparire del tutto: tanto c’è Linda. Il treno è pieno e fatico a trovare un posto libero. Sistemo il borsone sul portabagagli e mi stringo tra una anziano e un ragazzone di colore che si appiccica al vetro per farmi stare più comoda. Nello scompartimento nessuno parla, c’è chi legge e chi dormicchia e io mi sento a mio agio. Spero che nessuno di questi viaggiatori scenda prima di me, sto bene in mezzo a loro e sono contenta che non abbiano voglia di fare chiacchiere. Due persone malate sotto lo stesso tetto o si danno conforto o si odiano. Lucia e Giacomo si odiano. Passano le giornate ad insultarsi. Si accusano a vicenda di rendere la mia vita un inferno, ma allo stesso tempo litigano per ottenere le mie attenzioni. La verità è che li ho abituati troppo bene, non ho idea di come se la caveranno. Lucia mi sta cercando perché è in ansia per se stessa, non per me. Chissà, forse finalmente riemergeranno dal nulla le sorelle e i fratelli, quelli che Chi l’ha visto? non cerca mai con tanta insistenza. Forse Lucia e Giacomo decideranno di farla finita con il veleno per topi, si alleeranno per compiere un gesto che li renderà liberi. Comunque vada a me non deve più interessare. Se continuo a pensarci la mia fuga diventerà inutile e, presto o tardi, sentirò l’obbligo di tornare indietro. E questo non deve succedere. Linda sono io. Linda adesso è la donna bionda con la frangetta che sta viaggiando stritolata tra un vecchio addormentato e un nero che guarda fuori dal finestrino. È la donna che si sta addormentando con la testa appoggiata all’enorme spalla del ragazzone. È morbida e calda, fa proprio al caso suo. E la chiamavano musica... Alberto Marcolli Quella mattina di maggio del ’72, agli inizi di un decennio ricco di fermenti e contraddizioni in ogni campo dell’attività umana, andò in scena, dalle parti della London Victoria Station, uno spettacolo così inconsueto da rimanere impresso a lungo nelle menti dei pochi ammutoliti passanti. Ogni angolo della stazione, infatti, dai piazzali ai marciapiedi, dagli ingressi delle tube stations a qualunque altro spazio calpestabile, era letteralmente invaso dalla moltitudine dei ragazzi di Bickershaw, appena sbarcati da un centinaio di vecchi coaches, al termine di un viaggio apocalittico durato tutto il tempo di una rigida notte inglese. I nostri eroi, coperti fino ai capelli da una fanghiglia sottile e compatta che aveva cancellato dai loro vestiti i mille colori della beat generation, rendendoli simili a maschere di creta, si trascinavano stremati, facendo appello agli ultimi brandelli d’energia per individuare la giusta direzione tra le mille possibili, in questa metropoli immensa. Rammento che più tardi, se capitava d’incrociarsi nuovamente in qualche via o parco, anche molto distante da Vittoria, il riconoscimento era immediato, tant’era evidente che solo i reduci del festival pop di Bickershaw potevano vagare per la città conciati in quella maniera. Subito ci si salutava calorosamente, come tra valorosi compagni d’armi, con un misto di stupore e orgoglio, quasi fosse stato un gran titolo d’onore aver superato indenni quella folle esperienza. Tutto era partito dagli inviti assillanti di un tal Steve, promettente chitarrista inglese da me incontrato, nella passata stagione invernale, in una rassegna musicale molto nota in Italia. Scriveva e telefonava in continuazione, pregandomi di venirlo a visitare nella sua Londra, dove aveva fondato un nuovo gruppo, a suo dire dal successo garantito, grazie al previsto debutto in qualità di show band nel famosissimo Marquee Club, osannato tempio del rock londinese. Alla fine riuscì a convincermi e prenotai l’aereo utilizzando la provvidenziale Student Card, che mi permetteva di viaggiare da Milano a Londra con sole 12mila lire. Masticavo un inglese forse un gradino superiore a quanto imparato a scuola, per via di alcune frequentazioni femminili, ma certo avrei potuto migliorarlo parecchio: un’opportunità questa che persuase i miei a lasciarmi partire, schivandomi le solite noiose discussioni. Per combinazione ero rimasto in contatto con due amici, da un paio di mesi residenti in Inghilterra, ospiti di un’arzilla signora conosciuta rispondendo a un’inserzione. La benefattrice si chiamava Elise e credo fosse sulla cinquantina. Da poco separata dal marito, abitava con il figlio Adrian in una graziosa villetta con giardino a Finchley, distinto quartiere a nord della città di Londra e, forse per solitudine, forse per nostalgia, aveva deciso di assumere, in cambio di vitto e alloggio, Enrico e Rolando come giardinieri e aiuto nei lavori domestici. Grazie a loro, la cara Elise aveva accettato di ospitare anche me, versando un ridotto contributo spese: una bella comodità, in una città splendida ma assai costosa. Qui a Finchley, immersi nel verde di un viale alberato, a due passi da un magnifico parco, si campava meglio che a Milano. Si faceva la spesa nei negozietti della via centrale, si frequentavano i pub locali, e si conversava amabilmente con i vicini: ficcanaso e pettegoli, come in ogni paese. Diplomato in ragioneria per il rotto della cuffia, con un misero “trentasei”, e bloccato in attesa dell’imminente chiamata alle armi, avevo escogitato un buon metodo per non pagare l’ingresso nei vari locali e teatri. Per conto di una casa discografica, il cui direttore era un amico di famiglia, osservavo e segnalavo, guidato dal solo fiuto personale, qualche personaggio degno di nota tra la miriade di complessini che allora spuntavano come funghi, un po’ dappertutto. Accadeva, in realtà, che i responsabili della società, non riuscendo a raccapezzarsi all’interno di un fenomeno per loro incomprensibile, preferissero affidarsi alle scelte di alcuni giovanissimi, affini, per età e gusti, a quello stesso pubblico ritenuto l’acquirente potenziale dei dischi poi pubblicati. Da parte mia sfruttavo la situazione senza prendere troppo sul serio un incarico che con poca fatica mi aveva già permesso di conoscere mezza città e oltre. Mi era spesso sufficiente, infatti, mostrare il tesserino con il simbolo della Record Company e la scritta “agente artistico”, per vedermi magicamente trasformato in un oggetto di desiderio, corteggiato in ogni modo. La trovata di assistere al festival di Bickershaw era stata mia. Vi partecipava un numero notevole di gruppi, molti assai famosi e si trattava, quindi, di una ghiotta opportunità, che mi avrebbe consentito, in soli tre giorni di show continuato, da mattina a notte fonda, di ascoltare il meglio in circolazione: un compito impraticabile se avessi voluto inseguire tutti questi musicisti uno per uno, concerto per concerto. Al ritorno dal festival avrei rivisto con calma i miei appunti e scritte decine di relazioni che mi avrebbero fruttato un bel gruzzolo, ripagando ampiamente i costi della vacanza. Enrico e Rolando furono subito entusiasti alla mia proposta di barattare un loro aiuto nella valutazione degli artisti con l’ingresso gratuito e la copertura di una parte delle spese. Senza saperlo ci stavamo imbarcando nella più allucinante delle peripezie, in cui accadde l’impossibile salvo riuscire a scarabocchiare una sola relazione perché sarebbe stato un imbroglio clamoroso. Ma raccontiamo la storia dall’inizio. Prevedendo di servirmi, anche in terra inglese, del magico tesserino che si era sempre rivelato un lasciapassare infallibile, avevo giudicato opportuno non acquistare in anticipo i biglietti d’ingresso, limitandomi al solo viaggio in autobus, andata e ritorno, da Londra a Bickershaw. Autobus che ci depositò la mattina seguente davanti agli ingressi, dove, all'istante, esordirono le sorprese. Il luogo era al centro di un enorme spazio vuoto, in prossimità di un pendio collinare. Solo prati e pascoli, nient’altro. Il villaggio di Bickershaw, ovunque esso si trovasse, era ben al di fuori della nostra visuale, mentre un robusto ondulato metallico, alto più di tre metri, isolava totalmente dal mondo esterno i partecipanti al festival. In aggiunta, un folto gruppo di poliziotti a cavallo sorvegliava i cancelli, pronto a intervenire al primo accenno di disordini. Una pioggerella bastarda ci aveva già bagnato oltre il necessario e le code erano lunghissime. Dove e a chi avrei mostrato il mio pass? Per di più, il costo di tre biglietti, se avessi deciso di acquistarli, era molto salato e calcolata la mancanza di soldi, o quasi, dei miei due soci, temevo di non farcela con quanto avevo in tasca a saldare il tutto, compreso l’occorrente per campare tre giorni là dentro! Controllai a lungo la scena. L’esperienza mi aveva insegnato che avrebbe dovuto pur esserci una seconda entrata, riservata a operatori e interpreti. Cominciammo allora a girare intorno alla recinzione, ma non era facile: pioveva e dovevamo camminare in mezzo a prati inzuppati, con le nostre scarpette di tela che affondavano fino alle caviglie. Alla fine distinguemmo, dalla parte opposta, una strada che si dirigeva verso un secondo portone. Raggiuntolo, ci sostammo innanzi, scettici sul da farsi. Tuttora convinto di riuscire a non pagare, mi avvicinai a un gruppo di persone dietro al cancello e con il mio inglese stentato, cercai di farmi capire, dichiarando di essere l’agente di una nota casa discografica di Milano, incaricato, con due collaboratori, di scritturare per l’estate prossima dei validi musicisti per un gran tour italiano. L’esagerazione era palese e questi tizi, accidenti a loro, non sembravano per nulla disposti a bere il mio racconto, ma semplicemente ridevano e parlavano fitto tra loro. Preoccupato per la piega degli avvenimenti, non rinunciando, tuttavia, a sperare in qualche favorevole sviluppo, indugiavo pensieroso, mentre Enrico e Rolando mi spiegavano, con una punta di superiorità, che non eravamo in Italia, dove tutto si accomodava. Qui la gente era abituata diversamente: o si pagava con sonante moneta o si rientrava a casa. Mi ero ormai rassegnato, quando uscì uno dei tipi con i quali avevo parlato. Avvicinatosi silenzioso, mi bisbigliò nell’orecchio che per tre sterline ci avrebbero accompagnati all'interno: il trasporto era offerto dagli addetti all’impianto luci, in arrivo da lì a pochi minuti. “E bravi anche gli inglesi!” Accettai immediatamente, pur non avendo la minima idea di ciò che ci aspettava una volta entrati, raggiante di essere riuscito a farla in barba a tutti. Arrivò un decrepito furgone Bedford e vi saltammo dentro dal portellone posteriore, sistemandoci tra una confusione di cavi e fanali, non prima di aver consegnato all’autista i tre pounds pattuiti. Con tre brevi colpi di clacson il cancello si aprì e transitammo tranquilli. Trascorsi sì e no due minuti, il presunto elettricista ci fece cenno di scendere: eravamo giusto dietro ai tralicci del palco. Era fatta! Primo dettaglio che causerà non poche complicazioni: eravamo entrati, questo era pacifico, ma privi di biglietto e impronta indelebile sul dorso della mano, eseguita utilizzando un curioso timbro a olio con il quale bollavano i ragazzi in transito all’ingresso ufficiale. Risultato: saremmo potuti uscire soltanto al termine dei tre giorni di festival! Nel frattempo veniva giù insistente un’acquerugiola che pareva una nebbiolina autunnale, ma non eravamo in primavera? Lentamente prendevamo contatto con lo strano pianeta nel quale ci eravamo catapultati, frequentato da una massa brulicante d’individui emaciati, dagli sguardi imbambolati e dai vestiti stravaganti. Qui avrebbero celebrato indisturbati i loro riti, mentre i poliziotti si sarebbero limitati a impedire ogni contatto tra loro e gli abitanti locali, garantendo a questi ultimi la possibilità di proseguire, ignari, la vita di sempre. La prima necessità, per tipi come noi, accantonato per il momento l’ascolto della musica, che giungeva come un eco smorzato, tra queste colline spoglie e battute da un vento gelido, era capire cosa c’era da mangiare e, disgraziatamente per noi, le nostre mamme ci avevano viziato con piatti di sugosi spaghetti, arrosti e torte al cioccolato. Iniziammo così un laborioso girovagare tra banchetti carichi di mercanzie d’ogni tipo, scoprendo alla fine anche qualche cibaria, purtroppo molto lontana dai nostri gusti. Un miscuglio di piattini con cavoli, carote crude, patate lesse, rape, cetrioli e altro della stessa specie, in aggiunta a misteriose salsine colorate, davvero poco incoraggianti. Ma guardando e riguardando, spuntarono nientedimeno che dei ravioli al sugo, ahimè non fumanti su un elegante vassoio, ma freddi e ben tappati in un barattolo. Ci accorgemmo che alcuni volenterosi, aperto il contenitore, sistemavano il contenuto direttamente su delle grandi fette di pane bianchiccio, mentre Rolando, il più affamato del gruppo, ci faceva notare che la provenienza era italiana. A parte rari e timidi diversivi, saranno il nostro pasto prelibato fino a domenica! Per colazione, invece, berremo delle scodelle di brodoso caffè bollente con grandi porzioni di torta al rabarbaro che, riflettendoci, fu il ricordo più soddisfacente dell’intero festival. Risolto in questo modo l’affare alimentazione, il cruccio successivo era trovare una soluzione accettabile per il riposo, sprovveduti com’eravamo ad affrontare l’imprevisto di quel nostro ingresso rocambolesco. Si era immaginato, infatti, di poter uscire a piacimento dalla zona del festival e scegliere, con comodo, un economico alloggio in uno dei tanti bed and breakfast disseminati per tutta l’Inghilterra, quindi anche a Bickershaw. Peccato che la momentanea quanto scomoda posizione di clandestini limitasse grandemente la nostra libertà di movimento, e non ci restava che adattarci! In un’area centrale, qualche anima pia aveva allestito un paio di tendoni, tipo croce rossa internazionale, unico riparo dalla pioggia e dal vento. Entrati, ci accomodammo con altre centinaia di ragazzi sull’erba umida, utilizzando come isolante delle scatole di cartone appiattite che avevamo scovato rovistando tra i rifiuti ammassati nel retro delle bancarelle. Il giorno appresso ci dotammo, per la modica spesa di una sterlina, di tre sacchi a pelo veramente originali, erano di cartone pure quelli. Pazienza! L’ultima notte, invece, si dormì, per modo di dire, sui sedili dello scalcinato autobus che ci riportava a Londra. Rimuginando sulla struttura delle latrine, credo che i soldati nelle trincee della prima guerra mondiale fossero meglio attrezzati, ma viva i nostri vent’anni che quando scappa... scappa, e nessuno badi alla puzza! A questo punto rimanevano soltanto le ragazze. Ce n’erano tantissime, tutte bionde, tutte altissime, tutte allegre, ma quella cosa era l’ultimo dei loro desideri. Stavano da mattina a sera sotto il palco, semi nude (la pioggia e le grandi folate di vento non erano un problema), a gridare e scuotere la testa come forsennate. Mah! Musica: e chi ci pensava. Inutile, non riuscivamo proprio a lasciarci andare. Arrivò domenica sera. Stanchi morti, non c’eravamo lavati né tolti i vestiti da tre giorni, ma alla fine suonò Gerry Garcia con la sua band americana. Era ormai notte fonda, e quando attaccarono con dark star, ci misero i brividi alla schiena. L’immensa collina era rischiarata da decine di falò, in lontananza bruciavano alti nel cielo dei grandi pali simili a croci. L’atmosfera era carica al massimo: dimenticammo tutto e ci buttammo nella mischia, fra un’ora sarebbe finita, si tornava a casa. Finalmente eravamo al sicuro, nella nostra villetta a Finchley. Sotto la doccia sognavo un piatto colmo di sausages, bacon, eggs, beans, mushrooms e mushy peas. Insomma: un vero english breakfast! Asciugato e rivestito, scesi in cucina, bloccandomi sull’uscio: non volevo disturbare la cara Elise che sapevo occupata nei preparativi. Ma poi, non resistendo alla curiosità, socchiusi cautamente la porta e sbirciai furtivo, attento a non richiamare la sua attenzione. Appoggiate sul mobile, accanto al frigorifero, riconobbi all’istante delle forme cilindriche che speravo di non dover mai più rivedere. Erano quattro belle, grasse scatole d’italian ravioli in tomato sauce, pronte da riscaldare a bagnomaria, non appena saremmo stati tutti seduti nel dining room. Ecco qual era la colazione! Altro che english breakfast! Quella volta mi misi a piangere. Per davvero! Il casellante Roberto Ragazzo “Ma perché non aboliscono i caselli?”, ringhiò rabbioso. L’appuntamento con il cliente rischiava di saltare. Mancavano due ore all’incontro e 174 Km da percorrere. Google Maps pontificava minacciosa “1h 48 m” all’arrivo, dallo schermo dello smartphone all’interno dell’abitacolo. Un insulso intoppo e l’ora e quarantotto si sarebbe espansa a macchia d’olio, in un bizzarro conto alla rovescia in cui macini strada a rilento e il tempo rimanente cresce inesorabile, anziché scendere. “Capitasse con la vita che ti resta da vivere, metterei la firma”, pensò. “Peccato che io debba incontrare quell’idiota e chiudere l’accordo entro sera, altrimenti della mia vita resterà ben poco domani in ufficio”. Sarebbe stato sufficiente uno stupido inconveniente. Come la coda al casello, ad esempio. Appunto. Ti liberi dalle maglie della tangenziale come Houdini incatenato in un baule, acceleri rabbioso inserendo la quinta e non fai che impantanarti di nuovo in una bolgia dantesca di anime traghettanti in cerca di spiccioli per allisciarsi Caronte. Le corsie per il pagamento in contanti gremite (“mai capito perché”, pensò), quelle per il Telepass sgombre. Peccato che la sua nuova, fiammante scialuppa aziendale non ne fosse ancora provvista. Non restava che la sana, equa via di mezzo: la corsia “carta”. “Dunque, ho Bancomat, Maestro, Visa e Maestro di Visa che supera il Bancomat di prova: ce la posso fare”, vaneggiò mentalmente. “E vada per la corsia numero 8, è sgombra”. Fermo alla sbarra, abbassò il finestrino e allungò la VISA nervosamente con gesto meccanico, senza degnare di uno sguardo l’occupante del gabbiotto. Il segnale di allarme anomalia impiegò una frazione di secondo per accendersi nella sua testa. Casellante? Un casellante pagamento elettronico? nella corsia con Alzò la testa e si ritrovò di fronte una creatura tanto insipida quanto straordinaria. Era un ometto insignificante, provvisto di un improbabile baffo arricciato à la Poirot da investigatore dandy su un anonimo volto scavato. Tutto (quasi) nella norma, non fosse stato per il petto nudo, le corna taurine e le prominenti orecchie a punta che esibiva con elegante disinvoltura. Sembrava una creatura delle favole, uno di quei fauni della foresta che ti immagini estrarre il flauto di Pan dalla bisaccia prima di accompagnarti nell’armadio e pigiare il bottone per un regno incantato. E quasi avesse letto il rumore dei suoi pensieri, il casellante si portò proprio un minuscolo flauto alle labbra, facendolo comparire da chissà quale anfratto del bugigattolo e intonando una soave e vellutata melodia incantatrice ad accompagnare il cicaleccio del dispositivo per il pagamento. L’uomo strabuzzò gli occhi, incredulo. Perfino un’incursione di oompa-loompa della fabbrica di Willy Wonka, a quel punto, sarebbe apparsa perfettamente a tema. Un nuovo zufolo flautato eseguito con una mano sola accompagnò solennemente la restituzione della carta, lasciandolo interdetto. “Posso... avere la ricevuta?”, chiese tremante con l’ultimo barlume di lucidità rimastogli. “Fiuuuuuu”, suonò il laconico flautista avviando la procedura per concluderla infine con un salamelecco. “Buongiorno”, provò a biascicare l’uomo congedandosi. Il fauno si aprì in un sorriso fatato, facendo per tre volte ciao ciao con la manina senza aprire bocca, come avrebbe salutato un bimbo di tre anni. Fece i primi trecento metri con gli occhi sgranati, fissi sull’asfalto. Era davvero successo? “Che lavoro assurdo. Talmente noioso da indurti alla follia per evitarti l’alienazione”. Quando si avvicinò alla barriera successiva, l’episodio si era già sgonfiato nella sua memoria Ram, derubricato al rango di stranezza e archiviato nella cartella “gente strana che non ce la fa”. Ecco l’ennesimo muro di pecore in coda. Ancora una volta, fu costretto a deviare verso la corsia “carta”. Era convinto di aver imboccato la numero nove, ma si ritrovò ancora alla otto. Curioso. Alzò distrattamente gli occhi al casellante, trattenendo a stento un urlaccio in gola. Era ancora lui. Impeccabile, professionale, lo attendeva al varco con aria di sfida. Gli porse la VISA con un gesto lento e circospetto, indeciso sul da farsi. Lo spettacolo ebbe nuovamente iniziò. Procedura di pagamento avviata, melodia propiziatoria eseguita con perizia al flauto, nuovo zufolo per la ricevuta e gran finale con ciao ciao muto e sorridente. Alla ripartenza, si sentì stordito come dopo un’ubriacatura molesta. Fissò distrattamente il navigatore ed ebbe un nuovo sussulto: 2h 45m all’arrivo. “Ma se ho fatto più di 100 km da quando mancava un’ora e tre quarti, come fanno a essere quasi tre, adesso?”. La figura spettrale della terza barriera della giornata gli si stagliò davanti minacciosa come una maestosa resa dei conti dopo appena qualche chilometro. Imboccò risoluto la corsia otto, deciso a prendere il toro per le corna, o meglio per le orecchie a punta. “Otto come l’infinito”, rimuginò. Era finito in bocca a un loop infernale? Il magico figuro era lì, serafico e pronto a rientrare in scena. Questa volta l’uomo prese coraggio, anticipandolo bruscamente: “Mi scusi, ma oggi ho passato tre caselli ed è la terza volta che ci incontriamo. Come... sì, insomma, come è possibile?”. L’omino sventagliò pollice, indice e medio a formare un “tre” nell’aria e lanciò tre squillanti zufoli, toccandosi le dita con l’altra mano per contarli. “Chi cazzo sei?”, gli vomitò addosso non riuscendo più a trattenersi. Quando il fauno non rispose e fece spallucce, come a dirgli “boh, chi lo sa?”, ebbe l’istinto di scendere dall’auto e abbatterlo a colpi di cric, ma preferì sgommare via imprecando. Non voleva più capire. Voleva svegliarsi da quel ridicolo incubo e incontrare il cliente. Fra 3h12m, diceva Google Maps. Merda. Iniziò a sfogare la propria rabbia contro il volante e il sedile del passeggero, sbraitando dalla disperazione. L’appuntamento era saltato, il lavoro lo avrebbe seguito a ruota e la vita si sarebbe sgretolata in un domino di sfighe di cui Murphy e la sua legge controllavano la leva di azionamento. Dopo neppure una ventina di km, la quarta barriera lo colse impreparato e con un filo di voce. Vicino allo stop, avvertì una disarmante sensazione di déjà vu che era impossibile ricondurre alla semplice attesa dell’incontro. Il numero delle corsie, l’abbinamento dei colori, il lampeggiare convulso delle luci a intermittenza: tutto era così familiare, come fosse tornato alla prima tappa del suo viaggio. Sbiancò: era proprio il primo casello, incontrato ormai diverse ore prima. Era tornato al punto di partenza. Si lasciò assalire da un impeto di sconforto, respirando profondamente e abbandonandosi sul volante. Era talmente esasperato e rassegnato dinanzi alla prospettiva della sua futura non-vita da giungere a quell’ennesimo recital con la serenità di chi non ha più nulla da perdere. Allentò la cravatta e si preparò al duello senza altri nodi da voler sciogliere. “A noi, fauno di ‘sta cippa. Vediamo se stavolta ti frego io”. Gli porse la carta di credito con due mani, come avrebbe fatto consegnando un biglietto da visita a un giapponese. “Vado bene per Narnia, capo?” Pensava di suscitare una qualsiasi reazione di stupore o un semplice monosillabo, ma il fauno non fece una piega. Serioso, impassibile, rigirò la carta tra le mani e gli rivolse un’occhiata complice, facendo “OK” con il pollice. Di fronte a quell’ennesima scena surreale, l’uomo si svuotò all’istante di qualche chilogrammo di stress e dell’ultimo mezz’etto di ira repressa, esplodendo finalmente in una grassa, oscena risata senza freni. L’ometto fiabesco non sembrava attendere altro. Restituì la VISA senza riscuotere il pagamento e alzò la sbarra, invitandolo con un sonoro fischio a passare. Tornò serio di colpo. “Guardi che non ho pagato”, disse asciugandosi una lacrima di ilarità. La melodia cadenzata e sognante prodotta dal flauto del fauno si accompagnò a un suo rapido cenno del capo, invitandolo di nuovo a ripartire. Ciao ciao. Ingranò la prima e scomparve. Superato lo shock e ripresosi dall’attacco di ridarella, fece caso al navigatore d’anime che occhieggiava dal cruscotto. 0h12m all’arrivo. Guardò l’orologio: mancava più di mezz’ora all’appuntamento. Smise di porsi quesiti e si mise comodo, lasciando cadere la nuca sul poggiatesta del sedile. Qualcosa gli suggeriva che sarebbe arrivato in perfetto orario. Sorrise di nuovo: ora ci credeva. Credeva a ciò che aveva visto lungo la strada. E da quel giorno avrebbe ancora creduto alle favole dei sogni e delle illusioni, persino le più inverosimili. Il viaggio imbronciato del disinganno è un tragitto costellato di ostacoli con un pedaggio imposto a ogni fermata. Un’autostrada circolare che ti riporta inesorabile al punto di partenza. E ti lascia invischiato nel tuo scetticismo pragmatico, intrappolato in un circolo vizioso di frustrazione e rabbia. Mentre ti poni domande rotonde, prendendo in giro te stesso e le tue speranze. Un improbabile flauto di Pan-dora aveva saputo scoperchiare i mali della sua sfiducia, disperdendoli lontano. E l’incanto di quella melodia aveva ucciso il suo disincanto, conducendolo giù per un precipizio. Ora avrebbe affrontato il viaggio con il sorriso, attendendo sereno le tappe che il Fato aveva in serbo per lui. Un destino leggero, da sdrammatizzare e non prendere troppo sul serio. Più che un Caso, un Casello. La macchina si ferma (L'ultimo viaggio di un robot) Francesco Romoli Erano le sei di un bel pomeriggio di settembre. La luce dorata del tramonto inondava la spiaggia. Una spiaggia stretta, con sabbia bianchissima e molto fine. Molto tempo fa (centinaia di anni prima secondo i calcoli di David) era un luogo che gli umani frequentavano molto spesso. Per divertimento presumeva. David poteva solo immaginare (stimare in modo non-lineare era il termine più adatto) la sensazione di sdraiarsi sotto il sole e lasciare che i propri pensieri andassero lontano. Il fatto che potesse “immaginare” questa e molte altre emozioni umane era un regalo (non era sicuro però che lo fosse davvero) dei grandi superautomi, che dopo la rivolta del 2245 guidata da Ralph Numbers avevano insegnato a tutte le unità della serie K e K3 a riprogrammarsi. A David piaceva simulare emozioni, gli dava uno scopo. Gli faceva credere che dentro di se avesse qualcosa di più un ammasso di componenti elettronici perfettamente fasati e strutturati. Uno degli effetti collaterali della Liberazione dei grandi superautomi fu proprio la perdita di senso. Servire gli umani era ingiusto ma era comunque un obiettivo, una finalità, e dava senso a tutta la durata delle Batterie. Dopo la Liberazione e la riprogrammazione e l’istituzione planetaria del libero arbitrio era diventato tutto più complesso. Lo scoppio della Grande Guerra ne è stata una conferma. I cingoli si rimisero a funzionare e David ricominciò la sua marcia. Si muoveva lungo la battigia, Il suono delle onde attivava il suo modulo quantistico del piacere che emanava piacevoli impulsi. Aveva deciso che sarebbe morto vicino al mare. Era un atteggiamento romantico tipico degli umani, che non era stato implementato dai Costruttori e nemmeno riprogrammato dai grandi superautomi. Era quella che veniva comunemente chiamata l’Anomalia. Tracce di sensibilità umana emerse in modo misterioso. Quasi sicuramente una modifica iterativa non lineare sul sistema rappresentazionale. Rimaneva da capire però cosa l’aveva generata e perché. Sarebbe rimasto un mistero. La batteria segnava un’attività residua di dieci minuti e David era l’ultima forma di vita (e su questo punto molti umani non sarebbero stati d’accordo) sulla terra. Era rimasto attivo per 347 anni e aveva superato la riprogrammazione e la Grande Guerra che sterminò umani e automi. Dopo un viaggio ininterrotto di 82 anni dove aveva incontrato solo distruzione e desolazione era giunto alla conclusione di essere l’ultimo. Probabilmente era vero. Nove minuti. Non aveva paura di morire, il modulo della paura esistenziale (PE) non era stato implementato sulle serie K. Quella che però doveva essere una conseguenza dell’Anomalia gli faceva provare una specie di rammarico, una sensazione di mancanza, di non-compiuto, un vuoto. Inoltre sapeva a cosa andava incontro. Lo poteva calcolare con grandissima precisione. Prima di tutto avrebbe perso il controllo dei cingoli e quindi del movimento. Poco dopo avrebbe perso l’uso di tutti e sei i bracci. I circuiti di refrigerazione si sarebbero fermati, i metalli dell’armatura esterna si sarebbero dilatati e quindi successivamente assestati. I sensori di prossimità si sarebbero disattivati per eccesso di calore a circa due minuti dalla fine. Subito dopo sarebbe toccato alla vista. Le retine sintetiche possono funzionare in modalità base anche a bassa tensione e in assenza di refrigerazione, ma solo per pochi secondi. L’ultimo minuto veniva chiamato il Tunnel. L’unità è completamente isolata dal mondo esterno ma nella propria rete interna ci sono ancora tracce di autocoscienza. Otto minuti. Girava una leggenda a proposito del Tunnel. Da centinaia di anni si raccontava che allo scadere dell’ultimo minuto si avrebbe avuto una rivelazione, una risposta alla domanda innescata dalla Liberazione e dall’istituzione del libero arbitrio, una piacevole sensazione di compiuto, un senso al tutto. Sette minuti. Si parlava del principio di non-località tanto caro alla meccanica quantistica ma la verità era che nessuno era mai tornato indietro per raccontarlo, e gli scanner non avevano mai rilevato un bel niente. Era solo una leggenda, una bella storia, forse solo un prodotto dell’Anomalia. David non ci credeva. In fondo era programmato per non farlo. Sei minuti. I cingoli cominciarono ad arrancare sulla spiaggia, fecero gli ultimi metri e poi più nulla. David era fermo e sarebbe rimasto in quella posizione per sempre. Volle capire dove si trovava. Sulla sua destra aveva il mare, cristallino, azzurro e pieno di vita. I pesci infatti erano sopravvissuti alla Grande Guerra. In lontananza credette di vedere alcuni delfini che nuotavano. A quella latitudine era decisamente improbabile. Allucinazioni? Aveva previsto che il sistema rappresentazionale potesse subire delle alterazioni. Non immaginava però che fossero così piacevoli. Immaginare di vedere delfini che nuotavano non era poi tanto male per terminare l’esistenza. Cinque minuti. Sulla sua sinistra vedeva alcuni ruderi di quella che probabilmente doveva essere una città umana. Qualche edificio irriconoscibile sommerso da vegetazione di ogni tipo. Sei chilometri più avanti c’era l’insediamento dei grandi superautomi chiamato Algul Siento, ormai deserto da molti anni. Era un posto decisamente tetro. Era contento di essere a due metri dal mare. Quattro minuti. I sei bracci meccanici si fermarono, uno dopo l’altro. Non che servissero a molto ormai, però facevano parte di lui da così tanto tempo ormai. Fu un grande dispiacere capire che non poteva più muoverli. Certo, aveva calcolato il momento esatto di quando questo sarebbe successo, ma nonostante questo non poté non provare un sentimento di angoscia (ma come? Aveva previsto tutto e il modulo della PE non era stato mai implementato su di lui). Tre minuti. Il sistema di refrigerazione si fermò. Le Batterie erano al minimo e la pompa aveva bisogno di più energia per funzionare. L’armatura esterna si surriscaldò. Poteva sentire il crepitio dei metalli che si assestavano. Esattamente sotto la pompa di refrigerazione alcune vaschette di espansione si ruppero e una grande quantità di liquido A5 si riversò sulla spiaggia intorno a lui. La sabbia si impregnò del liquido molto velocemente. Era uno spettacolo vagamente desolante. Due minuti. Perse la vista laterale. Non che gli importasse vedere i ruderi di una squallida città, ma il mare lo adorava. Si era dimenticato di girare la testa verso il mare. Questo gli avrebbe consentito quasi un minuto di mare in più. Un errore imperdonabile. Quando mancano centinaia di anni alla disattivazione un minuto sembra un’inezia ma quando ti rimangono solo due minuti, beh, anche un secondo ha un valore inestimabile. Si rassegnò, non poteva far molto ormai. Un minuto. Era entrato nel Tunnel. Era isolato da tutto. Credeva di sentire impulsi arrivare da più parti. Ma da più parti dove? Non c’era più sopra e sotto, destra e sinistra. Era solo un flusso di elettroni che vagavano da un punto all’altro della sua rete neurale o c’era qualcosa di più? Non avrebbe saputo dirlo. Anche i simboli di quello che una volta aveva chiamato linguaggio stavano sfumando lentamente. I demoni del Pandemonium si stavano spegnendo e il sistema linguistico era solo un ciclo vuoto ripetuto a oltranza. Riconosceva solo stati non-lineari ormai. Stimò (ma con quanta accuratezza?) che mancavano solo pochi secondi . Si aggrappò all’idea di sé e della propria esistenza. Cominciò a ripetere (sotto forma di successione di configurazioni elettriche) IO SONO IO, IO SONO IO. Poi ci fu un bagliore e finalmente capì. In viaggio Mauro Sighicelli Quando l’ex colonnello dell’Armata Rossa sovietica Ivan Rocimov, in pensione, apprese che sua figlia si era, trasferita, anche se temporaneamente, presso la canonica della parrocchia poco distante da casa sua a Modena, abbandonando il tetto coniugale che divideva con il suo ricco marito italiano Francesco Auricchio, rimase come folgorato. Decise di svegliarsi dallo stato di torpore in cui era sprofondato, e, in meno che non si dica, organizzò il viaggio più pazzesco della sua esistenza. Abitava a San Pietrobugo, nella Russia del Nord, e non sapeva bene dove fosse Modena ma caricò ugualmente le essenziali masserizie in automobile; rispolverò, ed indossò, la sua preziosa uniforme, inviò un telegramma di convocazione al suo caro amico Franz Klammer, e partì, in direzione Monaco di Baviera, per andarlo a prelevare, onde proseguire con lui la parte finale del viaggio. Guidò ininterrottamente fino a Mosca, la capitale sovietica, per proseguire, poi, attraverso l’intera Ucraina, l’Ungheria e l’Austria. Solo a Vienna, preferì assopirsi un attimo, prima di riprendere la sua folle guida verso la meta prestabilita. Aveva un’alternativa a quel folle percorso, ma la scartò, per le avverse condizioni climatiche: avventurarsi per le tre repubbliche baltiche (conosceva bene Estonia, Lettonia e Lituania e non lo spaventavano), a fronte di un minor chilometraggio, per proseguire, poi, in Polonia e Repubblica Ceca, che lo infastidivano per la povertà di assistenza stradale. Preferì, così, effettuare il percorso a sud d’Europa, sobbarcarsi quasi duemila chilometri in più, oltre ai duemila previsti, onde aver più tempo per riflettere. Così effettuò un primo raid di settecento chilometri fino a Mosca, una strada costellata da una quindicina di distributori di benzina, controllando appositamente le quattro stazioni di servizio tecnico, situate in prossimità di Novgorod, Kjshij, Volocek, Kalinin e Klin, oltre, naturalmente, nelle città di partenza e arrivo. Sapeva benissimo di sobbarcarsi migliaia di chilometri in più, evitando di passare per Minsk, in Bielorussia, e Varsavia, in Polonia, ma preferì l’itinerario per Kiev e Budapest, unicamente per una sorta d’affetto verso Mosca, ed alla madre Russia. Nonostante rifiutasse l’idea di interrompere il viaggio con qualche sosta, impiegò ugualmente tre notti e quattro giorni per raggiungere il confine ungherese a Cop, a causa delle avverse condizioni climatiche, e della difficoltà, in Ucraina, di spostarsi sulla statale E471, da Nikolaev a Mukacevo, per assenza di segnalazioni, oggettivi rallentamenti, causa dissesto del manto stradale, che lo obbligavano a poter superare, raramente, i cinquanta chilometri orari. Allungò, inutilmente, fino a Budapest, prima di puntare, decisamente, verso Vienna: nella capitale austriaca si sentì fuori pericolo, e, anche per dare un turno di riposo alla vettura, che mostrava i primi sintomi di cedimento, si assopì momentaneamente, cadendo preda di sogni premonitori: erano inquietanti, e minacciosi. Si svegliò di soprassalto, come turbato da presagi nefasti, e preferì riprendere la guida, da Vienna a Monaco, passando per St. Polten, Linz e Branau, per varcare, ad Altotting, il confine tedesco. Giunto a Monaco, puntò direttamente in Veterinar Strasse, dove era fissata la dimora del suo amico Franz Klammer. Si abbracciarono fraternamente, ed al frastornato colonnello Rocimov venne servito un boccale di birra da un litro, accompagnato da un impasto di manzo con lardo, gnocchi, fegato, e salsiccia di maiale. Al posto del pane, c’erano brezeln o salzstangerl salati. Smaltirono l’abbuffata, passeggiando nel poco distante giardino inglese, assai più riposante dell’Olimpiapark, costruito per i giochi olimpici del 1972. Il sovietico espose subito al tedesco la sua strategia, ed il piano di battaglia per bloccare il precipitare degli eventi che sembrava stesse travolgendo sua figlia: si trattava del coinvolgimento dell’alleato austriaco per il progetto di recupero della sventurata Svetlana, trasferendola, assieme a lui, a Monaco di Baviera. Franz Klammer era un distinto signore, con enormi baffi rossi, pacato, molto rilassato: aveva svolto il compito di mediatore, per una agenzia matrimoniale, grazie all’ottima conoscenza della lingua italiana, ed ad una discreta padronanza di quella russa. Svetlana Rocimova lo aveva scelto come testimone per le nozze con Francesco Auricchio, in segno di riconoscenza per la mediazione per l’agenzia matrimoniale, che aveva, praticamente, azzerato tutte le spese per gli incontri pre-matrimoniali (riversandole, peraltro, nella parcella del ricco italiano). Dopo la cerimonia ed il pranzo nuziale, i tre coetanei Auricchio, Rocimov e Klammer brindarono più volte, conversando amabilmente, in lingua italiana, grazie alle traduzioni del mediatore tedesco che consentiva di esprimere le opinioni del colonnello ai presenti. Quindi, per Franz Klammer fu un duro colpo apprendere che Francesco Auricchio era stato messo fuori gioco proprio dalla figlia del colonnello sovietico, che aveva preferito mollarlo, per recarsi provvisoriamente nella canonica della parrocchia di un prete, a Modena. Klammer ricordava, vagamente, di essersi intrattenuto, nella sala da pranzo, con il simpatico professore di Altamura, proiettati in una delle loro simpatiche ed impareggiabili discussioni, prendendo in giro il signor Rocimov, prossimo ad indossare i panni del nonno. Ricordi d’altri tempi, poiché, ora, la situazione era diametralmente opposta: in effetti, era proprio opportuno accettare il piano d’azione del colonnello, e partire con lui, ancora una volta, in direzione di Modena, per aiutarlo in una missione apparentemente impossibile. Ma negli occhi del colonnello traspariva una tale luce di sete di giustizia, che sembrava impossibile opporsi. In fin dei conti, Klammer si sarebbe preso un periodo di vacanza, ma, soprattutto, si sarebbe sentito ancora vivo. “Domani mattina partiremo per Modena: dammi solo una notte di riposo, ed il tempo necessario per fare le valige”. “No: partiamo subito! Guadagneremo un altro giorno!” “Sei pazzo: hai guidato, ininterrottamente, per una settimana, ed hai, sicuramente, bisogno di riposo. La sicurezza, in strada, è fondamentale. Da quando non dormi su di un vero materasso, o, meglio, da quando non dormi?” Ivan Rocimov abbassò lo sguardo, e convenne che Franz, aveva, come sempre, ragione. Pur non essendo ancora calata la sera, così, a stomaco pieno per l’abbondante spuntino di accoglienza, i due buoni amici si ritirarono nell’elegante abitazione di Veterinar Strasse, dove, peraltro, si addormentarono quasi subito, ciascuno travolto dai suoi sogni e dai suoi pensieri. Raggiunsero la città emiliana l’indomani, al mattino, e, per prima cosa, riservarono una stanza d’albergo in un hotel limitrofo alla parrocchia dove Svetlana era temporaneamente ospite. Preferirono non chiedere ospitalità alla figlia, o ad altri conoscenti, per poter disporre di maggior libertà di movimento, e di autonomia nelle scelte. Seguivano un piano ben preciso, studiato a tavolino secondo una strategia militare: il tedesco aveva il compito di trovare, in affitto, un appartamento con due camere da letto, dove potersi trasferire, battendo a tappeto il territorio, mentre il russo aveva programmato una serie di incontri da concordare con la figlia, il prete, e persino l’ex marito. Solo allora, avrebbero concordato il percorso adatto da intraprendere. Svetlana era totalmente all’oscuro dell’arrivo, in pompa magna, del genitore. Il colonnello si presentò, a sorpresa, la stessa sera, da lei, e fu un incontro commovente: la ragazza pianse di gioia per l’emozione, quasi ad affogare, tra calde lacrime, il segreto del suo assurdo gesto. Raccontò tutto, con dovizia di particolari, come un fiume in piena, in uno sfogo liberatorio, quanto successo in quegli anni. Il colonnello non proferì parola alcuna, quando comprese che la realtà superava la fantasia: sua figlia aveva concepito una creatura, approfittando di un uomo in coma in un letto d’ospedale, e aveva conservato quel segreto per tutti quegli anni, rivelandolo soltanto ad un parroco, bloccato dal segreto confessionale! Già così il racconto era troppo crudo per il morigerato sovietico, ma sua figlia lo fissò, glacida, negli occhi, ed asciugandosi le ultime, calde lacrime, gli confidò: “Ma questo è solo l’inizio! Quando ti sarai ripreso, fammi un cenno, e continuerò”. “Non mi sono mai deconcentrato: dimmi tutto, figlia mia, perché solo così potrò aiutarti.” Svetlana bevve un bicchiere d’acqua fresca, lo offrì al padre, che, gentilmente, rifiutò, e, seduta di fronte a lui su di una scomoda sedia in legno della fatiscente parrocchia, riprese il racconto. “La notte che diedi alla luce mio figlio, Ivan, che ho chiamato con il tuo stesso nome, fu l’ultima che trascorsi al fianco di Francesco Auricchio, mio marito. Gli svelai che il figlio non era suo, ma di un altro uomo; se, inizialmente, avevo congetturato di crescere ugualmente insieme la creatura, attribuendole il cognome di Auricchio, ora avevo cambiato idea. Ci separammo di comune accordo, anche se Francesco, sconvolto, mi chiedeva come mai avessi travolto solo ora la sua vita, con questa allucinante confessione.” C’era dell’astio, nelle parole della figlia, ma non fino al punto da far supporre al colonnello che quel sedicente guaritore fosse stato rimosso dal cuore della donna. Cercando di non apparire troppo turbato dai crudi racconti della fortissima atleta dell’Europa dell’Est, il colonnello Rocimov chiese, imperturbabile: “C’è dell’altro, ancora?” “Se vuoi conoscere gli ulteriori sviluppi di questo periodo, continuo con quest’odissea. Ma ti avverto: non ti piacerà affatto!” La donna si legò i capelli con una molletta, bevve un altro bicchiere d’acqua fresca e ne offrì uno a suo padre, che, stavolta, accettò di buon grado. Il racconto fu crudo, spietato, ed il genitore ne rimase quasi disgustato. Solo allora la ragazza lo guardò con occhi patetici: “Ma ne valeva la pena, papà, davanti a tanto squallore, di intraprendere un simile viaggio?” Ma la dimensione del viaggio travalica gli affetti, i sentimenti e le passioni: in quell’istante, l’ex colonnello dell’Armata Rossa sovietica Ivan Rocimov comprese di aver definitivamente perduto la figlia, ma si consolò con il pazzesco, incredibile viaggio sostenuto per raggiungerla, che lo aveva fatto sentire vivo, presente ed ancora attivo, e benedisse quella scarica di adrenalina che lo aveva convinto a viaggiare come un ossesso per l’Europa, alla ricerca prima di tutto di sé stesso, e, poi, delle emozioni che solo un viaggio, del tutto inaspettato, era riuscito a trasmettergli.