sommario - Giustizia Sportiva.it

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Anno II Pubblicazione numero 1 2006 GiustiziaSportiva.it Rivista Giuridica Direzione e Fondatori Enrico Crocetti Bernardi Antonino de Silvestri Enrico Lubrano Paolo Moro Jacopo Tognon Comitato di Redazione Giuseppe Agostani Alessia Bellomo Marco Mazzucato Emanuele Paolucci Michela Pigato Jacopo Tognon Direttore Responsabile Mario Liccardo _____________________________________________________________ Autorizzazione del Tribunale di Padova in data 1 ottobre 2004 al numero 1902 del Registro Stampa ‐ Periodico quadrimestrale ‐ INDICE DEL FASCICOLO 1°
PARTE PRIMA
DOTTRINA
ANTONINO DE SILVESTRI, Il lavoro nello sport dilettantistico
pag. 4
(Atti del Convegno Nazionale “Sport e Diritto del Lavoro” – Torino, 13 e 14 gennaio 2006)
NELLO VENANZI, Il vincolo di giustizia arbitrale nelle controversie di tipo
pag.36
economico tra calciatori (allenatori, direttori tecnico-sportivi, ecc.) professionisti e
le società sportive tra la L. 91/1981 e la L. 280/2003
(Atti del Convegno Nazionale “Sport e Diritto del Lavoro” – Torino, 13 e 14 gennaio 2006)
LEONARDO CARBONE, Profili generali della tutela previdenziale degli
sportivi
ALESSIO RUI, Sfruttamento diritti Tv criptati: un sistema da ridefinire.
pag .56
pag.85
Problematiche, contraddizioni e sperequazioni legate all’attuale sistema distributivo
degli introiti
PARTE SECONDA
NOTE A SENTENZA
GIUSEPPE GLIATTA , La sentenza Simutenkov: una applicazione
pag.95
dell’effetto Bosman agli accordi di partenariato della comunità
PARTE TERZA
GIURISPRUDENZA
DECISIONE COMM. DISCIPLINARE FRIULI VENEZIA GIULIA del
10.10.2005 : l’ articolo 17 del codice di giustizia sportiva per i dilettanti
DECISIONE CORTE FEDERALE F.I.G.C. del 11.04.2006 : il caso “ Genoa”
pag .122
pag.128
PARTE PRIMA
DOTTRINA
SOMMARIO:
ANTONINO DE SILVESTRI, Il lavoro nello sport dilettantistico
pag. 4
(Atti del Convegno Nazionale “Sport e Diritto del Lavoro” – Torino, 13 e 14 gennaio 2006)
NELLO VENANZI, Il vincolo di giustizia arbitrale nelle controversie di tipo
pag.36
economico tra calciatori (allenatori, direttori tecnico-sportivi, ecc.) professionisti e
le società sportive tra la L. 91/1981 e la L. 280/2003
(Atti del Convegno Nazionale “Sport e Diritto del Lavoro” – Torino, 13 e 14 gennaio 2006)
LEONARDO CARBONE, Profili generali della tutela previdenziale degli
sportivi
ALESSIO RUI, Sfruttamento diritti Tv criptati: un sistema da ridefinire.
Problematiche, contraddizioni e sperequazioni legate all’attuale sistema distributivo
degli introiti
pag .56
pag.85
Il lavoro nello sport dilettantistico
IL LAVORO NELLO SPORT DILETTANTISTICO
di Antonino De Silvestri (*)
CONVEGNO NAZIONALE “ SPORT
E
DIRITTO
DEL
LAVORO ” (Torino 13 e 14 gennaio 2006)
organizzato dal CENTRO NAZIONALE STUDI DI DIRITTO DEL LAVORO “D. NAPOLETANO”
SEZIONI
PIEMONTE, LIGURIA, LOMBARDIA, VENETO.
******
SOMMARIO:
1) La dicotomia professionismo-dilettantismo e la “fattualità” della prestazione sportiva;
2) Il progressivo svuotamento di contenuto dello status di dilettante;
3) Il professionista di fatto: soluzioni dottrinali e riflessi di costituzionalità;
4) Le diversificate risposte regolamentari delle federazioni sportive nazionali;
5) La giurisprudenza statuale e arbitrale;
6) Le problematiche di arbitrabilità delle controversie del professionista non ufficializzato;
7) La tutela del professionista di fatto tra illegalità, incongruità, insicurezze e carenze di
disciplina: la proposta di legge Moroni.
1) La dicotomia professionismo-dilettantismo e la “fattualità” della prestazione sportiva.
Il diritto sportivo, materia interdisciplinare con poco più di mezzo secolo di vita, non ha
l’eguale in nessun’altra disciplina giuridica quanto a incertezza nelle nozioni fondanti, rapidità di
evoluzione del contesto di riferimento, difficoltà di coordinamento tra le sue fonti, eterogenee e
spesso contrastanti tra loro nonché, per entrare direttamente in argomento, a problematiche di
inquadramento dei propri particolarissimi istituti.
DOTTRINA
Il lavoro nello sport dilettantistico
Al di là delle questioni definitorie dello stesso fenomeno ludico e quelle circa l’applicazione
del metodo pluralistico ordinamentale, è innanzi tutto la “trasversalità” dello sport, e cioè la sua
attitudine, in ragione dei molteplici valori di cui è portatore, ad essere astrattamente ricompreso in
più proposizioni normative con differenti sfere di applicazione, ad offrire amplissimi spazi
all’elaborazione suppletiva dell’interprete, costretto a confrontarsi sia con le prescrizioni di
provenienza sportiva delle federazioni nazionali e internazionali, sia con le norme comunitarie e sia,
da ultimo, con quelle costituzionali e legislative di volta in volta ritenute applicabili (amplius, sulle
problematiche di carattere generale, in DE SILVESTRI 2003, pp. 5 ss, nonché, quanto agli aspetti
costituzionali, in DE SILVESTRI 2005, passim).
E’ noto come, in Italia, manchi tuttora una legge di principi in tema di sport, tale non
potendo certo considerarsi il D. Lgs. 23 luglio 1999 n. 242 (cosiddetto decreto Melandri) come
modificato dall’ulteriore D. Lgs. 8 gennaio 2004 n. 15 (cosiddetto decreto Urbani-Pescante),
emanato solo per disciplinare gli aspetti istituzionali dell’organizzazione sportiva nazionale in
sostituzione dell’abrogata legge n. 426/1942.
Il nostro legislatore, infatti, è intervenuto esclusivamente su specifici segmenti di interesse
della materia sportiva che, per dirompenza e problematicità, non potevano tollerare ulteriori ritardi,
primo fra tutti quello relativo al professionismo sportivo, con la conseguenza che temi, quali quelli
che oggi ci occupano, ripetutamente denunciati ma raramente approfonditi dalla scarsa e
frammentata dottrina, risultano rimessi all’autonomia organizzativa delle singole federazioni
sportive e, soprattutto, alle decisioni, non sempre puntuali, della giurisprudenza arbitrale e della
magistratura nazionale, oltre che a quelle, decisamente più calzanti, dei giudici comunitari.
Un giurista che, poco più di trent’anni fa, si interrogava sul vincolo di giustizia e sulla
giustiziabilità statuale delle pretese endoassociative, aveva ritenuto di poter concludere che quelle
problematiche nemmeno sfioravano il mondo dei dilettanti, posto che questi, del tutto privi di diritti
soggettivi per le attività prestate in ambito federale, non avevano nemmeno la teorica possibilità di
adire i giudici dello Stato (CUDIA 1973, pp. 229 ss). Era quella un’affermazione che nessuno oggi
si sentirebbe più di sottoscrivere, ma che costituiva l’indubbio portato sia della configurazione dello
sport dilettantistico di allora, fenomeno socio-culturale di massa a carattere prettamente amatoriale,
sia della scarsa attenzione per il settore da parte dei giuristi dell’epoca, non ancora pronti a
coglierne le notevolissime implicazioni giuridiche quantomeno sotto il profilo associativo.
Risale, comunque, proprio alla fine di quegli anni Settanta un radicale mutamento di
quadro dell’intero contesto sportivo nazionale che costrinse ben presto le istituzioni sportive, da un
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Il lavoro nello sport dilettantistico
lato, a rivedere l’ormai anacronistica identificazione, di stampo olimpico, di ogni forma di sport con
quello puro, cioè dilettantistico, che portò alla progressiva apertura a varie forme di economicismo
(DE SILVESTRI 1983, pp 115 ss, 137 ss) ed il nostro legislatore, dall’altro, ad abbandonare la
tradizionale posizione di agnostico disinteresse e ad emanare la legge n. 91/1981 sul professionismo
sportivo. E fu proprio nel corso dell’iter di quella legge, tra l’altro, che i suoi estensori dovettero
sperimentare la singolare e perdurante riottosità della materia sportiva ad essere inquadrata nei
tradizionali schemi giuridici, essendo com’è noto la scelta in favore della subordinazione il frutto
del ribaltamento del testo originario, che aveva invece optato per la configurazione del
professionismo sportivo come lavoro autonomo (DE SILVESTRI 1988, pp. 198-199).
Superato l’impatto, all’epoca fortissimo, che quella legge provocò soprattutto sul calcio
professionistico, del quale troppo frettolosamente era stata preannunciata la fine a cagione
dell’abolizione del vincolo, ed accertato invece che il sistema teneva benissimo, anche perché
l’avversione per l’economicismo aveva definitivamente ceduto il posto al matrimonio, all’epoca
felicissimo, tra industria e sport, furono le problematiche del dilettantismo, a decorrere dagli anni
Novanta, ad attrarre l’attenzione degli specialisti (vedi, per tutti, MORO 1999, passim).
Ciò è avvenuto a diversi livelli, variamente intersecati tra loro, perché il concetto di
dilettantismo, mai considerato dal legislatore se non sotto il profilo meramente fiscale,
(MARTINELLI 2005, p. 38; CROCETTI BERNARDI 2003, p. 757) ricomprende in sé, al di là
dell’unicità del vocabolo, prestazioni sportive assolutamente eterogenee tra loro.
Occorre a questo punto ricordare come l’atleta sia parte di due collegati, ma distinti rapporti,
quello di tesseramento con la rispettiva federazione, e quello di vincolo con la società di
appartenenza (DE SILVESTRI 2000, p. 520 ss).
Il primo è sicuramente di natura associativa non potendo revocarsi in dubbio, a seguito
dell’espressa attribuzione della personalità giuridica di diritto privato alle federazioni e del
riconoscimento del principio di democrazia interna ad opera degli artt. 15 comma 2 e 16 comma 1
del decreto Melandri, che associati delle medesime siano, oltre alle affiliate, anche gli atleti e le
altre persone fisiche tesserate, anche se gli statuti federali fanno reticente riferimento solo alle
prime.
Decisamente più arduo, come vedremo, è definire la natura del secondo, perché accanto al
dilettante in senso tradizionale, ovvero all’ amateur, colui cioè che si dedica allo sport
inutilitaristicamente, per mera passione, come pratica salutistica del tempo libero, per definizione
assolutamente antinomica al concetto di lavoro, esiste anche un altro dilettante e cioè quello che, ad
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Il lavoro nello sport dilettantistico
onta della qualifica formale, percepisce invece compensi, spesso lauti ed a titolo di esclusivo
sostentamento.
E se nel caso del dilettante puro anche il rapporto di vincolo integra un ulteriore rapporto
associativo, unico essendo il centro di interesse e risolvendosi la partecipazione alla gara
nell’adempimento del patto che vede accomunati atleti e società intorno al fine comune della pratica
sportiva e, se possibile, della vittoria, altrettanto non può dirsi per il dilettante retribuito.
Occorre evidentemente, in tale ultimo caso, qualificare in termini giuridici la percezione
delle somme di danaro, perché ove la misura e la rilevanza di queste dovesse indurre a considerare
le prestazioni dell’atleta in termini di scambio con la società controparte, e non più come apporto
nel comune negozio associativo, si aprirebbe inevitabilmente la strada alla ricostruzione della
vicenda in termini di lavoro.
Le riflessioni e l’azione comunitaria in favore dello Sport per Tutti, nato dal dibattito sul
tempo libero e sui compiti del Welfare State, con le sottolineature delle funzioni che lo sport non
professionale svolge nei settori sociale, culturale, sanitario ed educativo, fece innanzi tutto emergere
lo strettissimo rapporto che lega l’attività dilettantistica o amatoriale, a prescindere dal suo
inserimento nei circuiti federali od olimpici, ai diritti essenziali della persona e, a livello nazionale,
la pregnanza precettiva dell’art. 2 della Costituzione, che riconosce “i diritti inviolabili dell’uomo”
sia come singolo, sia “nelle collettività sociali”, quali indubbiamente sono le federazioni e le società
sportive, “in cui si svolge la sua personalità” (ex plurimis RUOTOLO 1998, pp. 408 ss).
Si individuarono, così, le specifiche esigenze di tutela dell’atleta dilettante dai possibili
abusi vessatori delle associazioni alle quali pur volontariamente aveva aderito, ed avendo come
punto di riferimento l’art. 18 della Costituzione, che accanto alla libertà positiva di associarsi non
poteva non tutelare quella negativa di dissociarsi, il dibattito si incentrò in particolare sull’istituto
del vincolo a tempo indeterminato, tanto da indurre dapprima la nostra massima federazione
nazionale a modificarne profondamente la struttura (amplius in DE SILVESTRI 2002, pp. 31 ss) e,
successivamente, lo stesso CONI, nel marzo del 2004, ad introdurre tra i principi Fondamentali
degli Statuti delle federazioni e degli altri organismi associativi, appunto quello della
“temporaneità” del vincolo.
Non poteva però passare inosservato il fenomeno del “dilettante che lavora”, individuato con
i diversi nomi di “professionismo di fatto”, di “dilettantismo retributivo”, di “professionismo
marron” ovvero di “professionismo irregolare”, che peraltro non riguarda solo il nostro Paese,
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Il lavoro nello sport dilettantistico
posto che anche nel resto dell’Europa è nota la figura dello shamateur e dello scheinamateur (per
un excursus nei diversi Stati vedi LOMBARDI 2002, pp. 97 ss).
In Italia il problema, paradossalmente, è nato proprio dalla legge n. 91/1981, emanata allo
scopo specifico di far emergere e disciplinare gli aspetti lavoristici delle prestazioni sportive perché
la stessa, com’è largamente noto, non ha affatto disciplinato il lavoro nello sport nella sua interezza,
ma solo quello che si svolge nell’ambito delle federazioni sportive qualificate come
professionistiche e cioè, secondo la originaria delibera del Consiglio Nazionale del CONI del 2
maggio 1988, LA Federazione Italiana Giuoco Calcio (F.I.G.C.), la Federazione Ciclistica Italiana
(F.C.I.), la Federazione Italiana Golf (F.I.G.), la Federazione Motociclistica Italiana (F.M.I.) e la
Federazione Pugilistica Italiana (F.P.I.), a cui si è aggiunta, a decorrere dal 30 giugno 1994, la
Federazione Italiana Pallacanestro (F.I.P.).
E’ significativo, al proposito leggere quanto incidentalmente affermato dal TAR Lazio
(Sezione Terza – ter, 12 maggio 2003, n. 4103) nel ricorso intentato da Catarina Pollini contro la
G.S. Comense e la F.I.P.: “certamente la mancata applicazione al settore del basket femminile della
legge 23 marzo 1981 n. 91 è la vera causa della vicenda quando, come nel caso in esame, appare
difficile configurare come dilettantistica un’attività sportiva comunque connotata dai due requisiti
richiesti dall’art. 2 (remunerazione comunque denominata e continuità delle prestazioni) per
l’attività professionistica”.
La realtà è che l’impostazione legislativa è stata vista, sin dall’inizio, come riproduttiva
nell’ordinamento statuale dell’antitesi dilettantismo-professionismo, solo in origine fondata sul
carattere gratuito della prestazione dilettantistica.
L’equivoca disciplina formale ha finito ben presto, però, con l’entrare in rotta di collisione
con la diversa e sempre più incombente realtà fattuale, caratterizzata invece dalla presenza di varie
forme di monetizzazione e con il comportare, così, il superamento dell’illusoria proposizione che
ipotizzava la presenza di lavoro solo ed esclusivamente in ambito professionistico.
Ora, se il dibattito sul filone associativo del dilettantismo sembra senz’altro avviato a
soluzione, essendo ormai diffuso il convincimento che la pratica dell’attività sportiva dilettantistica,
ricompresa tra i diritti di libertà personale, come tali indisponibili e irrinunciabili, si pone come
limite funzionale all’indiscriminato dispiegarsi del potere autodisciplinare delle organizzazioni –
associazioni sportive, altrettanto non può certo affermarsi del filone lavoristico nel cui ambito, al di
là delle perduranti ambiguità terminologiche e concettuali, regnano tuttora sovrane, da un lato, una
disarmante disparità di soluzioni all’interno delle federazioni interessate e, dall’altro, una singolare
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Il lavoro nello sport dilettantistico
incertezza giurisprudenziale, fatta eccezione, come già segnalato, per quella comunitaria, l’unica
che in materia continua a mostrarsi rigorosa e coerente.
2) Il progressivo svuotamento di contenuto dello status di dilettante.
La dicotomia professionista-dilettante è sorta nella seconda metà dell’Ottocento, quando in
Inghilterra ebbero origine le moderne discipline sportive. All’epoca gli atleti assunsero la posizione
di dilettanti, sia perché le attività praticate erano per loro natura inutilitaristiche e sia perché,
appartenendo a classi socialmente agiate, non avevano affatto bisogno di lavorare e di ricavare un
reddito sostitutivo dallo sport. Da quel momento la qualifica di dilettante fu imposta quale requisito
per l’ammissione alle gare nel rispetto del principio della par condicio dei partecipanti e, idealizzata
e sublimata, fu recepita quale fattore costitutivo ed imprescindibile della dottrina olimpica, fondata
sulla incompatibilità tra homo ludens e homo faber.
Il quadro, come si è ricordato, cominciò a mutare negli anni Settanta, a fronte di un
professionismo sempre crescente e, soprattutto, della presa di coscienza, da parte del mondo dello
sport, di poter sfruttare a fini economici, grazie ai media, il relativo e immenso serbatoio di
popolarità. L’ipocrisia dello shamateurism, consistente nel chiudere un occhio verso le sempre più
frequenti sovvenzioni mascherate sotto forma di rimborsi spese, cedette così il posto all’esplicita
riammissione alle olimpiadi di discipline squisitamente professionistiche una volta sdegnosamente
espulse e, successivamente, alla diretta gestione dei proventi dello spettacolo olimpico.
Attualmente il Comitato Olimpico Internazionale dispone di Top Olimpic Programes, consistenti in
giganteschi schemi di marketing
internazionale gestiti integralmente da un’apposita società
svizzera che negozia direttamente i compensi per la concessione dell’esclusiva televisiva, ed ha
promosso la creazione di trust funds per il controllo dei guadagni degli atleti sotto la supervisione
delle Federazioni Internazionali, che hanno fattivamente concorso nello sviluppo del sistema sino
ad assumere esse stesse il ruolo di veri cartelli (NAFZIGER 1996, pp 224 ss; quanto alla
dimensione economica delle prossime olimpiadi estive di Pechino, davvero esorbitante, vedi in
particolare le stime contenute già in ABI, ICE e CONFINDUSTRIA 2002, pp. 40 ss)..
Il termine dilettante nella Carta Olimpica oggi non esiste più, ed attualmente la Regola 45 si
limita a rimandare, per l’ammissione degli atleti ai giochi, alle prescrizioni delle corrispondenti
federazioni internazionali, mentre la norma di attuazione della medesima si limita sterilmente ad
affermare, da un lato, che l’iscrizione e la partecipazione dei concorrenti non devono essere
DOTTRINA
Il lavoro nello sport dilettantistico
condizionate da considerazioni finanziarie e, dall’altro,
che agli stessi è fatto divieto di
pubblicizzare nomi e immagini … per il sol fatto che il relativo sfruttamento se lo è riservato il
CIO.
Non possono ritenersi prive di significato, a livello nazionale, la circostanza che lo Statuto
del CONI, all’art. 6 lett. d), faccia uso dell’ endiadi “attività sportiva dilettantistica o comunque non
professionistica”, fornendo così un riscontro normativo alla eterogeneità e alla connotazione in
negativo dell’attuale concetto di dilettantismo, né quella, ulteriore, che l’espressione sia
completamente scomparsa
dal testo dei recenti Principi Fondamentali degli Statuti delle
Federazioni Sportive Nazionali, delle Discipline Sportive Associate e delle Associazioni
Benemerite, approvati il 23 marzo 2004, facendosi egualmente in questi esclusivo riferimento, al n.
22, all’attività “professionistica e non professionistica”.
Avendo la dicotomia assolto alla funzione storica di consentire la selezione degli atleti
olimpici, ci si sarebbe coerentemente dovuto attendere l’abolizione della stessa anche all’interno
delle FSI, ed in tal senso si è in effetti determinata la FIBA mentre le altre, mantenendo la figura del
dilettante, condizionano a loro volta i precetti qualificativi delle rispettive federazioni nazionali.
La realtà è che lo status di dilettante, svuotato dei contenuti per cui era stato concepito,
appare ormai, com’è stato icasticamente osservato, “un relitto del sistema” (TOGNON 2003, P.
670). Lo sport non appare più, o meglio non appare solo “uno sforzo lussuoso che si profonde a
piene mani senza speranza di ricompensa” (ORTEGA Y GASSET 1964, p. 278) e l’economicismo
ne costituisce ormai, in varia misura, un aspetto integrante, tanto da legittimare l’opinione di chi
“vede lo sport professionistico ogni qualvolta vi sia lo sport-spettacolo-business” (CROCETTI
BERNARDI, 2003, p. 757).
Non è un caso, del resto, che soprattutto nell’ultimo decennio, abbia trovato larga diffusione
la prassi, in ambito dilettantistico, della stipula di contratti, variamente denominati (di ingaggio, di
prestazione sportiva, di prestazione sportiva dilettantistica, di collaborazione sportiva), ovvero
elusivamente titolati come accordo o scrittura privata, che in concreto risultano articolati, quanto ai
contenuti, come quelli “tipo”, frutto di contrattazione collettiva dei professionisti ufficializzati.
Quanto osservato circa la possibile, e comunque assai frequente monetizzazione delle
prestazioni non ricomprese nella disciplina della legge n. 91/1981, induce pertanto ad una prima,
sicura conclusione circa l’inidoneità dello status formale di dilettante ad offrire alcun parametro
all’interprete per risolvere questioni operative al di là dell’ambito meramente endoassociativo.
La circostanza è assolutamente pacifica a livello comunitario.
DOTTRINA
Il lavoro nello sport dilettantistico
Risale, infatti, a oltre un trentennio fa la nascita del consolidato indirizzo giurisprudenziale
che considera l’attività sportiva soggetta comunque alla disciplina comunitaria, sulla scorta
dell’unico presupposto che la stessa sia configurabile come economica ai sensi dell’art. 2 del
Trattato.
Tale filone interpretativo, costantemente confermato nelle successive pronunce, dopo essere
stato ribadito, seppur incidentalmente, nell’arcinota sentenza Bosman del 1995 (punti 73 e 74), in
cui la Corte di Giustizia, definendo così la sua futura e complessiva competenza in tema di lavoro
sportivo, ha avuto modo di precisare come l’unico parametro in tal senso non possa che essere
quello dello svolgimento di prestazioni retributive, ha avuto il suo definitivo epilogo nelle sentenze
Deliege e Kolpak.
Nella prima la Corte, nel sottolineare apertamente l’inutilità della qualifica attribuitasi
unilateralmente da una federazione a scapito dell’approfondimento della natura dell’attività svolta
in concreto dall’atleta, ha espressamente affermato come anche gli amateurs possano invocare
l’applicazione del Trattato ove prestino servizi che permettono di organizzare spettacoli, anche se
non pagati dalle società che ne beneficiano (amplius in MUSUMARRA 2005, pp 39 ss e AGNINO
2002 p. 898 ss).
Nella seconda, la stessa Corte, dopo aver constatato, al punto 16, che Kolpak, giocatore di
pallamano, era vincolato con la società di appartenenza da un contratto di lavoro, essendo obbligato,
“contro il corrispettivo di una retribuzione mensile fissa, a fornire in forma subordinata prestazioni
nell’ambito dell’attività di allenamento e degli incontri organizzati dalla sua società e che si tratta,
in proposito, della sua principale attività professionale”, ha espressamente considerato lo stesso, al
successivo punto 21, uno “sportivo professionista” (Sentenza 8 Maggio 2003, Deutscher –
Handallbund e V c/ Maros Kolpak).
Pur regnando l’incertezza, come vedremo, sul trattamento da riservarsi in concreto al
professionista di fatto, anche da noi la giurisprudenza è comunque concorde sulla necessità di
riguardare l’aspetto fattuale del rapporto, negando ogni ruolo alla eteronoma qualificazione di
dilettante. Il concetto si trova scolpito nell’ordinanza 18 ottobre 2001 del Tribunale di Pescara
(amplius in TOGNON 2003, pp 668 e 672 e AGNINO 2002, pp 900 e 902), in cui si afferma
testualmente che “la distinzione tra professionismo e dilettantismo nella prestazione sportiva si
mostra priva di ogni rilievo, non comprendendosi per quale via potrebbe mai legittimarsi una
discriminazione del dilettante”.
DOTTRINA
Il lavoro nello sport dilettantistico
Anche l’appartenenza al settore dilettantistico delle società che fruiscono delle prestazioni
degli atleti, infine, è del resto inidonea a precludere più penetranti valutazioni sostanziali, sia in
ambito comunitario che interno.
Sotto il primo profilo, devono infatti considerarsi senz’altro imprese in senso tecnico, ai
sensi dell’attuale art. 48 del Trattato, le società sportive che, indipendentemente dalla forma
giuridica assunta nei Paesi di appartenenza, organizzano spettacoli sportivi a pagamento, negoziano
diritti televisivi e fanno operazioni di sponsorizzazione e di merchandising (VIGORITI 2001, p.
625).
In ambito nazionale, parimenti, sono numerosi i casi in cui società sportive costituite in
forma di associazioni non riconosciute sono state assoggettate a fallimento nonostante militassero in
campionati non professionistici, e ciò sulla scorta della ovvia considerazione che, a quei fini, rileva
esclusivamente l’oggettiva imprenditorialità, la circostanza cioè che le stesse esercitino,
abitualmente e sistematicamente, attività di organizzazione, allestimento e attuazione di spettacoli
sportivi. Ed analogamente deve argomentarsi anche a proposito delle società sportive di capitali
senza scopo di lucro di recente previsione, posto che nel sistema vigente non vengono in
considerazione le finalità soggettive di guadagno quanto, come appena rilevato, l’oggettiva ed
astratta attitudine a conseguire comunque un profitto (FORMICA 1995, pp. 798 ss, ove sono
riportati numerosi precedenti in termini).
3) Il professionista di fatto: soluzioni dottrinali e riflessi di costituzionalità.
Benché la legge n. 91/1981 contenga proposizioni di carattere generale, quali quella sulla
libertà di esercizio dell’attività sportiva anche dilettantistica (art. 1) e l’altra, ora abrogata, sulle
federazioni sportive nazionali (art. 14), e pur non essendo la sua sfera di applicazione limitata
affatto al massimo sport nazionale la circostanza, evidente a tutti, che la stessa sia stata emanata
allo scopo specifico di risolvere le problematiche del calcio professionistico ha finito, in un primo
momento, con il polarizzare l’interesse dell’opinione pubblica e della maggior parte degli stessi
specialisti esclusivamente su questo.
I più attenti non tardarono a rilevare, però, a fronte della progressiva diffusione, con i relativi
risvolti di popolarità e di remuneratività per i suoi protagonisti, di diverse discipline sportive, oltre
che dello stesso calcio dilettantistico organizzato su base nazionale (DE SILVESTRI 1986, p. 6),
che per il raggiungimento
di risultati apicali occorreva “un livello tale di preparazione e di
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Il lavoro nello sport dilettantistico
impegno” consentito solo all’atleta “professionista” e che la qualifica di dilettante, finalizzata alla
partecipazione ai giochi olimpici, “impediva l’emersione e l’adeguata tutela, nell’ordinamento
generale, di diritti patrimoniali e non” (così FERRARO 1987, pp. 4 e 5).
La legge apparve perciò ben presto iniqua e discriminante nella misura in cui,
presupponendo la formale qualificazione professionistica della federazione di appartenenza,
sottraeva alla sua sfera di applicazione tutti i casi di professionismo di fatto, assoggettando così a
diversa disciplina rapporti di lavoro che avrebbero viceversa meritato un identico trattamento per
essere contraddistinti da analogo contenuto (VIDIRI 1993, p. 210; ROTUNDI 1991, p. 59).
La questione della disparità di trattamento si è riproposta con insistenza sul finire degli anni
Novanta quando, a cagione del vertiginoso salto di qualità di tutta una serie di attività sportive
qualificate come dilettantistiche, anche all’interno delle stesse federazioni professionistiche, lo
spazio occupato dal professionismo di fatto è aumentato a dismisura sino a divenire ben più ampio
di quello ufficializzato dalla legge n. 91/1981(BELLAVISTA 1997, pp. 524 ss), e ciò anche in
riferimento alle prestazioni di ulteriori figure funzionali allo svolgimento delle predette attività quali
i tecnici, i direttori sportivi e gli assimilati.
Si è così tornati a sottolineare come atleti appartenenti a diverse federazioni prive di settore
professionistico (es. i pallavolisti rispetto ai cestisti), ovvero a diversi settori della medesima
federazione (es. i calciatori dei Campionati Nazionali Dilettanti rispetto a quelli di C/2), fruiscano di
trattamenti diversi, pur ricevendo somme di denaro spesso più consistenti dei loro colleghi
ufficializzati e pur offrendo, nell’ambito di discipline sportive svolte egualmente sotto l’egida del
CONI, prestazioni assolutamente identiche (TOGNON 2005, pp. 9-10; CROCETTI BERNARDI
2003, pp. 757 ss ; DE SILVESTRI 2002, pp. 37 ss.;.).
E sono state proposte vecchie e nuove prospettive di soluzione, tutte incentrate comunque
sulla considerazione che, sul piano del trattamento, occorre prescindere dalla qualificazione formale
privilegiando la sostanza dei rapporti (MUSUMARRA 2004, p. 167; CROCETTI BERNARDI
2003, p. 757), avendo come parametro esclusivo l’economicità della prestazione (TOGNON 2005,
p. 10), e dando in ogni caso per scontata, esclusa la presunzione di subordinazione di cui all’art. 3
della legge n. 91/1981, la possibilità di ravvisare un rapporto di lavoro (VALORI 2005, pp. 200 e
201; SPATAFORA 2004, p. 62), necessariamente autonomo o subordinato (MARTINELLI 2005, p.
39), ove l’attività sportiva sia remunerata a fronte di impegni e obblighi sostanzialmente identici a
quelli del professionista.
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Il lavoro nello sport dilettantistico
Riprendendo un suggerimento già avanzato in precedenza (MERCURI 1987, p. 519), si è di
nuovo ventilata la possibilità di applicare anche ai dilettanti che lavorano, pur in difetto della
qualificazione formale, la legge n. 91/1981, direttamente (REALMONTE 1997, p. 376) o in via
analogica (ICHINO 1992, p. 100), e la tesi ha trovato un certo seguito sia in isolate sentenze di
merito degli anni Ottanta, sia in alcuni lodi arbitrali (amplius in CROCETTI BERNARDI 2002, pp.
89-90) e sorprendentemente, in una recente sentenza di Cassazione, che ha ritenuto applicabile
l’art. 4/5° della legge ad un rapporto intercorso nell’ambito della F.I.S.G. (amplius sub 5). La chiara
definizione dei professionisti dettata dall’art. 2, che considera tali quelli che “conseguono la
qualificazione dalle federazioni sportive nazionali” ed il divieto di applicazione analogica per le
leggi speciali imposto dall’art. 14 delle preleggi induce senz’altro a concludere, come ritenuto dai
più, che occorra però far capo, per gli specifici problemi di trattamento del professionista di fatto,
alle norme di diritto comune dettate in linea generale per ogni rapporto di lavoro (per tutti VALORI
2005, op.loco citt., nonché, da ultimo, Corte d’Appello di Roma, 8 giugno 2005, Bonfrisco Angelo
c/ F.I.G.C. e A.I.A., inedita, che ha dichiarato non estensibili analogicamente agli arbitri, non
ricompresi nell’art. 2, le norme speciali della legge n. 91/1981).
Più complessa è la questione della disparità di trattamento tra professionisti ufficializzati e
professionisti di fatto, che non sembra in ogni caso poter trovare utile sbocco nei dubbi di
legittimità costituzionale della legge n. 91/1981 che, anche di recente, sono stati sollevati (PESSI
2004, p. 36).
La legge, infatti, è stata emanata in piena età della decodificazione, caratterizzata, com’è
noto, dal rovesciamento di funzioni del codice civile: “non diritto generale, ma residuale, non
disciplina di fattispecie più ampie, ma di fattispecie vuote, prive cioè di quegli elementi di fatto, di
quelle note individuanti, che suscitano l’emersione di nuovi principi nelle leggi speciali” (IRTI
1986, p. 27). Essa dunque, lungi dal prevedere un lavoro subordinato atipico, come da molti si è
ritenuto e si continua a ritenere (da ultimo SANINO 2002, p. 281), risponde perciò ad una propria
logica autonoma che non può affatto precludere, come è apparso del resto chiaro anche ai suoi primi
commentatori (BIANCHI D’URSO- VIDIRI 1982, p. 9), la possibilità di ricorrere comunque, ove
ne ricorrano le condizioni, ai generali schemi codicistici del lavoro autonomo e dello stesso lavoro
subordinato.
Se non sembra dunque possibile predicare direttamente l’incostituzionalità della legge n.
91/1981, pone per altro verso seri problemi di conformità al dettato costituzionale la circostanza che
l’alternatività tra la tutela speciale offerta da questa e quella generale codicistica, che presentano
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differenze tutt’altro che trascurabili (si pensi alle deroghe stabilite dai commi 8 e 9 dell’art. 4, al
trattamento pensionistico ed assistenziale, nonché all’arbitrabilità oggettiva delle controversie ex
art. 412 ter c.p.c.), risulti rimessa al Consiglio Nazionale del CONI ( art. 2 legge n. 91/1981 e 5 lett.
a) D. lgs. N. 242/1999) e, attualmente, in virtù dei Principi Fondamentali degli Statuti delle
Federazioni Sportive Nazionali, delle Discipline Sportive Associate e delle Associazioni Benemerite
alle stesse federazioni, “mediante specifica previsione statutaria, in presenza di una notevole
rilevanza economica del fenomeno e a condizione che l’attività in questione sia ammessa dalla
rispettiva Federazione internazionale” (Principio n. 23).
Una tale disciplina, che consegna al gradimento delle singole federazioni – persone
giuridiche private la scelta se dotarsi o meno di un settore professionistico, e che rappresenta
senz’altro un regresso rispetto a quella precedente, che almeno demandava alla potestà
regolamentare del CONI, e quindi ad una fonte di diritto secondaria, l’emanazione (di fatto mai
avvenuta: amplius, criticamente, in CROCETTI BERNARDI 2004, pp. 136 e 137) di direttive
specifiche, non sembra affatto in linea con l’imperativa tutela offerta dalla Costituzione ai rapporti
di lavoro.
Non si vede, infatti, come rimettere all’autodeterminazione di privati la scelta del modello di
tutela in presenza di prestazioni lavorative del medesimo contenuto se si considera che la Corte
Costituzionale, in due sentenze assai note agli specialisti (amplius, per tutti, in SCOGNAMIGLIO
2001, pp. 95 ss e D’ANTONA 1995, pp. 63 ss), ha precluso persino allo stesso legislatore la
disponibilità del tipo contrattuale, facendogli divieto di assegnare un diverso nomen iuris a rapporti
di intrinseco e oggettivo stampo lavoristico.
4) Le diversificate risposte regolamentari delle federazioni sportive nazionali.
Il problema del professionismo di fatto non riguarda in egual misura le varie F.S.N.,
differente essendo la popolarità e la spettacolarità, e quindi l’idoneità delle varie discipline a
distribuire risorse economiche ai protagonisti delle corrispondenti prestazioni sportive, anche se
tutte sono in ogni caso interessate a non estendere l’area del professionismo ufficializzato ed a
contenere comunque in ambito endoassociativo ogni possibile, relativo contenzioso.
Ciò spiega come la maggior parte di esse considerino perciò sufficiente la generica
previsione che vincola tesserati e affiliate a devolvere tutte le controversie non tipizzate, e quindi
non espressamente regolamentate, alla residuale competenza di un collegio arbitrale. Valga, per
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tutte, l’esempio della Federazione Italiana Rugby la quale, dopo aver prescritto l’indiscriminato
impegno “a non adire altre autorità che non siano quelle federali”, impegna comunque tesserati ed
affiliate a rimettere al giudizio di un collegio arbitrale, espressamente disciplinato, “la risoluzione di
qualsiasi controversia che dovesse insorgere per qualsivoglia fatto o causa connessa all’attività
federale e che non rientri nella competenza normale di Organi Federali” (artt. 53 e 54 Statuto FIR).
Le Federazioni più direttamente interessate si sono invece occupate ex professo della
materia, dando però risposte diversificate se non, addirittura, di segno opposto.
La F.I.G.C., che già prevedeva all’art. 94 ter delle NOIF alcune forme di erogazione
nell’ambito dei Campionati Nazionali Dilettanti, avendo cura in ogni caso di precisare, già allora,
che in materia doveva ritenersi “esclusa, come per tutti i calciatori non professionisti, ogni forma di
lavoro autonomo o subordinato”, ha preso lo spunto dalla legislazione tributaria per procedere ad
una coraggiosa riforma al dichiarato fine di colmare la “palese discrasia tra calcio legale (la
prescritta gratuità della prestazione dilettantistica) e calcio reale (le consistenti e sempre più
frequenti dazioni di denaro)”e per combattere altresì la prassi, sempre più radicata da parte delle
relative società, di stipulare, con i propri calciatori, “accordi economici contra legem che
prevedevano importi particolarmente consistenti da corrispondersi in nero” (DE SILVESTRI 2002,
pp. 45 e 46).
L’aggancio per rivisitare l’intera materia, già disciplinata dal legislatore tributario nel senso
dell’inclusione tra i “redditi diversi” da quelli derivanti da attività lavorativa delle indennità di
trasferta, dei rimborsi forfetari di spesa, dei premi e dei compensi erogati nell’esercizio diretto di
attività sportive dilettantistiche (art. 81/1° lett. m. TUIR), è stato offerto dalla legge 21/11/2000 n.
342 collegata alla relativa legge Finanziaria che, prevedendo all’art. 37 una esenzione di imposta
sino a 10 milioni delle vecchie lire (ora 15.000 euro), per i compensi erogati da società
dilettantistiche ed una ritenuta d’acconto secca per gli importi successivi ricompresi entro il tetto di
50 milioni (ora € 25.822,00=), ha consentito a quella federazione di legittimare solo gli accordi
contenuti nei limiti della normativa fiscale e di sconfessare apertamente quelli superiori,
dichiarandoli nulli e integrativi di illecito disciplinare.
La riforma, entrata in vigore nella stagione 2002-2003 unitamente a quella del vincolo e
rivisitata prima di quella in corso, si incentra sulla modifica dell’art. 29 delle NOIF, relativo alla
definizione del “non professionista” e, soprattutto, sulla riformulazione del successivo art. 94 ter il
quale, oltre a legittimare, rendendoli obbligatori, gli accordi economici con i calciatori del
Campionato Nazionale Dilettanti, prevede anche un apposito organo giustiziale di Lega, la
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Commissione Accordi Economici (CAE), per la risoluzione dei relativi contenziosi (i termini
dell’intera riforma in DE SILVESTRI 2002, pp 45 ss).
Pur generalmente apprezzate nel loro tentativo di fornire al calcio dilettantistico apicale un
assetto regolamentare tale da attutire, se non eliminare, le disparità di trattamento con i
professionisti delle serie inferiori, le modifiche sono state variamente accolte in dottrina.
Accanto a manifeste perplessità, fondate soprattutto sulla constatazione che, potendo il
calciatore dilettante, per effetto della riforma, percepire una retribuzione annuale netta superiore a
quella di un calciatore professionista di Serie B, non si vedeva come non inquadrare “l’ accordo” di
cui all’art. 94 ter delle NOIF tra i contratti di lavoro (MUSUMARRA 2004, p. 169; CROCETTI
BERNARDI 2003, p. 767), non sono mancati tentativi di giustificare la riforma anche sul piano
strettamente giuridico.
Si è in particolare ritenuto di poter riguardare i calciatori non professionisti, abilitati a
stipulare accordi e a ricevere le relative erogazioni, come categoria intermedia tra i dilettanti, che
eseguono prestazioni sportive a titolo gratuito, ed i professionisti, soggetti alla legge n. 91/1981 (DE
CRISTOFARO, 2003, pp. 12 ss), e si è altresì sostenuto che, nel caso del dilettante, legato
comunque con la società di appartenenza in un rapporto sinallagmatico di natura atipica, l’eventuale
attività economica, svolta comunque in via accessoria e non principale, tale da non giustificare una
tutela previdenziale sarebbe perciò giustiziabile, in caso di controversia, innanzi al giudice civile, e
non del lavoro (GUADAGNINO 2003, p. 5).
L’altra federazione professionistica con rilevante componente dilettantistica, e cioè la
Federazione Italiana Pallacanestro (F.I.P.), ha seguito una strada parzialmente diversa e, occorre pur
dirlo, intrinsecamente contraddittoria.
Questa federazione, ha infatti previsto, nel proprio Statuto, una clausola compromissoria di
devoluzione ad un giudizio arbitrale irrituale di carattere residuale rispetto agli specifici ambiti di
competenza degli organi giustiziali, facendo però salve le controversie per le quali è esclusa per
legge “la compromettibilità in arbitri (art. 44/1° St., nonché art. 161 R.O.) precisandosi, per altro
verso (art. 4 bis RE), che per i giocatori o giocatrici dilettanti “è esclusa ogni forma di lavoro sia
autonomo che subordinato”.
Al di là delle dichiarazioni di principio, la costituzione del vincolo dilettantistico ai livelli
apicali avviene però attraverso la stipula di contratti il cui contenuto lavoristico appare a tutti
evidente e che ricevono tutela alla stessa stregua di quelli dei professionisti ufficializzati, essendo il
modulo arbitrale espressamente legittimato da un apposito organo di giustizia, la Commissione
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Vertenza Arbitrali (C.V.A.) preordinato appunto alle incombenze federali concernenti la clausola
compromissoria ed i relativi lodi (art. 57 St.).
Un’altra federazione professionistica, quella ciclistica (F.C.I.), operando una scelta ispirata a
pragmatismo assoluto, ha invece previsto tout court un “contratto di lavoro sportivo per ciclista
dilettante”, con tanto di allegato “prospetto retributivo”, in cui le parti “si danno reciprocamente
atto che il rapporto di lavoro tra loro instaurato è un rapporto di lavoro autonomo dilettantistico
fuori dal campo di applicazione delle legge n. 91/1981, quindi senza vincolo di subordinazione”, ed
in cui si prevede che la società dilettantistica, apertamente definita “datore di lavoro”, si “obbliga a
sottoscrivere in favore ed in nome del ciclista una quota del fondo ad hoc costituito presso la F.C.I.
dell’importo di euro 500,00 annuo” pena, per il caso di inadempienza, l’esclusione dalle
competizioni previste nel calendario federale. Nonostante la conclamata natura lavoristica del
contratto, tutte le relative controversie sono ciononostante devolute, all’art. 8 del medesimo, “alla
cognizione esclusiva di un Collegio arbitrale costituito nei modi e nelle forme previste dall’art. 42
dello Statuto e dell’art. 27 del Regolamento di Giustizia della F.C.I.”.
La Federazione Italiana Pallavolo (F.I.P.A.V.) la quale, ancorché formalmente dilettantistica,
registra nei propri campionati a livello apicale un numero sempre crescente di professionisti di fatto,
sta evidentemente attraversando un periodo di grosso travaglio.
Dopo avere espressamente previsto una clausola compromissoria di rimessione al giudizio di
un collegio arbitrale la risoluzione di ogni controversia (art. 57 Statuto previgente), ivi comprese
quelle relative ai rapporti economici tra società ed atleti (vedi gli artt. 110-118 Reg. Giurisdiz. 20002001) ed avere inserito, nella propria circolare di indizione dei Campionati Nazionali di Serie A1 e
A2 femminili, la prescrizione di una fideiussione supplementare ove i “contratti” depositati in Lega
superassero l’ammontare complessivo di euro di 600.000, nell’ultima edizione dello Statuto essa
non riporta più alcuna clausola compromissoria, ma disciplina solo il vincolo di giustizia (art. 20
Statuto approvato il 7 Novembre 2004), lasciando con ciò intendere di volersi disinteressare a
livello endoassociativo del contenzioso economico relativo alle prestazioni sportive.
5) La giurisprudenza statuale e arbitrale.
L’irrilevanza della qualifica di dilettante ai fini dell’accertamento di un concreto rapporto di
lavoro, subordinato o autonomo, si trova pacificamente affermata nella giurisprudenza della
magistratura specializzata a decorrere già dal primo lustro degli anni Ottanta, quando svariati
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professionisti di fatto, spesso a fine carriera hanno, in maniera sempre crescente, cominciato a
violare il vincolo di giustizia per far valere le loro ragioni in sede giudiziale.
Apparirebbe in ogni caso un fuor d’opera citare in modo massivo le numerosissime
sentenze, in larga parte inedite, che nel tempo si sono succedute in materia, sia perché le stesse sono
riportate dalla già ricordata dottrina specialistica (in particolare, in ordine cronologico,
MARTINELLI 1993, ZANOTTI 1995, MORO 1999, DE SILVESTRI 2002, GUADAGNINO
2003, MARTINELLI 2005) e sia perché in esse, in relazione alla specificità dei singoli casi concreti
evocati in giudizio, ci si è limitati a fare applicazione dei generali criteri che inducono a qualificare
una prestazione come lavoristica, sia in termini di subordinazione che di autonomia.
Anche se ciò, per la verità, non sempre è avvenuto puntualmente in quanto, per una sorta di
ritrosia concettuale, le prestazioni del dilettante sono state spesso automaticamente inquadrate nello
schema della parasubordinazione, escludendo apoditticamente la possibilità che le stesse potessero
essere invece qualificate in termini di subordinazione (in tal senso, con le relative citazioni,
ZANOTTI 1995 p. 637).
Sono comunque
frequentissimi i casi in cui, al di là di ogni astratto pregiudizio, la
magistratura specializzata ha ampiamente motivato, con decisioni anche risalenti, le ragioni che
l’hanno portata ad accertare l’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato tra il professionista di
fatto e la società dilettantistica di appartenenza.
Senza appesantire inutilmente la trattazione, mi limiterò a ricordare, tra le tante, due
sentenze, esemplari per chiarezza e linearità, una della Pretura di Grosseto (1 Agosto 1995, US
Grosseto c/ Fabi Alfredo, inedita) e l’altra del Tribunale di Forlì (Sez. Lavoro, 28 novembre 1996,
Casotti Daniele c/ F.I.G..C., riportata a stralci da CROCETTI BERNARDI 2003, p. 759, ove
risultano citate ulteriori, analoghe decisioni).
Nella prima il giudicante, esaminando le previsioni di un contratto stipulato da un calciatore
del Campionato Nazionale con la relativa società, del tutto simili a quelle del contratto tipo previsto
dalla legge n. 91/1981 per i professionisti, ha ravvisato senz’altro nelle stesse un contratto di lavoro
sportivo retribuito, vietato dall’allora vigente art. 94 bis della NOIF, ma “non per questo però nullo
nell’ordinamento giuridico statale”, avendo ritenuto nella specie
che il calciatore era “un
professionista irregolare, passibile di sanzioni insieme alla società, ma non certamente un non
professionista”. Si legge significativamente, nell’altra, che “quanto all’effettiva natura subordinata
del rapporto de quo il Collegio non ha dubbi: una semplice lettura del contratto ne evidenzia la
caratterizzazione dello stesso con gli elementi tipici del lavoro subordinato … Peraltro, come
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chiarito ampiamente dal Pretore nella sentenza impugnata, i divieti e in genere le disposizioni
interne dell’ordinamento sportivo non possono certo ripercuotersi nell’ordinamento giuridico
italiano, per il quale assumono rilevanza unicamente le fonti normative appunto statuali”.
Considerazioni analoghe sono riportate in numerosissimi lodi i quali, se spesso si limitano a
riconoscere la spettanza delle somme richieste senza nemmeno porsi il problema della
qualificazione della fonte contrattuale, altre volte hanno invece fatto espresso riferimento alla natura
di lavoro subordinato delle prestazioni offerte (vedi, ex multis, i due lodi emessi in ambito FIPAV
nel corso dell’anno 2002 di cui si dirà nel paragrafo che segue).
E’ poi all’opposto il caso di denunciare come, sulla scorta del chiaro e consolidato indirizzo
della S.C., secondo cui la qualificazione di un rapporto lavoristico come subordinato presuppone
necessariamente la soggezione del lavoratore al potere direttivo, organizzativo e disciplinare del
datore di lavoro, che deve estrinsecarsi nell’emanazione di ordini specifici, oltre che nell’esercizio
di una assidua attività di vigilanza e controllo nell’esecuzione delle prestazioni, si sia di recente
pervenuti all’inaccettabile conclusione di considerare lavoratori subordinati e, quindi, professionisti
di fatto, anche gli arbitri.
E’ questo, infatti, il senso della sentenza 8 aprile 2005 del Tribunale di Torino il quale,
nell’assolvere l’allora Presidente di Lega Professionisti di Serie A e B Avvocato Luciano Nizzola
dalle relative
omissioni contributive esclusivamente sotto il profilo soggettivo, ha comunque
accertato l’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato tra la stessa Lega e gli arbitri della CAN,
facendo peraltro improprio riferimento al disposto della legge n. 91/1981 (amplius, in senso
analogamente critico, in GUADAGNINO 2005, pp. 1 ss.. Per l’esclusione del rapporto di lavoro
subordinato vedi, invece, Tribunale di Roma, sent. n. 8712 del 25 marzo 2003, Bonfrisco Angelo c/
FIGC e AIA, inedita, confermata in appello, cit, che ha invece correttamente ravvisato, nel “preteso
potere gerarchico disciplinare”, il “concretizzarsi degli obblighi associativi” finalizzati al regolare
svolgimento della gara, escludendo quindi che gli emolumenti percepiti dagli arbitri possano
considerarsi “retribuzione in senso strettamente tecnico”).
Non può, da ultimo, non citarsi con stupore una recente sentenza della S.C. (Cass. Civ. Sez.
Lav. 1 agosto 2003 n. 11751, Hockey Club Milano 24 srl c/ Massara John) che, nel confermare la
piena validità di un lodo emesso nell’ambito di una federazione dilettantistica quale la F.I.S.G., ha
ritenuto di poter fare riferimento alla legge n. 91/1981, la quale, come dovrebbe ormai essere
chiaro,
può trovare applicazione solo ed esclusivamente nell’ambito del professionismo
ufficializzato.
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6) Le problematiche di arbitrabilità delle controversie del professionista non
ufficializzato.
Solo i professionisti ufficializzati e le loro controparti, le società professionistiche, possono
devolvere in arbitrato i relativi contenziosi d’ordine lavoristico.
Ad una tale conclusione si perviene dal coordinamento di numerose disposizioni di legge,
sia generiche che specificamente previste in materia sportiva, ed in particolare: a) l’art. 1966 del
Codice Civile, che disciplina la capacità a transigere limitandola espressamente ai diritti disponibili;
b) l’art. 409 c.p.c., che regola le controversie individuali di lavoro, sia subordinato (n. 1) che
parasubordinato (n. 3); c) l’art. 5 della legge 11 agosto 1973 n. 533 che regola l’arbitrato in tema di
lavoro; d) gli artt. 806-808 c.p.c., che ammettono all’arbitrato rituale le controversie di cui all’art.
409 ove ciò sia previsto in sede di contrattazione collettiva; e) l’art. 4 co. 1 della L. n. 91/1981 che
prevede la contrattazione collettiva solo nell’ambito dal professionismo ufficializzato; f) l’art. 412
ter c.p.c., come modificato dai due decreti legislativi n. 88/1998 e 387/1998, che disciplina
compiutamente l’arbitrato irrituale in materia di lavoro.
Ai professionisti di fatto che intendono azionare i loro diritti d’ordine lavoristico è invece
fatto divieto di ricorrere sia all’arbitrato rituale che a quello libero.
Quest’ultimo può infatti essere utilizzato validamente per il contenzioso in tema di lavoro
solo in presenza di contrattazione collettiva, secondo il disposto del citato art. 412 ter c.p.c., ovvero
“nei casi previsti dalla legge”, come dispone il comma 1 dell’art. 5 della legge n. 533/1973,
parimenti citata, che a differenza dei commi 2 e 3, non è stato abrogato dal ricordato decreto
legislativo n. 88/1998, ma i professionisti di fatto non possono beneficiare né della prima
previsione, riservata esclusivamente a quelli ufficializzati, né della seconda, nessuna definizione
legislativa esistendo in proposito.
Dovendosi pertanto escludere in radice la possibilità di compromettere in arbitri le
controversie concernenti gli atleti formalmente dilettanti, nonché tutti gli altri soggetti, in
particolare tecnici e dirigenti, ma anche medici e paramedici, le cui prestazioni rivestono in
concreto natura lavoristica, ogni altra questione riguardante la validità delle clausole
compromissorie che tanto pretendono dovrebbe perciò ritenersi superflua.
E’ però il caso di accennare, in considerazione delle ricorrenti formulazioni che non
consentono, nonostante l’espressa prescrizione legislativa a pena di nullità, l’opzione alternativa per
la tutela giudiziaria e l’impugnativa dei lodi, che se la presenza di tali vizi non comporterebbe
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comunque problemi di validità in considerazione del pacifico indirizzo della S.C. di considerare
automaticamente inserite le previsioni mancanti (da ultimo, in tal senso, la citata Cass. 1 agosto
2003 n. 11751), resterebbe pur sempre aperto il problema della natura vessatoria o meno delle
clausole compromissorie concernenti i professionisti di fatto. E ciò sia di quelle espressamente
apposte da questi nei relativi contratti individuali, e sia di quelle statutarie o regolamentari, previste
cioè dalle federazioni di appartenenza, asseritamente accettate per relationem per il tramite delle
richieste di tesseramento e di affiliazione contenenti l’impegno di accettare le norme
endoassociative di cui si è dichiarato di aver preso visione.
Dottrina e giurisprudenza largamente prevalenti ritengono, al proposito, del tutto
inconferente il richiamo all’art. 1341 cc, che esigerebbe la separata approvazione per iscritto della
clausola, sul presupposto che la prescrizione non sarebbe ontologicamente armonizzabile con
tipologie contrattuali, quali quelle di specie, caratterizzate non da contrapposizione, ma da
confluenza di interessi, con esclusione quindi di ogni possibile prevaricazione da parte del
predisponente.
La realtà però è che, così argomentando, si finisce con il confondere e sovrapporre il
rapporto di tesseramento, e le relative controversie, per il quale il discorso si attaglia perfettamente
in ragione della sua natura associativa, con quello di vincolo, che nel caso del professionista di fatto
è invece di lavoro, e quindi di scambio (amplius in DE SILVESTRI 2004, pp 124 ss), prova ne è
che il giudice naturale di quest’ultimo non può che essere individuato in quello del lavoro ai sensi
dell’art. 3 comma 1 della legge n. 280/2003, che com’è noto tiene ferma “la giurisdizione del
giudice ordinario (specializzato) sui rapporti patrimoniali tra società, associazioni e atleti”. La
materia, dunque, deve ritenersi tuttaltro che pacifica, come del resto la dottrina più attenta non ha
mancato di riscontrare sin dai primi anni Novanta, quando gli espressi dubbi circa la natura
vessatoria delle clausole compromissorie sportive hanno consentito la formazione ed il
consolidamento da parte della S.C., dell’opposto indirizzo interpretativo (amplius, in senso
apertamente critico, e per ulteriori citazioni, in CARINGELLA 1993, pp. 487 ss).
Per lungo tempo, e tuttora abitualmente ignorati, specie nell’ambito di quelle federazioni, in
particolare la F.I.P. e, sino alla scorsa stagione la F.I.P.A.V., che disciplinano compiutamente le
procedure arbitrali per le controversie dei dilettanti, i problemi di comromettibilità di queste, emersi
progressivamente a decorrere dalla fine degli anni Novanta, sono ora sufficientemente noti.
Nel lodo del 31 marzo 1999 tra la Firenze Volley s.p.a. e la pallavolista Schultz Cristine,
veramente esemplare per chiarezza, linearità ed esaustività di motivazione il Collegio, rilevato che
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il contratto portato alla sua cognizione regolava un rapporto qualificabile senz’altro in termini di
lavoro, che le relative controversie rientravano in ogni caso tra quelle elencate nell’art. 409 c.p.c.,
ed accertato perciò che la clausola compromissoria in esso apposta era “inficiata da nullità
insanabile e rilevabile d’ufficio, in quanto compromette(va) in arbitri in materia devoluta al Pretore
in funzione di Giudice del lavoro in forza di norma inderogabile” ha deciso, “conseguentemente, di
non proseguire oltre nella procedura in quanto ogni atto sarebbe (stato) travolto da nullità”.
A tale lodo fa da pendant la sentenza del Tribunale del Lavoro di Rovigo (n. 441/00 sent., 16
giugno 2000, est Bigetti, Pandolfi Daniele c/ U.S. Ochiobello, inedita), in cui il Giudice, a fronte
dell’eccezione di carenza di giurisdizione, prevedendo il contratto concluso tra le parti la clausola
compromissoria che devolveva ogni relativa controversia ad un Collegio costituito secondo le
modalità previste dalla F.I.P.A.V., richiamando gli artt. 412 ter, 409 e 808 c.p.c. e 5 della legge 11
agosto 1973 n. 533, si è invece pronunciato nel merito, avendo accertato nella specie la ricorrenza
di un rapporto di parasubordinazione, come tale non compromettibile in arbitri.
La questione si è riproposta un paio di anni dopo quando, il 13 aprile 2002, è stato emanato
un ulteriore lodo declinatorio della giurisdizione nella controversia tra l’allenatore Daniele Bagnoli
e la Daytona Valley Spa di Modena a cui ha fatto seguito, in data 20 febbraio 2003, la sentenza tra
le stesse parti del Tribunale di Modena in funzione di Giudice del lavoro (n. 90/03 Sent., est.
Stanzani, inedita), che ha ovviamente affermato la propria giurisdizione e concluso nel merito.
Anche se la stragrande maggioranza delle controversie dei professionisti di fatto ha
continuato ad essere risolta con il modulo arbitrale, a decorrere da quel periodo il problema si è
comunque posto, in tutta la sua gravità, ed i difensori delle parti hanno preso con sempre maggior
frequenza a sollevare la questione della compromettibilità.
E’ singolare dover constatare, però, come nel prosieguo si sia assistito ad un curioso
arroccamento della giurisprudenza arbitrale, spiegabile solo con l’intento di favorire comunque la
composizione delle liti e di supportare, al tempo stesso, le traballanti previsioni regolamentari delle
rispettive federazioni.
Si sono al proposito prospettate diverse linee argomentative, tutte forzate e chiaramente
inaccettabili.
Un primo ordine motivazionale si fonda sulla considerazione che vorrebbe l’art. 412 ter
c.p.c. a presidio esclusivo degli interessi del lavoratore, al quale solo spetterebbe, pertanto, la
facoltà di far valere la nullità della clausola compromissoria e del conseguente procedimento
arbitrale, mentre nessuna eccezione potrebbe essere sollevata nel caso di vocatio in ius della società
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(lodo 1 luglio 2003, Terenzio De Benedictis c/ C.U.S. l’Aquila Rugby, inedito). Appare però di tutta
evidenza l’arbitrarietà di una siffatta conclusione, posto che la rilevabilità d’ufficio della nullità sia
della clausola che del relativo lodo è assolutamente pacifica in giurisprudenza (ex plurimis, tra le
più risalenti, Cass. Civ., Sez. I, 14 febbraio 1977 n. 649).
Un altro tentativo di fondare la compromettibilità in arbitri delle controversie di lavoro
sportivo dilettantistico è quello, svolto nella comparsa conclusionale del procedimento De
Benedictis – C.U.S. l’Aquila Rugby sopra citato, che tende a superare il disposto dell’art. 412 ter
c.p.c. utilizzando i Principi Informatori degli Statuti Federali, cui le federazioni devono (ora non
più, essendo stati sostituiti dai Principi Fondamentali approvati il 23 marzo 2004) necessariamente
uniformarsi parificandoli, in quanto promananti dall’ente pubblico- CONI, alla fonte legislativa
prescritta. E’ però altrettanto evidente che la natura regolamentare, e quindi di fonte secondaria
degli stessi non autorizza(va) per nulla una siffatta conclusione, che non risulta peraltro mai accolta
in alcun lodo.
Più interessante ed articolato appare invece il tessuto argomentativi inaugurato, a quanto
consta, con il lodo Malaja (12 febbraio 2002, Lilia Malaja c/ Rovereto Basket, inedito) e recepito,
successivamente, in altri lodi (19 maggio 2005, Paul Roux c/ Rugby Viadana s.r.l., inedito).
Il presupposto da cui si muove è che, per effetto del tesseramento e dell’affiliazione, le
persone e le società acquisiscono uno status dal quale derivano specifici diritti e obblighi di natura
endoassociativa, alcuni dei quali non insorgono direttamente nei confronti della federazione, ma si
collocano nell’ambito del rapporto che si istituisce con la società di appartenenza. Questi ultimi, si
legge ancora nel lodo Malaja, “possono ben avere contenuto patrimoniale”, ma si tratterebbe, in
ogni caso, di accordi “ accessori ed esterni” al rapporto di tesseramento, ed in ogni caso “eventuali”,
posto che molti atleti giocano senza percepire alcun compenso: ciò, ovviamente, purché non si tratti
di professionisti ufficializzati, per i quali l’accordo di carattere economico con la società non solo
non può riguardarsi come accessorio ed eventuale, ma si pone anzi come requisito indispensabile
per poter ottenere il tesseramento. Si sostiene, da ultimo, che gli accordi dei professionisti di fatto,
“che hanno valenza anche nell’ordinamento generale”, potrebbero trovare tutela per il tramite dei
procedimenti arbitrali previsti in quanto “filtrati” dall’ordinamento federale in quanto la cognizione
dei relativi collegi non avrebbe “ad oggetto diretto l’accordo concluso, contratto di lavoro per
l’ordinamento generale”, ma solo lo stesso “quale fatto fonte delle situazioni giuridiche di carattere
economico”.
DOTTRINA
Il lavoro nello sport dilettantistico
A dir poco semplicistico, ed in ogni caso sicuramente elusivo di ogni problematica, appare
infine l’ordine motivazionale scelto da un recentissimo lodo in ambito F.I.P. per respingere
l’avanzata eccezione di difetto di giurisdizione “per essere intercorso tra le parti un rapporto di
lavoro subordinato” (21 novembre 2005, Gianluca Ghedini c/ A.S. Amicizia & Sport Napoli,
inedito).
Si argomenta in esso che la questione della validità o meno della clausola compromissoria
apposta nel contratto oggetto del giudizio sarebbe addirittura “totalmente irrilevante, atteso che la
controversia avrebbe comunque dovuto essere devoluta al Collegio Arbitrale sulla base delle norme
contenute nei Regolamenti F.I.P.”, e cioè gli artt. 1 R.E., 115 e 161 e ss. R.O. che prevedono,
rispettivamente, l’accettazione delle norme statutarie e regolamentari da parte del giocatore e della
società e, quindi, della relativa procedura arbitrale nelle stesse previste.
Si aggiunge, ancora, che l’attore, proponendo il ricorso ex art. 164 R.O., avrebbe attivato
“non già la clausola compromissoria contenuta nel contratto inter partes, ma quella prevista dall’art.
40 dello Statuto e degli articoli 161 ss del Regolamento Organico F.I.P.” e si conclude, con
l’affermazione che, secondo l’art. 4 bis del R.E., deve in ogni caso escludersi che l’attività svolta in
ambito dilettantistico “possa essere ricondotta nell’ambito del rapporto di lavoro autonomo o
subordinato”.
Gli arbitri non si sono resi conto, evidentemente, che il loro argomentare prova troppo in
quanto il lodo emesso, dichiaratamente, solo ed esclusivamente valore endoassociativo, con la
conseguenza che alla parte soccombente non potrebbe perciò precludersi, senza rischio di vedersi
opporre l’ exceptio compromissi, il ricorso al Giudice del lavoro.
Non può, conclusivamente, non prendersi atto, in realtà, al di là di ogni artificio dialettico
inidoneo a cancellare l’eventuale, sostanziale natura lavoristica della prestazione sportiva, che il
chiaro e inderogabile disposto dell’art. 412 ter del codice di rito non consente affatto di devolvere in
arbitri alcuna delle controversie di cui ai nn. 1 e 3 del successivo art. 409, e che, pertanto, i lodi
comunque emessi potranno sempre essere disattesi dai soccombenti che ritenessero di ricorrere al
giudice naturale del lavoro precostituito per legge (art. 24 Cost.)
Esattamente in tal senso si è determinato infatti il Tribunale di Bari (Sez. Lavoro, sent. n.
6270/03 del 10 marzo 2003, Bari Volley s.r.l. c/ Falsarella Regione, inedita) in cui la società,
condannata al pagamento di una somma di danaro, si è opposta al relativo decreto ingiuntivo
ottenendone come richiesto la revoca, in quanto “l’atleta aveva posto a fondamento della domanda
monitoria esclusivamente un lodo” che doveva “essere considerato nullo per violazione della norma
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Il lavoro nello sport dilettantistico
imperativa di cui all’art. 808 comma 2 c.c.” analogamente, per i medesimi motivi, alla clausola
compromissoria del “contratto di collaborazione inter partes”, a nulla rilevando “la circostanza che
l’opponente avesse inizialmente accettato il giudizio arbitrale”.
7) La tutela del professionista di fatto tra illegalità, incongruità, insicurezze e carenze di
disciplina: la proposta di legge Moroni.
Piuttosto che “collocati in una specie di limbo giuridico o di spazio vuoto dal diritto”
(Bellavista 1997, p. 525) i professionisti di fatto si dibattono, ben più gravemente, tra l’espressa
illegalità delle disposizioni federali che, pur a fronte degli imperativi e inderogabili precetti
costituzionali in tema di lavoro, ne hanno regolato i rapporti ed il contenzioso per il tramite della
fuorviante categoria di dilettanti, le incongruenze di una legislazione fiscale ingiustamente
favorente da un lato ma elusiva, per altro verso, degli istituti previdenziali-assicurativi e, da ultimo,
le più generali carenze sia a livello di norme codicistiche, inadatte e di incerta applicazione, che di
legislazione speciale, decisamente velleitaria nella pretesa di disciplinare, discriminandola sulla
scorta di qualificazioni eteronome, l’analoga classe di prestazioni dei professionisti ufficializzati.
Le stesse connotazioni negative valgono, a ruoli invertiti, per le società dilettantistiche che si
avvalgono delle loro prestazioni le quali, al di là della circostanza che esse dispongano o meno di
strutture e risorse quali quelle delle loro consorelle professionistiche, si trovano ciononostante
esposte a tutte le conseguenze, anche d’ordine penale, derivanti dall’accertamento di rapporti di
lavoro. Né possono essere sottaciute le difficoltà operative alle quali le stesse vanno incontro in
ragione della qualifica formale e gli aggiustamenti ai quali spesso deve ricorrere il legislatore per
far fronte alle loro esigenze.
Paradigmatico il caso degli sportivi stranieri.
La legge Turco-Napolitano (D. Lgs. 25 luglio 1998 n. 286) prevedeva, infatti, che il
permesso di soggiorno potesse essere rilasciato, per ragioni di coerenza sistematica, solo agli
sportivi professionisti. Tali avrebbero dovuto essere esclusivamente quelli ufficializzati, anche se
nella prassi era invalso l’uso di etichettare come tali anche gli atleti di federazioni dilettantistiche.
L’attuale art. 27 n. 5 bis della legge Bossi-Fini, (legge 30 luglio 2002 n. 189), emendato su
esplicita richiesta del CONI, prevede, ai fini del rilascio del permesso di soggiorno, l’endiadi
“attività sportiva professionistica o comunque retribuita”, dizione quest’ultima che finisce con il
costituire un indiretto riconoscimento legislativo del professionismo di fatto.
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Il lavoro nello sport dilettantistico
Legislatore peraltro il quale, autorizzando con la legge finanziaria 2005 una sovvenzione “a
sostegno delle realtà calcistiche femminili F.I.G.C. Divisione Calcio Femminile di Serie A, A2 e B”
è andato ancora oltre nel riconoscimento del fenomeno, stabilendo che “i contributi a sostegno
dell’attività professionistica delle suddette squadre non sono commutabili con altro genere di
finanziamenti” (art. 1, commi 530 e 534 della legge 30 dicembre 2004 n. 311).
Nel variegato panorama nazionale continuano ad esistere, certamente ed in larga
maggioranza, società ed associazioni sportive dilettantistiche strutturate su base associativa anche
nei rapporti con gli atleti ed incentrate, pertanto, sul volontariato delle prestazioni.
Delle esigenze di queste si è fatto carico il legislatore fiscale, con una serie di interventi
agevolativi che se si giustificano per società e associazioni che operano meritoriamente nel sociale,
o comunque in ambito strettamente amatoriale, non si attagliano certo ai ben diversi casi in cui,
sotto l’ombrello protettivo dell’omnicomprensiva e formale qualificazione dilettantistica, esse
muovono invece, con criteri imprenditoriali, ingentissime somme di denaro per lo svolgimento di
attività sportive a livello apicale e, soprattutto, corrispondono ad atleti, tecnici e figure assimilate
emolumenti talmente elevati che riesce davvero difficile, come pretende il TUIR, considerare “
redditi diversi” da quelli derivanti da attività di lavoro autonomo o subordinato, esenti quindi da
ogni obbligo assicurativo contro gli infortuni sul lavoro o da contributi previdenziali.
Non sono forse tali norme fiscali fortemente in odore di incostituzionalità, se si considera
che l’articolo 38 prevede l’incondizionato diritto, per i lavoratori, “a che siano preveduti ed
assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità e
vecchiaia, disoccupazione involontaria” ? E non fa per altro verso sorridere la circostanza che
sportivi, che guadagnano centinaia di migliaia di euro, utilizzino la prima fascia dei loro compensi,
sino ad euro 7.500.00, per godere delle relative agevolazioni?
( così MARTINELLI 2003, p.7 ).
Quando è stata emanata la legge n. 91 del 1981, il legislatore è stato fortemente influenzato,
sulla scorta dei criteri all’epoca vigenti, dal timore di non pregiudicare la partecipazione alle
olimpiadi di svariate discipline qualificandole come professionistiche.
Oggi, come ho già riferito, una siffatta preoccupazione non esiste più , e le stesse federazioni
sportive internazionali, quando non hanno abolito la qualifica di dilettante, ne adottano una che
appare, peraltro, del tutto in linea con i principi lavoristici , nel senso che considerano tale chi è
vincolato con la società di appartenenza solo ed esclusivamente da un rapporto di natura
associativa. E’ il caso, per citare il più eclatante, del vigente Regolamento F.I.F.A. in materia di
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Il lavoro nello sport dilettantistico
status e trasferimento dei calciatori, che all’articolo 2 considera professionista “ colui che ha un
contratto scritto con una società e che in cambio della propria prestazione riceve un pagamento
superiore alle spese effettivamente sostenute nell’esercizio dell’attività calcistica. Tutti gli altri
calciatori sono considerati dilettanti”.
Occorre, a questo punto, trarre delle conclusioni.
Le federazioni sportive nazionali, a partire da quella calcistica, non solo non hanno adeguato
i propri regolamenti a quelli imposti dalle corrispondenti federazioni sportive internazionali, ma li
hanno invece strutturati (esemplare appunto il caso della Federcalcio) in aperto contrasto con gli
stessi.
A livello comunitario il professionista di fatto, dunque anche italiano, non presenta specifici
problemi di trattamento, nel senso che la sua tutela prescinde completamente da parametri
eteronomi e formali, quale quello di dilettante eventualmente attribuitogli dalla federazione di
appartenenza. A livello nazionale lo stesso professionista di fatto deve invece misurarsi, oltre che
con la legislazione fiscale, con le incerte ed obsolete norme codicistiche che lo rimpallano
continuamente tra due schemi legali che, oltre ad essere assai spesso vicini, mal si attagliano
entrambi alle fattispecie di lavoro sportivo.
In un tempio di lavoristi quale quello che mi ospita, non ritengo di dover aggiungere nulla
sul ben noto travaglio che, ormai da lungo tempo, occupa i giuslavoristi sulla crisi di nozioni
fondanti, quali l’autonomia e la subordinazione, né sul palese disagio della giurisprudenza a fronte
della continua emersione di fattispecie promiscue (paradigmatica quella del maestro di tennis),
costretta in ogni caso a qualificare con gli schemi del passato figure che vengono invece dal futuro,
ovvero ad accordare o negare in blocco, in base a circostanze marginali nell’economia dei rapporti
instaurati, il compatto sistema delle relative garanzie ( amplius in DE LUCA TAMAJO, 2005, pp 3
ss ).
E se il mondo del lavoro ha potuto in certa parte attenuare le tensioni che in tema di
qualificazione dei rapporti si erano addensate ai confini della subordinazione mediante la creazione
del tertinum genus del lavoro a progetto, di una tale possibilità non si è potuto avvalere il lavoro
dilettantistico, per il quale sopravvive dunque l’area delle collaborazioni continuative e coordinate
con tutti i relativi problemi di contiguità con quella della subordinazione.
Tra i rapporti sottratti dal comma 3 dell’art 61 del D. Lgs. 10 settembre 2003 n. 276 alla
applicazione del lavoro a progetto figurano, infatti, né poteva essere altrimenti, “ i rapporti e le
attività di collaborazione coordinata e continuativa comunque rese e utilizzate a fini istituzionali in
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Il lavoro nello sport dilettantistico
favore delle associazioni e società sportive dilettantistiche “, che continuano perciò ad avere
cittadinanza giuridica all’interno dei fluidi ed esigui dati normativi disegnati dall’art. 409 n.3 cpc,
con la conseguenza che i professionisti di fatto restano così esclusi dagli apporti di flessibilità, di
trasparenza e di certezza del mercato del lavoro che sono alla base del decreto Biagi .
E’ dunque necessario rivedere l’intera materia, ed il primo passo dovrà essere compiuto,
ovviamente dal legislatore. Toccherà poi al CONI e alle federazioni sportive nazionali interessate al
fenomeno adeguare le loro prescrizioni, nell’ambito di quel trend del contemperamento che, ormai
da oltre un decennio, caratterizza i rapporti tra ordinamento statuale e ordinamento sportivo
(amplius, in tema, in DE SILVESTRI 2004, pp. 10-11), alle leggi di quest’ultimo.
Senza concrete possibilità di approvazione, essendo ormai imminente lo scioglimento del
Parlamento, giace innanzi alla Camera dei Deputati la proposta di legge n. 5605, presentata il 9
febbraio dello scorso anno dall’on.le Moroni e da altri, composta di otto articoli, che sotto la
rubrica, decisamente riduttiva, di “disposizioni in materia di tutela previdenziale degli sportivi”,
disciplina in realtà la prestazione sportiva a titolo oneroso nella sua interezza.
Dalla lettura della relazione introduttiva si evince chiaramente che le proposta, riconducibile
essenzialmente alla “previdenza sociale” di cui all’art. 117 secondo comma, lettera o) della
Costituzione e alle ormai note e discriminanti “differenze di genere” tra professionisti ufficializzati
e di fatto nell’ambito di discipline sportive dal medesimo contenuto, oltre che tra uomo e donna
finisce però, per il tramite della categoria degli “sportivi”, con il creare una nuova tipologia di
lavoratori destinata ad affiancarsi a quelli soggetti all’applicazione della legge n. 91/1981 ed
obbligati, come questi, ad iscriversi obbligatoriamente al Fondo pensioni gestito dall’ENPALS (art.
1).
Il nuovo assetto, direttamente riferibile ai professionisti di fatto, si incentra
sull’instaurazione, “con la stipula di un contratto”, di un “rapporto di prestazione sportiva, tecnica e
didattica a titolo oneroso”, considerato senz’altro di natura lavoristica, “sia essa effettuata in forma
autonoma che subordinata”, purchè esercitata da soggetti abilitati dalle relative FSN, “anche in
modo non esclusivo, a fronte di un compenso in qualsiasi forma corrisposto” (artt. 1, 2 e 3).
Sono inoltre previste la possibilità della contrattazione collettiva con conseguente
predisposizione di un contratto-tipo, nonchè l’apposizione di una clausola compromissoria per la
devoluzione del contenzioso ad un collegio arbitrale (art. 4) e sono ancora disciplinati in dettaglio
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Il lavoro nello sport dilettantistico
le categorie dei soggetti assicurati (art. 5), le modalità di versamento dei contributi e alle relative
aliquote (art. 5), il regime pensionistico e l’estensione delle disposizioni di tutela e sostegno della
maternità (art. 6), il riscatto dei periodi dei attività sportiva prestata anteriormente (art. 7) e quindi,
da ultimo, la modifica, con l’integrazione dei rappresentanti degli sportivi e delle società sportive,
del Consiglio di indirizzo e vigilanza di cui al d.p.r. 24 novembre 2003 n. 357 (art. 8).
Se è vero che il diritto nasce vecchio, nel senso che le emergenze sociali precedono sempre
la relativa disciplina formale, dopo quanto sinora affermato, non posso non prendere atto, con
soddisfazione, che il legislatore ha finalmente maturato il convincimento che ormai è giunto il
tempo, come si legge nella stessa relazione introduttiva, di “dare il giusto riconoscimento alla
prestazione sportiva in quanto tale, indipendentemente dalla categoria di appartenenza o della
disciplina sportiva praticata”.
Devo dire subito, però, che se la proposta, destinata inevitabilmente a cadere per
l’imminente scioglimento delle Camere, costituisce senz’altro un’ottima base di discussione, e
quindi un punto di partenza, non potrà però a mio avviso costituire un soddisfacente punto d’arrivo.
Restano innanzi tutto da chiarire i rapporti con la legge n. 91/1981.
La creazione di due classi di lavoratori, ancorata pur sempre all’eteronoma
autodeterminazione di ciascuna federazione, e la conseguente differenziazione di tutela che ne
consegue non solo non risolve, ma per certi versi accentua, in presenza di due leggi che
regolerebbero la stessa materia, il problema della disparità di trattamento di prestazioni sportive dal
contenuto analogo: paradigmatico il caso dei cestisti e dei pallavolisti di serie A/1.
Occorre poi riflettere sulla filosofia di fondo che deve ispirare l’intervento legislativo.
Se è necessario, da un lato, far fronte alla “fuga dal diritto del lavoro”, ottemperando al
dettato costituzionale e offrendo la relativa tutela a prestazioni sportive di indubbia natura
lavoristica, non può per altro verso cadersi nell’eccesso opposto di una irrealistica ipertutela che,
oltre a danneggiare gravemente, forse in modo irreparabile, le società di appartenenza non
gioverebbe nemmeno, in larga parte, agli stessi destinatari.
Il testo proposto soffre, infatti, dello stesso vizio concettuale che ha portato il legislatore
fiscale, che ha disciplinato senz’altro in chiave agevolativa sport amatoriale, indubbiamente
meritevole di tanto e sport di vertice, che si avvale di prestazioni finalizzate al sostentamento ed al
guadagno.
L’omnicomprensiva prescrizione secondo cui sarebbero sottoposte alla legge, e quindi
“lavorizzate”, tra l’altro indiscriminatamente, a prescindere cioè dalla loro natura autonoma o
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Il lavoro nello sport dilettantistico
subordinata, tutte le prestazioni sportive, tecniche e didattiche, anche quelle dei medici e
paramedici, già iscritti ad un albo e soggetti, perciò, al versamento di contribuzione previdenziale e,
soprattutto anche quelle episodiche, o comunque brevi e di basso livello, destinate a non
raggiungere mai il minimo per beneficiare di un trattamento di quiescenza, appare dunque in larga
parte inutile, e comunque eccessiva.
Sarebbe forse più opportuno rivisitare, come da più parti auspicato, l’ormai obsoleta legge n.
91/1981, disciplinando in modo unitario e graduato, anche sotto il profilo fiscale, tutte le prestazioni
sportive individuando, con una delicatissima operazione di pesi e di misure, che lasci comunque
largo spazio ai rimborsi, anche forfetari di spesa quelle che, per svolgersi nell’ambito di discipline
comunque di vertice, necessitano realmente di tutela lavoristica e previdenziale.
(*) Avvocato del Foro di Vicenza, Docente nell’Università di Teramo
DOTTRINA
Il lavoro nello sport dilettantistico
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Il vincolo di giustizia arbitrale …
IL VINCOLO DI GIUSTIZIA ARBITRALE NELLE CONTROVERSIE DI TIPO
ECONOMICO TRA CALCIATORI
(ALLENATORI, DIRETTORI TECNICO-
SPORTIVI, ECC.) PROFESSIONISTI E LE SOCIETÀ SPORTIVE TRA LA
LEGGE 91/1981 E LA LEGGE 280/2003
di Nello Venanzi (*)
CONVEGNO NAZIONALE “ SPORT
E
DIRITTO
DEL
LAVORO ” (Torino 13 e 14 gennaio 2006)
organizzato dal CENTRO NAZIONALE STUDI DI DIRITTO DEL LAVORO “D. NAPOLETANO”
SEZIONI
PIEMONTE, LIGURIA, LOMBARDIA, VENETO.
******
Ringrazio, innanzi tutto, il Centro Studi D. Napoletano per l’invito a questo interessante
convegno proprio qui a Torino, in prossimità della apertura dei Giochi Olimpici Invernali che
rappresentano l’evento più significativo ed atteso da tutti gli appassionati delle attività sportive.
Per me, praticante sportivo quasi esclusivamente a video o nelle tribune degli stadi, questa è
sembrata una ottima occasione per una riflessione sul complesso e, in alcuni casi, controverso
rapporto fra ordinamento statale e ordinamento sportivo con riferimento ai relativi sistemi di
giustizia ed in particolare alle cause di lavoro nel settore calcistico.
Evito accuratamente qualsiasi considerazione sul fondamento giuridico ed istituzionale della
nozione di pluralismo degli ordinamenti giuridici e sui limiti di autonomia degli stessi rispetto ai
principi ed alle regole generali dell’ordinamento statale.
Ai fini del tema che mi è stato assegnato e che devo trattare credo che sia sufficiente partire dal
dato normativo fissato, da ultimo, dall’art. 1 della L. 280 / 2003 di conversione ( con molte
modifiche) del D.L. 220 dell’agosto 2003, decreto emanato dal Governo in fretta e furia per
consentire l’inizio del campionato di calcio 2003 / 2004 dopo le vicende e le contrastanti pronunce
sportive e dei TAR sui casi Catania, Salernitana, Genova e Fiorentina, che rischiavano di non
consentire il regolare inizio e svolgimento del campionato di quella stagione, non essendo certo quali
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Il vincolo di giustizia arbitrale …
e quante squadre dovevano considerarsi retrocesse e partecipanti, quindi, ai campionati di serie A, B
e C..
D’altronde questa dell’emergenza è una caratteristica di quasi tutti i provvedimenti legislativi
dettati dall’ordinamento statale per regolamentare situazioni critiche dell’ordinamento sportivo a
partire dalla L. 91 del 1981, emanata per evitare il blocco del c.d. calcio -mercato allora disposto
dall’autorità giudiziaria
L’art. 1 della L. 280 / 2003, dicevo, ha espressamente ribadito e riconosciuto l’autonomia
dell’ordinamento sportivo nazionale, confermandone l’autonomia, “salvi i casi di rilevanza per
l’ordinamento giuridico della Repubblica, di situazioni giuridiche soggettive, connesse con
l’ordinamento sportivo”.
Questo mi sembra il punto utile dal quale partire.
Più complesso è rispondere alla domanda di quali siano le situazioni giuridiche soggettive
connesse con l’ordinamento sportivo che giustificano ed autorizzano l’intervento dell’ordinamento
statale e, quindi, il ricorso alla giustizia ordinaria .
Per comodità di chi seguirà questa relazione riporto di seguito il testo delle norme che, forse, non
sono di comune conoscenza ed uso da parte dei giuslavoristi.
LEGGE 17 OTTOBRE 2003, n. 280: conversione in legge, con modificazioni, del decreto –
legge 19 agosto 2003, n. 220, recante disposizioni urgenti in materia di giustizia sportiva.
ART. 1 - PRINCIPI GENERALI –
1. La Repubblica riconosce e favorisce l’autonomia dell’ordinamento sportivo nazionale, quale
articolazione dell’ordinamento sportivo internazionale facente capo al Comitato Olimpico
Internazionale.
2. I rapporti tra l’ordinamento sportivo e l’ordinamento della Repubblica sono regolati in base
al principio di autonomia, salvi i casi di rilevanza per l’ordinamento giuridico della Repubblica di
situazioni giuridiche soggettive connesse con l’ordinamento sportivo.
DOTTRINA
Il vincolo di giustizia arbitrale …
ART. 2 – AUTONOMIA DELL’ORDINAMENTO SPORTIVO
1. In applicazione dei principi di cui all’art. 1, è riservata all’ordinamento sportivo la disciplina
delle questioni aventi ad oggetto:
a) l’osservanza e l’applicazione delle norme regolamentari organizzative e statutarie
dell’ordinamento sportivo nazionale e delle sue articolazioni al fine di garantire il corretto
svolgimento delle attività sportive; (- cd controversie tecniche -)
b) i comportamenti rilevanti sul piano disciplinare e l’irrogazione ed applicazione delle relative
sanzioni disciplinari sportive; (- cd controversie disciplinari - )
c) (lettera soppressa); (- cd. controversie associative o amministrative - )
d) (lettera soppressa);
“
“
“
“
2. nelle materie di cui al comma 1, le società, le associazioni, gli affiliati ed i tesserati hanno
l’onere di adire, secondo le previsioni degli statuti e regolamenti del Comitato Olimpico nazionale
italiano e delle Federazioni sportive di cui agli articoli 15 e 16 del decreto legislativo 23.7.1999, n.
242, gli organi di giustizia dell’ordinamento sportivo.
ART. 3 – NORME SULLA GIURISDIZIONE E DISCIPLINA TRANSITARIA
1. Esauriti i gradi della giustizia sportiva e ferma restando la giurisdizione del giudice ordinario
sui rapporti patrimoniali tra società, associazioni ed atleti, ogni altra controversia avente ad oggetto
atti del Comitato olimpico nazionale italiano o delle Federazioni sportive non riservata agli organi di
giustizia dell’ordinamento sportivo ai sensi dell’art. 2, è devoluta alla giurisdizione esclusiva del
giudice amministrativo. In ogni caso è fatto salvo quanto eventualmente stabilito dalle clausole
compromissorie previste dagli statuti e dai regolamenti del Comitato olimpico nazionale italiano e
delle Federazioni sportive di cui all’articolo 2, comma 2, nonché quelle inserite nei contratti di cui
all’art. 4 della Legge 23 marzo 1981, n. 91. (ndr cioè i contratti individuali di lavoro sulla base del
tipo concordato a livello collettivo)
- omissis –
DOTTRINA
Il vincolo di giustizia arbitrale …
Dalla riconosciuta “autonomia”, che sussisteva ovviamente anche prima della L. 280 / 2003,
dell’ordinamento sportivo discende il potere regolamentare del CONI e delle singole Federazioni
sportive di dettare le norme organizzative, statutarie, disciplinari, per lo svolgimento delle singole
discipline sportive.
Il tema che mi è stato assegnato, forse in considerazione dell’esperienza che ho maturato per un
paio di anni (2000 – 2001) in qualità di Presidente del Collegio Arbitrale della FIGC presso la Lega
Nazionale Professionisti a Milano (serie A e B), è quello di trattare la questione del c.d. vincolo di
giustizia sportiva, con particolare riferimento al rapporto di lavoro professionistico tra calciatori,
allenatori ecc. e società calcistiche.
Di che si tratta ?
Si tratta, in generale, del dovere per gli aderenti e appartenenti all’ordinamento sportivo (società,
atleti, dirigenti ecc.) di adire gli organi della giustizia sportiva per la risoluzione di ogni possibile
controversia collegata e/o nascente dall’ordinamento sportivo.
Detto così si tratta di una nozione talmente generale da risultare generica e inutile per segnare i
confini tra giustizia sportiva e giustizia ordinaria statale.
Tradizionalmente, la giustizia o meglio le controversie negli ordinamenti sportivi, vengono
distinte in quattro grandi categorie (vedi retro pag. 3):
1. controversie disciplinari – Si tratta di violazioni delle norme federali. Tali provvedimenti di
giustizia possono avere rilevanza per l’ordinamento statale quando comportino la modifica di status
(l’esclusione) del soggetto rispetto all’ordinamento sportivo.
2. quelle c.d. tecniche, che riguardano le norme tecniche organizzative e regolamentari adottate
dalle singole Federazioni per lo svolgimento delle singole attività sportive, rispetto alle quali
l’ordinamento statale non ha alcuna giurisdizione;
3. quelle c.d. amministrative o associative che riguardano le regole di associazione sportiva o di
correttezza gestionale ritenute necessarie per la corretta gestione delle società o associazioni
sportive.
Ed infine:
4. le controversie economiche che riguardano, in generale, i rapporti patrimoniali e contrattuali
fra associati - Federazione Sportiva e singole società -.
E proprio di questo ultimo tipo di controversie, le cd. controversie economiche, che attengono
più strettamente al rapporto di lavoro sportivo tra atleti ecc. e società sportive, di cui vorrei
occuparmi.
DOTTRINA
Il vincolo di giustizia arbitrale …
L’ordinamento statale ha, nel 1981, con la L. 91, dettato le regole del rapporto di lavoro
subordinato sportivo. Anche in quel caso, abbiamo detto, per evitare il blocco del calcio mercato
disposto da un allora Pretore.
Legge 23 marzo 1981, n. 91
“Norme in materia di rapporto tra società e sportivi professionisti
- omissis Art. 3 – (Prestazione sportiva dell’atleta)
La prestazione a titolo oneroso dell’atleta costituisce oggetto di contratto di lavoro subordinato
regolato dalle norme contenute nella presente legge.
Essa costituisce, tuttavia, oggetto di contratto di lavoro autonomo quando ricorra almeno uno dei
seguenti requisiti:
a) l’attività svolta nell’ambito di una singola manifestazione sportiva o di più manifestazioni tra
loro collegate in un breve periodo di tempo;
b) l’atleta non sia contrattualmente vincolato per ciò che riguarda la frequenza a sedute di
preparazione od allenamento;
c) la prestazione che è oggetto del contratto, pur avendo carattere continuativo, non superi otto
ore settimanali oppure cinque giorni ogni mese ovvero trenta giorni ogni anno.
Art. 4 – (Disciplina del lavoro subordinato sportivo)
Il rapporto di prestazione sportiva a titolo oneroso si costituisce mediante assunzione diretta e
con la stipulazione di un contratto in forma scritta, a pena di nullità, tra lo sportivo e la società
destinataria delle prestazioni sportive, secondo il contratto tipo predisposto, conformemente
all’accordo stipulato, ogni tre anni dalla federazione sportiva nazionale e dai rappresentanti delle
categorie interessati.
La società ha l’obbligo di depositare il contratto presso la Federazione sportiva nazionale per
l’approvazione.
Le eventuali clausole contenenti deroghe peggiorative sono sostituite di diritto da quelle del
contratto tipo.
Nel contratto individuale dovrà essere prevista la clausola contenente l’obbligo dello sportivo al
rispetto delle istruzioni tecniche e delle prescrizioni impartite per il conseguimento degli scopi
agonistici.
DOTTRINA
Il vincolo di giustizia arbitrale …
Nello stesso contratto potrà essere prevista una clausola compromissoria con la quale le
controversie concernenti l’attuazione del contratto e insorte fra la società sportiva e lo sportivo sono
deferite ad un collegio arbitrale. La stessa clausola dovrà contenere la nomina degli arbitri oppure
stabilire il numero degli arbitri ed il modo di nominarli.
Il contratto non può contenere clausole di non concorrenza o, comunque, limitative della libertà
professionale dello sportivo per il periodo successivo alla risoluzione del contratto stesso né può
essere integrato durante lo svolgimento del rapporto, con tali pattuizioni.
Le Federazioni sportive nazionali possono prevedere la costituzione di un fondo gestito da
rappresentanti delle società e degli sportivi per la corresponsione della indennità di anzianità al
termine dell’attività sportiva a norme dell’art. 2123 del c.c.
Ai contratti di cui al presente articolo non si applicano le norme contenute negli art. 4, 5, 13, 18,
33, 34 della legge 20 maggio 1970. n. 300 e negli articoli 1, 2, 3, 5, 6, 7, 8 della legge 15 luglio
1966, n. 604. Ai contratti di lavoro a termine non si applicano le norme della legge 18 aprile 1962,
n. 230.
L’articolo 7 della Legge 20 maggio 1970, n. 300, non si applica alle sanzioni disciplinari irrogate
dalle Federazione Sportive nazionali.
Omissis
Quindi, dal punto di vista giuslavoristico, il legislatore ha espressamente previsto e qualificato il
rapporto di lavoro tra lo sportivo professionista (atleta, allenatore, direttori tecnici sportivi,
preparatore atletico, ecc. ) e le società sportive come contratto di lavoro subordinato.
Le caratteristiche di tale contratto di lavoro subordinato sportivo sono, oltre ovviamente alla
assunzione nominativa diretta:
1)
la qualifica di lavoratore – atleta professionista (non dilettante) riconosciuta dalla
Federazione Sportiva;
2)
la non applicazione della legge sul contratto a termine (allora L. 230 / 1962 ed
oggi,probabilmente, il D. Lgs. 368 / 2001)
3) il deposito del contratto individuale di lavoro, predisposto in forma scritta, secondo lo
schema concordato a livello sindacale Lega – A.I.C., presso la Federazione Sportiva per
l’approvazione.
4) Il divieto di stipula di patti di non concorrenza;
DOTTRINA
Il vincolo di giustizia arbitrale …
5) La possibilità di inserimento nei contratti di lavoro di una clausola compromissoria per il
deferimento delle controversie ad un collegio arbitrale.
Al rapporto di lavoro subordinato tra sportivo professionista e società sportiva non si applicano le
norme dello Statuto dei lavoratori di cui all’art. 4 (controllo a distanza – impianti audio visivi) in
quanto la prestazione sportiva è vista da tutti sia durante le gare che negli allenamenti, art. 5
(controllo malattia ed assenze) in quanto c’è il medico sociale, art. 13 (mansioni e trasferimenti) in
quanto l’allenatore sceglie chi deve giocare e chi sta a disposizione, art. 18 (licenziamento e
reintegrazione), artt. 33 e 34 (collocamento e richieste nominative), nonché le norme della L. 604 /
66 sul licenziamento individuale, salvo quella che prevede la nullità (art. 4) del licenziamento per
motivi discriminatori.
La legge prevede, infine, la non applicabilità delle norme di cui all’art. 7 S.L. per le sanzioni
disciplinari c.d. sportive, intendendosi per sanzioni sportive quelle irrogate (tipo squalifica o multe)
dalla Federazione Sportiva.
Per quanto attiene, invece, alle vere e proprie sanzioni disciplinari nell’ambito del lavoro
subordinato dalle società, Vi dirò più avanti quando tratterò dei compiti del Collegio Arbitrale.
Per completezza ci sono solo da ricordare i casi previsti dall’art. 3 della Legge, nei quali non si
configura un rapporto di lavoro subordinato ma un rapporto di lavoro autonomo per uno sportivo
convocato per una singola manifestazione o per un meeting o per un atleta senza vincoli di
allenamento con prestazione di durata non superiore a otto ore settimanali, 5 giorni al mese o 30 gg.
in un anno.
Su tale disciplina legale del rapporto di lavoro sportivo dettata dal legislatore nazionale con la L.
91 / 1981, si è poi inserita la contrattazione collettiva tra calciatori, allenatori, direttori tecnico –
sportivi ecc., la quale ha dettato l’ulteriore normativa che regolamenta sul piano economico e
normativo il rapporto di lavoro subordinato dello sportivo professionista.
Per quanto riguarda i calciatori professionisti si tratta dell’Accordo Economico Collettivo (il
contratto Collettivo Nazionale di Lavoro) tra i calciatori professionisti (serie A, B, C1 e C2), la
F.I.G.C. e la Lega Nazionale Professionisti (l’Associazione datoriale delle società calcistiche), al
quale faceva rinvio l’art. 4, 1° comma, della L. 91 / 1981.
Il contratto collettivo (l’A.E.C.) è stato stipulato solo nel luglio 1989 ed è stato recentemente
modificato e rinnovato nel luglio 2005.
Il contratto collettivo (l’A.E.C.) disciplina il trattamento economico e normativo dei calciatori
professionisti (serie A, B, C1 e C2).
DOTTRINA
Il vincolo di giustizia arbitrale …
Analoghi contratti (A.E.C.) sono stati conclusi dalle rispettive associazioni sindacali per gli
allenatori, i direttori tecnico sportivi ecc..
Per quanto attiene al vincolo di giustizia sportiva l’art. 25 del vecchio A.E.C. e l’art. 21
dell’attuale A.E.C. prevedono:
Art. 21 – Clausola compromissoria. Procedimento arbitrale.
21.1.
In conformità a quanto previsto dall’art. 4, quinto comma, della L. 23 marzo 1981, n.
91 e successive modificazioni, nonché dall’art. 3, primo comma (ultimo periodo) , della legge 17
ottobre 2003, n. 280, il contratto individuale di prestazione sportiva deve contenere una clausola
compromissoria in forza della quale la soluzione di tutte le controversie aventi ad oggetto
l’interpretazione l’esecuzione o la risoluzione di detto contratto ovvero comunque riconducibili alle
vicende del rapporto di lavoro da esso nascente sia deferita alle risoluzioni del C.A., - (Collegio
Arbitrale) - che si pronuncerà in modo irrituale
21.2.
Con la sottoscrizione del Contratto le parti si obbligano – in ragione della loro
comune appartenenza all’ordinamento settoriale sportivo, dei vincoli conseguentemente assunti con
il tesseramento o l’affiliazione, nonchè della specialità della disciplina legislativa applicabile alla
fattispecie – ad accettare senza riserve la cognizione e le risoluzioni della C.A.
21.3.
Il regolamento prevede, anche ad integrazione dei precedenti articoli:
a – le modalità di devoluzione delle controversie ed i relativi termini;
b – la procedura di nomina degli arbitri di nomina di parte del Presidente e degli eventuali
Conciliatori;
c – le formalità procedurali, anche relative all’espletamento dei mezzi istruttori ed alla
produzione di documenti e memorie;
d – il termine entro il quale deve essere emesso il lodo, le possibilità di proroga e l’obbligo di
comunicazione alle parti interessate con le relative modalità;
e – i criteri per le determinazione degli eventuali compensi agli arbitri, ove previsti nel
Regolamento.
Si tratta di una vera e propria clausola compromissoria, inserita nell’ A.E.C. (CCNL) - che
inequivocabilmente deferisce tutte le controversie aventi ad oggetto l’interpretazione, l’esecuzione e
la risoluzione del contratto di lavoro subordinato sportivo, ovvero comunque riconducibili alle
DOTTRINA
Il vincolo di giustizia arbitrale …
vicende del rapporto di lavoro da esso nascente alle risoluzioni del Collegio Arbitrale, che si
pronuncerà in modo irrituale.
Per la verità che si trattasse di arbitrato irrituale, diretto cioè alla composizione della controversia
mediante una regolamentazione negoziale dei contrapposti interessi con un negozio di mero
accertamento, il c.d. arbitrato – giudizio, non si è mai dubitato, per lo meno a livello di Collegio
Arbitrale.
Una sola precisazione per quanto attiene alle sanzioni disciplinari nell’ambito del rapporto di
lavoro subordinato (non quelle c.d. sportive), l’art. 15 del precedente A.E.C. e l’art. 11 del nuovo
accordo, prevedono che i provvedimenti disciplinari, dall’ammonizione scritta sino alla risoluzione
del contratto (licenziamento), siano adottati su proposta della società, con decisione / valutazione
dello stesso Collegio Arbitrale, il quale, valutati i fatti, le inadempienze contestate, la tempestività
della contestazione e la proporzionalità della sanzione disciplinare richiesta, potrà eventualmente
confermarla o derubricarla con una diversa e più lieve sanzione.
Per concludere questa breve panoramica sulle norme dell’ordinamento statale e dell’ordinamento
sportivo che riguardano il cd. vincolo di giustizia, ancorchè limitatamente alle cd. controversie
economiche, possiamo affermare:
l’art. 4 della L. 91/1981 ha previsto la possibilità di inserimento di una clausola compromissoria,
a livello di contratti individuali di lavoro, per la definizione da parte di un collegio arbitrale delle
controversie tra società sportiva e sportivo concernenti l’attuazione del contratto.
L’art. 2 della L 280/2003 prevede l’”onere” per gli appartenenti all’ordinamento sportivo di adire
gli organi di giustizia dell’ordinamento sportivo nelle materie di cui al 1 comma e cioè relative:
1) all’osservanza e alla applicazione delle norme regolamentari, organizzative e statutarie
dell’ordinamento sportivo nazionale e delle singole federazioni sportive.
2) i comportamenti rilevanti sul piano disciplinare e l’irrogazione e applicazione delle relative
sanzioni disciplinari sportive.
3) l’art. 3 della L. 280 / 2003 prevede che esauriti i gradi della giustizia sportiva e ferma restando
la giurisdizione del giudice ordinario sui rapporti patrimoniali tra società, associazioni ed atleti ogni
altra controversia avente ad oggetto atti del CONI o delle Federazioni Sportive è di competenza del
Giudice Amministrativo.
4) Solo l’art. 21 (ex art. 25) dell’A.E.C. (CCNL) prevede una vera e propria clausola
compromissoria in forza della quale le parti contraenti si impegnano “ad accettare senza riserve la
cognizione e le risoluzioni della C.A.” del Collegio Arbitrale.
DOTTRINA
Il vincolo di giustizia arbitrale …
Quest’ultima norma dell’A.E.C. sembra configurare o meglio configura un vero e proprio
arbitrato irrituale obbligatorio.
L’obbligatorietà dell’arbitrato irrituale, per effetto di quanto previsto dal C.C.N.L. (A.E.C.), è
supportata sul piano sanzionatorio dalla norma di cui all’art. 27 dello Statuto Federale della F.I.G.C.
(recentemente modificato) che prevede:
a) TITOLO I
LE GARANZIE
ART. 27
EFFICACIA DEI PROVVEDIMENTI FEDERALI E CLAUSOLA COMPROMISSORIA
1. I tesserati, le società affiliate e tutti i soggetti organismi e loro componenti, che svolgono
attività di carattere agonistico, organizzativo, decisionale o comunque rilevanti per l’ordinamento
Federale, hanno l’obbligo di osservare il presente Statuto ed ogni altra norma federale.
2. I soggetti di cui al comma precedente, in ragione della loro appartenenza settoriale sportivo o
dei vincoli assunti con la costituzione
del rapporto associativo, accettano la piena e definitiva
efficacia di qualsiasi provvedimento adottato dalla F.I.G.C. dai suoi organi o soggetti delegati, nelle
materie comunque riconducibili allo svolgimento dell’attività federale, nonché nelle relative
vertenze di carattere tecnico, disciplinare ed economico.
3. Le controversie tra i soggetti di cui al comma 1 o tra gli stessi e la Federazione, per le quali
non siano previsti o siano esauriti i gradi interni di giustizia federale possono essere devolute, su
istanza della parte interessata, unicamente alla cognizione conciliativa ed arbitrale della Camera di
Conciliazione ed Arbitrato per lo Sport presso il CONI, secondo quanto disposto dai relativi
regolamenti e dalle norme federali. Non sono soggette a procedimento di conciliazione o arbitrato le
controversie decise con lodo arbitrale in applicazione delle clausole compromissorie previste dagli
accordi collettivi o di categoria e, fermo restando il tentativo obbligatorio di conciliazione ai sensi
dell’art. 12 dello Statuto CONI, non sono soggette a procedimento di arbitrato le controversie di
natura tecnico disciplinare decise in via definitiva dagli organi di giustizia federali relative ad
omologazioni dei risultati sportivi o che abbiano dato luogo a sanzioni soltanto pecuniarie, ovvero a
sanzioni comportanti: a) la squalifica o inibizione di tesserati, anche se in aggiunta a sanzione
pecuniarie, inferiori a 120 giorni; b) la squalifica del campo; c) penalizzazioni di classifica;
DOTTRINA
Il vincolo di giustizia arbitrale …
4. Il Consiglio Federale, per gravi ragioni di opportunità, può autorizzare il ricorso alla
giurisdizione statale in deroga al vincolo di giustizia. Ogni comportamento contrastante con gli
obblighi di cui al presente articolo, ovvero, comunque, volto ad eludere il vincolo di giustizia
comporta l’irrogazione delle sanzioni disciplinari stabilite dalle norme federali;
5. In deroga alle disposizioni di cui ai commi precedenti, avverso i provvedimenti di revoca o di
diniego dell’affiliazione può essere proposto ricorso alla Giunta Nazionale del CONI entro il termine
perentorio di 60 giorni dalla comunicazione del provvedimento.
Non mi pare che il secondo comma dell’art. 27 dello Statuto della F.I.G.C. si possa definire o
contenga una vera e propria clausola compromissoria ancorchè generale, dal contenuto molto ampio
e
indeterminato. Sembra, piuttosto, l’impegno generale, in forza del quale gli appartenenti
all’ordinamento sportivo si obbligano ad accettare le regole dell’ordinamento ed a far valere le
proprie pretese nelle materie comunque attinenti all’attività sportiva e nelle relative vertenze di
carattere tecnico disciplinare ed economico, esclusivamente dinanzi agli organi della giustizia
sportiva.
Si tratta di un principio generale, di una dichiarazione con la quale gli appartenenti
all’ordinamento sportivo dichiarano di accettare e di essere assoggettati alla c.d. giustizia sportiva,
nelle materie comunque attinenti all’attività sportiva e nelle relative vertenze di carattere tecnico,
disciplinare ed economico.
Tale vincolo di giustizia interna è sanzionato dal codice di giustizia
sportiva FIGC con
gravissimi provvedimenti disciplinari che possono comportare persino la revoca delle affiliazioni per
le società e del tesseramento per le persone fisiche (cfr. art. 27, n. 4 Statuto Federale ed art. 11 bis
codice di giustizia sportiva della F.I.G.C.) 1
1
art. 11 bis codice di giustizia sportiva F.I.G.C..
Violazione clausola compromissoria.
1 - Ai soggetti tenuti all’osservanza delle norme federali che pongono in essere violazioni o azioni comunque tendenti
alla elusione dell’obbligo di cui all’art. 27, comma 2, dello statuto, fatta salva l’applicazione di misure maggiormente
afflittive, sono comminate le seguenti sanzioni:
a) penalizzazione di almeno tre punti in classifica per le società e le associazioni;
b) inibizione o squalifica non inferiore a mesi 6 per i calciatori e per gli allenatori e ad anni uno per tutte le altre
persone fisiche;
Fatta salva ogni diversa disposizione, oltre all’applicazione delle sanzioni previste dal presente articolo, deve essere
irrogata un’ammenda.
2 - Successivamente all’erogazione delle sanzioni adottate con provvedimento definitivo, ove risulti che la violazione
della clausola compromissoria persista, il Presidente Federale diffida i soggetti di cui al comma 1, assegnando un termine
di venti giorni, ridotto in caso di urgenza a giorni 10, per rinunciare ad ogni azione intrapresa e agli eventuali effetti
prodotti.
Decorso inutilmente il suddetto termine, ai soggetti che non abbiano ottemperato, si applicano per tale ulteriore
violazione le sanzioni previste dal comma 1.
DOTTRINA
Il vincolo di giustizia arbitrale …
Come si è detto, la norma statutaria (l’art. 27 dello Statuto Federale) prevede l’obbligo per i
tesserati di accettare la giustizia sportiva nelle materia attinenti l’attività sportiva e nelle relative
vertenze di carattere tecnico, disciplinare ed economico.
Il punto è capire e definire meglio che cosa debba intendersi per “vertenze di carattere economico
attinenti l’attività sportiva”.
Stiamo parlando dei contratti di lavoro subordinato e delle relative cause di lavoro o, invece, di
multe o altre sanzioni, anche economiche, applicate a società o calciatori dagli organi di giustizia
sportiva ?
L’art 3 della l. 280 / 2003 (norme sulla giurisdizione e disciplina transitoria) prevede che “ferma
restando la giurisdizione del giudice ordinario su rapporti patrimoniali tra società, associazioni ed
atleti,” è fatto salvo quanto eventualmente stabilito dalle clausole compromissorie inserite nei
contratti di lavoro subordinato sportivo.
La norma statutaria (l’art. 27) prevede una sola possibilità di deroga al vincolo di giustizia
sportiva attraverso un provvedimento di preventiva autorizzazione da parte del Consiglio Federale,
(massimo organismo direttivo) della F.I.G.C.
Tale provvedimento di autorizzazione deve essere motivato e concesso solo per gravi ragioni di
opportunità.
Quali siano le gravi ragioni di opportunità, per la verità non è specificato dalla norma e, per
esperienza, mi risulta che la deroga non venga quasi mai concessa, almeno a livello di Federazione
Calcistica. In altre Federazioni sportive mi dicono che la deroga venga più facilmente concessa,
quanto meno per il recupero delle spettanze dovute dalle società sportive agli atleti o meglio agli
“sportivi professionisti” dipendenti subordinati..
Questo è il quadro normativo nel quale si colloca il c.d. vincolo di giustizia sportiva che
nell’ambito sportivo e degli addetti ai lavori viene generalmente, ma non unanimamente, esteso
anche alle cause di lavoro tra calciatori, allenatori ecc. e società sportive.
Questa soluzione, l’arbitrato irrituale obbligatorio, non mi pare, però, convincente e
condivisibile.
Definita la natura del rapporto di lavoro subordinato sportivo ed i rimedi legalmente e
contrattualmente previsti per la tutela dei diritti delle parti, il problema da affrontare è quello di
stabilire se, nell’ambito di un rapporto di lavoro subordinato, come tale definito da una legge dello
DOTTRINA
Il vincolo di giustizia arbitrale …
Stato - L. 91 / 1981 - , siano o meno vigenti ed applicabili le disposizioni di cui gli artt. 4 e 5, L.
533 / 1973 e 412 ter e quater cpc.
L’art. 4 L. 533/73 aveva modificato l’art. 808, secondo comma, c.p.c. che, oggi, prevede“Le
controversie di cui all’art. 409 possono essere decise da arbitri solo se ciò sia previsto nei contratti ed
accordi collettivi di lavoro purchè ciò avvenga, a pena di nullità senza pregiudizio della facoltà delle
parti di adire l’autorità giudiziaria. La clausola compromissoria contenuta in contratti od accordi
collettivi o in contratti individuali di lavoro è nulla ove autorizzi gli arbitri a pronunciare, secondo
equità ovvero dichiari il lodo non impugnabile.” (Arbitrato rituale)
Art. 5 L. 533/1973 - “Nelle controversie riguardanti i rapporti di cui all’art. 409 c.p.c. l’arbitrato
irrituale è ammesso soltanto nei casi previsti dalla legge, ovvero dai contratti ed accordi collettivi”.
“In questo ultimo caso, ciò deve avvenire senza pregiudizio della facoltà delle parti di adire
l’autorità giudiziaria.” (Arbitrato irrituale)
Nel rapporto di lavoro subordinato sportivo, dunque, la possibilità di ricorso all’arbitrato irrituale
è prevista dalla L. 91 / 1981, art. 4, 5° comma, e dalla L. 280 / 2003, art. 3, 1° comma, attraverso il
rinvio alla contrattazione collettiva (art. 25, vecchio A.E.C. ed art. 21 nuovo A.E.C.)
Dal contrasto, apparentemente insanabile, - dirò dopo perché secondo me solo apparentemente
insanabile - tra le norme di legge, di statuto, di contratto collettivo (A.E.C.) che ho sopra ricordato,
appare molto difficile stabilire un limite, se c’è, al c.d. vincolo di giustizia sportiva.
Ho detto contrasto apparentemente insanabile, riferendomi all’art. 27 dello Statuto Federale
rispetto agli art. 4 della L. 91/1981 ed agli art. 2 e 3 della Legge 280/2003, perché l’art. 27, a ben
vedere, prevede l’obbligo per gli appartenenti all’ordinamento sportivo di “accettare la piena e
definitiva efficacia di qualsiasi provvedimento adottato dalla F.I.G.C. dai suoi organi o soggetti
delegati, nelle materie comunque riconducibili allo svolgimento dell’attività federale, nonché nelle
relative vertenze di carattere tecnico, disciplinare ed economico.
Dubito che le vertenze di lavoro tra calciatori (allenatori ecc.) e le società calcistiche possano
rientrare in tale categoria (le c.d. vertenze economiche) così come i Collegi arbitrali non rientrano e
non fanno parte dell’ordinamento di giustizia federale.
Il contrasto, quindi, è limitato alla norma dell’AEC (art. 25 del vecchio AEC e 21 del nuovo
AEC), dove, effettivamente, l’arbitrato irrituale è previsto come obbligatorio e non facoltativo, anche
per i diritti soggettivi nascenti dal contratto di lavoro subordinato sportivo.
Ritengo che la regola generale e costituzionale del giusto processo e l’accesso per tutti alla
giurisdizione, sancito dagli art. 24 e 102 Cost., siano realmente assicurati solo nell’ipotesi che si
DOTTRINA
Il vincolo di giustizia arbitrale …
tratti di arbitrato facoltativo e non obbligatorio, per effetto del prevalere, nella gerarchia delle fonti,
della legge rispetto al contratto collettivo e/o alla norma statutaria..
La volontà del legislatore statale espressa nell’art. 1, secondo comma, della L. 280 / 2003 “(salvi
i casi di rilevanza per l’ordinamento giuridico della Repubblica, di situazioni giuridiche soggettive
connesse con l’ordinamento sportivo)” mi sembra ulteriormente confermata oltreché dagli art. 4 e 5
L. 533/1973 anche dall’art. 412 ter c.p.c., nella parte, primo comma, in cui prevede, in materia di
lavoro subordinato, la possibilità e non l’obbligo per le parti di concordare e di deferire caso per
caso, o meglio, vertenza per vertenza, ad arbitri anche costituiti in camere arbitrali stabili, la
soluzione della controversia.
La posizione dell’ordinamento statale rispetto alla possibilità di ricorso all’arbitrato, rituale o
irrituale, nelle controversie di lavoro può essere oggi, alla vigilia dell’entrata in vigore del D. Lgs.
del 22.12.2005 emanato dal governo in attuazione della delega di cui all’art. 1, lettera b) della legge
delega n. 80 / 2005 per la modifica del codice di procedura civile in materia di processo di
cassazione e di arbitrato, così riassunta:
1) l’art. 808. 2° comma c.p.c., per l’arbitrato rituale ammette la possibilità di inserimento di una
clausola compromissoria nei contratti e negli accordi collettivi di lavoro purchè ciò avvenga, a pena
di nullità, senza pregiudizio delle parti di adire l’autorità giudiziaria.
La clausola compromissoria contenuta nei contratti collettivi o individuali di lavoro è altresì nulla
ove autorizzi gli arbitri a pronunciare secondo equità ovvero dichiari il lodo non impugnabile.
2) l’art. 5 L. 533 / 1973 per l’arbitrato irrituale prevede che lo stesso sia ammesso solo nei casi
previsti dalla legge ovvero dai contratti collettivi, senza pregiudizio della facoltà delle parti di adire
l’autorità giudiziaria.
3) L’art. 412 ter c.p.c. prevede la possibilità, che le parti all’esito del tentativo obbligatorio di
conciliazione, possano concordare di deferire ad arbitri la risoluzione della controversia mediante
arbitrato irrituale a condizione che i contratti e gli accordi collettivi lo prevedano, stabilendo le
regole di funzionamento del collegio arbitrale irrituale e, in particolare, stabilendo un termine “entro
il quale l’altra parte potrà aderirvi”.
In conclusione l’ordinamento statale prevede e riconosce la possibilità di ricorso allo strumento
dell’arbitrato in materia di lavoro solo a condizione di facoltatività e non di obbligatorietà dello
stesso.
Per l’ordinamento statale le controversie nell’ambito dei rapporti di lavoro in generale, quindi,
anche quelle relative al rapporto di lavoro sportivo subordinato, possono essere deferite al giudizio
DOTTRINA
Il vincolo di giustizia arbitrale …
arbitrale solo se tale possibilità è prevista dalla legge e dagli accordi collettivi, in ogni caso,
salvaguardando la possibilità per le parti di adire l’AGO, l’Autorità Giudiziaria Ordinaria.
La scelta spetterebbe, dunque, caso per caso,
alle parti, concordemente tra loro, ovvero
all’attore, che deve trasmettere il proprio ricorso alla controparte, la quale sarà libera di accettare o
meno il giudizio arbitrale, provvedendo alla nomina del proprio arbitro di parte, o dichiarando di
rifiutare l’arbitrato preferendo ricorrere al giudizio ordinario del Tribunale del Lavoro, così come
previsto, ad esempio, dall’art. 7, 7° comma, della L. 300 / 1970, in tema di sanzioni disciplinari.
Al riguardo, rimane aperto, nell’ambito del rapporto di lavoro sportivo il problema della
impugnazione delle sanzioni disciplinari (quelle previste dall’A.E.C., non quelle sportive), per le
quali, come si è detto, il sistema, o meglio l’A.E.C., prevede che la società faccia solo una proposta
di sanzione che poi il Collegio Arbitrale, in contraddittorio tra le parti, concretamente dovrà
determinare.
In un sistema di questo tipo si può dubitare che il Giudice ordinario abbia la possibilità di
accertare la legittimità della sanzione disciplinare solo “proposta” dalla società calcistica in assenza
di un vero e proprio provvedimento. In questi casi, forse, la sola sanzione disciplinare effettiva, come
tale individuata dal Collegio Arbitrale, potrebbe essere impugnata, per i vizi deducibili ex art. 412
quater c.p.c., unitamente al lodo arbitrale irrituale, avanti al Tribunale del Giudice del lavoro,
territorialmente competente (quello della sede del Collegio Arbitrale).
Questo mi sembra il quadro normativo che definisce, oggi, più esattamente il vincolo di giustizia
sportiva nell’ambito delle c.d. controversie economiche o meglio nell’ambito del rapporto di lavoro
sportivo subordinato, nel rispetto di quanto stabilito dalla L. 280 / 2003 all’art. 1, secondo comma,
quando fissa il limite dell’autonomia dell’ordinamento sportivo, “salvi i casi di rilevanza per
l’ordinamento giuridico della Repubblica di situazioni giuridiche connesse con l’ordinamento
sportivo,” come è sicuramente quella del lavoratore sportivo professionista nell’ambito di un
rapporto di lavoro subordinato.
Per altro devo subito precisare che contrario avviso ha recentemente ed autorevolmente espresso
la Corte Federale, che è il massimo organismo di giustizia della FIGC, statutariamente preposto, tra
l’altro, all’interpretazione delle norme statutarie, quando il 31.3.2004, con decisione pubblicata il
16.4.2004 (all. 1), ha stabilito che:
“l’autonomia dell’ordinamento sportivo configura questo come un ordinamento settoriale, dotato
di proprie regole, che lo Stato riconosce in diverse occasioni come idonee a disciplinare i rapporti
che si ricollegano alle attività sportive, senza intromissioni da parte dell’ordinamento generale. Gli
DOTTRINA
Il vincolo di giustizia arbitrale …
effetti dei comportamenti tenuti dai soggetti di questo ordinamento e le misure adottate nei loro
confronti non assumono rilevanza per il diritto positivo.
Certo un limite a tale autonomia settoriale si rinviene nel caso in cui i rapporti insorti
nell’ordinamento sportivo assumano rilevanza per l’ordinamento generale. In tale caso, qualunque
siano gli effetti dell’ordinamento autonomo, lo stato interviene con le proprie disposizioni. E ciò
costituisce un limite all’autonomia.
Questo è il senso dell’articolo 2 del decreto legge n. 220 del 2003, come convertito dalla legge
280 del 2003, laddove si esprime in termini di riserva all’ordinamento sportivo della disciplina di
determinati rapporti. Ma anche quando tali rapporti assumono rilievo per l’ordinamento generale e
questo sarebbe il caso dell’eventuale nullità della clausola compromissoria prevista dall’ordinamento
sportivo, non per questo se ne può trarre la conclusione che perdano del tutto rilievo le implicazioni
dell’ordinamento particolare sportivo.
Ne deriva che, anche in ipotesi, di nullità della clausola per il diritto positivo, non per questo se
ne dovrebbe di per sé trarre la conseguenza della nullità della stessa clausola per il distinto ed
autonomo ordinamento sportivo. In altri termini, la riconosciuta autonomia dell’ordinamento
sportivo consentirebbe di ricollegare alla stessa fattispecie effetti diversi nell’ordinamento generale
ed in quello sportivo.
Ma vi è di più. L’ordinamento statale, proprio per la tradizionale autonomia dell’ordinamento
sportivo, con la legge 23 marzo 1981, n. 91, e successive modificazioni, espressamente prevede con
riferimento al rapporto di lavoro subordinato sportivo, la validità della clausola compromissoria con
la quale le controversie derivanti dal rapporto tra società sportiva e sportivo siano deferite ad un
collegio arbitrale. Dunque, la validità della clausola compromissoria non può essere messa in
discussione (cfr. comunicato ufficiale 16/cf del 13.3- 16.4.2004 – all. 1)
Ovviamente e con molta modestia, mi sia consentito dire che non condivido tale interpretazione
della Corte Federale.
Se l’ordinamento statale prevede che in materia di controversie nell’ambito dei rapporti di lavoro
subordinati, ancorché nella fattispecie sportiva, l’arbitrato irrituale debba e possa essere solo
facoltativo e non obbligatorio, ne consegue che la legittima scelta di una delle parti di rifiutare la
soluzione arbitrale preferendo il ricorso all’autorità giudiziaria ordinaria, non può configurare alcuna
violazione, legalmente o disciplinarmente rilevante, dell’ordinamento sportivo.
Se la Federazione sportiva, la F.I.G.C., in base all’interpretazione dell’art. 27 dello Statuto dettata
dalla Corte Federale, dovesse applicare in questi casi la sanzione sportiva prevista dal Codice di
DOTTRINA
Il vincolo di giustizia arbitrale …
giustizia sportiva (art. 11 bis) e cioè la penalizzazione di almeno 3 punti in classifica per le società
e/o l’inibizione o squalifica non inferiore a 6 mesi per calciatori, allenatori ecc., si esporrebbe, a mio
giudizio, a gravi rischi, anche di natura risarcitoria, in caso di annullamento o di accertamento della
illegittimità della sanzione disciplinare sportiva e/o di interpretazione difforme della clausola
statutaria di cui all’art. 27.
La reazione o meglio il tentativo autoprotezionistico dell’ordinamento sportivo di mantenere al
proprio interno, attraverso una nozione allargata di vincolo sportivo, anche la tutela dei diritti
soggettivi nascenti
dai rapporti di lavoro subordinato sportivo, mi sembra davvero poco
comprensibile o condivisibile.
Lo stesso ordinamento sportivo, d’altronde, nel proprio codice di giustizia sportiva e nello statuto
federale non prevede i collegi arbitrali come propri organi interni di giustizia. Il Collegio Arbitrale
decide le controversie con arbitrato irrituale su mandato delle parti e non della Federazione Sportiva.
In conclusione, devo aggiungere che l’esperienza del funzionamento del Collegio Arbitrale di
Milano (serie A e B) mi è parsa molto soddisfacente ed efficiente, in quanto garantisce tempi di
risoluzione delle controversie molto rapidi, soprattutto se raffrontati con quelli dei Tribunali del
Lavoro, ed anche una discreta uniformità di giudizio dovuta alla conoscenza “specialistica” degli
A.E.C. (calciatori, allenatori e le altre figure professionali) da parte dei componenti i collegi arbitrali.
In pochi casi la parte soccombente ha dimostrato di non accettare la definizione della lite da parte
del Collegio Arbitrale, e in questi casi, bisogna dirlo, più per fini dilatori che per vero e proprio
dissenso dal giudizio arbitrale.
L’ordinamento statale (art. 412 quater c.p.c.) consente, in ogni caso, l’impugnazione del lodo
avanti il Tribunale del lavoro ove ha sede il Collegio Arbitrale entro il termine fissato, a pena di
decadenza, di 30 giorni, dalla notificazione del lodo arbitrale.
Tuttavia se avesse ragione la Corte Federale della FIGC nel ritenere che tali controversie
rientrano nel vincolo di giustizia sportiva, con conseguente obbligatorietà del Collegio Arbitrale,
anche l’eventuale impugnazione del lodo arbitrale irrituale sarebbe sottratta alla cognizione
dell’AGO, salva la preventiva autorizzazione (per la quale, forse, non ci sarebbero neppure i tempi
tecnici) da parte del Consiglio Federale.
Il giudizio di impugnazione del lodo irrituale è solo rescindente ed ha per oggetto la validità
(inefficacia, nullità ed annullabilità) del lodo arbitrale per violazione di norme inderogabili di legge o
di contratto e/o per vizi del negozio giuridico dovuti ad errore, violenza o dolo, con conseguente
rimessione delle parti ad un nuovo arbitrato irrituale.
DOTTRINA
Il vincolo di giustizia arbitrale …
La sentenza in unico grado (cfr. 412, 1° comma, quater c.p.c.) non è appellabile, ma solo
ricorribile per Cassazione ex art. 360, n. 1, c.p.c.
Così esposti e chiariti i limiti ed i dubbi in merito alla estensione del c.d. vincolo di giustizia
sportiva nelle controversie di lavoro subordinato sportivo e la facoltatività dell’arbitrato irrituale
previsto dalla legge ma non dalla contrattazione collettiva (A.E.C.), nonostante il diverso e contrario
autorevole parere della Corte Federale, potrei considerare concluso il compito a me affidato.
Ma la questione ha, a mio avviso, una portata ben più ampia e generale, che non riguarda solo le
poche migliaia di sportivi professionisti (in alcuni casi anche economicamente privilegiati), alla
quale vorrei solo accennare in conclusione di questa mia relazione.
Sappiamo tutti quali siano le difficoltà nella quali si trova oggi, dopo oltre 30 anni dalla entrata in
vigore della L. 533 / 1973, il processo del lavoro e sappiamo come i tempi di definizione delle cause
(in primo grado, in appello ed in Cassazione) si siano progressivamente dilatati fino ad avvicinarsi a
quelli della giustizia civile ordinaria. Sappiamo anche quante siano le cause arretrate pendenti
soprattutto nei Tribunali del Centro Sud.
Il problema, quindi, della insufficienza della giurisdizione statale a soddisfare le domande di
giustizia del lavoro e della previdenza, è certamente reale ed ineludibile
La strada di una parziale privatizzazione della giustizia del lavoro con il ricorso agli arbitrati,
ancorché previsti da contratti collettivi, mi sembra, tuttavia, molto rischiosa se non delimitata entro
limiti e principi solidi ed inderogabili:
1) l’effettiva volontarietà, la genuinità del consenso delle parti, a devolvere la singola
controversia alla soluzione arbitrale, ancorché in presenza di una clausola compromissoria generale
inserita nei contratti collettivi.
2) La non obbligatorietà e la facoltatività, quindi, del ricorso alla soluzione arbitrale;
3) L’obbligo di decisione da parte degli arbitri della controversia secondo diritto e non secondo
equità.
4) L’impugnabilità avanti all’A.G.O. del lodo arbitrale per violazione di norme di legge e di
contratti, oltrechè per i vizi procedurali.
Questa, secondo me è la strada dalla quale non è possibile deviare.
Soluzioni alternative, quali quelle previste nello stralciato disegno di legge 848 bis di riforma del
mercato del lavoro, sono solo scorciatoie molto pericolose che rischiano di istituire un circuito
privatistico di giustizia di serie B, sia per il riferimento all’equità, sia per una evidente questione di
costi.
DOTTRINA
Il vincolo di giustizia arbitrale …
Il recentissimo D. Lgs del 22.12.2005, in corso di pubblicazione, ha modificato radicalmente la
disciplina dell’arbitrato dettando nuove regole anche per quanto riguarda le controversie di lavoro
e/o i rapporti di cui all’art. 409 c.p.c..
In attesa di conoscere più approfonditamente e dettagliatamente la nuova disciplina dell’arbitrato
è necessario sospendere ogni giudizio.
L’esperienza (positiva) del Collegio arbitrale sportivo, quella dei collegi contrattualmente previsti
per la giustificatezza dei licenziamenti dei dirigenti, quelli previsti per il pubblico impiego, si
dovranno in futuro e sempre più confrontare, sul piano della qualità, della efficacia ed efficienza del
servizio erogato, con quello offerto dalla giustizia statale.
Dalla alternatività tra giustizia statale ed arbitrato i lavoratori ed i datori di lavoro avranno, caso
per caso, la possibilità di scegliere la soluzione privatistica, anziché quella pubblica e generale per la
definizione delle loro controversie.
La scelta sarà orientata dai costi, dai tempi e dalle capacità professionali degli arbitri.
Certamente, però, il tentativo di rendere obbligatoria, attraverso l’arbitrato secondo equità, il
ricorso ad una giustizia privatistica, necessariamente di serie B, non mi pare rispettoso dei precetti
costituzionali di cui agli art. 3, 24 e 102 Cost.
(*) Avvocato del Foro di Milano
DOTTRINA
Profili generali della tutela previdenziale…
PROFILI GENERALI DELLA TUTELA PREVIDENZIALE
DEGLI SPORTIVI
di Leonardo Carbone (*)
SOMMARIO:
1. - Caratteri generali della previdenza degli sportivi.
2. - La gestione delle risorse finanziarie.
3. - Le norme in materia di tutela previdenziale degli sportivi.
4.- Ambito di operatività della tutela Enpals per gli sportivi.
5. - Gli sportivi non professionisti
6. - I calciatori dilettanti.
7.- La nuova disciplina dell’attività sportiva dilettantistica (riflessi previdenziali, fiscali,
lavoristici).
8. - Rapporti di lavoro sportivo e rapporto previdenziale.
9. - La disciplina del d.lgs. 30.4.1997, n.166.
10. - Limitazioni nella tutela previdenziale ed assistenziale degli sportivi.
11. - La tutela previdenziale dei calciatori stranieri (comunitari ed extracomunitari).
12. - Circolarità dei calciatori e riflessi previdenziali.
13. - Ricongiunzione e totalizzazione: nozione e differenze.
14. - La”nuova” totalizzazione del decreto legislativo n. 42 del 2 febbraio 2006.
DOTTRINA
Profili generali della tutela previdenziale…
1. – Caratteri generali della previdenza degli sportivi .
All’inizio degli anni settanta l’allargamento della “platea” dei soggetti rientranti nell’ambito di
una tutela previdenziale ai fini pensionistici, si era ormai completata a seguito della estensione
della tutela previdenziale anche ai lavoratori autonomi (artigiani, commercianti, coltivatori diretti);
mancava una tutela previdenziale per gli sportivi. Tale lacuna nei confronti degli sportivi non era,
peraltro, più giustificabile, atteso che l’ordinamento aveva ormai realizzato un sistema di sicurezza
sociale “esteso” a tutti i lavoratori subordinati ed autonomi ( e non solo), al fine di assicurare a tutti
i cittadini in condizione di bisogno i mezzi necessari per vivere. L’inerzia del legislatore
nell’assicurare agli sportivi una tutela previdenziale terminò con la legge n.366 del 1973, che ha
esteso anche agli sportivi (sia pure limitatamente ad alcune “categorie” di sportivi) la tutela
previdenziale.
La tutela previdenziale degli sportivi professionisti trova indubbio fondamento nell’art.38,
comma 2, Cost., il quale nell’attribuire ai lavoratori il diritto a che siano preveduti ed assicurati
mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia,
disoccupazione involontaria, non opera alcuna distinzione tra lavoratori dipendenti e lavoratori
autonomi: la garanzia costituzionale non può certo incontrare limiti in dipendenza della natura
subordinata o autonoma del rapporto di lavoro, l'esigenza di tutela degli sportivi professionisti
avendo, a tal proposito, lo stesso incontestabile fondamento materiale, etico, sociale e giuridico che
ha la corrispondente tutela degli altri lavoratori.
In ordine alla previdenza degli sportivi, occorre evidenziare come gli sportivi siano passati da
una fase di disinteresse nei confronti della propria previdenza, alla considerazione via via più
matura ed attenta dell’importanza di questo aspetto della propria condizione professionale.
Gli sportivi hanno sempre difeso rigorosamente la peculiarità della loro “professione”, e
quindi la peculiarità e “specificità” della loro previdenza, in ragione anche della carriera
professionale più breve di tali lavoratori rispetto agli altri.
Ed infatti, la tutela previdenziale per gli sportivi (professionisti) e per
alcune “figure”
professionali operanti nel mondo dello sport – come verrà meglio illustrato in seguito – ha trovato
una prima tutela (anche se limitata) nella legge 14 giungo 1973 n.366, con la quale è stata attribuita
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Profili generali della tutela previdenziale…
all’Enpals la tutela di quella particolare forma di spettacolo che è lo sport; in tal modo l’attività
sportiva è stata inquadrata, ai fini previdenziali, nel settore dello spettacolo1.
L’Enpals, è un ente di diritto pubblico, posto sotto la vigilanza del Ministero del lavoro e
delle politiche sociali. Il regime previdenziale dell’Enpals è un regime previdenziale sostitutivo ( e
non esonerativo) dell’assicurazione generale obbligatoria, ed opera in alternativa a quest’ultimo ,
che ha una competenza generale residuale.
In generale il presupposto della costituzione del rapporto giuridico previdenziale, inteso nel
senso di rapporto intercorrente tra gli enti previdenziali e i soggetti protetti ed avente come
contenuto il diritto di questi ultimi alle prestazioni previdenziali, è in linea generale, lo svolgimento
di fatto di una attività lavorativa, intesa sia come lavoro subordinato che come lavoro autonomo e
professionale (l’attività lavorativa è configurata, quindi, come presupposto necessario del rapporto
previdenziale).
Anche con riferimento al regime previdenziale degli sportivi, ciò che assume giuridico rilievo
all’effetto della costituzione del rapporto assicurativo previdenziale, è l’effettiva prestazione di
attività sportiva (oltre che ad altre particolari condizioni, come riportate nei successivi paragrafi).
Verificatesi le condizioni previste dalla legge (esercizio attività sportiva e condizioni “particolari”),
il rapporto giuridico previdenziale sorge automaticamente: l’assicurazione sociale si instaura ope
legis, senza bisogno di una specifica manifestazione di volontà da parte dei soggetti interessati.
Eventuali comportamenti richiesti dalla legge allo sportivo, o alla società sportiva (come ad
esempio, domanda iscrizione all’ente, comunicazioni reddituali, versamenti contributi), rientrano
nella sfera di manifestazione di conoscenza o di ricognizione o di conferma, senza peraltro avere
valore costitutivo. La costituzione del rapporto giuridico previdenziale, che ha il suo fondamento
nell’interesse pubblico e la sua base positiva nell’art.38 cost., attraverso la quale si realizza la
garanzia costituzionale, non può dunque derivare né dipendere dalla volontà dei soggetti protetti o
dall’ente previdenziale.
Dal fatto che il rapporto giuridico previdenziale degli sportivi si instaura ope legis deriva
l’ulteriore conseguenza della sua autonomia dall’attività sportiva; in altri termini, sebbene il primo
sorga sul presupposto della seconda, lo stesso rimane, però, giuridicamente indipendente rispetto a
questa ultima. Il rapporto previdenziale è, quindi, distinto ed autonomo rispetto al rapporto di
1
Cfr. M.T. Spadafora, Diritto del lavoro sportivo, Torino, 2004, 173; A. Guadagnino, La previdenza dei calciatori, in
Informazione previdenziale, 1997, 661; L.Carbone, La previdenza degli sportivi professionisti, Foro it., 2002, I, 118; L.
Siniscalchi, Profili previdenziali del lavoro sportivo: la legge 23 marzo 1981 n.91, in Dir. lav., 1988, I, 289; M. Cinelli,
Sull’inquadramento a fini previdenziali del lavoro sportivo, Giust. Civ., 1995, I, 1385
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Profili generali della tutela previdenziale…
lavoro, inteso (nella specie) nel senso di attività sportiva, perché i due rapporti sono tra loro distinti
per diversità degli elementi essenziali, nonché in quanto l’attività sportiva costituisce il presupposto
di fatto, e soltanto questo, della costituzione automatica del rapporto previdenziale.
Il reperimento dei mezzi necessari alla realizzazione della previdenza degli sportivi avviene
mediante l’imposizione dell’obbligo del pagamento dei contributi previdenziali sia alle società
sportive che agli stessi sportivi (sia pure in misura ridotta)2.
L’obbligo del pagamento dei contributi previdenziali all’ente previdenziale di categoria
(Enpals) sorge immediatamente al verificarsi delle condizioni soggettive ed oggettive previste dalla
legge. Sono inifluenti sulla insorgenza dell’obbligazione contributiva (da calcolarsi in misura
percentuale sul compenso corrisposto allo sportivo) sia la domanda di iscrizione all’ente da parte
della società sportiva che eventuali comportamenti imposti dalla legge ai soggetti protetti.
In ordine agli eventi, al verificarsi dei quali l’ente previdenziale
(Enpals) interviene, la
“posizione” degli sportivi non si differenzia da quella degli altri lavoratori. Infatti, i rischi sociali, in
ordine ai quali la legge ricollega la tutela previdenziale, sono l’età (biologica o lavorativa),
l’invalidità, l’inabilità, la morte.
2. – La gestione delle risorse finanziarie.
La previdenza in generale può essere gestita secondo due principiali sistemi: a
“capitalizzazione” o a “ripartizione”.
Con il sistema a capitalizzazione si ha l’accantonamento dei contributi versati in fondi di
riserva ed il pagamento delle prestazioni con i frutti derivanti dall’accantonamento;
la
contribuzione è prelevata oggi in vista della erogazione delle pensioni, e, quindi, dei bisogni di
domani. Tale sistema ha il grave inconveniente di entrare in crisi in periodi di accentuata
svalutazione monetaria.
Con il sistema a ripartizione, invece, si ha l’utilizzazione dei contributi riscossi in ciascun
periodo per l’erogazione delle prestazioni dovute in tale periodo; l’onere delle prestazioni da
corrispondere in un dato periodo viene ripartito fra tutti gli iscritti alla gestione previdenziale. In
tale sistema la contribuzione è prelevata oggi per sopperire all’erogazione delle pensioni e quindi ai
bisogni di oggi.
2
A. Guadagnino, Gli obblighi contributivi delle società di calcio e la tutela previdenziale dei calciatori, Padova, 1998.
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Profili generali della tutela previdenziale…
La previdenza degli sportivi ha adottato il sistema finanziario a ripartizione. Sul punto occorre
evidenziare che l’eventuale adozione del sistema c.d. contributivo non andrebbe ad influire sul
sistema a ripartizione, atteso che il sistema contributivo (di cui alla l.n.335 del 1995) influisce solo
sui criteri di calcolo della pensione, ma non sul sistema finanziario a ripartizione.
3. – Le norme in materia di tutela previdenziale degli sportivi.
La Cassa nazionale di assistenza per i lavoratori dello spettacolo, istituita con contratto
collettivo 28.8.1934, assume la denominazione di “Ente nazionale di previdenza e di assistenza per i
lavoratori dello spettacolo” (Enpals), con l’entrata in vigore del d.lgvo C.P.S. del 16.7.1947, n.708.
Con l’emanazione del d.P.R. 31 dicembre 1971 n.1420, la tutela previdenziale del settore è
stata ulteriormente perfezionata. Tale decreto ha infatti stabilito condizioni assicurative e
contributive di maggior favore per le categorie artistiche e tecniche dei lavoratori dello spettacolo,
in ragione della saltuarietà e brevità dell’attività lavorativa, nonché della natura delle retribuzioni o
compensi percepiti da tali lavoratori.
Il quadro delineato è stato poi ulteriormente arricchito con l’attribuzione all’Enpals della
tutela assicurativa di quella particolare forma di spettacolo costituita dallo sport (l.14 giugno 1973,
n.366).
Detta assicurazione, istituita in un primo tempo per i soli giocatori e allenatori di calcio, è
stata successivamente estesa – con la l. 23 marzo 1981 n.91 – a tutti gli sportivi professionisti.
Più di recente, in linea con il processo di armonizzazione dei regimi previdenziali sostitutivi
intrapreso con la l.23 ottobre 1992 n.421, ed in attuazione dei principi contenuti nell’art.2, commi
22 e 23 , della l.8 agosto 1995 n.335, il legislatore delegato ha provveduto ad armonizzare al regime
generale dell’Inps, sia il regime pensionistico dei lavoratori dello spettacolo iscritti all’Enpals
(d.lgs. 30 aprile 1997, n.182), sia quello per gli iscritti al Fondo pensioni per gli sportivi
professionisti istituito presso l’Enpals (d.lgs. 30 aprile 1997, n.166; l. 27 dicembre 2002, n.289,
art.43, comma 1; d.P.R. 24 novembre 2003, n.357, art.9)
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Profili generali della tutela previdenziale…
Le assicurazioni pensionistiche nei confronti degli sportivi professionisti sono gestite
dall’Enpals come “Fondo speciale” autonomo, con un proprio bilancio che costituisce allegato al
bilancio generale dell’ente medesimo (art.2, l.366/73)3.
4. – Ambito di operatività della tutela Enpals per gli sportivi.
Numerosi sono i soggetti che operano nell’ambito dell’ordinamento sportivo4: oltre agli
atleti5, altre figure sono “protagoniste” del mondo dello sport, rendendo possibile lo svolgimento
3
Per la gestione ed il controllo di tale Fondo, l’art.5 della l. n.366/73 (ora abrogato - congiuntamente all’art.9 della
l.n.91 del 1981 - dall’art.9 del d.P.R. 24 novembre 2003, n.357, per effetto di quanto disposto dall’art.43, comma 1,
della l. 27 dicembre 2002, n.289) disponeva che, fermo restando le attribuzioni del Consiglio di Amministrazione e del
Comitato esecutivo dell’Enpals, per il Fondo speciale è costituito un Comitato di vigilanza di cui fanno parte, tra l’altro:
due rappresentati delle società sportive;
due rappresentanti dei giocatori di calcio;
un rappresentante degli allenatori di calcio.
Lo stesso art.5 prevedeva che la nomina dei suindicati rappresentanti avvenisse su designazione delle rispettive
organizzazioni sindacali di categoria a base nazionale.
La partecipazione delle categorie interessate al Comitato di Vigilanza è importante, solo ove si consideri che spettano
al Comitato di Vigilanza (art.6 l.366/73) :
vigilare sulle regolarità della affluenza dei contributi dovuti al Fondo speciale e sulla regolare liquidazione delle
prestazioni;
fare proposte al Comitato Esecutivo dell’Ente per gli investimenti delle attività del Fondo in base alle direttive di
massima stabilite dal Consiglio di Amministrazione;
decidere definitivamente, in via amministrativa ed in sostituzione del Comitato Esecutivo dell’Ente, sui ricorsi
riguardanti le prestazioni a carico del Fondo;
formulare tempestivamente le previsioni sull’andamento del Fondo, proponendo i provvedimenti ritenuti necessari per
assicurarne l’equilibrio;
dare pareri sulle questioni relative alla applicazione delle norme che regolano l’attività del Fondo, che gli vengono
sottoposte dal Ministero del lavoro e dall’Enpals;
dare parere sulla misura dei contributi.
4
Cfr., sull’ordinamento sportivo in generale, M.T. Spadafora, Diritto del lavoro sportivo, Giappichelli, Torino, 2004.
In particolare a pagina 33 si afferma che “il rapporto di lavoro subordinato dello sportivo professionista è destinatario di
una specifica disciplina che – secondo una relazione di species a genus – si innesta in quella generale dettata dalle
norme del diritto del lavoro in parte adattandola alle proprie esigenze e in parte discostandosene”. Del resto non si può
ignorare che la configurazione dell’attività sportiva come attività lavorativa comporta l’applicazione alla stessa di tutti i
principi e norme costituzionali in materia di lavoro: il lavoro subordinato professionistico trova la sua specifica
disciplina nella legge n.91 del 1981, nonché, laddove non incompatibili o non espressamente escluse, in tutte le altre
norme dettate per il lavoro subordinato in generale. Cfr. M. De Cristofaro, Legge 23 marzo 1981 n.91. Norme in
materia di rapporti tra società e sportivi professionisti, in Nuove leggi civ. comm., 1982, 580.
5
Lo status di atleta si acquista nel momento in cui chi pratica uno sport, entra a far parte dell’ordinamento sportivo
medinate l’iscrizione presso la federazione dello sport praticato (c.d. cartellinamento); con il tesseramento presso la
federazione l’atleta acquista il relativo status, e cioè diventa titolare di una serie di diritti ed obblighi nei confronti degli
altri atleti, dell’associazione sportiva, della federazione di appartenenza, ed in generale nei confronti di tutti i soggetti
dell’ordinamento sportivo. Sulla natura giuridica del tesseramento degli atleti come atto amministrativo, Cass., sez. un.,
9 maggio 1986 n.3091, in Riv. dir. sport., 1986, 192;Cons. Stato 30 settembre 1995 n.1050, Foro it., 1996, III, 275; G.
Vidiri, Il caso Maradona: la giustizia sportiva e quella ordinaria a confronto, in Foro it., 1991, III, 337; G. Vidiri, Le
federazioni sportive nazionali tra vecchia e nuova disciplina, in Foro it., 2000, 1479.
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dell’evento sportivo (es., giudici, arbitri6, ufficiali di gara). Non tutti i soggetti che “concorrono”
allo svolgimento dell’evento sportivo, sono, però soggetti rientranti nell’ambito di operatività
dell’Enpals.
Con l’art.1 della legge 14.6.1973 n.366, l’assicurazione obbligatoria per l’invalidità, la
vecchiaia ed i superstiti gestita dall’Enpals per i lavoratori dello spettacolo, è stata estesa ai
giocatori di calcio vincolati da contratto7 con società sportive affiliate alla FIGC (Federazione
Italiana Gioco Calcio), e che svolgono la loro attività in campionati di serie A,B,C, oppure, in caso
di diversa riorganizzazione dei campionati, in quelli corrispondenti. La stessa assicurazione, in base
all’art.1, comma 2, della l.366/73 è estesa agli allenatori di calcio vincolati con società sportive
affiliate alla FIGC e che svolgono professionalmente la loro attività in campionati di divisione
nazionale ed agli allenatori federali che operano direttamente alle dipendenze della FIGC.
L’assicurazione invalidità, vecchiaia e superstiti è stata estesa, poi, ad opera del combinato
disposto degli art.2 e 9 della l. 23.3.1981 n.91, agli sportivi professionisti (così titola l’art.2 della
l.91/81), legge che definisce sportivi professionisti “gli atleti8, gli allenatori9, i direttori tecnicosportivi10 ed i preparatori atletici, che esercitano l’attività sportiva a titolo onerosa con carattere di
6
Gli arbitri svolgono la loro attività gratuitamente salvo il rimborso spese ed eventuale indennità. Gli arbitri non sono
pubblici ufficiali in ragione della rilevanza strettamente privatistica dei conflitti che sono chiamati a conporre. In
dottrina, M.Sanino, Diritto sportivo, Padova, 2002, pag.61.
7
Cfr. Cass. 8 giugno 1995 n.6439, Foro it., Rep.1998, voce Sport, n.58, in cui si afferma che il rapporto contrattuale
intercorso tra professionista sportivo (nella specie, direttore tecnico) e la società destinataria delle prestazioni – ove
manchi un contratto tipo redatto d’intesa tra la competente federazione sportiva nazionale e i rappresentanti delle
categorie interessate, come previsto dalla disciplina in materia di rapporti tra società e sportivi professionisti – integra i
requisiti di un rapporto di lavoro subordinato e non di un lavoro subordinato (di tipo) sportivo; Trib. Napoli 27 ottobre
1994, Foro it., Rep. 1995, voce Sport, n.55.
8
L’atleta è lo sportivo che scambia prestazioni agonistiche con retribuzione, cioè colui che, nell’ambito di una pratica
sportiva agonistica trae il proprio sostentamento dall’attività sportiva ; in tal senso, la Figc definisce professionista solo
il giocatore che pratica l’attività sportiva come lavoro primario.
9
Le normative federali indicano sia gli allenatori , che i preparatori atletici, con la qualifica di tecnici, vale a dire coloro
ai quali sono affidati compiti e funzioni di tipo tecnico sportivo. In particolare l’allenatore deve provvedere alla
istruzione e allenamento degli atleti, mentre il preparatore atletico è abilitato alla preparazione fisico-atletica degli atleti.
Gli allenatori, in particolare, sono quei soggetti che in base alle norme della federazione, svolgono compiti di selezione,
allenamento ed istruzione degli atleti, mentre i preparatori atletici provvedono alla cura della formazione atletica dello
sportivo.
10
Per il regolamento del settore tecnico della Figc i direttori tecnici sono abilitati alla conduzione tecnica di squadre di
ogni tipo e categoria e compete loro collaborare agli indirizzi tecnici di tutte le squadre della società per la quale sono
tesserati e di partecipare alla loro attuazione, d’intesa con i tecnici responsabili di ciascuna squadra. Infatti il
regolamento della Figc redatto nella riunione del consiglio federale dell’8.6.1991 così definisce il direttore sportivo: “E’
direttore sportivo, indipendentemente dalla denominazione, la persona fisica che svolge, per conto delle società sportive
professionistiche, attività concernenti l’assetto organizzativo della società, ivi compresa espressamente la gestione dei
rapporti anche contrattuali fra società e calciatori o tecnici e la conduzione di trattative con altre società sportive, aventi
ad oggetto il trasferimento dei calciatori e/o la stipulazione delle cessioni dei contratti secondo le norme dettate dalla
Figc”. Il Direttore sportivo, quindi, è al pari degli allenatori e dei giocatori, uno sportivo professionista, come tale
soggetto alla specifica disciplina dell’ordinamento di settore.
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continuità nell’ambito delle discipline regolamentate dal CONI, e che conseguono la qualificazione
dalle federazioni sportive nazionali, secondo le norme emanate dalle federazioni stesse, con
l’osservanza delle direttive stabilite dal CONI per la distinzione dell’attività dilettantistica da quella
professionistica”
11
. Ne consegue che restano fuori dall’ambito di operatività della legge in
questione, le attività sportive non regolamentate dal CONI e tra queste anche quelle per le quali le
federazioni non abbiano provveduto a tracciare il discrimine tra dilettantismo e professionismo
5. – Gli sportivi non professionisti .
Gli sportivi non professionisti, e comunque gli sportivi che sono fuori
dall’ambito di
operatività degli artt. 2 e 9 della l.23.3.1981, n.91 (ad esempio, gli sportivi che esercitano l’attività
sportiva nell’ambito di una disciplina non regolamentata dal CONI), non rientrano nell’ambito di
tutela previdenziale erogata dall’Enpals .
Gli sportivi non professionisti, infatti, non possono rientrare né nella gestione separata
prevista dall’art.9 l.n.91 del 1981 per la tutela pensionistica degli sportivi professionisti, né nella
tutela pensionistica generale erogata dall’Enpals per i lavoratori dello spettacolo, attesa la
elencazione tassativa delle categorie di lavoratori soggetti alla iscrizione obbligatoria all’Enpals ai
sensi dell’art.3 del d.lgs. C.P.S. 16.7.1947, n.708.
Né gli sportivi non professionisti in generale, possono farsi rientrare nella categoria di soggetti
previsti dall’art.3 del citato d.lgs.CPS n.708 del 1947, quali gli addetti agli impianti sportivi e gli
impiegati amministrativi e tecnici dipendenti dagli enti ed imprese esercenti spettacolo, stante la
loro estraneità dai compiti svolti da quest’ultima categoria.
Nel nostro ordinamento previdenziale manca una norma specifica che disciplina gli aspetti
previdenziali della prestazione dello sportivo non professionista; di conseguenza, in caso di
Diversa è la posizione per i c.d. agenti dei calciatori per i quali il Consiglio Nazionale Forense, nel mese di ottobre
2005 (Italia oggi del 6.10.2005) ha stabilito la incompatibilità con l’iscrizione all’albo professionale forense dell’agente
del calciatore iscritto nell’albo degli agenti dei calciatori; e ciò in quanto l’attività del procuratore (o agente del
calciatore) ha natura commerciale e dunque è incompatibile con l’esercizio della professione forense. L’avvocato,
comunque, può svolgere l’attività professionale forense nell’interesse dei calciatori osservando l’ordinamento
professionale.
11
Ad oggi le Federazioni che hanno istituito al proprio interno il settore professionistico, sono le seguenti:
- Federazione ciclistica italiana;
- Federazione italiana gioco calcio;
- Federazione italiana golf;
- Federazione motociclistica italiana;
- Federazione italiana pallacanestro;
- Federazione pugilistica italiana.
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sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato, occorre fare riferimento alla tutela previdenziale
residuale spettante all’Inps: lo sportivo professionista è assicurato presso l’Enpals mentre
l’impiegato amministrativo della società sportiva è assicurato presso l’Inps.
E ciò in quanto, il problema della qualificazione giuridica del rapporto di lavoro degli sportivi
non professionisti esclusi dall’ambito di operatività della l.n.91 del 1981, va risolto ricorrendo alle
norme generali dell’ordinamento giuridico.
Nel caso di sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato tra la società sportiva e lo sportivo
non professionista, il regime previdenziale è quello dell’Inps, atteso che quest’ultimo ha una
competenza generale residuale.
Per la tutela pensionistica dei calciatori dilettanti, si rinvia al successivo paragrafo .
6. – I calciatori dilettanti.
Ai fini della tutela previdenziale (ma non solo) assume particolare importanza la distinzione
tra atleti professionisti ed atleti dilettanti12. Per gli atleti professionisti lo svolgimento dell’attività
sportiva costituisce oggetto di un rapporto di lavoro; gli atleti dilettanti, invece, svolgono l’attività
sportiva per divertimento o svago, senza alcun fine di lucro ed obbligo contrattuale, e senza
retribuzione, anche se per “prassi” costante gli atleti dilettanti ricevono rimborsi spese e premi in
genere, che garantiscono un trattamento economico “vicino” a quello dell’atleta professionista13
(atleta professionista, invece, è colui che fa dello sport la sua principale attività al fine di conseguire
un guadagno).
I calciatori che svolgono attività sportiva per società associate nella Lega Nazionale Dilettanti
(LND), sono esclusi da ogni tutela pensionistica14 (si rinvia, comunque, per la tutela previdenziale
dei calciatori dilettanti al successivo paragrafo ) .
Ed infatti, sia l’art.9 della l.n.91 del 1981 (riferito solo agli sportivi professionisti), che l’art.1
della l.n.366 del 1973 (che riporta una elencazione tassativa delle categorie di lavoratori soggetti
alla iscrizione all’Enpals), escludono i calciatori dilettanti (ed i calciatori non professionisti) dalla
tutela previdenziale ivi prevista.
12
J.Tognon, Il rapporto di lavoro sportivo: professionisti e falsi dilettanti, in www.Giuslavoristi.it.
Sulla posizione della percezione da parte dell’atleta dilettante di compensi monetari, Trib. Milano 3 aprile 1989, in
Foro it., 1989, I, 2951. La distinzione tra atleti professionisti e dilettanti è rimessa alle rispettive federazioni.
14
Sul tema, A. Guadagnino, Il trattamento previdenziale dei calciatori “non professionisti”, in Inf. Previdenziale,
2003, 418.
13
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Del resto, il rapporto che lega il calciatore dilettante ad una società associata alla Lega
Nazionale Dilettanti non può, in linea di principio essere qualificato rapporto di lavoro15 .
Mancando un rapporto di lavoro (subordinato o autonomo) non può “sorgere” alcun rapporto
giuridico previdenziale. E le stesse norme della F.I.G.C. (artt. 29 e 94 ter delle Norme Organizzative
Interne : N.O.I.F.) escludono per i calciatori “non professionisti”, e quindi anche per i dilettanti,
ogni forma di lavoro, sia essa autonomo che subordinato (è escluso ogni forma di retribuzione per
l’esercizio della pratica sportiva a livello dilettantistico, salvo alcuni rimborsi spese – peraltro
espressamente limitati nell’importo – che non possono qualificarsi retribuzione)16.
Né le norme federali depongono nel senso di poter ricondurre nell’alveo del lavoro il rapporto
tra un calciatore dilettante (o non professionista) e la società di appartenenza17.
I compensi e i gettoni di presenza corrisposti da una federazione nazionale sportiva
dilettantistica in favore di collaboratori coordinati e continuativi, non beneficiano del regime fiscale
agevolato previsto dall’art.69, comma 2, del Tuir, e sono pertanto assoggettati a tassazione
ordinaria. L’Agenzia delle Entrate, infatti, con risoluzione 3 giugno 2005, n.7418 ha affermato che i
compensi in questione non sono inquadrabili nell’art.67, comma 1, lett.m) del Tuir, e quindi non
15
Cfr. E. Indraccolo, La natura del rapporto tra calciatore e società sportiva militante in campionati nazionali
dilettantistici, in Corti Marchigiane, 2005, 3, 743; G. Martinelli, Lavoro autonomo e subordinato nell’attività sportiva
dilettantistica, in Riv. dir.sportivo, 1993, 17; G. Giugni, La qualificazione di atleta professionista, in Riv. dir. sport,
1986, 166; G.Lener, Una legge per lo sport?, Foro it., 1981, V, 298; P. Vidiri, La disciplina del lavoro sportivo
autonomo e subordinato, in Giust. Civ., 1993, II, 209; M. De Cristofaro, Legge 23 marzo 1981 n.91, in Nuove leggi
civili commentate, 1982, 575; A. Mercuri, Sport, in Novissimo Dig. It., Appendice, Torino, 1987, 512.
16
Spadafora, Diritto del lavoro sportivo, Giappichelli, Torino, 2004, pag.62 ritiene che ai rapporti di lavoro degli
sportivi dilettanti “è legittimo ritenere che, se pure non trovi applicazione la legge n.81/91, troveranno applicazione le
norme di diritto comune e, ricorrendo i requisiti di cui all’art.2094 c.c., la normativa dettata in linea generale per ogni
rapporto di lavoro subordinato, ivi comprese le norme interne e comunitarie, che non consentono alcuna
discriminazione tra lavoratori in ragione della loro nazionalità”. Sul tema, Trib. Pescara 18 ottobre 2001, in Foro it.,
2002, I, 897, afferma che la “distinzione tra professionismo e dilettantismo nella prestazione sportiva si mostra,
pertanto, priva di ogni rilievo, non comprendendosi per quale via potrebbe mai legittimarsi una discriminazione del
dilettante”.
17
Naturalmente, nulla vieta al calciatore di agire in giudizio per l’accertamento della sussistenza di un rapporto di
lavoro di natura subordinata. In tal caso, è necessario, però, fornire la prova della sussistenza di tutte le caratteristiche
del lavoro subordinato. Nel caso di accertamento – giudiziale - di un rapporto di lavoro subordinato tra calciatore
dilettante ( o calciatore non professionista) e società, l’ente previdenziale presso cui va assicurato è l’Inps e non
l’Enpals.
Per la natura di rapporto di lavoro subordinato tra un calciatore ed una società di calcio dilettantistica anche in caso
di violazione delle norme federali, , in giurisprudenza, Trib. Ancona 4.7.2001, in Corti Marchigiane, 2005, 739; Trib.
Grosseto 11.9.2003 n.518 (in cui si afferma la sussistenza di un contratto di lavoro sportivo retribuito, vietato dalle
norme federali, ma non per questo nullo nell’ordinamento giuridico statale). In dottrina, G. Napoletano, La nuova
disciplina dell’organizzazione sportiva italiana: prime considerazioni sul decreto legislativo 23.7.1999 n.242, di
riordino del CONI, in Riv. dir. sportivo, 1999, 622; A. De Silvestri, Potestà genitoriale e tesseramento minorile, in
Riv. dir. sportivo, 1991, 309.
18
In Guida al lavoro n.25 del 17 giugno 2005, pag.80 ed in Dir. e Pratica Lav., 2005, 26, 1464. Sul tema, B. Massara,
Federazioni sportive dilettantistiche: tassazione compensi co.co.co., in Guida al Lavoro 2005, n.25 del 17 giugno 2005,
pag.80.
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sono soggetti al regime tributario agevolato (ma alla tassazione ordinaria), per le seguenti
motivazioni:
1. – non sono riconducibili ai compensi per prestazione rese nell’esercizio diretto di attività
sportiva dilettantistica (previsti dal primo periodo dell’art.67), in quanto non finalizzati alla concreta
realizzazione di manifestazioni sportive dilettantistiche;
2. – non sono riconducibili ai compensi per co.co.co. aventi natura amministrativa-gestionale
rese in favore di società e associazioni sportive dilettantistiche (previsti dal secondo periodo
dell’art.67), in quanto la federazione committente, non rientra nelle categorie giuridiche delle
società e associazioni sportive dilettantistiche.
7. – La nuova disciplina dell’attività sportiva dilettantistica (riflessi previdenziali, fiscali,
lavoristici).
Il settore sportivo dilettantistico con l. 27.12.2002 n. 289, come modificato dall’art.6 del d.ll.
30.6.2005, conv. in legge con modificazioni, dalla l. 17.8.2005 n.168,ha “ricevuto” nuove regole
che interessano gli aspetti previdenziali, fiscale e lavoristico19.
Per gli aspetti previdenziali,l’art.51 della l 289/2002 ha esteso agli sportivi dilettanti tesserati
in qualità di atleti, dirigenti e tecnici alle Federazioni sportive nazionali, alle discipline sportive
associative e agli enti di promozione sportiva, l’assicurazione obbligatoria per i casi di infortuni
avvenuti in occasione e a causa dello svolgimento delle attività sportive, dai quali sia derivata la
morte o una inabilità permanente. L’art.4, comma 205, della l.350/2003 ha stabilito che con decreto
del Ministro per i beni e le attività culturali, di concerto con il Ministro dell’economia e delle
finanze (entro un anno dall’entrata in vigore della legge) sono stabiliti le modalità tecniche per
l’iscrizione all’assicurazione obbligatoria presso l’ente pubblico di cui al decreto del Presidente
della Repubblica 1.4.1978 n.250, nonché i termini, la natura, l’entità delle prestazioni ed i relativi
premi assicurativi. L’art.6, comma 4, della l.17.8.2005 n.168 (conversione in legge del d.l. n.115
del 2005) , che ha sostituito il comma 2 bis dell’art.51 della l.27.12.2002 n.289, ha statuito nuove
modalità, stabilendo che con decreto ministeriale, dopo avere sentito le federazioni sportive
dilettantistiche e gli enti di promozione sportiva, da emanare a decorrere dal 1.8.2005 ed entro il
31.12.2006, sono stabilite le nuove modalità tecniche per l’iscrizione all’assicurazione obbligatoria
degli sportivi dilettanti, nonché la natura,l’entità delle prestazioni e i relativi premi assicurativi
19
F. Paltrinieri, Nuove disposizioni per l’attività sportiva dilettantistica, in Dir. e pratica Lav., 2003, 23, 1508.
DOTTRINA
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(l’obbligo assicurativo antinfortunistico per gli sportivi dilettanti tesserati in qualità di atleti,
dirigenti e tecnici alle Federazioni sportive nazionali, viene quindi sospeso dal 1 luglio 2005 al 31
dicembre 2006). A decorrere dall’entrata in vigore della l.n.168/2005, sono abrogate le disposizioni
in materia di assicurazione obbligatoria degli sportivi, di cui al decreto del Ministro per i beni e le
attività culturali 17.12.2004 (in GU. n.97 del 28.4.2005).
Sempre con riferimento agli aspetti previdenziali, l’art.90, comma 3, della l.n.289/2002
ricomprende i redditi provenienti da rapporti di collaborazione coordinata e continuativa di carattere
amministrativo-gestionale, di natura non professionale, resi in favore di società e associazioni
sportive dilettantistiche, tra i redditi “diversi” di cui all’art.81, comma 1, lettera m) del Tuir.
Pertanto la nuova configurazione di tali redditi come non rientranti tra i redditi assimilati a quelli
da lavoro dipendente, preclude la possibilità di imporre i contributi previdenziali della gestione
separata Inps alle società e associazioni sportive dilettantistiche per i rapporti di collaborazione di
carattere amministrativo gestionale20.
L’Inail
ha chiarito21 che a seguito dell’esclusione
ad opera dell’art.90, comma 3,
l.n.289/2002, dal 1 gennaio 2003, dai redditi di collaborazione coordinata e continuativa, dei
compensi erogati ai lavoratori che intrattengono con società ed associazioni sportive dilettantistiche
“rapporti di collaborazione coordinata e continuativa di carattere amministrativo-gestionale di
natura non professionale, anche per questi lavoratori non sono più dovuti i premi per l’assicurazione
contro gli infortuni sul lavoro. Ne consegue che i collaboratori coordinati e continuativi che
ricevono indennità per attività amministrativo-gestionale esercitate per conto di associazioni o di
società sportive dilettantistiche (quali ad esempio, le attività di segreteria o di contabilità svolte con
l’ausilio di personal computer), non sono più da assicurare contro gli infortuni sul lavoro.
In ordine alle “modalità” di svolgimento dell’attività sportiva dilettantistica, il comma 17
dell’art.90 l.289/2002, prevede che le società e associazioni sportive dilettantistiche devono indicare
20
Circ. Inps n.42 del 26.2.2003. Con tale circolare l’Inps precisa come in precedenza il legislatore aveva classificato
“redditi diversi”, ad esempio, i compensi erogati per l’esercizio diretto di attività sportive dilettantistiche, dal Coni,
dalle federazioni sportive nazionali, dagli enti di promozione sportiva (art.37 l.342/2000).
21
Circ. Inail 19.3.2003 in Dir. e Pratica Lav., 2003, 14, 912.. Con delibera del Consiglio di indirizzo e vigilanza del
9.6.2003 n.4 (in Dir. e pratica lav., 2003, n.25) si sofferma sulla materia, affermando come l’esclusione dalla tutela
assicurativa dei lavoratori parasubordinati in questione si porrebbe in contrasto con i principi costituzionali di
uguaglianza e di tutela di cui agli artt. 3 e 38 Cost. nonché con i presupposti dell’assicurazione sociale gestitata
dall’Inail. E ciò in quanto la ricorrenza della tutela assicurativa, non dovrebbe essere rimessa alla identificazione della
natura del reddito percepito dai soggetti, dal momento che i destinatari di tale tutela son identificati esclusivamente dal
TU n.1124/65 e successive modificazioni ed integrazioni. Inoltre, qualora l’attività di carattere amministrativo
gestionale svolta nell’ambito di un rapporto di collaborazione coordinata e continuativa fosse prestata in favore di
committenti diversi dalle associazioni sportive dilettantistiche, la stessa sarebbe soggetta all’obblig assicurativo.
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nella denominazione sociale la finalità sportiva e la ragione o la denominazione sociale
dilettantistica, e possono assumere una delle seguenti forme :
a)
associazione sportiva priva di personalità giuridica disciplinata dagli articoli 36 e seguenti
del codice civile;
b)
associazione sportiva con personalità giuridica di diritto privato ai sensi del regolamento di
cui al decreto del Presidente della Repubblica 10.2.2000 n.361;
c)
società sportiva di capitali costituita secondo le disposizioni vigenti, ad eccezione di quelle
che prevedono le finalità di lucro.
E’ previsto (comma 18 art.90 l.289/2002) che con uno o più regolamenti, emanati ai sensi
dell’art.17, comma 2, l.n.400/1988, nel rispetto delle disposizioni dell’ordinamento generale e
dell’ordinamento sportivo, sono individuati :
- i contenuti dello statuto e dell’atto costitutivo delle società o delle associazioni sportive
dilettantistiche;
- le modalità di approvazione dello statuto, di riconoscimento ai fini sportivi e di affiliazione ad una
o più Federazioni sportive nazionali del Coni o alle discipline sportive associate o a uno degli enti
di promozione sportiva riconosciuti dal Coni, anche su base regionale;
- i provvedimenti da adottare in caso di irregolare funzionamento o di gravi irregolarità di gestione
o di gravi infrazioni all’ordinamento sportivo.
E’ stata istituita (comma 20) presso il Coni il registro delle società e delle associazioni sportive
dilettantistiche distinto nelle seguenti tre sezioni:
associazioni sportive dilettantistiche senza personalità giuridica;
associazione sportiva con personalità giuridica;
società sportive dilettantistiche costituite nella forma di società di capitali.
L’uso degli impianti sportivi in esercizio da parte degli enti locali territoriali è aperto a tutti i
cittadini e deve essere garantito, sulla base di criteri obiettivi, a tutte le società e associazioni
sportive (commi 24-25); le palestre, le aree di gioco e gli impianti sportivi scolastici,
compatibilmente con le esigenze dell’attività didattica e delle attività sportive della scuola, devono
essere posti a disposizione di società e associazioni sportive dilettantistiche aventi sede nel
medesimo comune in cui ha sede l’istituto scolastico o in comuni confinanti.
Per quanto riguarda il fisco, il comma 1 dell’art.90 l.289/2002 prevede che le disposizioni
della l.398/1991 e le altre disposizioni riguardanti le associazioni sportive dilettantistiche, si
applicano anche alle società sportive dilettantistiche costituite in società di capitali senza fine di
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lucro. Gli atti costitutivi e di trasformazione delle società e associazioni sportive dilettantistiche,
nonché delle Federazioni sportive e degli enti di promozione sportiva riconosciuti dal Coni
direttamente connessi allo svolgimento dell’attività sportiva, sono soggetti all’imposta di registro in
misura fissa (comma 5, art.90 cit.).
E’ previsto (comma 8 art.90) altresì, che il corrispettivo in denaro o in natura in favore di
società, associazioni sportive dilettantistiche e fondazioni costituite da istituzioni scolastiche,
nonché di associazioni sportive scolastiche che svolgono attività nei settori giovanili riconosciuta
dalle Federazioni sportive nazionali o da enti di promozione sportiva costituisce, per il soggetto
erogante, fino ad un importo annuo complessivamente non superiore a 200.000,00 euro, spesa di
pubblicità, volta alla promozione dell’immagine o dei prodotti del soggetto erogante mediante una
specifica attività del beneficiario.
I dipendenti pubblici possono (comma 23, art.90 cit.) prestare la propria attività, nell’ambito
delle società e associazioni sportive dilettantistiche, fuori dall’orario di lavoro, purchè a titolo
gratuito e fatti salvi gli obblighi di servizio, previa comunicazione all’amministrazione di
appartenenza; ai medesimi soggetti vengono riconosciute esclusivamente le indennità ed i rimborsi
di cui all’art.81, comma 1, lett.m) del dPR n.917/86.
Viene estesa, poi, come già evidenziato, l’applicazione dell’art.81, comma 1, lettera m), cit. ai
rapporti di collaborazione coordinata e continuativa di carattere amministrativo-gestionale resi
all’associazione, purchè non abbiano natura libero-professionale. Sale inoltre a 7.500,00 euro (dai
10 milioni precedenti) la fascia reddituale esonerata dalla tassazione corrisposta dall’associazione ai
collaboratori22.
Per quanto riguarda le società dilettantistiche, l’art.7 della l.27.7.2004, n.186, che ha
convertito in legge il d.l. n.136/2004, ha specificato che le agevolazioni fiscali per le società e
associazioni sportive sono previste soltanto se riconosciute dal CONI. In pratica, la disciplina
dell’art.90 della l.n.289 del 2002 è applicabile alle società dilettantistiche, soltanto se le società
sportive abbiano ottenuto il riconoscimento del Coni, quale garante dell’unicità dell’ordinamento
sportivo nazionale23
22
Sul trattamento fiscale dei compensi erogati a sportivi dilettanti ed ai soggetti che svolgono collaborazioni
coordinate e continuative di carattere amministrativo-gestionale nei confronti delle associazioni o società sportive
dilettantistiche, Gi.B., Compensi erogati da associazioni sportive dilettantistiche e 770, in Guida al lavoro, 2004, 35,
del 3 settembre 2004, pag. 33.
23
Cfr., A.Succi, Sport dilettante, bonus non per tutti, in Italia oggi del 30.7.2004.
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8. – Rapporto di lavoro sportivo e rapporto previdenziale.
Per la costituzione del singolo rapporto di lavoro è richiesto, a pena di nullità, la stipula di un
contratto24 in forma scritta da depositare (onere cui può provvedere anche direttamente il
lavoratore) presso la Federazione sportiva nazionale per l’approvazione.
Il controllo delle federazioni sportive è limitato alla sola regolarità formale del contratto ed
alla sua corrispondenza al modello concordato con i rappresentanti delle due parti contraenti;
l’approvazione da parte della Federazione del contratto costituisce una condicio iuris che
condiziona il perfezionamento della fattispecie contrattuale e, quindi, la produzione degli effetti
voluti dalle parti, sicchè in sua mancanza è negata qualsiasi efficacia al vincolo contrattuale25.
L’art.4 della l.n.91 del 1981 sottrae il contratto di lavoro sportivo alla disciplina generale
del contratto a termine, stabilendo che le parti possono apporre al rapporto di lavoro sportivo un
termine non superiore a cinque anni dalla data di inizio del rapporto. Eventuali termini superiori
sono da ritenersi nulli e vengono sostituiti di diritto dal termine massimo.
Occorre evidenziare che la legge sul lavoro sportivo stabilisce che possono stipulare contratti
con atleti professionisti solo le società sportive costituite nella forma di società per azione o di
società a responsabilità limitata (art.10 l.n.81/91), senza ricorrere alla normativa sul collocamento
(l’art.4 della l.n.81/91 prevede che il rapporto di prestazione sportiva a titolo oneroso si costituisce
mediante assunzione diretta dello sportivo professionista)26.
La legge sul lavoro sportivo (art.4, comma 8, l.n.91/81) esclude i rapporti di lavoro con gli
sportivi professionisti dal campo di applicazione della disciplina limitativa dei licenziamenti di cui
alla l.n.604/66 ed art.18 l.n.300/70, con possibilità per le parti di recedere liberamente dal contratto
con il solo limite del preavviso, salvo il recesso immediato per giusta causa. Ne consegue che nei
rapporti di lavoro a tempo determinato, le parti possono liberamente recedere dal contratto con il
24
Ai sensi dell’art.5 della l.n.91/81 le parti possono apporre al rapporto di lavoro sportivo un termine non superiore a
cinque anni dalla data di inizio del rapporto (con la possibilità di successivi contratti a termine senza le limitazioni
stabilite dal d.lgs. n.368/2001), con possibilità di cessione del contratto ai sensi dell’art.1406 e segg. cod. civ..
25
Conf. Cass. 12 ottobre 1999, n.11462, Foro it., Rep.2001, voce Sport, n.42, ed in Riv. Dir. Sport, 1999, 530, con nota
di Vidiri.
26
Per quanto riguarda l’applicabilità della normativa sul collocamento obbligatorio alle società sportive professioniste
che intrattengono con gli atleti contratti di lavoro subordinato, disciplinati in toto dalla legge n.91 del 1981, per la parte
in cui gli stessi debbono essere computati nella base di calcolo per la determinazione della quota di riserva, in senso
dubitativo, cfr. EUFRANIO MASSI, Atleti professionisti e collocamento obbligatorio: computo nella quota di riserva,
in Diritto e Pratica Lavoro 2002, 39, 2556.
Sui criteri distintivi del lavoro subordinato rispetto a quello autonomo nell’ambito del lavoro sportivo, Cass. 18
giungo 1998 n.6114, in Foro it., Rep.1998, voce Lavoro (rapporto) n. 568; Cass. 20 giungo 1997 n.5520, in Riv. it. Dir.
lav., 1997, II, 701.
DOTTRINA
Profili generali della tutela previdenziale…
solo limite del preavviso, salvo il recesso immediato per giusta causa. Nei contratti di lavoro a
tempo indeterminato, invece, trova applicazione l’art.2119 cod. civ., in base al quale le parti
possono recedere unilateralmente dal rapporto prima del termine esclusivamente in presenza di una
giusta causa.
In ordine alla tipologia del rapporto di lavoro tra sportivi professionisti e società sportive,
occorre evidenziare come la prestazione di lavoro a titolo oneroso dell’atleta costituisce oggetto di
un contratto di lavoro subordinato.
Tuttavia, va ritenuta la sussistenza di un contratto di lavoro autonomo, in presenza di alcune
particolari condizioni (art.3 l.n.91 del 1981), quali :
-
attività svolta nell’ambito di una singola manifestazione sportiva o di più
manifestazioni tra loro collegate in un breve periodo di tempo;
-
atleta contrattualmente vincolato per ciò che riguarda la frequenza a sedute di
preparazione o allenamento;
-
prestazione pur continuativa ma non superiore a otto ore settimanali oppure a cinque
giorni ogni mese ovvero trenta giorni ogni anno.
Ove non ricorrano le suesposte condizioni, al rapporto di lavoro con l’atleta professionista
deve essere riconosciuta natura subordinata.
La norma di cui al comma precedente, però, trova applicazione limitatamente agli “atleti”, e
non anche nei confronti degli altri appartenenti alla categoria di prestatori di lavoro in questione
(allenatori, direttori tecnico-sportivi e preparatori atletici), per i quali il giudizio sulla natura
subordinata o meno del rapporto va formulato sulla base delle modalità concrete di svolgimento del
rapporto
27
(tali soggetti, però, anche nel caso di rapporto di lavoro autonomo, devono essere
assicurati presso l’Enpals nel Fondo speciale sportivi professionisti).
Occorre, comunque, ribadire che l’obbligo assicurativo dei datori di lavoro, ai sensi dell’art.9
della l.23 marzo 1981 n.91, sussiste solo rispetto agli sportivi professionisti lavoratori subordinati e
non anche rispetto agli stessi sportivi aventi un rapporto di lavoro autonomo, ancorché
caratterizzato da onerosità e continuità della prestazione, per i quali l’assicurazione obbligatoria
riveste i caratteri di specialità e grava esclusivamente sugli stessi lavoratori28. Occorre, però,
27
Conf. Cass. 28 dicembre 1996, n.11540, Foro it., Rep.1996, voce Sport, n.35.
Conf. Cass. 25 luglio 2001, n.10159, in Foro it., 2002, I, 118, con nota di L.Carbone (fattispecie relativa a maestri
della federazione italiana tennis).
28
DOTTRINA
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evidenziare, che nel caso di rapporto autonomo la società è tenuta al versamento dei contributi i
quali, però, sono a totale carico dello sportivo professionista assicurato (art.9 l.n.91/1981).
La costituzione del rapporto giuridico previdenziale, attraverso la quale si manifesta e si
realizza la garanzia di cui all’art.38 Cost., non deriva né dipende dalla volontà dei soggetti protetti o
dall’ente pubblico previdenziale.
Verificatesi le condizioni previste dalla legge il rapporto previdenziale sorge automaticamente:
l’assicurazione sociale si instaura ope legis, senza bisogno di una specifica manifestazione di
volontà da parte dei soggetti interessati. In tale sistema di insorgenza automatica ipso iure, è di tutta
evidenza che eventuali comportamenti richiesti dalla legge alla società sportiva ( o allo sportivo
professionista) rientrano nella sfera di manifestazione di conoscenza o di ricognizione o di
conferma, senza peraltro avere valore costitutivo; da ciò ne consegue che la domanda di iscrizione
all'Enpals è irrilevante ai fini dell’insorgenza del rapporto giuridico previdenziale.
9. - La disciplina del d.lgs. 30.4.1997, n.166.
La previdenza degli sportivi professionisti non è “sfuggita” alla riforma in atto del sistema
previdenziale italiano.29
Ed infatti, in attuazione della delega conferita dall’art.2, commi 22 e 23, lettera a), della
l.8.8.1995 n.335, con d.lgs. 30.4.1997 n. 166 sono state dettate nuove norme in materia di regime
pensionistico per gli iscritti al Fondo pensioni per gli sportivi professionisti istituito
presso
l’Enpals.
Con il d.lgs. 30.4.1997, n.166, anche per gli sportivi professionisti iscritti all’Enpals, è stato
“ridefinito” il loro sistema previdenziale, allo scopo di garantire (agli iscritti al Fondo pensioni per
gli sportivi professionisti istituito presso l’Enpals) la tutela prevista dall’art.38 Cost.., in quanto,
come già in precedenza evidenziato, la tutela previdenziale degli sportivi professionisti trova
29
Sulla previdenza dei calciatori, L.CARBONE, La previdenza degli sportivi professionisti, Foro it., 2002, I, 119;
A.GUADAGNINO, Gli obblighi contributivi delle società di calcio e la tutela previdenziale dei calciatori, APS
Editore, 1998; L.SINISCALCHI, Profili previdenziali del lavoro sportivo: la legge 23 marzo 1981 n.91, in Il Dir.lav.,
1988, I, 289. In tema di diritto sportivo, Il rapporto di lavoro sportivo, Maggioli editore, Rimini, 1989, atti del
Convegno promosso dal Centro Nazionale Studi di Diritto del Lavoro D.Napoletano, sezione Marche, svoltosi ad
Ascoli Piceno il 19.12.1987; MENNEA, Il procuratore sportivo di calcio e le figure giuridiche ad essa assimilabile, in
Impresa, n.2/1995, pag.283; MENNEA, Diritto sportivo, con elementi di diritto civile e tributario, Mediamix edizioni
scientifiche, Milano, 1993; DURANTI, L’attività sportiva come prestazione di lavoro, in Riv.it.dir.lav., 1983, I, 706;
PICCARDO, Commento all’art.2 della legge 23 marzo 1981 n.91, in Le nuove leggi civile commentate, 1982, 562;
BIANCHI-D’URSO-VIDIRI, La nuova disciplina del lavoro sportivo, in Riv. diritto sportivo, 1982, 8; MAZZOTTA,
Una legge per lo sport? Il lavoro sportivo, Foro it., 1981, V, 302;
DOTTRINA
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indubbio fondamento nell’art.38, comma 2, Cost., il quale nell’attribuire ai lavoratori il diritto a che
siano preveduti ed assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia,
invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria, non opera alcuna distinzione tra lavoratori
dipendenti e lavoratori autonomi: la garanzia costituzionale non può certo incontrare limiti in
dipendenza della natura subordinata o autonoma del rapporto di lavoro, l'esigenza di tutela degli
sportivi professionisti avendo, a tal proposito, lo stesso incontestabile fondamento materiale, etico,
sociale e giuridico che ha la corrispondente tutela degli altri lavoratori.
Con il citato d.lgs. n.166/97 sono stati definiti – sia pure con applicazione graduale - nuovi
criteri di calcolo dei trattamenti pensionistici attraverso la commisurazione dei trattamenti alla
contribuzione, le condizioni di accesso alle prestazioni con affermazione del principio di flessibilità,
l’armonizzazione
dell’ordinamento
pensionistico
degli
sportivi
professionisti
a
quello
dell’assicurazione generale obbligatoria nel rispetto, però, della pluralità e peculiarità degli
organismi assicurativi30.
Infatti il d.lgs. 30.4.1997, n.166 ha esteso agli sportivi professionisti tutta una serie di norme
dettate in materia di assicurazione generale obbligatoria.
In particolare con tale decreto è stato disposto che:
-
a decorrere dalla data di entrata in vigore del decreto di attuazione, l’aliquota
contributiva (a carico dei lavoratori e delle società) è stabilita nella misura in vigore nel Fondo
pensioni lavoratori dipendenti (art.1, commi 1 e 2);
-
agli sportivi professionisti viene esteso lo stesso regime di calcolo della pensione a
secondo della anzianità contributiva maturata al 31.12.1995, così come previsto per gli iscritti al
regime dell’assicurazione generale obbligatoria.
10. - Limitazioni nella tutela previdenziale ed assistenziale degli sportivi.
Permangono per gli sportivi professionisti limitazioni di tutela, che il recente d.lgs. 166/97
non ha eliminato, non essendo “estesi” agli sportivi professionisti quelle forme di protezione che
l’ordinamento pone nei confronti di tutti i lavoratori, subordinati o autonomi.
30
A. GUADAGNINO, La previdenza dei calciatori, in Inf. prev., 1997, 661 si pone il dubbio “se tuttora permangono
le ragioni che hanno indotto il legislatore del 1973 (ma anche quello del 1981) a dettare per questa categoria di
lavoratori un differenziato regime previdenziale: in questa ottica una futura collocazione dei calciatori professionisti
all’interno dell’assicurazione generale obbligatoria Ivs potrebbe costituire un’eventualità meno remota che in passato”.
DOTTRINA
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Infatti, non si applicano le disposizioni concernenti il trattamento economico di malattia e la
tutela economica per le lavoratrici madri (art.1, comma 3, l.366/73)31 nonché la tutela delle
prestazioni economiche
per la tubercolosi; l’assegno per il nucleo familiare; la tutela della
disoccupazione involontaria; per la tutela contro gli infortuni e malattie professionale (si veda, ora,
l’art.6 del d.lgs. n.38 del 2000)32; la tutela delle integrazioni salariali.
Occorre, comunque, ricordare che, come norma transitoria e finale, l’art.5 del d.lgs. 166/97
prevede che “Per quanto non disciplinato dalla normativa del Fondo, come modificata dal presente
decreto, trovano applicazione le disposizioni in vigore nell’assicurazione generale obbligatoria”.
11. – La tutela previdenziale dei calciatori stranieri (comunitari ed extracomunitari).
Gli sportivi professionisti appartenenti ad uno Stato membro della CE hanno diritto di
circolare liberamente ed esercitare la propria professione nel territorio italiano, instaurando un
rapporto di lavoro subordinato secondo le regole ordinarie (art.48 Trattato CEE 25 marzo 1957).
Per gli sportivi extracomunitari che intendano svolgere la loro attività presso società italiane,
l’ingresso nello Stato è consentito, indipendentemente dal rispetto delle quote annuali di
ammissione degli stranieri, previa dichiarazione nominativa di assenso del CONI, su richiesta della
società destinataria delle prestazioni sportive (l.n.91 del 1981). La dichiarazione nominativa
sostituisce l’autorizzazione al lavoro33.
Per gli sportivi professionisti stranieri, sia comunitari che extracomunitari, ai fini del
versamento dei contributi previdenziali, si applicano le norme comuni a tutti gli altri lavoratori.
La problematica della pensione relativa ai giocatori stranieri che militano in Italia (e versano i
contributi previdenziali all’Enpals), invece, va affrontata distinguendo i calciatori extracomunitari
da quelli provenienti dalla Comunità Europea 34.
A)
Calciatori comunitari.
31
Per tale categoria non sono, quindi, dovuti i contributi per le indennità economiche di malattia e maternità: circ.
Enpals n.200 del 2 ottobre 1997.
32
L’art.8 della l. 91/81 prevede espressamente che “Le società sportive devono stipulare una polizza assicurativa
individuale a favore degli sportivi professionisti contro il rischio della morte e contro gli infortuni, che possono
pregiudicare il proseguimento dell’attività sportiva professionistica”.
33
Dichiarazione nominativa, visto di ingresso e permesso di soggiorno, non possono essere rinnovati e, in caso di
cessazione del rapporto di lavoro, non possono essere utilizzati per un diverso rapporto di lavoro.
34
Cfr. MENNEA, La sentenza Bosnam: effetti a lungo termine, cit.. La Corte di Giustizia CE, sez. V, 8 maggio 2003,
C-438-00 ( in Guida al Lavoro 2003, n.23 del 6.6.2003, pag.35) ha confermato la libera circolazione degli sportivi
professionisti.
DOTTRINA
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Gli sportivi professionisti appartenenti ad uno Stato membro della Comunità europea hanno il
diritto di circolare liberamente ad esercitare la propria professione nel territorio italiano, instaurando
un rapporto di lavoro secondo le regole ordinarie.
Per i calciatori provenienti da Federazioni che fanno parte dell’Unione Europea, i contributi
versati in Italia, non vengono trasferiti al paese di provenienza del calciatore ma vengono
“segnalati” dall’ente che ne fa richiesta per accertare il diritto alla pensione (in caso di richiesta da
parte del calciatore).
Per il calciatore che ha svolto attività lavorativa in Italia e nei paesi convenzionati o nei paesi
dell’Unione Europea, si applica il principio della totalizzazione ai fini pensionistici, con la
conseguenza che:
-
il diritto alla pensione viene accertato sommando tutti i periodi di lavoro svolti
dall’interessato nei paesi che hanno stipulato convenzione o nei paesi UE;
-
l’importo della pensione viene determinato da ogni paese in proporzione soltanto ai
contributi versati nel paese stesso secondo il sistema del pro-rata.
La totalizzazione ha lo scopo di accertare l’esistenza del diritto alla pensione sommando i
periodi contributivi italiani ed esteri, e non comporta il trasferimento di contributi dagli altri paesi (
o verso altri paesi).
La totalizzazione è ammessa a condizione che il lavoratore abbia un periodo minimo di
contributi nel paese che applica la convenzione. Se non c’è questo periodo minimo, i contributi
vengono utilizzati dall’altro Stato.
Per i regolamenti CEE questo periodo minimo è di 52 settimane. Per gli accordi bilaterali è
stabilito in modo diverso da Stato a Stato.
Il calciatore “emigrante” può maturare il diritto alla pensione nazionale (autonoma) senza
ricorrere alla totalizzazione dei periodi assicurativi. Quando il diritto alla pensione si raggiunge con
la totalizzazione dei contributi versati in Italia e negli altri paesi, il calcolo della pensione italiana
viene effettuato “pro-rata”, cioè determinato in proporzione ai soli contributi versati nel Paese che
liquida la pensione. Per poter comprendere meglio il sistema di calcolo, ecco un esempio.
Un calciatore ha versato in Italia 14 anni di contributi ed in Germania 12 anni. Senza
totalizzazione l’interessato non avrebbe diritto alla pensione di vecchiaia italiana in quanto non
raggiungerebbe il requisito contributivo minimo. L’Enpals liquida, però, ugualmente la pensione
perché nel complesso sono stati versati 26 anni. Ovviamente la pensione sarà calcolata solo sui 14
DOTTRINA
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anni di contributi versati in Italia. La Germania liquiderà la propria pensione sui 12 anni di
contribuzione tedesca.
B) Calciatori extracomunitari.
I calciatori provenienti da Federazioni di paesi “extracomunitari” non convenzionati (ai fini
della sicurezza sociale) con lo Stato italiano35, che avessero cessato l’attività calcistica in Italia
rientrando nel proprio paese d’origine,prima dell’entrata in vigore (10.9.2002) della legge n.189 del
2002, avevano la facoltà di chiedere all’Enpals, nel caso non avessero maturato presso tale ente il
diritto a pensione (20 anni di contribuzione all’Enpals ed una età di 47anni se donna e 52 se uomo),
in base all’art.3, comma 13, della legge 8.8.1995 n.335,la restituzione dell’importo dei contributi
versati presso l’ente dalla società sportiva durante il periodo in cui avevano militato in Italia (I
calciatori italiani tesserati per società svizzere, possono invece chiedere all’ente previdenziale
svizzero la restituzione dei contributi versati in Svizzera). Tale articolo, infatti, prevedeva che “I
lavoratori extracomunitari che abbiano cessato l’attività lavorativa in Italia e lascino il territorio
nazionale, hanno facoltà di richiedere, nei casi in cui la materia non sia regolata da convenzioni
internazionali, la liquidazione dei contributi che risultino versati in loro favore presso forme di
previdenza obbligatoria maggiorati del cinque per cento annuo”.
A partire dalla data di entrata in vigore della legge n.189 del 2002 (10.9.2002), che ha abrogato
l’art.3, comma 13, della l.n.335 del 1995, è venuta meno, per i calciatori extracomunitari, la
possibilità di chiedere il rimborso della contribuzione da essi versata, contribuzione che rimane
acquisita alla gestione previdenziale dell’Enpals.
Occorre comunque evidenziare che in caso di “rimpatrio”, il calciatore extracomunitario
conserva i diritti previdenziali e di sicurezza sociale maturati e può goderne, indipendentemente
dalla vigenza di un accordo di reciprocità, al compimento dell’età fissata dalla legge per il diritto a
pensione.
12. - La circolarità dei calciatori e riflessi previdenziali.
Nel caso di “circolarità” dei calciatori36, in ordine alla possibilità di conseguire un’unica
pensione da parte dei calciatori che siano stati iscritti, nel corso della loro vita lavorativa (non solo
35
Paesi dell’Unione europea ai quali si applicano i regolamenti in materia di sicurezza sociale: Austria, Belgio,
Danimarca, Finlandia, Francia, Germania, Gran Bretagna, Grecia, Irlanda, Lussemburgo, Olanda, Portogallo, Spagna,
Svezia, Cipro, Estonia, Lettonia, Lituania, Malta, Polonia, Repubblica Ceca, Repubblica Slovacca, Slovenia, Angheria.
Stati appartenenti all’Accordo sullo spazio economico europeo: Islanda, Liechtenstein, Norvegia.
Stati ai quali si applica la Convenzione Europea del 14.12.10972: Turcia.
36
Sulle vicende circolatorie delle prestazioni lavorative e la ricongiunzione delle posizioni assicurative, cfr.
L.CARBONE, La tutela previdenziale dei liberi professionisti, Torino, UTET, 1998, 182.
DOTTRINA
Profili generali della tutela previdenziale…
come calciatore), a diverse gestioni pensionistiche (ad esempio, all’Enpals come calciatore;
all’Inpdap come dipendente pubblico; ad una Cassa di previdenza categoriale per liberi
professionisti), la legge 7.2.1979 n.29 e la legge 5.3.1990 n.45 consentono di ottenere la
ricongiunzione della posizione assicurativa presso un unico ente, per percepire un trattamento
pensionistico rapportato all'intero periodo lavorativo.
Occorre comunque evidenziare, che in presenza di contribuzione versata sia all’Inps (nella
gestione dei lavoratori dipendenti) che all’Enpals, è possibile, ai sensi dell’art.16 dPR n.1420/71,
presentare domanda di pensione all’uno o all’altro degli enti predetti. Tale domanda dà diritto alla
liquidazione di una sola prestazione previa totalizzazione dei contributi versati o accreditati presso
gli enti medesimi, cui fa seguito il trasferimento di tali contributi all’assicurazione che eroga la
prestazione.
Il criterio secondo il quale viene stabilita la competenza ad erogare la prestazione è quello
della prevalenza contributiva; pertanto sarà l’ente presso cui sono stati accreditati il maggior
numero di contributi utili per il diritto alla pensione ad erogare la pensione richiesta. La prevalenza
contributiva viene determinata dal rapporto dei requisiti pensionistici Inps ed Enpals.
In tutti i casi la competenza di cui sopra è attribuita all’Enpals qualora l’assicurato possa far
valere presso tale ente i requisiti previsti per il diritto alla prestazione richiesta con la sola
contribuzione Enpals.
La competenza è assegnata, comunque, all’Enpals per le particolari disposizioni vigenti per le
pensioni agli sportivi professionisti.
Quando la competenza a decidere la domanda di pensione è attribuita all’Enpals, l’Inps
trasferisce i contributi versati all’assicurazione generale obbligatoria per l’invalidità, vecchiaia e
superstiti, con la maggiorazione degli interessi. Viceversa qualora la competenza a decidere la
domanda di pensione, è attribuita all’Inps, l’Enpals trasferisce i contributi versati ed accreditati ,
con la maggiorazione degli interessi composti.
La legge n.45/90 e la l.n.29 del 1979, costituiscono un passo avanti notevole per la tutela dei
calciatori, in un momento in cui è in corso una fase di mobilità strutturale: gli ultimi anni si sono
caratterizzati per frequenti fenomeni di mobilità sia all’interno del mondo del lavoro subordinato sia
tra forme di lavoro dipendente ed attività libero professionale. La normativa citata elimina anche
gran parte dei motivi di disagio nei casi di interruzione dell’iscrizione del calciatore all’Enpals
prima del raggiungimento dell’età pensionabile ( ed il calciatore, con una “vita professionale”
DOTTRINA
Profili generali della tutela previdenziale…
media di 8/10 anni, difficilmente raggiunge all’Enpals il requisito dei 20 anni di contributi necessari
per il diritto alla pensione).
Con riferimento alla circolarità degli sportivi professionisti ( e non solo) occorre evidenziare
la possibilità di totalizzazione dei periodi assicurativi. Infatti, ai sensi della l.23.12.2000 n.388, così
come modificata dalla l.n.243/2004, al lavoratore che non abbia maturato il diritto a pensione in
alcuna delle forme pensionistiche a carico dell’assicurazione generale obbligatoria e delle forme
sostitutive, esclusive della medesima, nonché delle forme pensionistiche gestite dagli enti di cui al
d.lgs. n.509 del 1994, è data facoltà di utilizzare cumulandoli per il perfezionamento dei requisiti
per il conseguimento dei trattamenti pensionistici, i periodi assicurativi non coincidenti posseduti
presso le diverse gestioni, qualora tali periodi separatamente considerati, non soddisfino i requisiti
minimi stabiliti dagli ordinamenti delle singole gestioni (si rinvia, comunque, al paragrafo
successivo, sugli effetti della totalizzazione e della ricongiunzione).
13. – Ricongiunzione e totalizzazione: nozione e differenze.
Ai fini del perfezionamento del diritto alle prestazioni previdenziali (ed in particolare della
pensione), la vigente normativa previdenziale prevede un periodo contributivo minimo, che varia a
secondo delle prestazioni. Tale periodo contributivo si può raggiungere anche sommando i periodi
di iscrizione ( e contribuzione) presso più enti previdenziali; infatti, è possibile cumulare tutti i
periodi contributivi “esistenti” presso diverse gestioni previdenziali al fine di ottenere un unico
trattamento pensionistico rapportato all’intera vita lavorativa.
Per “cumulare” e “riunire” tutti gli spezzoni contributivi delle diverse gestioni previdenziali,
sono previsti due strumenti37:
37
Sul tema della ricongiunzione e totalizzazione dei periodi assicurativi, di recente: G. Ferraro, La flessibilità
previdenziale nell’evoluzione del lavoro e delle professioni, Il diritto del lavoro, 2002, I, 365; L.Foglia, Il principio
comunitario della “totalizzazione dei periodi assicurativi e previdenziali” nella legge n.388/2000: verso una maggiore
flessibilità previdenziale, id., 2001, I, 221; E. Ghera, Sicurezza sociale e libera circolazione dei lavoratori: principi
fondamentali e soggetti, id., 1999,I, 121; P.Sandulli, Tecnica della totalizzazione e prestazioni di sicurezza sociale nelle
prospettive di revisione del Regolamento n.1048/71, ibid., 131; L.Cuzzocrea-A.Fiorenza, Normativa internazionale di
sicurezza sociale vincolante l’Italia, con particolare riferimento alla totalizzazione dei periodi assicurativi ai fini della
concessione delle prestazioni previdenziali, Prev. sociale, 1990, 925; A. Fiorenza, I diritti previdenziali dei lavoratori
migranti nella giurisprudenza della corte di giustizia delle comunità europee, Rivista di studi europei, 1970, 1, 60; A.
Sgroi, Tutela della posizione previdenziale del lavoratore migrante e ambito di applicazione dell’istituto della
totalizzazione, Riv. giur.lav. e prev. soc., 2003, II, 627; id., Trasferimento o cumulo dei contributi: modelli legislativi e
scrutini di costituzionalità, Giur. It., 2002, 1,I, 2031; L. Fascina, La parziale applicazione del principio della
totalizzazione dei periodi contributivi nell’ordinamento previdenziale italiano, Giur. Cost., 2002, 1584; P.Bozzao,
Totalizzazione dei periodi contributivi e adeguatezza della prestazione, Giur. It., 1999, 1,I, 2233; M.Siena,
DOTTRINA
Profili generali della tutela previdenziale…
a)
la ricongiunzione dei periodi assicurativi di cui alla l.n.29 del 1979 e n.45 del 1990;
b)
la totalizzazione dei periodi assicurativi, di cui al d.m. 7.2.2003, n.57 (ed ora del d.lgs.
n.42/2006).
La totalizzazione è, con la ricongiunzione, uno degli istituti del nostro ordinamento
previdenziale, che sono diretti ad agevolare l’utilizzazione integrale delle contribuzioni versate
presso enti (o gestioni) previdenziali diversi del nostro paese, oppure – nei casi regolati da fonti
dell’Unione europea (o internazionale) – anche di altri paesi – in dipendenza dello svolgimento di
lavori diversi oppure, rispettivamente, della loro prestazione nel territorio di paesi, parimenti
diversi, da parte dello stesso lavoratore – ai fini del diritto e della misura del trattamento
pensionistico.
A differenza della ricongiunzione – che consente la concentrazione di tutte le posizioni
contributive presso l’ente ( o la gestione), prevedibilmente destinato (o destinata) ad erogare la
pensione in base al proprio regime, all’uopo trasferendovi tutte le contribuzioni – la totalizzazione
si limita, tuttavia, a consentire soltanto il cumulo – in virtù di una sorta di finzione giuridica (fictio
iuris) – di tutte le contribuzioni versate in favore dello stesso lavoratore, ai fini del diritto e della
misura della pensione, appunto, mentre restano, presso ciascun ente o gestione, le contribuzioni –
che vi risultano versate – ed a loro carico – in base al criterio del pro rata – soltanto una quota di
pensione, in proporzione dell’anzianità assicurativa e contributiva, dal lavoratore maturata presso la
gestione medesima 38.
Il principio della totalizzazione ha trovato applicazione nel nostro ordinamento soltanto nei
casi per i quali risulta espressamente previsto39. La totalizzazione, quindi, non è principio generale
del nostro ordinamento; rappresenta, al contrario, una eccezione rispetto alla regola, che impone la
utilizzazione dei contributi ai fini delle prestazioni presso le stesse gestioni previdenziali nelle quali
sono versati.
La totalizzazione rappresenta uno strumento alternativo alla ricongiunzione, ed è incompatibile
con la stessa.
Ricongiunzione e totalizzazione: il difficile cammino verso la flessibilità previdenziale, Dir. e lavoro Marche, 2002,
331.
38
In termini Cass. 1 dicembre 2004 n.22558, Foro it., Rep. 2004, voce Previdenza sociale, n.1073..
Non è stata a suo tempo esercitata la delega che era stata conferita al Governo dall’art.35, comma 2, lettera c,
l.n.153/1969 per attuare il principio della pensione unica, determinandone la misura con la totalizzazione di tutti i
periodi coperti da contribuzione obbligatoria, volontaria e figurativa, mediante l’applicazione del principio del pro rata.
39
DOTTRINA
Profili generali della tutela previdenziale…
La ricongiunzione può essere gratuita,quando avviene “d’ufficio”, oppure onerosa, quando
avviene a “domanda”40.
La ricongiunzione è lo strumento che prevede il trasferimento presso una unica gestione
previdenziale delle diverse posizioni contributive, dietro versamento della c.d. riserva matematica.
Lo sportivo professionista titolare di pensione di vecchiaia ha diritto di ottenere la ricongiunzione
presso l’ente previdenziale categoriale, ai sensi della l.n.45 del 1990, dei periodi di contribuzione
accreditata in suo favore presso altre forme obbligatorie di previdenza per i lavoratori dipendenti o
autonomi41.
Con la ricongiunzione si ha, quindi, il trasferimento della contribuzione presso un unico ente,
e la pensione viene liquidata in base al coacervo di tutta la contribuzione acquisita, senza alcuna
limitazione per i “tipi” di pensione (quindi, la contribuzione ricongiunta, è utile anche per la
pensione di anzianità e invalidità).
La pensione spettante dopo il provvedimento di ricongiunzione ai sensi della l.n.45 del 1990,
deve essere calcolata sulla base di tutti gli anni ricongiunti anche se, per il pagamento degli oneri di
ricongiunzione, la cassa di previdenza ha accordato il beneficio della rateazione, e tale rateazione
non è ancora conclusa42: infatti, la ricongiunzione dei periodi assicurativi, ai sensi della l.n.45/90, è
operativa in tutta la sua portata già nel momento stesso in cui il richiedente accetta stabilmente, con
il pagamento dell’importo corrispondente ad almeno tre rate, il connesso onere economico, senza
che possa differenziarsi la situazione di chi paga in unica soluzione e di chi paga ratealmente43.
L’onere “sopportato” dal professionista per la ricongiunzione non è deducibile fiscalmente44.
La totalizzazione (che è sempre gratuita), invece, non comporta il trasferimento della
contribuzione da una gestione all’altra45. La totalizzazione comporta il computo virtuale di tutti i
40
Il Ministero del Tesoro, con circolare n.21 del 28 marzo 1981, ha precisato che se l’ammontare complessivo dei
contributi (per capitale e interessi) trasferito da una gestione all’altra, supera l’importo della riserva matematica dovuta
e relativa alla ricongiunzione onerosa (l.n.29 del 1979), l’eccedenza rimane in ogni caso acquisita all’amministrazione
accentrante; l’eccedenza non va, quindi, rimborsata agli interessati, e non va valutata come contribuzione ai fini
pensionistici.
41
Trib. Napoli 20 novembre 1998, Foro it., Rep.2000, voce Avvocato, n.199, ed in Prev. forense, 1999,4,83.
42
Conf. Cass. 13 dicembre 1999, n.13987, Foro it., 2000, I, 1203;; Trib. Milano 16 ottobre 1998, Foro it., 1999, I,
1357.
43
Cass. 14 settembre 2000, n.12142, id.,Rep.2001, voce Previdenza sociale, n.635.
44
Corte cost. 5 marzo 1999, n.61, Foro it., 2000, I, 217. Contra, Comm. Trib.centrale 15 luglio 1996, n.3813, id.,
Rep.1996, voce Redditi (imposte), n.315 (in cui si afferma che dalla scelta in favore della ricongiunzione, deriva
automaticamente e necessariamente l’obbligo il cui adempimento costituisce proprio quella “ottemperanza a
disposizioni di legge” che deve caratterizzare il versamento del contributo previdenziale perché esso possa essere
interamente deducibile ai fini irpef.
45
Cfr., L. Carbone, “Totalizzazione” (chi l’ha vista?), in Prev. forense, 2000, 2, 62; A. Daniele, La totalizzazione dei
periodi contributivi, Inf. Previdenziale, 2001, 672.
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Profili generali della tutela previdenziale…
contributi al solo fine del perfezionamento del diritto alla pensione presso i vari enti (il requisito
contributivo per il diritto a pensione, si perfeziona sulla base di tutti i periodi di contribuzione
esistenti nelle varie gestioni); la somma o totalizzazione è, quindi, fittizia, in quanto i contributi
rimangono nella gestione dove sono stati accreditati, cioè non vengono trasferiti.
Ciascun ente, poi, liquiderà, la pensione in base ai propri contributi ed alla propria normativa.
La misura della pensione viene commisurata ai contributi versati nelle varie gestioni e determinata
in “pro rata temporis”.
In ordine alle modalità di liquidazione della pensione di vecchiaia da totalizzazione, le
gestioni interessate, ciascuna per la parte di propria competenza, determinano il trattamento proquota secondo le regole del proprio ordinamento, vigente al momento della presentazione della
domanda.
Per quanto concerne la “giurisdizione” per le questioni in materia di ricongiunzione, sussiste
il difetto di giurisdizione del giudice amministrativo, a favore dell’autorità giudiziaria ordinaria
relativamente ai provvedimenti con i quali non venga accolta la richiesta di ricongiunzione 46.
In materia di “riparto” della giurisdizione relativamente alle controversie sulla
“ricongiunzione”, è devoluta alla giurisdizione esclusiva della Corte dei conti la controversia nella
quale la ricongiunzione pretesa ha, bensì, per oggetto il trasferimento di contributi versati ad una
cassa di previdenza professionale, ma in funzione della loro destinazione alla gestione previdenziale
competente ad erogare e liquidare una pensione a carico dello Stato, mentre spetta alla giurisdizione
del giudice ordinario, giudice del lavoro, la domanda avente ad oggetto la condanna, ad es. della
cassa di previdenza professionale, alla restituzione di contributi eventualmente non trasferibili
presso lo Stato, essendo tale controversia fondata su un petitum sostanziale individuabile
esclusivamente nel rapporto previdenziale intercorso col primo di detti enti ed assolutamente
estraneo al trattamento pensionistico erogabile dal secondo47.
Il mancato versamento, entro 60 giorni dalla ricezione della comunicazione della competente
gestione, dell’importo delle prime tre rate, in cui la gestione abbia suddiviso l’onere del lavoratore
interessato, comporta la rinuncia all’esercizio della facoltà di ricongiunzione prevista dagli artt. 1 e
2 della l.n.29/79 e non già la rinuncia solo al tipo di rateizzazione accordata all’interessato, che
potrebbe quindi ottenerne una successiva e diversa48.
46
47
48
Cons. Stato, sez. VI, 19 settembre 1988, n.1043, id., Rep.1989, voce Previdenza sociale, n.961.
v. Cass., sez.un., 10 maggio 2001, n.193, id., Rep.2001, voce Pensione, n.13.
Cass. 4 febbraio 1988, n.1182, id., Rep.1988, voce cit., n.991.
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14. – La”nuova” totalizzazione del decreto legislativo n. 42 del 2 febbraio 2006.
L’art.11 del d.l. 30.9.2005, n.203, convertito, con modificazioni, dalla l.2.12.2005, n.248
(“trasfuso” poi nell’art.8 del d.lgs. n.42 del 2006), prevede che ai fini della copertura finanziaria
derivanti dall’esercizio del criterio di delega di cui all’art.1, comma 2, lettera o), della l.23.8.2004,
n.243, è autorizzata la spesa di 160 milioni di euro annui a decorrere dall’anno 2006. Con tale
norma sono stati superati i problemi di copertura finanziaria del provvedimento, favorendo
l’approvazione del d.lgs. n.42 del 2.2.2006, di attuazione della delega conferita al Governo dalla
l.n.243/2004 in materia di totalizzazione.
Con il d.lgs. n. 42 del 2 febbraio 2006 (pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n.39 del 16.2.2006),
entrato in vigore dal 3 marzo 2006, (adottato in base all’art.1, comma 1, lett.d) l.n.243/2004), è stata
data attuazione a quanto prevede la l.n.243 del 2004 in materia di totalizzazione.
La “nuova” disciplina sulla totalizzazione di cui al d.lgs. n.42 del 2.2.2006, si applica a
decorrere dal 1 gennaio 200649.
In base al d.lgs. n.42/2006, il lavoratore può “totalizzare” i diversi periodi di iscrizione nelle
varie gestioni pensionistiche a condizione che :
-
abbia almeno 20 anni di contribuzione complessivi e 65 anni di età;
-
abbia 40 anni di contribuzione complessiva a prescindere dagli anni di età;
-
tutti i periodi da totalizzare abbiano una durata di almeno 6 anni.
La totalizzazione, a seguito del d.lgs. n.42/2006 è permessa anche se con il cumulo dei vari
anni di contribuzione non viene raggiunto il minimo contributivo in tutte le gestioni interessate alla
totalizzazione.
In base all’art.7 del citato decreto legislativo, l’art.71 della l.n.388 del 2000, ed il relativo
regolamento di attuazione emanato con il decreto ministeriale 7.2.2003 n.57, sono espressamente
abrogati (la disciplina abrogata, rimane comunque in vigore per le domande presentate prima
dell’entrata in vigore del d.lgs. n.42 del 2.2.2006, se più favorevole).
E’ stata razionalizzata la disciplina dell’istituto della totalizzazione, nel rispetto del precetto
della Corte costituzionale n.61/1999 ed in linea con i più recenti orientamenti europei; è stato così
ridisegnato l’istituto della totalizzazione con caratteristiche di maggiore flessibilità. Ed infatti il
49
Con riferimento alla previgente disciplina ed alle problematiche relative ai liberi professionisti, L. Carbone,
“Totalizzazione e ricongiunzione dei periodi assicurativi nella previdenza dei liberi professionisti, in Foro it., 2004, III,
609.
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Profili generali della tutela previdenziale…
d.lgs. n.42/2006 consente al lavoratore di ottenere un’unica pensione anche se ha svolto attività
diverse con iscrizione a più enti pensionistici
Sono state, così, abrogate le vigenti disposizioni che prevedono una totalizzazione limitata:
infatti, prima del d.lgs. n.42 del 2006, era possibile fare ricorso alla totalizzazione solo per le
pensioni di vecchiaia e inabilità, e non anche per la pensione di anzianità, e solo nel caso in cui
avendo versato contributi in più gestioni previdenziali, non si raggiungeva un diritto autonomo di
pensione in nessuna delle gestioni.
Anche dopo la nuova disciplina della totalizzazione, è possibile, comunque, ricongiungere la
propria posizione contributiva presso l’ultima gestione di appartenenza ai sensi della l.n.45 del
1990, corrispondendo la riserva matematica dovuta (anziché utilizzare l’istituto della
totalizzazione).
(*) Avvocato del Foro di Ascoli Piceno
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Sfruttamento dei diritti Tv criptati…
SFRUTTAMENTO
DEI DIRITTI
TV CRIPTATI :
UN SISTEMA DA RIDEFINIRE. PROBLEMATICHE,
CONTRADDIZIONI E SPEREQUAZIONI LEGATE
ALL’ ATTUALE SISTEMA DISTRIBUTIVO DEGLI INTROITI
di Alessio Rui (*)
Nel panorama calcistico italiano ed internazionale, gli ultimi anni sono stati caratterizzati da
un crescendo di interesse attorno al dibattito sulla vendita e sullo sfruttamento dei diritti
radiotelevisivi.
Tale interesse trova la sua motivazione nel fatto che gli addetti ai lavori hanno individuato
proprio nella vendita dei summenzionati diritti la fonte di introiti più cospicua e florida al fine di
rimpinguare le casse delle società calcistiche e, sequenzialmente, i guadagni di tutti coloro che
gravitano attorno al pianeta calcio. Purtroppo, però, nonostante il gran parlare su questo argomento,
il concetto di “diritti radiotelevisivi” appare al grande pubblico ancora misconosciuto, soprattutto
per ciò che concerne le modalità di vendita ed il sistema di divisione dei proventi che ne derivano.
Proprio il grande pubblico, andrebbe, pertanto, meglio erudito sui pericoli e sulle conseguenze di
una speculazione eccessiva, anche in virtù dell'avvicinarsi del momento in cui andranno rinegoziati
i contratti oggi vigenti.
Al fine di chiarire meglio l'ambito della nostra riflessione, chi scrive non può esimersi,
prima di addentrarsi nelle considerazioni di natura giuridico-economica, dall'indicare i confini tra le
varie tipologie di diritti mediatici legati al campionato di calcio italiano. La prima inevitabile
differenza è quella tra i diritti televisivi e radiofonici . Sullo sfruttamento di questi ultimi non
incentreremo la nostra attenzione, anche se ancorati ad un'idea romantica del calcio, duole
constatare come alcune storiche trasmissioni radiofoniche stiano subendo un'inevitabile
svalutazione a causa dell'avvento delle pay tv.
In merito allo sfruttamento dei diritti televisivi, sarà bene trattare in maniera differenziata la
categoria dei diritti in chiaro da quella dei diritti “criptati”, individuando con quest'ultima
terminologia il diritto d'esclusiva ad appannaggio delle cosidette emittenti a pagamento ( emittenti i
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Sfruttamento dei diritti Tv criptati…
cui programmi possono essere recepiti solo previa stipula di contratti ad hoc da parte dell'utente e
visibili solo a mezzo di piattaforme satellitari o digitale terrestre).
Per quanto riguarda il concetto di diritti “in chiaro”, trattasi, invece, della possibilità di
trasmettere eventi o spezzoni di evento da parte del servizio pubblico televisivo o delle emittenti
private siano esse a carattere nazionale (Mediaset, La 7, ecc...) o locale.
La nostra analisi si soffermerà prevalentemente sulle modalità di sfruttamento della vendita
dei diritti criptati. Tale scelta risulta dovuta alla luce dell'enorme flusso economico che essi
smuovono e delle svariate considerazioni di natura giuridica cui si presta il fenomeno che ne
consegue.
Prima di analizzare l'attuale situazione, sarà doveroso ricostruire una breve storia di quella
che è stata la genesi dello sfruttamento dei diritti televisivi criptati in Italia. A tal uopo, l'anno zero
andrà senza dubbio individuato nella data del 31 agosto 1993 ( I giornata della stagione 1993-1994),
quando, per la prima volta, una partita del massimo campionato di calcio venne trasmessa in diretta
da un'emittente a pagamento. La partita in questione fu Lazio-Foggia e l'importanza che tuttora
riveste quale spartiacque tra il vecchio ed il nuovo modo di gestire i diritti Tv è assai maggiore
rispetto allo spettacolo tecnico dato, nell'occasione, dalle squadre in campo.
L'emittente che potè fregiarsi di diffondere l'evento, allora denominata TELE+, offrì, per tre
anni, ad ogni giornata di campionato, una partita di serie A con orario posticipato ed una di serie B
anticipata al sabato.
Come si può notare, l'impatto della Pay Tv risultò da subito forte, inducendo gli organi
preposti a modificare gli orari canonici degli eventi calcistici, sino ad allora ritenuti “sacrali.”
Alla base dell'offerta di TELE+ vi era un accordo con la Lega Calcio che le aveva, previa
delega delle società appartenenti, ceduto i diritti e che ne avrebbe diviso i proventi in via eguale tra
le società di serie A e di serie B.
Come anticipato, tale sistema durò per tre anni, sino a quando, al termine della stagione
1995-1996, seguendo l'esempio di quanto accadeva in altri campionati nazionali, l'emittente a
pagamento acquistò dalla Lega Calcio anche i diritti relativi alle partite pomeridiane (per intendersi
quelle giocate di domenica pomeriggio).
Si trattava di un ulteriore quanto importante salto in avanti, poiché la Lega permetteva,
seppur a suon di quattrini, di dare in diretta le immagini relative a partite che si giocavano in
contemporanea tra loro.
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Sfruttamento dei diritti Tv criptati…
Il sistema di vendita di tali diritti era strutturato in maniera tale da consentire a chiunque ne
avesse interesse di vedere tutte le partite di una squadra, (solitamente la squadra del cuore),
rimanendo, comunque, in atto la messa in onda di un posticipo serale.
Anche in questo caso, la Lega vendette i diritti a TELE+ con il medesimo sistema di
ripartizione dei proventi.
Rispetto all'accordo del 93, i soldi incassati dalla Lega aumentarono a dismisura e le società
poterono così contare su una nuova ed importantissima fonte di introiti, null'importando loro la
diminuzione di pubblico negli stadi che, complice la visione in TV, diventava inevitabile.
Vi fu un proliferare di esercizi pubblici ove la gente che non poteva contare sull'utenza
satellitare domestica si riuniva per seguire le gesta della squadra del cuore, con grave e sequenziale
calo di spettatori per i campionati dilettantistici ove erano soliti recarsi gli appassionati
impossibilitati a seguire dal vivo le gare di A e B.
Contestualmente, vi fu, come da malcostume italiano, un proliferare di schede contraffatte
comunemente denominate “pirata” che permettevano la visione delle gare evitando di sottoscrivere
gli abbonamenti con la Pay Tv. Così facendo, i costi del servizio rimasero molto più alti rispetto a
quanto succedeva all'estero. Chi utilizzava i sistemi illegali, da parte sua, si difendeva sostenendo
che lo faceva proprio per aggirare l'esosità di tali costi. Insomma un circolo vizioso da cui si è usciti
solo da un paio d'anni con la creazione di sistemi satellitari e digitali non riproducibili illegalmente.
Di questo passo si arrivò al termine della stagione 1998-1999, quando due nuovi ed
importantissimi elementi si apprestavano a modificare radicalmente il panorama relativo allo
sfruttamento dei diritti
in Italia
In primo luogo vi fu l'esigenza (per motivi di anti-trust) che le piattaforme satellitari
risultassero più d'una, al fine di evitare una posizione di monopolio in capo a TELE+. Nacque così
STREAM, alla quale vendettero i loro diritti sette società della nostra serie A.. Questa circostanza ci
introduce da sola al secondo fatto nuovo: la vendita dei diritti non avvenne più da parte della Lega
Calcio ma ogni società veniva lasciata libera di negoziare la trattativa singolarmente per quanto
riguarda le partite da giocarsi in casa.
A corollario di tali importanti novità si aggiunse la circostanza secondo cui al tifoso veniva
concesso di acquistare solo le partite a cui era interessato, senza dover obbligatoriamente
sottoscrivere l'abbonamento per un numero plurimo di matchs.
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Sfruttamento dei diritti Tv criptati…
L'effetto più importante di tale innovazione fu che ogni società potè contare sui proventi
direttamente derivanti dal proprio contratto di vendita e non più dalla eguale divisione degli introiti
provenienti dalla vendita collettiva.
Si sviluppò, così, il concetto di “contrattazione e vendita singola dei diritti” da parte di ogni
società. In tal modo aumentò la sperequazione tra i clubs con maggior numero di tifosi e le piccolemedie squadre, costrette, queste ultime, a negoziare la vendita dei diritti relativi alle proprie
prestazioni casalinghe su cifre nettamente inferiori.
Nonostante qualche cambiamento, primo fra tutti la non comunanza degli orari di inizio
delle gare, dovuta vieppiù anche ad impegni per competizioni internazionali, il sistema attualmente
in vigore è ancorato tuttora alla negoziazione singola, ad appannaggio di ogni società.
Nel frattempo, anche a causa della sproporzione tra i costi sostenuti e gli incassi accumulati,
nel 2003, STREAM e TELE+ davano vita ad una fusione da cui nasceva l'attuale SKY. Al fine di
non creare una situazione di monopolio in capo a quest'ultima veniva creata, a sua volta, all'inizio
della stagione 2002 / 2003, una nuova piattaforma denominata “GIUOCO CALCIO” destinata a
scomparire solo dopo pochi mesi, incapace di rispettare le scadenze relative ai pagamenti da
corrispondere.
Ciò che a noi interessa, prima ancora di addentrarci nelle riflessioni di stampo economico, è
capire se un sistema di vendita quale è quello oggi in vigore abbia da considerarsi legittimo.
Per far ciò, non possiamo non partire dal concetto di contratto di vendita. L'art.1470 c.c.
descrive quest'ultima come il contratto che ha per oggetto il trasferimento della proprietà di una
cosa o di un altro diritto, verso il corrispettivo di un prezzo. Conseguentemente, a prescindere dalla
natura dell'oggetto, la vendita sottintende il passaggio del diritto di proprietà.
Ad avviso di chi scrive, tale diritto non può che spettare alla Lega Calcio in qualità di
creatrice nonché organizzatrice di un evento ( campionato di calcio) del quale le singole partite
rivestono il carattere di “sottoevento”, essendo tutte finalizzate al compimento di un torneo che
vede la partecipazione di tutte le squadre per lo stesso numero di partite.
A contrario, siamo d'accordo sulla negoziazione singola nel caso di partite amichevoli o di
eventi non direttamente dipendenti da un ente organizzatore.
A suffragio di quanto poc'anzi esposto, ci giunge l'esempio del sistema in vigore negli altri
Paesi calcisticamente evoluti (Spagna a parte, sulla quale torneremo nelle more della riflessione),
ove la vendita collettiva non viene assolutamente posta in discussione.
DOTTRINA
Sfruttamento dei diritti Tv criptati…
Ci si chiede, allora, perché in Italia viga un sistema diverso. Le risposte potrebbero essere
molteplici; in realtà, nella speranza di non apparire faziosi, riteniamo che il motivo principale sia di
natura prettamente economica.
Inutile negare che la vendita collettiva, con equa ripartizione degli introiti, sia stata
osteggiata dai clubs economicamente più forti e, quindi, più influenti. Attualmente, il campionato
italiano di serie A vede tre società percepire emolumenti enormemente più alti rispetto alle altre.
Ovviamente, stiamo parlando dei clubs con maggior numero di tifosi e con maggior appeal per le
emittenti televisive, tanto da indurre queste ultime a ricoprirli di danaro, creando un'enorme
sperequazione tra le casse di questi e quelle delle rimanenti società.
Insomma, per chiarire gli aspetti della vicenda: alle società che già risultano più forti
economicamente viene dato un enorme e formidabile “vantaggio”, garantendo centinaia di milioni
di Euro (tramite PAY TV, digitale terrestre e telefonia mobile) in più rispetto agli avversari.
A chi, come noi, si permette di evidenziare tale sperequazione, i rappresentanti dei suddetti
clubs replicano che la maggior parte dei tifosi appassionati di calcio ha a cuore le gesta della propria
squadra ed è la presenza delle squadre con maggior seguito a smuovere i grandi flussi di audience
televisivo. Se, come già anticipato, tale argomentazione poco convince da un punto giuridico, men
che meno potrà affascinare da un punto di vista etico. Vero è che la maggior parte degli appassionati
concentra le proprie simpatie nei confronti delle squadre blasonate, ma altrettanto vero è che la
peculiarità del campionato sta nell'affrontare una squadra diversa ad ogni giornata. Insomma: siamo
proprio sicuri che se, per ipotesi, Milan e Juventus si affrontassero ogni domenica, la loro sfida non
perderebbe in quanto a fascino?
Si aggiunga che, da un punto di vista strettamente calcistico, il sistema attualmente in vigore
ha prodotto un ulteriore gap tra le grandi e le medio piccole squadre, dilatando, di pari passo alla
distanza economica, anche quella tecnica che ne è direttamente connessa.
A tali osservazioni, già portate più volte alla ribalta da fonti ben più autorevoli, le maggiori
società ribattono con una sorta di “terrorismo psicologico” minacciando, in caso di ritorno alla
divisione equa, di staccarsi dalla Lega Calcio e di avviare la procedura per la creazione di un
campionato europeo per Clubs sullo stile di quanto avvenuto nel Basket.
Chi scrive, e con lui molti altri appassionati ed esperti, non è convinto dell'efficacia di tale
“minaccia” per due importanti aspetti.
In primo luogo, perchè alla base del fenomeno calcio vi è e vi sarà sempre l'interesse per le
vicende del campionato nazionale ed, in seconda battuta, perchè con il sistema attuale, le grandi
DOTTRINA
Sfruttamento dei diritti Tv criptati…
squadre possono contare su una doppia fonte di introiti rappresentata dai diritti relativi al
Campionato nazionale e da quelli della Champions League.
Ad ogni modo, come già anticipato, in quasi tutti i paesi calcisticamente evoluti il sistema di
vendita e ripartizione in vigore da noi non viene nemmeno preso in considerazione.
A fare eccezione è solo la Spagna dove, però, al fine di “convincere” le piccole squadre ad
accettare la contrattazione singola, è stata fatta loro un'importantissima “concessione” quale quella
di istituire il sorteggio arbitrale integrale che ha dato la possibilità a squadre come Deportivo,
Valencia, Villareal, Osasuna, Real Sociedad, di occupare con discreta continuità le zone più alte
della classifica, interrompendo l'annoso duopolio Barcellona-Real Madrid.
Tornando al contesto italiano, coloro i quali auspicano un ritorno alla contrattazione
collettiva, da qualche giorno possono contare su un elemento in più, ovvero il recentissimo
intervento dell'Antitrust che si è pronunciata a favore dell'antico sistema o di una modifica a quello
attuale, tale da calmierare il gap esistente a livello economico, di cui si è dibattuto in precedenza.
Non potrà essere taciuto nemmeno l'atteggiamento di scarsa coerenza delle più importanti
società del nostro Paese che nel contesto italiano osteggiano un ritorno all'antico sistema ma,
contestualmente, sono d'accordo affinchè quel sistema di distribuzione permanga durante la fase a
gironi della Champions League. Il perchè di tale “strano”atteggiamento è presto spiegato.
Se in Italia i tre clubs più importanti possono spartirsi la maggior parte degli introiti, in
Europa vi sono società ( Real Madrid su tutte) con un appeal maggiore delle nostre che
permetterebbe loro, qualora si seguisse il sistema in vigore da noi, di ottenere guadagni superiori ai
nostri clubs.
Sui pericoli connessi all'attuale sistema di ripartizione è intervenuto, durante l'estate del
2004, perfino il Presidente della Repubblica, evidenziando i propri timori per le conseguenze cui
potrebbe portare un'eccessiva speculazione da parte delle società più influenti.
Nell'occasione, chi di dovere ha preferito non raccogliere l'appello della massima carica
istuzionale ma una nuova linfa sulla strada del cambiamento è stata data da nuovi personaggi entrati
da poco nel mondo del calcio che, sorpresi dal sistema di “sottili ricatti” e dall'eccesiva influenza
dei clubs e, soprattutto, dei dirigenti più importanti, ha portato alla luce il problema, trovando degli
importanti alleati soprattutto tra i rappresentanti delle piccole squadre. Così facendo, passando per
la creazione di un consorzio, un buon numero di società è riuscito a far fronte comune avverso le
speculazioni delle grandi, ottenendo un risultato impensabile fino a poco tempo fa quale
DOTTRINA
Sfruttamento dei diritti Tv criptati…
l'assegnazione al Vicepresidente di Lega (rappresentante di tale consorzio) di una serie di poteri atti
a ridimensionare, se non addirittura bloccare, l'esecutività negli atti dell'attuale Presidente.
Ora, si attende con curiosità di vedere come verrà gestita questa “patata bollente” al
momento di rinegoziare i contratti televisivi ma è un dato di fatto che in Lega Calcio si respiri
un'aria nuova.
Chi legge potrebbe essere, a questo punto, tentato di chiedersi perchè, a fronte di poche
squadre che si spartiscono la parte maggiore degli introiti, gran parte dei rappresentanti in Lega
abbia accettato l'attuale sistema.
In realtà, all'inizio anche i clubs più piccoli hanno un visto un vantaggio perchè l'entità degli
importi a loro spettanti era maggiore di quella che sarebbe stata dividendo quanto ottenuto da una
contrattazione collettiva.
Alla luce dei fatti, però, l'aumento dei loro proventi si è rilevato infinitesimamente inferiore
rispetto a quello toccato ai clubs più blasonati, e il gap che ne è derivato ha reso la vita delle piccole
medio squadre ancor più dura, nonostante un aumento degli introiti. (Per intendersi; se sono
abituato a ricevere 10 ed, improvvisamente mi viene dato 11 dovrei essere contento ma se il mio
antagonista da 10 passa a 30 va da sé che mi era più conveniente il sistema precedente.)
Chi scrive ritiene che lo “scontro a muso duro” tra le opposte fazioni non possa produrre
nulla di proficuo: allo stesso tempo, però, non sarà semplice accordarsi sul sistema di distribuzione
da adottare nel momento in cui dovranno essere rinegoziati i contratti.
Qualora fosse davvero impossibile tornare all'antico, ci permettiamo di indicare un paio di
strade percorribili: in primo luogo, si potrebbe valutare la possibilità di porre dei limiti sul
compenso spettante ad una singola società, rapportato alla somma incassata complessivamente. Per
esempio: nessuna società dovrebbe poter contare su una somma superiore del 50% rispetto alla
complessità degli introiti. Alternativamente, si potrebbe pensare ad un sistema in cui i proventi
derivanti dalla contrattazione singola vadano in parte alla società che li ha negoziati ed in parte a far
cassa comune, da dividere egualmente. (ciò che succederebbe se una squadra trattenesse per sé il
50% di quanto percepito e versasse il 50% nelle casse comuni della Lega dove andrebbe ad
accomunarsi al 50% delle altre squadre, da dividersi in termini eguali).
Queste sono idee che ci permettiamo di suggerire al fine di prevenire un duro scontro tra le
opposte fazioni che andrebbe solo a detrimento del calico italiano. Bisognerà, peraltro, tenere
presente come le offerte risulteranno economicamente inferiori rispetto a quelle che diedero vita ai
DOTTRINA
Sfruttamento dei diritti Tv criptati…
contratti oggi vigenti e come si siano moltiplicati i mezzi di visione attualmente disponibili, stante
l'avvento del digitale terrestre e della telefonia mobile.
Insomma, trattasi di un panorama in continua evoluzione, all'interno del quale,
presumibilmente, sarà impossibile indicare un unico sistema di sfruttamento da considerarsi valido
a prescindere.
Sarà necessario valutare, di volta, in volta il momento storico-calcistico-economico per
indicare la strada da seguire e studiare dei sistemi di pagamento rateale da parte delle emittenti, in
modo tale da fronteggiare la pressione economica senza troppi affanni, considerato come il danaro
dalle stesse versato risulti, oggigiorno, la forma di guadagno più ingente su cui contare da parte
delle nostre società e come tale da assicurarsi nella maniera più affidabile per i tempi a venire.
(*) Avvocato del Foro di Venezia
DOTTRINA
PARTE SECONDA
NOTE A SENTENZA
SOMMARIO:
GIUSEPPE GLIATTA , La sentenza Simutenkov: una applicazione
dell’effetto Bosman agli accordi di partenariato della comunità
pag.95
La sentenza Simutenkov
SENTENZA DELLA CORTE (Grande Sezione)
12 aprile 2005 (*)
«Accordo di partenariato Comunità-Russia – Art. 23, n. 1 – Effetto diretto – Condizioni di
lavoro – Principio di non discriminazione – Calcio – Limitazione del numero di giocatori
professionisti cittadini di Stati terzi che possono essere schierati in una squadra in una competizione
nazionale»
Nel procedimento C-265/03,
avente ad oggetto la domanda di pronuncia pregiudiziale proposta alla Corte, ai sensi
dell’art. 234 CE, dall’Audiencia Nacional (Spagna) con decisione 9 maggio 2003, pervenuta in
cancelleria il 17 giugno 2003, nel procedimento
Igor Simutenkov
contro
Ministerio de Educación y Cultura,
Real Federación Española de Fútbol,
LA CORTE (Grande Sezione),
composta dai sigg. V. Skouris, presidente, P. Jann, C.W.A. Timmermans e A. Rosas, presidenti di
sezione, C. Gulmann, A. La Pergola, J.-P. Puissochet, J. Makarczyk, P. Kūris, M. Ilešič (relatore), U.
Lõhmus, E. Levits e A. Ó Caoimh, giudici,
avvocato generale: sig.ra C. Stix-Hackl
cancelliere: sig. R. Grass
vista la fase scritta del procedimento,
viste le osservazioni scritte presentate:
–
per il sig. Simutenkov, dal sig. Álvarez de la Rosa, abogado, e dalla sig.ra F. Toledo
Hontiyuelo, procuradora;
–
per la Real Federación Española de Fútbol, dai sigg. J. Fraile Quinzaños, abogado, e J.
Villasante García, procurador;
–
per il governo spagnolo, dal sig. E. Braquehais Conesa, in qualità di agente;
NOTE a SENTENZA
La sentenza Simutenkov
–
per la Commissione delle Comunità europee, dai sigg. F. Hoffmeister e D. Martin, e dalla
sig.ra I. Martínez del Peral, in qualità di agenti,
sentite le conclusioni dell’avvocato generale, presentate all’udienza dell’11 gennaio 2005,
ha pronunciato la seguente
Sentenza
1
La domanda di pronuncia pregiudiziale verte sull’interpretazione dell’art. 23, n. 1,
dell’accordo di partenariato e di cooperazione che istituisce un partenariato tra le Comunità europee
e i loro Stati membri, da una parte, e la Federazione russa, dall’altra, sottoscritto a Corfù il 24
giugno 1994 e approvato a nome delle Comunità con decisione del Consiglio e della Commissione
30 ottobre 1997, 97/800/CECA, CE, Euratom (GU L 327, pag. 1; in prosieguo: l’«accordo di
partenariato Comunità-Russia»).
2
Tale domanda è stata presentata nel contesto di una controversia tra il sig. Simutenkov, da
un lato, e il Ministerio de Educación y Cultura (Ministero della Pubblica Istruzione e della Cultura)
e la Real Federación Española de Fútbol (Federazione spagnola di calcio; in prosieguo: la «RFEF»)
in ordine ad un regolamento sportivo che limita il numero di giocatori di Stati terzi che possono
essere schierati in competizioni nazionali.
Contesto normativo
3
L’accordo di partenariato Comunità-Russia è entrato in vigore il 1° dicembre 1997.
L’art. 23, n. 1, che figura nel titolo IV dell’accordo stesso, intitolato «Disposizioni riguardanti le
attività commerciali e gli investimenti», all’interno del capitolo I, a sua volta intitolato «Condizioni
di lavoro», così dispone:
«Conformemente alle leggi, condizioni e procedure applicabili in ciascuno Stato membro, la
Comunità e i suoi Stati membri evitano che i cittadini russi legalmente impiegati sul territorio di
uno Stato membro siano oggetto, rispetto ai loro cittadini, di discriminazioni basate sulla nazionalità
per quanto riguarda le condizioni di lavoro, di retribuzione o di licenziamento».
4
L’art. 27 dell’accordo di partenariato Comunità-Russia recita quanto segue:
«Il consiglio di cooperazione formula raccomandazioni per l’applicazione degli articoli 23 e
26».
5
L’art. 48 dell’accordo di partenariato Comunità-Russia, che figura all’interno dello stesso
titolo IV, così recita:
NOTE a SENTENZA
La sentenza Simutenkov
«Ai fini del presente titolo, nessuno dei suoi elementi vieta alle parti di applicare le rispettive
leggi e normative in materia di ingresso e soggiorno, occupazione, condizioni di lavoro e di
stabilimento delle persone fisiche e fornitura di servizi, purché non le applichino in modo da
vanificare o compromettere i vantaggi risultanti per una delle parti da una disposizione specifica
dell’accordo (…)».
Controversia nella causa principale e questione pregiudiziale
6
Il sig. Simutenkov è un cittadino russo che, all’epoca dei fatti della controversia nella
causa principale, risiedeva in Spagna, ove era in possesso di un permesso di soggiorno e di un
permesso di lavoro. Essendo stato assunto come calciatore professionista in forza di un contratto di
lavoro concluso con il Club Deportivo Tenerife, era in possesso di una licenza federale come
giocatore non comunitario.
7
Nel mese di gennaio del 2001 il sig. Simutenkov ha presentato, con l’intermediazione di
tale club, una domanda alla RFEF, affinché questa sostituisse la licenza federale di cui era titolare
con una licenza identica a quella di cui dispongono i giocatori comunitari. A sostegno di tale
domanda invocava l’accordo di partenariato Comunità-Russia.
8
Con decisione 19 gennaio 2001, la RFEF ha respinto tale domanda in applicazione del suo
regolamento generale e dell’accordo concluso il 28 maggio 1999 con la lega nazionale di calcio
professionistico (in prosieguo: l’«accordo del 28 maggio 1999»).
9
Ai sensi dell’art. 129 del regolamento generale della RFEF, la licenza di calciatore
professionista è un documento rilasciato da tale Federazione che consente la pratica di tale sport
come associato ad essa e di essere schierato in partite e competizioni ufficiali come calciatore
appartenente a una determinata squadra.
10
L’art. 173 dello stesso regolamento generale così dispone:
«Costituisce requisito generale che devono soddisfare i calciatori per iscriversi e ottenere la
licenza come professionisti, salvo le deroghe che prevede il presente regolamento, possedere la
cittadinanza spagnola o quella di uno degli altri paesi che costituiscono l’Unione europea o lo
Spazio economico europeo».
11
L’art. 176, n. 1, del citato regolamento generale prevede quanto segue:
«1. Le squadre iscritte a competizioni ufficiali di ambito nazionale e a carattere professionistico
possono iscrivere calciatori stranieri non comunitari nel numero che viene stabilito negli accordi
conclusi al riguardo tra la RFEF, la lega nazionale di calcio professionistico e l’associazione dei
NOTE a SENTENZA
La sentenza Simutenkov
calciatori spagnoli, nei quali viene disciplinato, inoltre, il numero di calciatori di quella categoria
che possono giocare contemporaneamente.
(...)».
12
Ai sensi dell’accordo del 28 maggio 1999, il numero di giocatori non cittadini degli Stati
membri che possono essere contemporaneamente schierati in campo per la prima divisione è
limitato a tre per le stagioni 2000/2001 - 2004/2005 e, per quanto riguarda la seconda divisione, a
tre per le stagioni 2000/2001 - 2001/2002 e a due per le tre stagioni successive.
13
Ritenendo che la distinzione tracciata da tale regolamentazione tra i cittadini di uno Stato
membro dell’Unione europea o dello Spazio economico europeo (in prosieguo: «SEE») e i cittadini
di Stati terzi fosse, in relazione ai giocatori russi, incompatibile con l’art. 23, n. 1, dell’accordo di
partenariato Comunità-Russia e che limitasse l’esercizio della sua professione, il sig. Simutenkov ha
presentato ricorso dinanzi al Juzgado Central de lo Contencioso-Administrativo (Tribunale
amministrativo) contro la decisione 19 gennaio 2001, che respingeva la sua domanda di nuova
licenza.
14
Poiché tale ricorso è stato respinto con decisione 22 ottobre 2002, il sig. Simutenkov ha
presentato appello contro di essa dinanzi all’Audiencia Nacional (Tribunale competente per l’intero
territorio in determinati ambiti penali, amministrativi e della legislazione sociale), che ha deciso di
sospendere il giudizio e di sottoporre alla Corte la seguente questione pregiudiziale:
«Se l’art. 23 dell’accordo di partenariato [Comunità-Russia] osti a che una federazione sportiva
applichi ad un atleta professionista cittadino russo come quello della causa principale, regolarmente
impiegato da una società calcistica spagnola, una normativa in forza della quale le società possono
utilizzare nelle competizioni in ambito nazionale solo un numero limitato di calciatori provenienti
da Stati terzi non appartenenti allo Spazio economico europeo».
Sulla questione pregiudiziale
15
Mediante la sua questione, il giudice del rinvio chiede se l’art. 23, n. 1, dell’accordo di
partenariato Comunità-Russia debba essere interpretato nel senso che osta all’applicazione ad un
atleta professionista di cittadinanza russa, regolarmente impiegato da una società con sede in uno
Stato membro, di una norma dettata dalla federazione sportiva dello stesso Stato ai sensi della quale
le società sono autorizzate a schierare in campo, nelle competizioni organizzate su scala nazionale,
solo un numero limitato di giocatori originari di Stati terzi che non sono parti all’accordo SEE.
NOTE a SENTENZA
La sentenza Simutenkov
16
Il sig. Simutenkov e la Commissione delle Comunità europee sostengono che l’art. 23,
n. 1, dell’accordo di partenariato Comunità-Russia osta ad una norma quale quella contenuta
nell’accordo del 28 maggio 1999.
17
La RFEF, al contrario, a sostegno della sua posizione invoca l’espressione
«[c]onformemente alle leggi, condizioni e procedure applicabili in ciascuno Stato membro», che
figura all’inizio del citato art. 23, n. 1. Da tale riserva deduce che la competenza attribuitale dalla
legge di rilasciare le licenze ai calciatori e la regolamentazione sportiva da essa adottata devono
applicarsi in via preferenziale rispetto al principio di non discriminazione enunciato dalla stessa
disposizione. Sostiene altresì che il rilascio di una licenza e le regole ad esso afferenti rientrano
nell’ambito dell’organizzazione delle competizioni e non riguardano le condizioni di lavoro.
18
Il governo spagnolo, dal canto suo, fa proprie le osservazioni della RFEF, sostenendo in
particolare che, in virtù della regolamentazione nazionale e della giurisprudenza che la interpreta, la
licenza federale non rientra tra le condizioni di lavoro, ma costituisce un’autorizzazione
amministrativa che funge da abilitazione per la partecipazione alle competizioni sportive.
19
Al fine di rispondere utilmente alla questione proposta, occorre verificare in primo luogo
se l’art. 23, n. 1, dell’accordo di partenariato Comunità-Russia possa essere invocato da un privato
dinanzi ai giudici di uno Stato membro e, in secondo luogo, in caso di risposta affermativa,
determinare la portata del principio di non discriminazione enunciato da quella norma.
Sull’effetto diretto dell’art. 23, n. 1, dell’accordo di partenariato Comunità-Russia
20
Si deve rilevare che, poiché la questione dell’effetto delle disposizioni dell’accordo di
partenariato Comunità-Russia nell’ordinamento giuridico delle parti a tale accordo (in prosieguo: le
«parti») non è stato da questo disciplinato, spetta alla Corte risolverla, al pari di qualunque altra
questione d’interpretazione relativa all’applicazione di accordi nella Comunità (sentenza 23
novembre 1999, causa C-149/96, Portogallo/Consiglio, Racc. pag. I-8395, punto 34).
21
A questo proposito occorre ricordare che, secondo una giurisprudenza costante, una
disposizione di un accordo concluso dalle Comunità con paesi terzi dev’essere considerata
direttamente applicabile quando, avuto riguardo alla sua lettera, nonché all’oggetto e alla natura
dell’accordo, stabilisce un obbligo chiaro e preciso che non è subordinato, nel suo adempimento o
nei suoi effetti, all’intervento di alcun atto ulteriore (sentenze 27 settembre 2001, causa C-63/99,
Gloszczuk, Racc. pag. I-6369, punto 30, e 8 maggio 2003, causa C-171/01, Wählergruppe
Gemeinsam, Racc. pag. I-4301, punto 54).
NOTE a SENTENZA
La sentenza Simutenkov
22
Dalla lettera dell’art. 23, n. 1, dell’accordo di partenariato Comunità-Russia risulta che tale
disposizione sancisce, in termini chiari, precisi e incondizionati, il divieto per ciascuno Stato
membro di assoggettare a trattamento discriminatorio rispetto ai propri cittadini, a causa della loro
cittadinanza, i lavoratori russi, per quel che concerne le loro condizioni di lavoro, di retribuzione o
di licenziamento. I lavoratori che beneficiano della detta disposizione sono quelli di cittadinanza
russa legalmente impiegati nel territorio di uno Stato membro.
23
Tale principio di parità di trattamento detta un obbligo di risultato preciso e, per sua stessa
natura, può esser fatto valere da un amministrato dinanzi all’autorità giudiziaria nazionale, affinché
questa disapplichi le disposizioni discriminatorie, senza che risulti necessaria a tal fine l’adozione di
misure di applicazione integrative (sentenze 29 gennaio 2002, causa C-162/00, PokrzeptowiczMeyer, Racc. pag. I-1049, punto 22, e Wählergruppe Gemeinsam, cit., punto 58).
24
Quest’interpretazione non è rimessa in discussione dall’espressione «[c]onformemente alle
leggi, condizioni e procedure applicabili in ciascuno Stato membro» che figura all’inizio del citato
art. 23, n. 1, dell’accordo di partenariato Comunità-Russia, né dall’art. 48 dello stesso. Infatti, tali
disposizioni non possono essere interpretate nel senso che consentono agli Stati membri di limitare
discrezionalmente l’applicazione del principio di non discriminazione enunciato al detto art. 23,
n. 1, in quanto un’interpretazione del genere condurrebbe ad uno svuotamento di contenuto di tale
disposizione, privandola così di ogni effetto utile (sentenze Pokrzeptowicz-Meyer, cit., punti 23 e
24, e 8 maggio 2003, causa C-438/00, Deutscher Handballbund, Racc. pag. I-4135, punto 29).
25
Né l’art. 27 dell’accordo di partenariato Comunità-Russia osta a un effetto diretto
dell’art. 23, n. 1, dello stesso. Infatti, il fatto che tale art. 27 preveda che l’applicazione dell’art. 23
sia effettuata sulla base di raccomandazioni del consiglio di cooperazione non subordina
l’applicabilità di quest’ultima norma, nella sua esecuzione o nei suoi effetti, all’intervento di un atto
ulteriore. Il ruolo che il detto art. 27 attribuisce a quel consiglio consiste nel facilitare il rispetto del
divieto di discriminazione, ma non si può considerare che ne limiti l’applicazione immediata (v., a
questo proposito, sentenze 31 gennaio 1991, causa C-18/90, Kziber, Racc. pag. I-199, punto 19, e 4
maggio 1999, causa C-262/96, Sürül, Racc. pag. I-2685, punto 66).
26
La constatazione che il principio di non discriminazione enunciato all’art. 23, n. 1,
dell’accordo di partenariato Comunità-Russia ha un effetto diretto non è contraddetta, del resto,
dall’oggetto e dalla natura di quest’ultimo.
27
Secondo l’art. 1 del detto accordo, questo ha l’obiettivo di istituire un partenariato tra le
parti volto a promuovere, in particolare, lo sviluppo di strette relazioni politiche tra le parti, di
NOTE a SENTENZA
La sentenza Simutenkov
scambi e di armoniose relazioni economiche tra di loro, della libertà in materia politica ed
economica, nonché la realizzazione della progressiva integrazione tra la Federazione russa e una più
ampia zona di cooperazione in Europa.
28
Il fatto che l’accordo si limiti in questo modo all’istituzione di un partenariato tra le parti,
senza prevedere un’associazione o una futura adesione della Federazione russa alle Comunità, non è
tale da impedire l’effetto diretto di alcune delle sue disposizioni. Risulta infatti dalla giurisprudenza
della Corte che, quando un accordo istituisce una cooperazione tra le parti, talune disposizioni in
esso contenute possono disciplinare, alle condizioni ricordate al punto 21 della presente sentenza,
direttamente la situazione giuridica dei privati (v. sentenze Kziber, cit., punto 21; 15 gennaio 1998,
causa C-113/97, Babahenini, Racc. pag. I-183, punto 17, e 16 giugno 1998, causa C-162/96, Racke,
Racc. pag. I-3655, punti 34-36).
29
Stante quanto sopra, occorre dichiarare che l’art. 23, n. 1, dell’accordo di partenariato
Comunità-Russia ha un effetto diretto, cosicché i soggetti ai quali esso si applica hanno il diritto di
avvalersene dinanzi ai giudici degli Stati membri.
Sulla portata del principio di non discriminazione enunciato all’art. 23, n. 1, dell’accordo di
partenariato Comunità-Russia
30
La questione proposta dal giudice del rinvio è analoga a quella presentata alla Corte nella
causa conclusasi con la citata sentenza Deutscher Handballbund. In tale sentenza la Corte ha
dichiarato che l’art. 38, n. 1, primo trattino, dell’accordo europeo che istituisce un’associazione tra
le Comunità europee e i loro Stati membri, da una parte, e la Repubblica slovacca, dall’altra,
firmato a Lussemburgo il 4 ottobre 1993 ed approvato a nome delle Comunità dalla decisione del
Consiglio e della Commissione 19 dicembre 1994, 94/909/CECA, CE, Euratom (GU L 359, pag. 1;
in prosieguo: l’«accordo di associazione Comunità-Slovacchia»), doveva essere interpretato nel
senso che esso osta all’applicazione ad uno sportivo professionista di cittadinanza slovacca,
regolarmente occupato da una società stabilita in uno Stato membro, di una normativa emanata da
una federazione sportiva del medesimo Stato secondo cui le società sono autorizzate a far scendere
in campo, in occasione delle partite di campionato o di coppa, solo un limitato numero di giocatori
originari di paesi terzi che non sono parti dell’accordo SEE.
31
Tale art. 38, n. 1, primo trattino, era del seguente tenore:
«Nel rispetto delle condizioni e modalità applicabili in ciascuno Stato membro (…) il
trattamento accordato ai lavoratori di nazionalità della Repubblica slovacca legalmente occupati nel
territorio di uno Stato membro è esente da qualsiasi discriminazione basata sulla nazionalità, per
NOTE a SENTENZA
La sentenza Simutenkov
quanto riguarda le condizioni di lavoro, di retribuzione o di licenziamento, rispetto ai cittadini di
quello Stato membro».
32
La Corte ha dichiarato, in particolare, che una norma limitante il numero di giocatori
professionisti cittadini dello Stato terzo interessato che potevano essere schierati nel campionato
nazionale era relativa alle condizioni di lavoro ai sensi dell’art. 38, n. 1, primo trattino, dell’accordo
di associazione Comunità-Slovacchia, in quanto aveva un impatto diretto sulla partecipazione agli
incontri di campionato di un giocatore professionista slovacco già regolarmente occupato nello
Stato membro ospitante (sentenza Deutscher Handballbund, cit., punti 44-46).
33
La Corte ha altresì dichiarato che l’interpretazione accolta a proposito dell’art. 48, n. 2, del
Trattato CE (divenuto, in seguito a modifica, art. 39, n. 2, CE) nella sua sentenza 15 dicembre 1995,
causa C-415/93, Bosman (Racc. pag. I-4921), secondo cui il divieto di discriminazione fondato
sulla nazionalità si applica a norme emanate da associazioni sportive per stabilire le condizioni alle
quali gli sportivi professionisti esercitano un’attività retribuita ed osta a una limitazione, fondata
sulla nazionalità, del numero di giocatori che possono essere schierati contemporaneamente in
campo, poteva essere trasposta all’art. 38, n. 1, primo trattino, dell’accordo di associazione
Comunità-Slovacchia (sentenza Deutscher Handballbund, cit., punti 31-37 e 48-51).
34
Si deve constatare che l’enunciato dell’art. 23, n. 1, dell’accordo di partenariato Comunità-
Russia è molto simile a quello dell’art. 38, n. 1, primo trattino, dell’accordo di associazione
Comunità-Slovacchia. Infatti, la sola differenza significativa nel testo di queste due disposizioni
risiede nell’utilizzo dell’espressione «la Comunità e i suoi Stati membri evitano che i cittadini russi
(…) siano oggetto (…) di discriminazioni basate sulla nazionalità», da un lato, e «il trattamento
accordato ai lavoratori di nazionalità della Repubblica slovacca (…) è esente da qualsiasi
discriminazione basata sulla nazionalità», dall’altro. Ora, alla luce della constatazione di cui ai
punti 22 e 23 della presente sentenza, secondo cui la lettera dell’art. 23, n. 1, dell’accordo di
partenariato Comunità-Russia esprime, in termini chiari, precisi e incondizionati, il divieto di
discriminazione fondato sulla nazionalità, la differenza tra le due versioni poc’anzi descritta non
osta alla trasposizione dell’interpretazione accolta dalla Corte nella sentenza Deutscher
Handballbund, cit., all’art. 23, n. 1, dell’accordo di partenariato Comunità-Russia.
35
Vero è che, contrariamente all’accordo di associazione Comunità-Slovacchia, l’accordo di
partenariato Comunità-Russia non ha l’obiettivo di creare un’associazione al fine della progressiva
integrazione dello Stato terzo in questione nelle Comunità europee, ma è volto a realizzare la
«progressiva integrazione tra la Russia e una più vasta zona di cooperazione in Europa».
NOTE a SENTENZA
La sentenza Simutenkov
36
Tuttavia, non emerge affatto né dal contesto né dalla finalità del detto accordo di
partenariato che questo abbia inteso attribuire al divieto di «discriminazioni basate sulla
nazionalità[, rispetto ai loro cittadini,] per quanto riguarda le condizioni di lavoro» un significato
diverso da quello risultante dal senso comune di tali termini. Conseguentemente, al pari dell’art. 38,
n. 1, primo trattino, dell’accordo di associazione Comunità-Slovacchia, l’art. 23, n. 1, dell’accordo
di partenariato Comunità-Russia istituisce, a favore dei lavoratori russi legalmente impiegati sul
territorio di uno Stato membro, un diritto alla parità di trattamento nelle condizioni di lavoro della
stessa portata di quello riconosciuto in termini analoghi ai cittadini degli Stati membri dal Trattato
CE, il quale osta a una limitazione fondata sulla nazionalità come quella controversa nella causa
principale, come dichiarato dalla Corte nelle analoghe circostanze delle citate sentenze Bosman e
Deutscher Handballbund.
37
Peraltro, nelle sentenze Bosman e Deutscher Handballbund la Corte ha dichiarato che una
norma come quella di cui alla causa principale è relativa alle condizioni di lavoro (sentenza
Deutscher Handballbund, cit., punti 44-46). Ne consegue che è irrilevante il fatto che l’art. 23, n. 1,
dell’accordo di partenariato Comunità-Russia si applichi solamente per quanto riguarda le
condizioni di lavoro, di retribuzione o di licenziamento e non si estenda, quindi, alle norme relative
all’accesso al lavoro.
38
Occorre poi necessariamente constatare che la limitazione fondata sulla nazionalità non
riguarda incontri specifici fra rappresentative nazionali, ma si applica a tutti gli incontri ufficiali tra
società calcistiche e, quindi, alla parte essenziale dell’attività esercitata dai calciatori professionisti.
Come pure dichiarato dalla Corte, una simile limitazione non può essere considerata giustificata da
considerazioni sportive (citate sentenze Bosman, punti 128-137, e Deutscher Handballbund,
punti 54-56).
39
Inoltre, nelle osservazioni presentate dinanzi alla Corte non si è fatto valere nessun altro
argomento idoneo a giustificare obiettivamente la disparità di trattamento tra i giocatori
professionisti cittadini di uno Stato membro o di uno Stato parte dell’accordo SEE, da un lato, e i
giocatori professionisti di cittadinanza russa, dall’altro.
40
Infine,
come
dichiarato
al
punto 24
della
presente
sentenza,
l’espressione
«[c]onformemente alle leggi, condizioni e procedure applicabili in ciascuno Stato membro», che
figura all’inizio dell’art. 23, n. 1, dell’accordo di partenariato Comunità-Russia, e l’art. 48 dello
stesso accordo non possono essere interpretati nel senso che consentono agli Stati membri di
limitare discrezionalmente l’applicazione del principio di non discriminazione enunciato dalla
NOTE a SENTENZA
La sentenza Simutenkov
prima di tali due disposizioni, in quanto un’interpretazione del genere condurrebbe a svuotare di
contenuto tale disposizione, privandola così di ogni effetto utile.
41
Alla luce delle considerazioni che precedono, la questione proposta dev’essere risolta
dichiarando che l’art. 23, n. 1, dell’accordo di partenariato Comunità-Russia dev’essere interpretato
nel senso che osta all’applicazione ad un atleta professionista di cittadinanza russa, regolarmente
impiegato da una società con sede in uno Stato membro, di una norma dettata da una federazione
sportiva dello stesso Stato ai sensi della quale le società sono autorizzate a schierare in campo, nelle
competizioni organizzate su scala nazionale, solo un numero limitato di giocatori originari di Stati
terzi che non sono parti all’accordo SEE.
Sulle spese
42
Nei confronti delle parti nella causa principale il presente procedimento costituisce un
incidente sollevato dinanzi al giudice nazionale, cui spetta quindi statuire sulle spese. Le spese
sostenute per presentare osservazioni alla Corte, diverse da quelle delle dette parti, non possono dar
luogo a rifusione.
Per questi motivi, la Corte (Grande Sezione) dichiara:
L’art. 23, n. 1, dell’accordo di partenariato e di cooperazione che istituisce un partenariato tra le
Comunità europee e i loro Stati membri, da una parte, e la Federazione russa, dall’altra, sottoscritto
a Corfù il 24 giugno 1994 e approvato a nome delle Comunità con decisione del Consiglio e della
Commissione 30 ottobre 1997, 97/800/CECA, CE, Euratom, dev’essere interpretato nel senso che
osta all’applicazione ad un atleta professionista di cittadinanza russa, regolarmente impiegato da
una società con sede in uno Stato membro, di una norma dettata da una federazione sportiva dello
stesso Stato ai sensi della quale le società sono autorizzate a schierare in campo, nelle competizioni
organizzate su scala nazionale, solo un numero limitato di giocatori originari di Stati terzi che non
sono parti all’accordo sullo Spazio economico europeo.
NOTE a SENTENZA
La sentenza Simutenkov
LA SENTENZA SIMUTENKO : UNA APPLICAZIONE
DELL’EFFETTO BOSMAN AGLI ACCORDI DI PARTENARIATO
DELLA COMUNITA’
di Giuseppe Gliatta (*)
1. Simutenkov richiede il rilascio della licenza federale alle medesime condizioni dei giocatori
comunitari
2. Una questione preliminare: l’efficacia diretta dell’art. 23, n.1, dell’accordo di partenariato
3. La portata del principio di non discriminazione
4. Gli effetti della sentenza Simutenkov
1. Simutenkov richiede il rilascio della licenza federale alle medesime condizioni dei
giocatori comunitari
La sentenza in esame fissa il principio secondo cui il divieto di discriminazione in base alla
nazionalità, contenuto nell’accordo di partenariato intercorso tra la CE e la federazione russa,
rende illegittima l’applicazione ai calciatori professionisti di nazionalità russa della regola dettata
dalla federazione sportiva spagnola che limita (rispetto ai cittadini comunitari) la loro possibilità di
partecipare a determinati incontri sportivi1.
1
Cfr. M. CASTELLANETA, In caso di accordo con uno Stato terzo la Corte fa scattare l’effetto
Bosman, in Diritto Comunitario e Internazionale, n.3, 2005, pag. 71 e s. Più in generale sui rapporti fra
l’ordinamento sportivo e il diritto comunitario nella giurisprudenza, v. V. FRATTAROLO,
L’ordinamento sportivo nella giurisprudenza, Milano, 2005, pag. 68 e ss. Dello stesso autore, sul tema
in generale dei profili giuridici del rapporto di lavoro sportivo, v. Il rapporto di lavoro sportivo,
Milano, 2004; sullo stesso tema, fra gli altri, v. M. T. SPADAFORA, Diritto del lavoro sportivo,
Torino, 2004; G. VALORI, Il diritto nello sport: principi, soggetti, organizzazione, Torino, 2005; M.
COLUCCI, Lo sport e il diritto: profili istituzionali e regolamentazione giuridica, Napoli, 2004; M.
COCCIA, Diritto dello sport, Firenze, 2004.
NOTE a SENTENZA
La sentenza Simutenkov
La pronuncia è emanata all’interno del procedimento C-265/03 e ha a oggetto una domanda di
pronuncia pregiudiziale ai sensi dell’art.234 CE, presentata nel maggio del 2003 dalla Audiencia
Nacional spagnola (tribunale amministrativo di appello), all’interno del procedimento istauratosi
tra Igor Simutenkov, da una parte, la Real Federación Española de Fútbol (RFEF) e il Ministero di
Educazione e Cultura, dall’altra.
Igor Simutenkov all’epoca dei fatti della controversia principale è un cittadino russo che risiede
in Spagna ed è in possesso di un permesso di soggiorno e un correlativo permesso di lavoro. E’
titolare di un contratto di lavoro in qualità di calciatore professionista con il club Deportino
Tenerife, nonché di una licenza federale spagnola per calciatori non appartenenti alla Comunità
europea e allo Spazio Economico Europeo. Tale licenza gli permette di praticare il calcio come
atleta federale e di giocare con la squadra di appartenenza nelle partite ufficiali. La normativa
federale, tuttavia, stabilisce che nelle competizioni e negli incontri ufficiali possano essere schierati
un numero limitato di giocatori provenienti da Stati terzi non appartenenti allo Spazio Economico
Europeo2.
Segnatamente, l’art 176 del regolamento generale RFEF sancisce: «Le squadre iscritte a
competizioni ufficiali di ambito nazionale a carattere professionistico possono iscrivere calciatori
stranieri non comunitari nel numero che viene stabilito negli accordi acclusi al riguardo tra RFEF,
la Liga Nacional de Fútbol Profesional e la Asociación de Futbolistas Españoles, nei quali viene
disciplinato, inoltre, il numero di calciatori di tale categoria che possono giocare
contemporaneamente»3.
Per poter superare i limiti derivanti da tale statuizione, Simutenkov nel gennaio 2001 decide di
presentare una richiesta alla RFEF di conversione della licenza federale in quella di calciatore
comunitario. La domanda viene prontamente rifiutata in base alle norme di cui agli articoli 173 e ss
del Regolamento e in particolare sulla base dell’art.173 che dispone: «Costituisce requisito
2
Si tratta di un modello in linea con i regolamenti UEFA che trova applicazioni molto simili nei vari
Stati; in Italia, l’art.40 del regolamento della Figc stabilisce che «Le società che disputano il
Campionato di serie A possono altresì tesserare non più di cinque calciatori provenienti o provenuti da
federazioni estere, se cittadini di paesi non aderenti all’UE (e allo E.E.E.).
3
L’art 176, n.2, fa poi riferimento al numero di licenze per ogni stagione e al numero di giocatori
non comunitari che è possibile schierare contemporaneamente. Relativamente al primo punto, si
sancisce un numero in prima divisione pari a 5 nel 2000/2001, 4 in ciascuna delle tre stagioni seguenti e
3 nella stagione 2004/2005; in seconda divisione il numero è di 4 nella stagione 2000/2001, di 3 per gli
anni 2001/ 2002 e 2002/2003 e infine di 2 per la stagione 2004/2005. In relazione al secondo punto, si
stabilisce nello specifico che non potranno giocare contemporaneamente più di 3 calciatori non
comunitari in prima divisione, mentre in seconda divisione il numero scende a 2 a partire dalla stagione
2001/2002.
NOTE a SENTENZA
La sentenza Simutenkov
generale che devono soddisfare i calciatori per iscriversi e ottenere la licenza come professionisti,
salvo deroghe che prevede il presente regolamento, possedere la cittadinanza spagnola o quella di
uno degli altri paesi che costituiscono L’unione europea e lo Spazio economico europeo».
Avverso questa decisone, il signor Simutenkov decide di presentare ricorso innanzi al tribunale
amministrativo (Juzgado de lo Social) di Santa Cruz di Tenerife, con il quale si chiede la tutela al
diritto di non discriminazione in base alla nazionalità fissato nell’accordo di partenariato tra la
Comunità e la Russia, che al suo art. 23 recita: «Conformante alle leggi, condizioni e procedure
applicabili in ciascuno Stato membro, la Comunità e i suoi Stati membri evitano che i cittadini
russi legalmente impiegati sul territorio di uno Stato membro siano oggetto, rispetto ai loro
cittadini, di discriminazioni basate sulla nazionalità per quanto riguarda le condizioni di lavoro, di
retribuzione o di licenziamento». Nel ricorso dunque si afferma che sia contraria a tale divieto di
discriminazione la distinzione tracciata dal citato art.173 del regolamento RFEF tra cittadini
comunitari e cittadini russi in relazione al rilascio della licenza comunitaria, che si riverbera sul
diritto di partecipare alle gare senza limitazione di sorta. Il signor Simutenkov in tal senso ritiene
che venga violato il suo diritto di parità di trattamento e chiede che una tale disparità venga
riconosciuta e superata in base alla normativa comunitaria di cui all’accordo di partenariato.
In primo grado, il ricorso viene respinto in data 22 ottobre 2002, ma la sentenza viene
impugnata in appello innanzi alla Audiencia Nacional che ha deciso di sospendere il giudizio e
investire la Corte di giustizia europea della seguente questione pregiudiziale: «Se l’art.23
dell’accordo di partenariato osti a che una federazione sportiva applichi a un atleta professionista
cittadini russo come quello della causa principale, regolarmente impiegatola una società calcistica
spagnola, una normativa in forza della quale le società possono utilizzare nelle competizioni in
ambito nazionale solo un numero limitato di calciatori provenienti da Stati terzi non appartenenti
allo Spazio economico europeo». La Corte di appello dunque ritiene di dovere risolvere in via
pregiudiziale una tale questione, per poi decidere se riconoscere o meno al signor Simutenkov il
diritto al rilascio di una licenza identica a quella a cui hanno diritto i calciatori spagnoli o
altrimenti appartenenti all’Unione europea o allo Spazio economico europeo.
Di contro la RFEF oppone un duplice ordine di obiezioni. Anzitutto, si controbatte che dal
primo inciso dell’art.23 - «[c]onformemente alle leggi, condizioni e procedure applicabili in
ciascuno Stato membro» - si deduce che debba considerarsi preferenziale, rispetto al divieto di
discriminazione, la competenza della federazione di rilasciare le licenze ai giocatori e la
regolamentazione sportiva adottata dalla stessa RFEF. In secondo luogo, si obietta che in ogni caso
NOTE a SENTENZA
La sentenza Simutenkov
il rilascio di una licenza non costituisce oggetto delle condizioni di lavoro (tutelate dall’accordo di
partenariato), ma attiene all’organizzazione delle competizioni.
Parallelamente, le motivazioni addotte dalla RFEF vengono fatte proprie anche dal Governo
spagnolo che si unisce alla richiesta di respingimento della domanda pregiudiziale.
Di contro, l’avvocato generale - sig.ra Christine Stix Hackl - presenta le sue conclusioni l’11
gennaio 2005 e accoglie le ragioni del ricorrente, proponendo alla Corte una soluzione giuridica
articolata che affronta vari questioni preliminari e si esprime in definitiva a favore
dell’accoglimento della questione pregiudiziale4.
Infine la Corte con sentenza del 12 Aprile del 2005 decreta l’accoglimento della questione
pregiudiziale adducendo una serie di argomentazioni che meritano di essere approfondite per
l’interesse rivestito.
2. Una questione preliminare: l’efficacia diretta dell’art. 23, n.1, dell’accordo di
partenariato
Anche se la questione non viene fatta oggetto di specifico punto di controversia da parte del
giudice a quo, l’avvocato generale e la Corte ritengono di dover decidere in via preliminare se
l’art.23, n.1, debba o meno essere considerato direttamente applicabile alla specifica posizione
giuridica del singolo ricorrente. Quest’aspetto ricopre una importanza notevole nella struttura della
sentenza della Corte e ancor di più in quella del parere rilasciato dall’Avvocato generale. E infatti,
può affermarsi che la risoluzione, in termini positivi5, di tale quesito rappresenta forse l’aspetto più
innovativo della pronuncia in esame, che viceversa per la parte rimanente non fa che limitarsi, in
definitiva, ad applicare principi già affermati in due precedenti sentenze6 della stessa Corte di
giustizia.
Quest’ultima chiarisce, anzitutto, che l’accordo di partenariato Comunità-Russia non disciplina
l’aspetto dell’effetto attribuito alle disposizioni dell’accordo medesimo, cosicché spetta alla Corte
risolvere la questione, al pari di ogni profilo ermeneutico attinente all’efficacia degli accordi nella
4
Le conclusioni dell’avvocato generale sono consultabili su diversi siti, tra cui www.lex.unicit.it
Per una interpretazione opposta che conduce alla non vincolatività dell’articolo in esame, v. M.
CREMONA, Citizens of Third Countries: movement and employment of migrant workers within the
European Union, in Legal Issues of European integration, 1997, pag. 87; M. MARESCEAU - E.
Montaguti, The Relations between the European Union and Central and Eastern Europe: A legal
Appraisal, in Common Market Law Review, 1995, pag. 1327.
6
Sulle quali si tornerà tra poco.
5
NOTE a SENTENZA
La sentenza Simutenkov
Comunità7. In tal senso, è giurisprudenza costante che gli accordi fra la Comunità e i paesi terzi
debbano considerarsi direttamente applicabile quando stabiliscono un obbligo chiaro e preciso,
non subordinato, nel suo adempimento o nei suoi effetti, all’intervento di alcun atto ulteriore8.
Nel caso in esame, l’accordo analizzato nel suo testo originario9, ossia quello stilato in lingua
inglese, non sembra lasciare spazio a dubbi interpretativi, in quanto adotta una formula chiara e
inequivocabile rispetto all’obbligo che deve essere adempiuto («shall ensure») dalle parti
contraenti.
In termini perentori viene sancito l’obbligo dello Stato di evitare che i lavoratori di cittadinanza
russa, legalmente impiegati nel territorio di uno Stato membro, possano subire discriminazioni a
causa della loro cittadinanza in relazione alle condizioni di lavoro, di retribuzione o di
licenziamento. Un tale principio di parità di trattamento «detta un obbligo di risultato preciso e, per
sua stessa natura, può esser fatto valere da un amministrato dinanzi all'autorità giudiziaria
nazionale, affinché questa disapplichi le disposizioni discriminatorie, senza che risulti necessaria a
tal fine l'adozione di misure di applicazione integrative»10.
7
Nella motivazione la Corte richiama a sostegno il seguente precedente: sentenza 23 novembre 1999,
causa C-149/96, Portogallo/Consigliio, Racc. pag. I-8395, punto 34).
8
In questi termini nella sentenza in esame, che richiama alcuni importanti precedenti della stessa
Corte: sentenze 27 settembre 2001, causa C-63/99, Gloszczuk, Racc. pag. I-6369, punto 30, e 8 maggio
2003, causa C-171/01, Wählergruppe Gemeinsam, Racc. pag. I-4301, punto 54.
9
L’avvocato generale si sofferma molto sulla questione linguistica, che viceversa sembra essere data
per scontata dalla Corte. Più precisamente si chiarisce il perché tra le varie versioni (difformi, almeno in
parte) del testo dell’accordo di partenariato debba preferirsi quella in lingua inglese, che meglio delle
altre si esprime in termini di obbligatorietà dell’accordo medesimo. In tal senso, l’avvocato generale
afferma: «Per accertare il significato dell'art. 23 dell'accordo potrebbe prendersi quale punto di partenza
il minimo comune denominatore di tutte le versioni linguistiche, assumendo l'esistenza di un semplice
obbligo ad impegnarsi. Tuttavia, un metodo di questo tipo non è corroborato né da argomenti
convincenti, né dalla prassi della giurisprudenza della Corte. Un'altra possibile soluzione potrebbe
consistere nell'individuare il testo più chiaro, quindi nell'eliminare testi atipici o versioni che
contengano errori di traduzione. Tale modalità di procedere è in via di principio possibile e si riscontra
altresì nella giurisprudenza della Corte; tuttavia, nella fattispecie all'esame, nella quale appunto non si
ha un solo testo che diverge da tutti gli altri, essa non permette di pervenire ad alcuna soluzione
convincente. La tesi secondo la quale occorrerebbe prediligere le versioni linguistiche che stabiliscono
un obbligo sembrerebbe essere avallata anche da un metodo interpretativo menzionato dalla
Commissione, quello secondo il quale risulta decisiva la maggioranza delle versioni linguistiche. Tale
metodo si riflette anche nella giurisprudenza della Corte. Avverso tale impostazione è possibile però
addurre l'argomentazione della Corte, in base alla quale in determinate circostanze occorre prediligere
una singola versione linguistica rispetto alla maggioranza delle altre. 19. Ciò induce a ritenere
necessario il ricorso ad un metodo completamente diverso, ovvero quello in base al quale occorre
partire dal testo originario, quindi da quella versione dell'accordo che è servita da testo di partenza per
le traduzioni nelle altre lingue
10
Così il punto 23 della pronuncia in esame, in cui fra l’altro la Corte richiama i seguenti precedenti:
sentenze 29 gennaio 2002, causa C-162/00, Pokrzeptowicz-Meyer, Racc. pag. I-1049, punto 22, e
Wählergruppe Gemeinsam, Racc. pag. I-4301, punto 58.
NOTE a SENTENZA
La sentenza Simutenkov
Dopo aver affermato la natura giuridica obbligatoria dell’accordo11, la Corte si sofferma a
precisare come una tale vincolatività diretta non venga meno a causa della riserva dettata
dall’inciso «conformemente alle leggi, condizioni e procedure applicabili in ciascuno Stato
membro», così come viceversa affermato in giudizio dalla RFEF e dal governo spagnolo12. Allo
stesso modo, non si deve ritenere ostativa, a parere della Corte, la speculare disposizione di cui
all’art.48 dell’accordo di partenariato, che recita: «Ai fini del presente titolo, nessuno dei suoi
elementi vieta alle parti di applicare le rispettive leggi e normative in materia di ingresso e
soggiorno, occupazione, condizioni di lavoro e di stabilimento delle persone fisiche e fornitura di
servizi, purché non le applichino in modo da vanificare o compromettere i vantaggi risultanti per
una delle parti da una disposizione specifica dell'accordo (…)». Già da tempo, infatti, la Corte13
aveva affermato il principio secondo il quale clausole similari non possono essere interpretate in
modo da permettere agli Stati membri di sottoporre a condizioni o limitare discrezionalmente il
principio di non discriminazione, in quanto si giungerebbe a «uno svuotamento di contenuto di
tale disposizione, privandola così di ogni effetto utile»14.
11
Ancora una volta, sullo specifico argomento, il parere dell’avvocato generale appare più dettagliato
e soddisfacente, in particolare per via delle ulteriori argomentazioni addotte: « La volontà delle parti di
stabilire un chiaro obbligo, più forte del semplice obbligo ad impegnarsi, è dimostrata dai documenti
presentati dalla Commissione, che sono serviti alla preparazione dei negoziati. Anche una
contrapposizione rispetto ad accordi dello stesso genere depone a favore del carattere obbligatorio
dell'art. 23, n. 1, dell'accordo. Un confronto con l'art. 24, n. 1, dell'accordo con l'Ucraina, nonché con
l'art. 23, n. 1, dell'accordo con la Moldavia mostra che tali disposizioni parallele contengono
espressamente la locuzione “si impegnano ad assicurare”. Che l'art. 23, n. 1, dell'accordo stabilisca un
obbligo che va al di là del semplice obbligo di impegnarsi è dimostrato inoltre dalla circostanza,
confermata dai documenti relativi ai negoziati, che la Russa abbia manifestato un auspicio in tal senso».
12
L’avvocato generale al punto 25, ricorda: «Contro il carattere obbligatorio e quindi contro
l'efficacia diretta dell'art. 23 dell'Accordo potrebbe deporre la seguente restrizione prevista all'inizio del
n. 1 dell'articolo: “Conformemente alle leggi, condizioni e procedure applicabili in ciascuno Stato
membro (…)”. In conformità alla giurisprudenza della Corte relativa ad una simile regolamentazione
negli accordi europei i termini “nel rispetto delle condizioni e modalità applicabili in ciascuno Stato
membro” non possono tuttavia essere interpretati nel senso di consentire agli Stati membri di sottoporre
a condizioni o di limitare discrezionalmente l'applicazione del principio di non discriminazione
enunciato da tale disposizione, giacché un'interpretazione del genere avrebbe l'effetto di svuotare di
contenuto tale disposizione privandola così di ogni effetto utile.».
13
Cfr. sentenze 29 gennaio 2002, causa C-162/00, Pokrzeptowicz-Meyer, Racc. pag. I-1049, punti 23
e 24, e 8 maggio 2003, causa C-438/00, Deutscher Handballbund, Racc. pag. I-4135, punto 29.
14
Così la sentenza in esame al punto 24. La Corte precisa, altresì, al punto successivo che« Né l'art.
27 dell'accordo di partenariato Comunità-Russia osta a un effetto diretto dell'art. 23, n. 1, dello stesso.
Infatti, il fatto che tale art. 27 preveda che l'applicazione dell'art. 23 sia effettuata sulla base di
raccomandazioni del consiglio di cooperazione non subordina l'applicabilità di quest'ultima norma,
nella sua esecuzione o nei suoi effetti, all'intervento di un atto ulteriore. Il ruolo che il detto art. 27
attribuisce a quel consiglio consiste nel facilitare il rispetto del divieto di discriminazione, ma non si
può considerare che ne limiti l'applicazione immediata». A supporto di quest’ultima affermazione
richiama i seguenti precedenti: sentenze 31 gennaio 1991, causa C-18/90, Kziber, Racc. pag. I-199,
punto 19, e 4 maggio 1999, causa C-262/96, Sürül, Racc. pag. I-2685, punto 66.
NOTE a SENTENZA
La sentenza Simutenkov
La Corte giunge a conclusioni analoghe operando altresì una analisi dell’oggetto e della
sistematica dell’accordo di partenariato, ossia della natura e dello scopo da questo perseguiti. A tal
proposito, viene anzitutto ricordato come l’art.1 dell’accordo in esame si prefigga di istituire un
partenariato che promuova lo sviluppo delle relazioni politiche ed economiche tra i contraenti e la
realizzazione della progressiva integrazione tra la federazione Russa e una più ampia zona di
cooperazione in Europa. In altri termini, si tratta di un accordo che non prevede una associazione,
né una futura adesione della federazione russa alla Comunità. Ciò malgrado, la Corte afferma che
l’accordo stipulato tra la Comunità e la federazione russa possa avere ugualmente un effetto diretto
sulla situazione giuridica dei privati15: in sintonia con i precedenti della stessa Corte in cui si
affermava analogamente che possono ritenersi in tal senso obbligatori anche gli accordi che non
sanciscono l’ingresso o il futuro ingresso di uno Stato nella Unione Europea16.
Con riguardo al precedente accordo con il Marocco, per esempio, la Corte aveva già avuto
modo di affermare che « l'accordo ha infatti come obiettivo (...) di promuovere una cooperazione
globale tra le parti contraenti, in particolare nel settore della manodopera. La circostanza che
l'accordo miri essenzialmente a favorire lo sviluppo economico del Marocco e che esso si limiti a
istituire una cooperazione tra le parti senza mirare ad un'associazione o ad una futura adesione del
Marocco alle Comunità non è tale da impedire l'applicabilità diretta di talune delle sue
disposizioni»17.
15
Il percorso logico seguito dalla Corte è assolutamente speculare a quello dell’avvocato generale,
che infatti (ai punti 33 e ss.) in premessa afferma: « In proposito è possibile rilevare, da un lato, che
l'Accordo costituisce l'esito di un'evoluzione, perlomeno se raffrontato con l'accordo commerciale
precedentemente stipulato con la Russia. Dall'altro lato, per molti aspetti l'accordo non arriva ad
uguagliare i cosiddetti accordi europei. Ciò vale in primo luogo per quanto riguarda il contenuto
sostanziale, dal momento che l'Accordo non prevede neanche l'istituzione di una zona libero di
scambio, né le disposizioni relative alla libera circolazione sono equiparabili a quelle degli accordi
europei. In secondo luogo, anche le disposizioni di natura istituzionale mostrano una serie di differenze,
come nel caso del meccanismo di composizione delle controversie. A tutto ciò si aggiunge il fatto che,
diversamente dall'accordo con la Slovacchia, che era alla base della causa Deutscher
Handballbund/Kolpak, l'Accordo non è diretto ad istituire un'associazione, né tanto meno un'adesione
della parte contraente non appartenente alla UE.»; e conclude:«Tuttavia, a mio avviso, perché possa
essere affermata l'efficacia diretta di una disposizione di un accordo non è decisivo che in tale accordo
venga fatto un espresso riferimento alla prospettiva dell'adesione.».
16
Cfr. sentenze causa C-18/90, Kziber, Racc. pag. I-199, punto 21; 15 gennaio 1998, causa C-113/97,
Babahenini, Racc. pag. I-183, punto 17, e 16 giugno 1998, causa C-162/96, Racke, Racc. pag. I-3655,
punti 34-36.
17
Così la appena citata sentenza Kziber. Per un approfondimento dell’analisi della sistematica
dell’art.23, v. il parere dell’avvocato generale ai punti 39-42).
NOTE a SENTENZA
La sentenza Simutenkov
Si tratta dunque di un principio già affermato in passato18, ma la cui riproposizione assume un
rilevanza non trascurabile, soprattutto se si pensa alle implicazioni che in molti campi - non da
ultimo nel diritto sportivo – potranno scaturire dal proliferare di accordi con Stati terzi alla
Comunità che si basano sul rispetto dei diritti fondamentali e dunque sul richiamo al diritto di non
discriminazione tra lavoratori19.
3. La portata del principio di non discriminazione
Con specifico riguardo al diritto sportivo, la Corte, dopo avere affermato il principio della
immediata efficacia dell’art.23, n.1, lo inserisce nel più ampio quadro delle sentenze (della Corte
medesima) che negli ultimi anni hanno profondamente modificato un assai rilevante aspetto della
disciplina europea dello sport.
Il percorso logico seguito nella pronuncia ha come punto di partenza la sentenza Deutscher
Handballbund/kolpak
20
, con cui si applica il c.d. effetto Bosman anche ai paesi destinati
all’ingresso nella Comunità Europea21.
Lo scopo della Corte è di individuare la portata dell’art.23, n.1, e segnatamente di stabilire se la
regolamentazione di cui alla causa principale costituisca o meno una condizione di lavoro. Infatti,
solo in quest’ultimo caso si potrà richiedere l’applicazione del divieto di discriminazione, in
quanto l’art.23, n.1, si applica solo alle questioni attinenti allo svolgimento di un rapporto in corso
e non anche alle condizioni di accesso al lavoro. La RFEF di contro afferma che vertendo la
disputa sul rilascio di una licenza, ciò avrebbe esclusivo riguardo all’accesso al mercato del lavoro
e non anche allo svolgimento dei rapporti lavorativi già instaurati.
Per poter definire questo aspetto è necessario comprendere, dunque, in quali ambito vadano
ricomprese le regolamentazioni di federazioni sportive.
18
Per una panoramica della giurisprudenza in tema di rapporto fra l’ordinamento sportivo e il diritto
comunitario, v. V. FRATTAROLO, L’ordinamento sportivo nella giurisprudenza, cit., pag. 68 e ss.
19
Con specifico riguardo al diritto sportivo, è innegabile come l’innesto del diritto comunitario nel
settore sportivo abbia condotto a una serie di “effetti collaterali” tutt’altro che positivi. Sul punto esiste
una vasta letteratura, basti qui citare V. FRATTAROLO, L’ordinamento sportivo nella giurisprudenza,
cit., pag. 70 e ss, ove richiama molti altri autori e dove, ad esempio con riguardo alla sentenza Bosman,
di cui meglio si dirà, si afferma:La decisione ha prodotto una vera e propria rivoluzione nel mondo
dello sport professionistico, facendo crollare le barriere e fiaccando le resistenze imperniate sulle
diverse nazionalità degli atleti in ordine alla quale in precedenza e a seguito delle prime decisioni della
Corte, si erano tentati degli accomodamenti tra le Autorità sportive e quelle comunitarie.».
20
Già citata in nota.
21
Sull’argomento, da ultimo, v. M. CASTELLANETA, Dai limiti all’ingaggio, alla retribuzione,
illegittima ogni disparità di trattamento, in Guida al Diritto, 2003, n.20, pag.111.
NOTE a SENTENZA
La sentenza Simutenkov
La sentenza Deutscher Handballbund/kolpak si occupa della efficacia dell’art. 38, n.1,
dell’accordo europeo che istituisce una associazione tra la Comunità europea e la Repubblica
slovacca22 in vista della sua prossima partecipazione alla Comunità europea. L’art 38, n.1, ricorda
molto da vicino il contenuto dell’art 2323, n.1, dell’accordo di partenariato Comunità/Russia e
infatti recita: «Nel rispetto delle condizioni e modalità applicabili in ciascuno Stato membro (…) il
trattamento accordato ai lavoratori di nazionalità della Repubblica slovacca legalmente occupati
nel territorio di uno Stato membro è esente da qualsiasi discriminazione basata sulla nazionalità,
per quanto riguarda le condizioni di lavoro, di retribuzione o di licenziamento, rispetto ai cittadini
di quello Stato membro».
La Corte nella pronuncia Deutscher Handballbund/kolpak stabilisce che l’art.38 è applicabile
anche alle regolamentazioni emanate da una federazione sportiva - che determina a quali
condizioni gli sportivi professionisti possono esercitare una attività subordinata - e come la
limitazione alla partecipazione a gare sportive attenga direttamente alle condizioni di lavoro del
calciatore straniero.
La Corte in quell’occasione, infatti, statuisce che l’articolo 38 deve essere interpretato «nel
senso che esso osta all'applicazione a uno sportivo professionista di cittadinanza slovacca,
regolarmente occupato da una società stabilita in uno Stato membro, di una normativa emanata da
una federazione sportiva del medesimo Stato secondo cui le società sono autorizzate a far scendere
in campo, in occasione delle partite di campionato o di coppa, solo un limitato numero di giocatori
originari di paesi terzi che non sono parti dell'accordo SEE».
Si stabilisce dunque, in primo luogo, che la norma che fissa il numero massimo di giocatori
dello Stato terzo contraente utilizzabili contemporaneamente durante un incontro nazionale di
calcio deve essere considerata relativa alle condizioni di lavoro, in quanto immediatamente
attinente alla possibilità del giocatore slovacco (già regolarmente assunto) di svolgere le mansioni
di cui al contratto di ingaggio. In secondo luogo, la Corte dichiara come anche nel caso di accordi
con paesi destinati a entrare nella Comunità europea trovi applicazione la interpretazione
22
L’accordo è stato firmato a Lussemburgo il 4 ottobre 1993 e approvato a nome della Comunità
dalla decisione del Consiglio e della Commissione 19 dicembre 1994, 94/909/CECA, CE, Euratom, GU
L 359, pag. 1.
23
L’avvocato generale infatti al punto 56 ritiene che: «L'art. 23, n. 1, dell'Accordo, per l'aspetto che
qui rileva, prevede un obbligo pressoché letteralmente identico all'art. 38, n. 1, dell'accordo con la
Slovacchia, vale a dire che a cittadini della parte contraente legalmente impiegati sul territorio di uno
Stato membro sia garantito un trattamento che non implichi, rispetto ai cittadini dello Stato membro,
discriminazioni basate sulla nazionalità per quanto riguarda le condizioni di lavoro, di retribuzione o di
licenziamento.».
NOTE a SENTENZA
La sentenza Simutenkov
dell’art.39 Trattato CE, contenuta nella celebre sentenza Bosman24 risalente al 1995. Si ricorderà
come in quell’occasione la Corte ha inequivocabilmente affermato, in via generale, la diretta
applicabilità al mondo sportivo della normativa della libertà di circolazione di cui all’art.39 CE e,
in particolare, come l’art.39, n.2, impedisca l’applicazione di norme contenute in regolamenti
sportivi che sono finalizzate a limitare il numero di giocatori professionisti cittadini di altri Stati
membri della Unione Europea che possono essere schierati contemporaneamente all’interno di un
incontro25.
In questo senso, la sentenza Simutenkov può considerarsi una semplice applicazione del c.d.
effetto Bosman, così come prima di lei lo era stata la sentenza Deutscher Handballbund/kolpak. Il
presupposto è identico, cioè la applicabilità dell’art.39, n.2 , in tutti gli atti internazionali che
trovano immediata obbligatorietà nei paesi membri. Nel caso Bosman si trattava di Stati già
membri della Comunità europea, con la sentenza Deutscher Handballbund/kolpak si
ricomprendono quelli legati alla Comunità con un accordo di associazione e, infine, con la
sentenza qui in commento, anche per i casi di accordi di partenariato, che sanciscono un divieto di
discriminazione immediatamente obbligatorio.
La Corte si limita nella sentenza Bosman a fare salvi gli incontri tra nazionali, in quanto
l’interesse primario non è di tipo economico, ma di altra natura, cosicché non può trovare
applicazione l’art.39, n 2. Una tale limitazione rimane anche nel passaggio sancito dalla sentenza
Deutscher Handballbund/kolpak e dunque anche nell’ulteriore applicazione costituita dalla
sentenza Simutenkov. In quest’ultima, infatti, si afferma che «[o]ccorre poi necessariamente
constatare che la limitazione fondata sulla nazionalità non riguarda incontri specifici fra
rappresentative nazionali, ma si applica a tutti gli incontri ufficiali tra società calcistiche e, quindi,
alla parte essenziale dell'attività esercitata dai calciatori professionisti. Come pure dichiarato dalla
Corte, una simile limitazione non può essere considerata giustificata da considerazioni sportive
(citate sentenze Bosman, punti 128-137, e Deutscher Handballbund, punti 54-56)».
Per tutte queste ragioni, la Corte giunge al dispositivo affermando in modo chiaro che: «L'art.
23, n. 1, dell'accordo di partenariato e di cooperazione che istituisce un partenariato tra le
24
Il riferimento è alla notissima causa C-415/93, Racc. pag. I-4921.Sul tema esiste una vasta
letteratura, tra i tanti, v. A. MANZELLA, L’Europa e lo sport: un difficile dialogo dopo Bosman, in
Riv.dir.sport., 1996, fasc. n.3, pag, 409 e ss.; A. TIZZANO- R. DE VITA, Qualche considerazione sul
caso Bosman, in Riv.dir.sport., 1996, fasc. n.3, pag, 416 e ss.; M. ROMANI- R. MOSETTI, ,Il diritto
nel pallone:spunti per una analisi economica della sentenza Bosman, in Riv.dir.sport., 1996, fasc. n.3,
pag, 436 e ss.; G. VIDRI, Il caso Bosman e la circolazione dei calciatori professionistinell’ambito della
Comunità europea; in Resp. Civ. prev., 1996, pag. 433 e ss.
25
Cfr. la sentenza Bosman ai punti 87 e 137.
NOTE a SENTENZA
La sentenza Simutenkov
Comunità europee e i loro Stati membri, da una parte, e la federazione russa, dall'altra, sottoscritto
a Corfù il 24 giugno 1994 e approvato a nome delle Comunità con decisione del Consiglio e della
Commissione 30 ottobre 1997, 97/800/CECA, CE, Euratom, deve essere interpretato nel senso che
osta all'applicazione ad un atleta professionista di cittadinanza russa, regolarmente impiegato da
una società con sede in uno Stato membro, di una norma dettata da una federazione sportiva dello
stesso Stato ai sensi della quale le società sono autorizzate a schierare in campo, nelle competizioni
organizzate su scala nazionale, solo un numero limitato di giocatori originari di Stati terzi che non
sono parti all'accordo sullo Spazio economico europeo»26.
4. Gli effetti della sentenza Simutenkov
Con la sentenza in esame i giudici della Corte di giustizia impongono nuove e rilevanti
modifiche alle regole sportive esistenti e soprattutto introducono una ulteriore importante
limitazione alla “capacità normativa” delle federazioni sportive27. Se in passato, infatti, la Corte
aveva già sancito la vincolatività dei principi comunitari (prima) e dei trattati di associazione
(successivamente), con la pronuncia Simutenkov si spinge ancora oltre e fissa la obbligatorietà
anche degli accordi di partenariato stipulati con Stati terzi non destinati a far parte della Unione
Europea. La Corte si limita a richiedere che l’accordo internazionale sia strutturato in modo da
contenere obblighi chiari, precisi e non condizionati dall’emanazione di norme interne. Se
l’accordo internazionale presenta tali caratteristiche verrà a costituire un obbligo per le federazioni
sportive a cui queste non potranno sottrarsi. In particolare, dovrà considerarsi giuridicamente
vincolante il divieto di discriminazione (di norma contenuto nell’accordo) e dunque l’obbligo di
riconoscere all’atleta di uno Stato non appartenente (e che non apparterrà) all’Unione Europea un
trattamento esattamente uguale a quello riservato agli atleti comunitari. L’unica limitazione che
rimane ancora in piedi, per ovvie ragioni, è quella relativa alla partecipazione di incontro disputati
26
In modo molto simile conclude l’avvocato generale che in chiusura di parere afferma: «È possibile
dunque concludere che l'art. 23, n. 1, dell'accordo osta all'applicazione al sig. Simutenkov di una
normativa come quella della causa principale, atteso che quest'ultima ha per conseguenza che il sig.
Simutenkov, in quanto cittadino russo, benché regolarmente occupato in uno Stato membro, dispone, in
linea di principio, soltanto di una possibilità limitata, rispetto ai giocatori cittadini di Stati membri o
cittadini del SEE, di partecipare a talune competizioni, vale a dire ai Campeonatos Nacionales
(campionati nazionali) de Liga de Primera y Segunda División (di serie A e B), al Campionato di
Spagna/Copa de S.M. el Rey e alla Supercopa (supercoppa), che costituiscono peraltro l'oggetto
essenziale della sua attività in qualità di giocatore professionista.».
27
Per le possibili conseguenze negative, si veda a quanto si è accennato alla nota 19.
NOTE a SENTENZA
La sentenza Simutenkov
tra squadre nazionali; in questi casi non troverà applicazione l’art.39, n.2 del Trattato CE in
ragione del superiore interesse nazionale28.
Ovviamente non rileva che la pronuncia nello specifico riguardi esclusivamente la Spagna e il
mondo del calcio29. In questo senso, solo in prima battuta può dirsi che l’interevento della Corte ha
l’effetto di svincolare i calciatori russi dal limite massimo di giocatori appartenenti a Stati terzi che
possono contemporaneamente prendere parte a un incontro di calcio. Infatti, gli effetti della
decisione giudiziale si estendono a tutti gli sport, a tutti gli Stati che hanno stipulato con la Unione
un accordo similare (come, ad esempio, l’Ucraina) e a tutti gli aspetti della normativa sportiva
delle varie federazioni che collidono con il divieto di discriminazione fondata sulla nazionalità
attinente alle condizioni di lavoro degli atleti.
Le sentenze della Corte di Giustizia hanno una validità inter partes, ma una inevitabile portata
erga omnes; cosicché, ogni singolo atleta potrà reclamare l’applicazione di un accordo di
partenariato (che presenti le caratteristiche evidenziate) e il giudice nazionale non potrà esimersi
dalla disapplicazione delle norme sportive contrarie agli obblighi contenuti in queste fonti e in
particolare al principio di non discriminazione. La Corte, come si è visto, si esprime molto
chiaramente sul punto, sancendo espressamente che «(…) il principio di parità di trattamento (…)
può essere fatto valere da un amministrato dinnanzi all’autorità giudiziaria nazionale, affinché
questa disapplichi le disposizioni discriminatorie (…)».
Da questo punto di vista può dirsi che la pronuncia in commento si inserisce in una linea di
evoluzione del diritto sportivo ormai avviata da molti anni e che tende ad attribuire una dimensione
sempre più sovranazionale allo sport e alla sua regolamentazione30.
Tuttavia, la sentenza Simutenkov porta con sé una potenzialità ulteriore che travalica i confini
del diritto sportivo e di cui vale la pena accennare.
La portata erga omnes delle decisioni della Corte, di cui si è già fatta menzione, determina la
possibilità di applicare i principi ivi contenuti alla generalità dei lavoratori che appartengono a uno
28
Sul punto, v. M. CASTELLANETA, In caso di accordo con uno Stato terzo, cit, 72, che
criticamente rileva che l’eccezione è tenuta ferma in quanto tali competizioni non hanno una
preminente finalità economica, «malgrado la corresponsione dei diritti televisivi e delle
sponsorizzazioni renda sempre più difficile sostenere questa tesi».
29
Mostra, infatti, meraviglia M. CASTELLANETA, In caso di accordo con uno Stato terzo, cit, 72,
che afferma: «Se nel caso Bosman l’intero mondo sportivo si era mobilitato per impedire l’ingresso
delle norme comunitarie nel calcio, nella vicenda in esame è stata solo la federazione Spagnola,
direttamene coinvolta, a difendere le “ragioni” dell’ordinamento sportivo. Eppure la pronuncia in esame
è un ulteriore erosione, e non di poco conto, delle barriere poste dalle federazioni sportive».
30
Sul punto, si fa rimando ancora una volta a V. FRATTAROLO, L’ordinamento sportivo nella
giurisprudenza, cit., pag. 68 e ss.
NOTE a SENTENZA
La sentenza Simutenkov
Stato terzo e che svolgono in Italia una attività lavorativa31. Si tratta allora di milioni di lavoratori
impegnati nei più svariati campi, e per i quali esistono notoriamente una corposa serie di norme
speciali che - all’insegna di una presunta necessita di ordine pubblico - fissano obblighi,
limitazioni e oneri che non di rado si ripercuotono (anche solo di fatto) sulle condizioni di lavoro
della persona straniera. Si tratta di un numero elevatissimo di lavoratori stranieri che subiscono in
modo sistematico forme dirette e indirette di discriminazione che provengono per lo più da leggi
ordinarie che in quanto tali non possono derogare alla normativa comunitaria, in particolare
allorquando questa venga riconosciuta dalla Corte di Giustizia come immediatamente obbligatoria
per i singoli amministrati32.
Non si tratta di ipotesi isolate, ma di una serie di accordi che l’Unione europea ha stipulato (e
verosimilmente continuerà a stipulare) con i paesi non appartenenti alla Comunità maggiormente
interessati al fenomeno migratorio.
Le potenzialità della sentenza Simutenkov, inoltre, appaiono ancora maggiori se si pensa che la
Corte non si limita a ribadire il divieto di discriminazione, ma per definirne la portata si richiama
all’art. 39, n.2 CE, e dunque all’ampio contenuto che nel corso del tempo si è andato definendo
anche grazie agli interventi della Corte di Giustizia.
In definitiva, la sentenza Simutenkov si profila come uno strumento dalle forti potenzialità per
combattere le ingiustificate differenziazioni di trattamento subite dai lavoratori, non solo impiegati
nel mondo dello sport ma anche in tutti gli altri settori, dove si consumano da un punto di vista sia
quantitativo che qualitativo le più importati forme di discriminazione33.
(*) Dott. Giuseppe Gliatta : Collaboratore alla Cattedra di Diritto dell’Unione Europea e
Normative Europee dello Sport – Università di Teramo
31
Nello stesso senso v. M. CASTELLANETA, In caso di accordo con uno Stato terzo, cit, 72:
«Questo significa che anche altri lavoratori, non solo legati al mondo dello sport, potranno invocare le
disposizioni dell’accordo di partenariato, così come quelle dei trattati di associazione, per lo
svolgimento di una attività lavorativa a condizioni analoghe ai comunitari. Gli Stati dovranno così
rimuovere le norme interne che possono costituire un ostacolo al principio della parità di trattamento e
configurare una discriminazione sulla base della nazionalità sia in presenza di accordi di associazione
(Turchia, Bulgaria, Romania e Croazia), sia in caso di accordi di partenariato (tra gli altri Russia,
Ucraina e Bielorussia) che sanciscono il divieto di discriminazione».
32
Sull’argomento che travalica i limiti del presente lavoro, si fa rinvio ai vari contributi che possono
leggersi in AA.VV, Diritto degli stranieri, a cura di B. NASCINBENE, Torino, 2004
33
Tutto ciò senza dimenticare gli effetti quantomeno discutibili che possono derivare per il diritto
sportivo, per tutti v. M. COCCIA, La sentenza Bosman: summus ius, summa iniuria?, in Riv.dir.sport.,
1996, pag.541 e ss.
NOTE a SENTENZA
La sentenza Simutenkov
BIBLIOGRAFIA:
AA.VV, Diritto degli stranieri, a cura di B. NASCINBENE, Utet, Torino, 2004;
M. CASTELLANETA, In caso di accordo con uno Stato terzo la Corte fa scattare l’effetto Bosman, in
Diritto Comunitario e Internazionale, n.3, 2005;
M. CASTELLANETA, Dai limiti all’ingaggio, alla retribuzione, illegittima ogni disparità di trattamento,
in Guida al Diritto, 2003, n.20, pag.111;
M. COCCIA, Diritto dello sport, Le Monnier, Firenze, 2004;
M. COCCIA, La sentenza Bosman: summus ius, summa iniuria?, in Riv.dir.sport., 1996, pag.541;
M. COLUCCI, Lo sport e il diritto: profili istituzionali e regolamentazione giuridica, Novene, Napoli,
2004;
M. CREMONA, Citizens of Third Countries: movement and employment of migrant workers within the
European Union, in Legal Issues of European integration, 1997, pag. 87;
V. FRATTAROLO, L’ordinamento sportivo nella giurisprudenza, Giuffrè, Milano, 2005;
V. FRATTAROLO, Il rapporto di lavoro sportivo, Giuffrè, Milano, 2004;
A. MANZELLA, L’Europa e lo sport: un difficile dialogo dopo Bosman, in Riv.dir.sport., 1996, fasc. n.3,
pag, 409;
M. ROMANI - R. MOSETTI, Il diritto nel pallone:spunti per una analisi economica della sentenza
Bosman, in Riv. dir. sport., 1996, fasc. n.3, pag, 436;
M.T. SPADAFORA, Diritto del lavoro sportivo, Giappichelli; Torino, 2004;
M. MARESCEAU - E. Montaguti, The Relations between the European Union and Central and Eastern
Europe: A legal Appraisal, in Common Market Law Review, 1995, pag. 1327;
NOTE a SENTENZA
La sentenza Simutenkov
A. TIZZANO- R. DE VITA, Qualche considerazione sul caso Bosman, in Riv.dir.sport., 1996, fasc. n.3,
pag, 416;
J. TOGNON, La libera circolazione nel diritto comunitario: il settore sportivo, in Riv. amm., fasc. 7, 2002,
647;
G. VALORI, Il diritto nello sport: principi, soggetti, organizzazione, Giappichelli; Torino, 2005;
G. VIDRI, Il caso Bosman e la circolazione dei calciatori professionisti nell’ambito della Comunità
europea; in Resp. Civ. prev., 1996, pag. 433.
NOTE a SENTENZA
PARTE TERZA
GIURISPRUDENZA
SOMMARIO:
DECISIONE COMM. DISCIPLINARE FRIULI VENEZIA GIULIA del
10.10.2005 : l’ articolo 17 del codice di giustizia sportiva per i dilettanti
DECISIONE CORTE FEDERALE F.I.G.C. del 11.04.2006 : il caso “ Genoa”
pag . 122
pag.128
Decisione Comm.Disciplinare FVG
DECISIONE COMMISSIONE DISCIPLINARE
FRIULI VENEZIA GIULIA DEL 10.10.2005 :
L’ ARTICOLO
17 DEL CODICE DI GIUSTIZIA SPORTIVA PER I DILETTANTI
4.2.
DELIBERE DELLA COMMISSIONE DISCIPLINARE
La Commissione Disciplinare Regionale F.V.G. costituita dal cav. Alberto De Colle (presidente),
dall’avv. Silvio Franceschinis (componente effettivo), e dal dott. Andrea Del Vecchio (componente
effettivo e segretario f.f.), con la partecipazione, per quanto di competenza, del rappresentante
dell’A.I.A. sig. Adriano Giordano, nel corso delle riunioni del 07.10.05 e 10.10.05 ha assunto la
seguente decisione:
RECLAMO A.S.D. PALMANOVA PER LA ASSERITA POSIZIONE IRREGOLARE
DEL CALCIATORE GALANTE LORENZO NELLA GARA DEL 24/09/2005 PRIX
TOLMEZZO CARNIA - PALMANOVA
Letti gli atti ufficiali, nonché il preannuncio di reclamo avverso la regolarità della gara indicata
in oggetto formulato dalla A.S.D. PALMANOVA;
letto altresì il reclamo che la A.S.D. PALMANOVA ha fatto pervenire a questa C.D. il 30.09.05
affermando la posizione irregolare del calciatore Galante Lorenzo, nato il 20.05.1986 nella gara in
oggetto “in quanto lo stesso colpito da squalifica non ancora scontata, vedi C.U. 40/11 dd
11.05.05”;
rilevato che detto c.u. portava la squalifica per due giornate di gara del calciatore richiamato in
relazione a fatti avvenuti in una gara del campionato Regionale Juniores 2004/2005 in cui il
medesimo calciatore ha giocato nelle fila della ancora attuale sua società PRIX TOLMEZZO
CARNIA;
GIURISPRUDENZA
Decisione Comm.Disciplinare FVG
preso atto che la società reclamante segnala che nel corso della gara in oggetto la società
tolmezzina ha schierato il calciatore Galante che, a suo dire, risultava ancora destinatario del
provvedimento di squalifica;
la Commissione Disciplinare, ritenuta la propria competenza ai sensi dell’art. 42/3 C.G.S.,
osserva:
Partendo dal dato normativo, va evidenziato come la disciplina in ambito regionale della Lega
Nazionale Dilettanti e del settore per l'attività Giovanile e Scolastica preveda con norma speciale
all’art. 41 C.G.S. che:
“Art. 41/1. II tesserato colpito da squalifica per una o più giornate di gara deve scontare la
sanzione nelle gare considerate ufficiali dalla Lega Nazionale Dilettanti e dal Settore per l’attività
Giovanile e Scolastica della squadra nella quale militava quando è avvenuta l'infrazione che ha
determinato il provvedimento”.
Alla luce di tale inequivocabile disposizione, chi subisce una squalifica nel campionato
Regionale Juniores deve scontarla nel campionato Regionale Juniores.
Trattandosi di norma speciale dettata per il mondo dilettantistico, la normativa generale prevista
dall’art. 17 attuale C.G.S. può venire in rilievo solo in via integrativa o interpretativa. Ricordiamo,
però, per completezza, che l’art. 17 C.G.S., pur necessitando una riformulazione più organica per
immediatezza di lettura, ribadisce ancora il principio per cui:
“Art. 17/3. II calciatore colpito da squalifica per una o più giornate di gara deve scontare la
sanzione nelle gare ufficiali della squadra nella quale militava quando è avvenuta l'infrazione che ha
determinato il provvedimento (questo è il principio), salvo quanto previsto nel comma 6” (deroga al
principio). … Andiamo, così, a leggere il comma 6:
“Art. 17/6. Le squalifiche che non possono essere scontate, in tutto od in parte, nella stagione
sportiva in cui sono state irrogate, devono essere scontate, anche per il solo residuo, nella stagione o
nelle stagioni successive. Nel caso in cui il calciatore colpito dalla sanzione abbia cambiato società,
anche nel corso della stagione, la squalifica è scontata, in deroga al comma 3, per le residue giornate
in cui disputa gare ufficiali la prima squadra della nuova società di appartenenza (questa è la deroga
al principio), ferma la distinzione di cui all’art. 14, comma 10, nn. 1 e 3 (attenzione: questa è deroga
alla deroga al principio, che distingue tra gare di campionato e gare di coppa, e che ripristina il
principio generale per cui le squalifiche si pagano nella squadra in cui si militava o, meglio, nel
GIURISPRUDENZA
Decisione Comm.Disciplinare FVG
torneo (coppa o campionato) ndr). La distinzione prevista dall’art. 14, comma 10, n. 1, ultima parte,
non sussiste (e qui troviamo la deroga alla deroga che deroga al principio, per cui, nel caso specifico
in cui una società non partecipi alla medesima Coppa Italia, la squalifica va scontata nella gara di
campionato) nel caso che nella successiva stagione sportiva non sia possibile scontare le sanzioni
nella medesima Coppa Italia in relazione alla quale sono state inflitte”.
L’art. 14/10.1) prevede infatti che le sanzioni inflitte in relazione a gare di Coppa Italia e delle
Coppe Regioni organizzate dai Comitati Regionali si scontano nelle rispettive competizioni. A tal
fine le competizioni di Coppa Italia si considerano tra loro distinte in ragione delle diverse Leghe
organizzatrici delle singole manifestazioni.
L’art. 14/10.3) chiude: “Le medesime sanzioni inflitte in relazione a gare diverse da quelle di
Coppa Italia e delle Coppe Regioni si scontano nelle gare dell’attività ufficiale diversa dalla Coppa
Italia e delle Coppe Regioni”. Quest’ultimo riferimento in particolare ci conferma, ove ce ne fosse
stato bisogno, che il caso specifico, posto alla attenzione di questa C.D., in cui è posto all’attenzione
il rapporto tra Campionato Juniores e Campionato della prima squadra, non viene in rilievo la
differenziazione di cui all’art. 14/10 C.G.S. tra Campionato e Coppa.
Con il suo reclamo, la A.S.D. PALMANOVA afferma che “…sabato 17 settembre c.a. sono
scese infatti contemporaneamente in campo le formazioni della Prix Tolmezzo Carnia, sia per il
Campionato di Eccellenza sia per il Campionato Regionale Juniores…riteniamo pertanto che il
suddetto giocatore non possa aver scontato la squalifica nella gara Juniores se nello stesso tempo e
orario prendeva parte alla gara di Eccellenza”. Tale affermazione non è vera, tant’è che la gara
valida per il campionato Regionale Juniores tra Prix Tolmezzo Carnia e Pagnacco si è tenuta il
giorno 17 settembre, mentre la gara valida per il campionato di Eccellenza tra Capriva e Prix
Tolmezzo Carnia si è svolta il 18 settembre 2005. Ma anche nel caso in cui le due gare si fossero
svolte nella stessa giornata solare, anche in contemporanea, anche in tal caso l’eccezione della
reclamante sarebbe comunque rimasta priva di fondamento dopo la intervenuta abrogazione del
comma 13 dell’art. 17, che prevedeva che “la squalifica irrogata impedisce al tesserato di svolgere
qualsiasi attività sportiva in ogni ambito federale per il periodo di squalifica, intendendosi per tale,
nelle squalifiche per una o più giornate di gara, le giornate in cui disputa gare ufficiali la squadra
indicata al comma 3” (ovvero la squadra in cui militava il tesserato al momento in cui ha commesso
i fatti che gli sono valsi la squalifica). Con tale abrogazione, perde significato anche il riferimento al
“lasso temporale”, richiamato dalla reclamante, nelle squalifiche per una o più giornate di gara.
GIURISPRUDENZA
Decisione Comm.Disciplinare FVG
Alla luce di un tanto, pur ritenendo che il dato letterale della normativa vigente, per quanto poco
lineare, in verità, sia sufficiente a dirimere la questione, la C.D. ritiene di approfondire la
problematica ed affrontare più compiutamente la questione evidenziando, in particolare, come la
pronuncia della Corte Federale richiamata dalla reclamante sia, in parte, irrilevante per essere stato
abrogato il 13 comma dell’art. 17 C.G.S., in altra parte, invece, convinca ulteriormente questa C.D.
a rigettare il reclamo presentato.
La A.S.D. PALMANOVA rileva nel suo reclamo che “la Corte Federale con Comunicato n. 12
d.d. 12.01.04 esprime il parere e parla di squalifica espiata lungo il ‘lasso temporale’”. Ebbene,
ricordato che la Corte Federale, tra i suoi compiti istituzionali ha quello di dare le corrette
interpretazioni alle norme statutarie e regolamentari, vediamo che con la pronuncia in oggetto la
C.F. era stata interessata di valutare, tra l’altro, la possibilità di utilizzare nelle gare della prima
squadra il calciatore partecipante al Campionato Juniores (tanto in quota che fuori quota) che sia
stato squalificato in tale competizione.
Con riferimento alla triplice ipotesi di squalifica a fine campionato: a) di calciatore fuori quota;
b) di calciatore originariamente in quota, che, però, nella stagione successiva non rientri più nei
limiti di età fissati per la categoria Juniores; c) di calciatore partecipante originariamente al
Campionato Allievi, che nella stagione successiva ecceda i limiti di età fissati per la categoria, la
C.F. ha avuto responso unanime nel senso della necessità che la pena inflitta al calciatore debba
essere dallo stesso effettivamente scontata nella stagione successiva, nella squadra di sua militanza,
ed in gare omogenee (e, quindi, tipologicamente corrispondenti) a quelle nelle quali era maturata la
condotta punita.
Fermo restante il principio per cui “le norme sanzionatorie dell’ordinamento federale vanno
interpretate ed applicate nel senso che producano un qualche effetto piuttosto che nessuno”, la C.F.
segnalava il pericolo che si potesse consentire “alla eterogeneità delle gare della stagione successiva
rispetto a quella della stagione precedente da cui trasse origine la squalifica di fungere da strumento
di pratica elusione della pena e, quindi, di frustrazione delle finalità, sia afflittiva che deterrente, che
la norma federale assegna al sistema sanzionatorio”. In altri termini, la C.F. non vuole che lo
Juniores possa scontare la squalifica in gare diverse dal campionato in cui ha subito la sanzione.
Così, solo “qualora non ricorra, per le ragioni anzidette, il carattere di omogeneità tra la gara del
passato incriminata e gare attuali, la squalifica va scontata in qualunque tipo di gara disputata dalla
società di attuale appartenenza del calciatore. L’unico, intuitivo limite alla operatività di tale
GIURISPRUDENZA
Decisione Comm.Disciplinare FVG
principio, in perfetta coerenza con quanto già affermato da questa Corte (vedi Com. Uff. n.5/Cf
della stagione 2000/2001), è quello della separatezza tra gare di campionato e gare di coppa:
rispetto ad esse – per le ragioni analiticamente enunciate nel parere di questa Corte da ultimo citato
– il criterio di effettività della pena deve ragionevolmente cedere alla logica garantista che permea
di sé la pronuncia in esame, dalla quale non v’è, ne è stato prospettato, motivo di discostarsi nella
presente sede”.
In conclusione: solo la squalifica a tempo determinato copre tutto il “lasso temporale” per ogni
tipo di competizione.
Diversamente, parlando ora solo delle squalifiche per una o più giornate di gara, come per il
caso di specie, si distingue come segue:
se maturate in gare di Coppa fanno storia a sé e vanno scontate solo in gare di Coppa, salvo che
nella stagione successiva la società (vecchia o nuova) non si iscriva al detto torneo, nel qual caso si
scontano in gare di campionato;
le squalifiche maturate in gare diverse dalla Coppa devono essere scontate in campionato;
le squalifiche maturate in campionato devono essere scontate nello stesso campionato;
le squalifiche maturate alla fine del campionato, che travalichino la durata del campionato, si
trasmettono al campionato successivo e vanno scontate nello stesso campionato o in campionato a
questo omogeneo (prima squadra di una società è omogeneo a prima squadra della nuova società,
anche se in diversa categoria; regionale juniores è omogeneo a provinciale juniores; allievi è
omogeneo a juniores), e ciò indipendentemente dall’avervi partecipato “in quota” o “fuori quota”.
Così, la squalifica per due giornate inflitta al calciatore Galante nel campionato regionale
juniores va scontata nel campionato regionale juniores, e non nel campionato di prima squadra. Il
fatto che la gara Juniores sia stata giocata o meno nella stessa giornata della gara di Eccellenza non
significa più nulla.
Ne deriva che il reclamo è infondato.
P.Q.M.
La C.D. respinge il reclamo perché infondato e omologa la gara con il risultato maturato sul
campo di 5-1.
Dispone l’incameramento della tassa reclamo.
GIURISPRUDENZA
Il caso “Genoa”
FEDERAZIONE ITALIANA GIUOCO CALCIO
COMUNICATO UFFICIALE N. 13/Cf (2005/2006)
La Corte Federale, composta dai Signori:
Dott. Pasquale de LISE – Presidente
Dott. Emidio FRASCIONE - Componente
Prof. Carlo MALINCONICO – Componente
Prof. Alessandro PAJNO - Componente
Prof. Mario SANINO - Componente
Prof. Mario SERIO - Componente
assistita per la Segreteria dall’Avv. Ludovico Capece,
nella riunione, tenuta in Roma il 22 marzo 2006, ha adottato la decisione, la cui motivazione,
qui di seguito si trascrive.
PARERE INTERPRETATIVO AI SENSI DELL’ART. 22, COMMA 1, LETT. a), CODICE
DI
GIUSTIZIA
SPORTIVA
RICHIESTO
DALLA
COMMISSIONE
D’APPELLO
FEDERALE IN ORDINE A DECISIONI DISCORDI ED INCONCILIABILI ADOTTATE
DA ORGANI DISCIPLINARI IN TEMA DI ESECUZIONE DELLE SANZIONI
1. Nel corso della gara del Campionato di serie C/1 Ravenna-Genoa quest’ultima società
impiegava il calciatore Ghomsi Antonio, che risultava ancora destinatario di un provvedimento di
squalifica per due giornate effettive di gara nel corso del Campionato Primavera 2004/2005 allorchè
militava nella società Salernitana, e che aveva scontato una delle due giornate di squalifica in
occasione dell’incontro Salernitana-Lecce del 30 aprile 2005.
Con deliberazione adottata nella seduta del 5 settembre 2005 il Giudice Sportivo, dopo aver
osservato che il calciatore Ghomsi non aveva scontato la residua giornata di squalifica inflittagli,
riteneva che ricorressero nella fattispecie le condizioni di cui all’art. 17, comma 6, Codice di
Giustizia Sportiva, secondo il quale le squalifiche non scontate nella stagione sportiva in cui sono
GIURISPRUDENZA
Il caso “Genoa”
state inflitte devono essere scontate nella stagione successiva; che il principio era valido anche nel
caso di trasferimento di società, e che le giornate di squalifica residue andassero scontate in
occasione delle gare ufficiali nelle quali era impegnata la prima squadra della nuova società di
appartenenza.
Il Giudice Sportivo riteneva, pertanto, che occorreva far applicazione della disposizione
sanzionatoria di cui all’art. 12, comma 5, lett. a), C.G.S., ed infliggeva alla società Genoa la
punizione sportiva della perdita della gara, ed al calciatore interessato un’ammonizione.
Con decisione emessa nella seduta del 23 settembre 2005 la Commissione Disciplinare della
Lega Professionisti Serie C accoglieva il reclamo proposto dalla società Genoa avverso la
deliberazione del Giudice Sportivo e revocava la punizione sportiva della perdita della gara
Ravenna-Genoa, nonchè la sanzione dell’ammonizione inflitta al calciatore Ghomsi Antonio.
A tale esito la Commissione Disciplinare perveniva anche sulla scorta di precedenti pronunce
della Corte Federale (C.U. n. 5/Cf - riunione del 15 marzo 2001 e C.U. n. 12/Cf -riunione del 18
dicembre 2003) sostanzialmente affermando che: a) la disposizione di cui all’art. 12, comma 6 (ora
art. 17, comma 6) non introdurrebbe deroga al generale principio che le sanzioni subite in gara di
Coppa Italia debbano essere scontate in gare di Coppa Italia; b) l’ultima parte del comma 6 sarebbe
“necessaria integrazione del disposto del primo periodo del primo comma, il quale non disciplina
l’ipotesi di cambio di società da parte del calciatore nel corso della stagione o di quella successiva”;
c) la deroga espressa dall’art. 12, comma 6, riguarderebbe “esclusivamente quella parte del comma
3 con la quale si stabilisce che le sanzioni vanno scontate nelle gare ufficiali della squadra per la
quale il calciatore giocava, ma non certamente il generale principio della separatezza delle
competizioni ai fini dell’esecuzione delle sanzioni di squalifica o di inibizio ne”; d) il calciatore
Ghomsi, che aveva disputato una gara del Campionato Primavera riportando la squalifica, avrebbe
dovuto scontare il residuo turno di squalifica “non già nel campionato di competenza col Genoa,
sua nuova società, ma nelle omogenee gare disputate dalla società di serie C/1 del Campionato
Nazionale Berretti”.
Su appello della società Ravenna Calcio, la Commissione d’Appello Federale, nella seduta del
12 dicembre 2005 (C.U. n. 22/C del 13 dicembre 2005) ha, peraltro, sospeso il procedimento e
ritenuto di dover richiedere alla Corte Federale un parere interpretativo sulle norme che regolano
l’esecuzione delle sanzioni comminate in relazione a gare disputate in campionati diversi e in
stagioni sportive successive. La questione, infatti, già esaminata in modo discorde ed inconciliabile
GIURISPRUDENZA
Il caso “Genoa”
dal Giudice Sportivo e dalla Commissione Disciplinare presso la L.P.S.C, renderebbe indispensabile
la pronuncia della Corte Federale.
Con nota del 17 gennaio 2006 la C.A.F. ha pertanto rimesso gli atti alla Corte Federale.
2. L’art. 17 del vigente Codice di Giustizia Sportiva pone, come è noto, una serie di disposizioni
riguardanti, in generale l’esecuzione delle sanzioni inflitte dall’Autorità sportiva. In particolare,
l’art. 17, comma 3, dispone «che il calciatore colpito da squalifica per una o più giornate deve
scontare la sanzione nelle gare ufficiali della squadra nella quale militava quando è avvenuta
l’infrazione che ha determinato il provvedimento, salvo quanto previsto nel comma 6». Il
successivo art. 17, comma 6, precisa, poi, che «le squalifiche che non possono essere scontate in
tutto o in parte, nella stagione sportiva in cui sono state irrogate, devono essere scontate, anche per
il solo residuo, nella stagione o nelle stagioni successive. Nel caso in cui il calciatore colpito dalla
sanzione abbia cambiato società, anche nel corso della stagione, la squalifica è scontata, in deroga
al comma 3, per le residue giornate in cui disputa gare ufficiali la prima squadra della nuova
società di appartenenza, ferma la distinzione di cui all’art. 14, comma 10, nn. 1 e 3». L’art. 14,
comma 10.1, precisa infine che le sanzioni di cui al comma 1, lett. a), b), c), d), f) con squalifiche
inflitte dagli organi di giustizia sportiva «in relazione a gare di Coppa Italia o delle Coppe Regioni
organizzate dai Comitati regionali si scontano nelle rispettive competizioni». L’art. 14, comma
10.3, dispone infine che «le medesime sanzioni inflitte in relazione a gare diverse da quelle di
Coppa Italia e delle Coppe Regioni si scontano nelle gare dell’attività ufficiale diversa dalla Coppa
Italia e delle Coppe Regioni».
3. Tale essendo il quadro normativo in cui si inserisce il quesito prospettato, la Corte osserva che
l’art. 17, comma 3, C.G.S. obbedisce allo scopo di identificare l’ambito oggettivo-temporale di
espiazione della sanzione da parte del calciatore che l’ha riportata, e quindi, delle gare nelle quali
tale sanzione deve essere scontata. Esse sono normalmente le “gare ufficiali”, della “squadra” nella
quale il calciatore militava quando è avvenuta l’infrazione.
Come questa Corte ha già avuto modo di affermare, il problema dell’identificazione dell’ambito
oggettivo-temporale di esecuzione della sanzione è stato dalla norma risolto alla stregua del
principio della separatezza delle competizioni in ambito federale (C.U. n. 2/Cf – riunione del 17
luglio 1998) e di quello, speculare, della necessaria inerenza della sanzione stessa alla competizione
in cui ha avuto origine la condotta punibile, sicchè la sanzione deve, normalmente, essere espiata
nelle gare disputate dalla squadra in cui il calciatore squalificato militava al momento
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Il caso “Genoa”
dell’infrazione, ed all’interno della competizione o del torneo in cui la condotta si è manifestata
(C.U. n. 13/Cf – riunione del 22 maggio 2003).
In questo contesto un rilievo significativo deve essere attribuito alla locuzione “squadra” (alla
quale fanno riferimento le gare ufficiali in cui va scontata la squalifica), contenuta nell’art. 17,
comma 3, la cui utilizzazione deve essere considerata frutto di una significativa scelta consapevole,
posto che il successivo art. 17, comma 6, utilizza la locuzione in questione -ed in particolare quella
di prima squadra- come distinta da quella di società di appartenenza.
Deriva da ciò che, nell’ambito dell’art. 17, comma 3, l’espressione “squadra” appare volta ad
indicare non tanto, genericamente, la società di appartenenza del calciatore, quanto piuttosto la
specifica “formazione”, lo specifico “team” di quella società che partecipa ad una determinata
competizione (la squadra della società che partecipa ad una determinata competizione).
In tal modo intesa, la parola “squadra” indica, pertanto, oltre che l’appartenenza ad una certa
società, il riferimento ad una determinata competizione; è quindi esso ad esprimere il riferimento al
principio di separazione delle competizioni e di inerenza della sanzione alla competizione in cui si è
verificata la condotta punibile. E’, d’altra parte, proprio in tale logica che questa Corte, escludendo
la possibilità di una ipostasi tra il termine “squadra” e quello “società”, ha già affermato che alla
locuzione “gare ufficiali della squadra nella quale militava” il calciatore sanzionato non può che
attribuirsi il senso proprio fatto palese dalle parole usate, e cioè che il precetto si riferisce soltanto
alle gare ufficiali disputate dalla squadra di appartenenza del calciatore nell’ambito della
manifestazione in cui si svolse la condotta punita (C.U. n. 13/Cf – riunione 22 maggio 2003).
4. Se dunque l’art. 17, comma 3, pone la regola generale sopra ricordata, occorre, peraltro,
avvertire che tale regola non è l’unica che disciplina la determinazione dell’ambito oggettivotemporale di esecuzione della sanzione. Lo stesso art. 17, comma 3, si preoccupa, infatti, di chiarire
espressamente che ne esiste un’altra, quando, dopo aver descritto la regola generale, espressamente,
aggiunge che essa opera «salvo quanto previsto nel comma 6». Tale inciso, contenuto nell’art. 17,
comma 3, obbedisce allo scopo di rendere palese che, accanto alla regola generale in forza della
quale la sanzione va scontata dal calciatore colpito da squalifiche «nelle gare ufficiali della
squadra nella quale militava quando è avvenuta l’infrazione che ha determinato il provvedimento»,
ve ne è un’altra, rispetto ad essa diversa e derogatoria, contenuta nel successivo comma 6.
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Il caso “Genoa”
L’art. 17, comma 6, C.G.S. contiene, per la verità, non una ma più regole, la forma delle quali,
non ha, rispetto alla regola generale, valore derogatorio, ma valore aggiuntivo. L’art. 17, comma 6,
prima parte, pone infatti in obbedienza al principio di effettività, la regola della ultrattività della
sanzione oltre la stagione sportiva, precisando che la stessa deve essere scontata, ove non sia
possibile che ciò avvenga nella stagione in cui è stata irrogata, anche per il solo residuo, nella
stagione successiva.
L’art. 17, comma 6, seconda parte, pone invece una speciale disposizione per il caso in cui il
calciatore colpito abbia cambiato società, e ciò sia per l’ipotesi che il trasferimento sia avvenuto nel
corso della stagione che al termine di essa. Per entrambe tali ipotesi -e cioè per ogni ipotesi di
trasferimento-l’art. 17, comma 6, introduce la nuova e diversa regola, rispetto a quella generale
prevista nell’art. 17, comma 3: “in deroga” a tale disposizione, la sanzione deve essere scontata “per
le residue giornate in cui disputa gare ufficiali la prima squadra della nuova società di
appartenenza”.
La esplicita dizione legislativa evidenzia pertanto che, in base a tale (diversa e derogatoria)
regola la sanzione residua del calciatore che sia stato trasferito, deve essere scontata: a) in gare
ufficiali b) della “prima squadra" c) della “nuova società di appartenenza”.
Nella dizione legislativa acquistano specifico rilievo significativo le espressioni “nuova società
di appartenenza” e “prima squadra”, mentre l’uso contemporaneo delle parole “squadra” e “società”
conferma come tali locuzioni non possano essere utilizzate sostanzialmente come sinonimi.
In particolare, la locuzione “nuova società di appartenenza” è collegata con un effetto, per dir
così, “naturale” del cambiamento di società e ad esso direttamente consequenziale, e cioè con il
fatto che la sanzione non può più essere scontata nella vecchia società di appartenenza;
l’espressione “prima squadra” della nuova società di appartenenza, è collegata, poi, con lo specifico
contenuto precettivo della nuova regola, rispetto a quella generale espressa dall’art. 17, comma 3, e
cioè con il fatto che la squalifica non potrà, a seguito del trasferimento, essere scontata nella
squadra che partecipa alla competizione in cui si è verificata la condotta sanzionata, ma, appunto,
nella “prima squadra”.
Risulta, così, evidente che, con l’art. 17, comma 6, si è inteso individuare, per l’ipotesi di
cambiamento di società, anche nel corso della stagione, del calciatore colpito dalla sanzione, una
regola speciale, derogatoria, rispetto a quella generale posta dall’art. 17, comma 3, il cui contenuto,
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derogatorio , non sta tanto nella circostanza che la squalifica è scontata in una società diversa da
quella per la quale il calciatore giocava quando è stato sanzionato (questo è, infatti, un effetto
naturale del trasferimento), quanto, piuttosto, nel fatto che tale sanzione è comunque scontata nella
“prima squadra”.
L’espressione della norma, alla stregua della quale in caso di cambiamento di società la
squalifica è scontata, in deroga al comma 3 per le residue giornate «in cui disputa gare ufficiali la
prima squadra della nuova società» suppone evidentemente che quest’ultima abbia più squadre che
disputino diverse competizioni. Come, pertanto, alla locuzione gare ufficiali della squadra nella
quale militava, di cui all’art. 17, comma 3, non può attribuirsi altro significato che il senso proprio
delle parole usate, e cioè gare ufficiali disputate dalla squadra nell’ambito della manifestazione in
cui si svolse la condotta punita (C.U. n. 13/Cf), così deve ritenersi che con la locuzione utilizzata
nell’art. 17, comma 6, si sia inteso far riferimento a gare ufficiali disputate dalla formazione della
(nuova) società di appartenenza nella più elevata delle competizioni.
Il contenuto concettuale dell’espressione “prima squadra” va infatti ricercato nel collegamento
della medesima con la più elevata delle competizioni o manifestazioni a cui partecipa la medesima:
come, infatti, la parola squadra indica, nell’art. 17, comma 3, il collegamento con la manifestazione
in cui si è verificata la condotta lesiva, così l’espressione “prima squadra”, utilizzata nell’art. 17,
comma 6, non può che indicare, nell’introdurre la deroga pronunciata al comma 3, il collegamento
con la manifestazione più elevata disputata.
L’art. 17, comma 6, introduce, pertanto, una deroga al principio affermato nel comma 3 allo
scopo di garantire l’effettività e l’afflittività della sanzione dopo l’eventuale cambiamento di società
del calciatore, nelle gare ufficiali disputate dalla squadra della nuova società che partecipa alla più
elevata delle competizioni.
5.
L’art. 17, comma 6, precisa peraltro che, nel caso di trasferimento del calciatore ad altra
società rispetto a quella per la quale era tesserato all’epoca della condotta punita, la sanzione è
scontata, in deroga al comma 3, per le residue giornate in cui disputa le gare ufficiali la prima
squadra della nuova società di appartenenza, «ferma la distinzione di cui all’art. 14, comma 10, nn.
1 e 3». La deroga introdotta con l’art. 17, comma 6, trova pertanto un limite nella cennata
distinzione.
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Ora, l’art. 14, comma 10.1, pone la regola che le sanzioni ivi indicate inflitte in relazione a gare
di Coppa Italia e delle Coppe Regioni si scontano nelle relative competizioni; l’art. 14, comma 10.3,
pone la regola che tali sanzioni, se inflitte in relazione a gare diverse da quelle di Coppa Italia e
delle Coppe Regioni si scontano nell’attività diversa dalla Coppa Italia e dalla Coppa Regioni.
La distinzione posta dall’art. 14, comma 10, nn. 1 e 3, è quindi quella fra competizioni di Coppa
Italia e delle Coppe Regioni, da una parte, e tutte le gare relative alle competizioni ufficiali diverse,
dall’altra.
Consegue da ciò che la speciale disposizione di cui all’art. 17, comma 6, deve essere intesa nel
senso che la stessa prescrive, in deroga a quanto prescritto dal comma 3, che, nel caso in cui il
calciatore colpito da sanzione sia stato trasferito, la squalifica è scontata nella squadra della nuova
società che partecipa alla più elevata delle competizioni, fermo restando, comunque, che le sanzioni
inflitte in Coppa Italia o nella Coppa Regioni devono essere scontate in Coppa Italia o in Coppa
Regioni e che quelle inflitte in tutte le altre competizioni diverse dalla Coppa Italia (o dalla Coppa
Regioni), non possono essere scontate in Coppa Italia e in Coppa Regioni.
In tal modo intesa, la disposizione appare ispirata all’esigenza di garantire l’afflittività della
sanzione anche nel caso di trasferimento del giocatore sanzionato ad altra società, con la previsione,
derogatoria rispetto alla regola generale, che la sanzione deve essere scontata nella competizione
più rilevante a cui partecipa la nuova società; la stessa norma ha, tuttavia inteso garantire il rispetto
della distinzione tra le competizioni relative alla Coppa Italia (o alle Coppe Regioni), ed il resto
dell’attività ufficiale delle società, di modo che una sanzione conseguita in Coppa Italia non possa
essere comunque scontata in una competizione riguardante l’attività ufficiale diversa dalla Coppa
Italia ed una sanzione inflitta in una qualunque delle competizioni diverse dalla Coppa Italia non
possa essere scontata in quest’ultima.
Quella sopra ricordata sembra essere d’altra parte la più ragionevole interpretazione dell’art. 17,
comma 6, dal momento che ogni diversa interpretazione realizzerebbe una vera e propria
disapplicazione della norma del Codice di Giustizia Sportiva.
In particolare, una diversa interpretazione farebbe venir meno il carattere “speciale” e
“derogatorio” della norma di cui all’art. 17, comma 6, dal Codice di Giustizia Sportiva
espressamente sottolineato, finendo con l’applicare, al caso di sanzione da scontarsi, da parte del
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giocatore trasferito, la stessa regola generale posta dall’art. 17, comma 3 che richiede che la
sanzione sia scontata nella competizione in cui si è verificata la condotta punibile.
E’ evidente, infatti, in primo luogo, che la deroga posta dall’art. 17, comma 6, per l’ipotesi di
trasferimento del giocatore non può riguardare il principio secondo il quale il calciatore colpito da
squalifica non può scontare la sanzione nelle gare ufficiali della società per la quale giocava,
quando ha commesso l’infrazione, apparendo questo un esito del tutto naturale rispetto all’avvenuto
trasferimento.
In secondo luogo, deve essere ricordato che alla locuzione “squadra” utilizzata dall’art. 17,
comma 3, deve essere attribuito, come si è visto, il valore dell’indicazione di un collegamento con
la competizione in cui si è verificata la condotta illecita; la “deroga” prevista dalla diversa norma
posta per il caso di squalifica da scontarsi da parte del calciatore trasferito, non può che riguardare,
pertanto, il cennato collegamento.
In terzo luogo, un’interpretazione diversa da quella sopra indicata, finirebbe con lo svuotare di
contenuto il riferimento alla “prima squadra” che costituisce invece il punto centrale della speciale
disciplina posta dall’art. 17, comma 6, C.G.S..
6. L’interpretazione della speciale disposizione di cui all’art. 17, comma 6,
C.G.S. non confligge con la pronuncia della Corte di cui al C.U. n. 2/Cf del 21 luglio 1998, che
riguardava il principio di separazione delle competizioni, al quale è ispirata la regola generale di cui
all’art. 17, comma 3.
Non si pone in conflitto con la cennata interpretazione neanche la pronuncia di cui al C.U. n.
13/Cf, la quale riguardava la regola generale di cui all’art. 17, comma 3 (e non la disciplina speciale
di cui all’art. 17, comma 6), e le cui conclusioni sono state richiamate, espressamente nella presente
pronuncia.
Quanto, poi, alla pronuncia della Corte di cui al C.U. n. 12/Cf del 12 gennaio 2004, essa, pur
riguardando anche l’art. 17, comma 6, appare in realtà focalizzata non sull’identificazione della
speciale disciplina, derogatoria rispetto a quella generale, da applicarsi nel caso di trasferimento del
calciatore colpito da sanzione, ma sulla soluzione di una serie di quesiti specifici riguardanti
squalifiche inflitte in una stagione sportiva e non scontate nella medesima.
Sembra, invece, muoversi in una direzione almeno in parte diversa la pronuncia di cui al C.U. n.
5/Cf del 15 marzo 2001, la quale, senza affrontare la questione del valore da attribuire alla
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locuzione “squadra” nell’art. 17, comma 3, e “prima squadra” nell’art. 17, comma 6, sembra
ritenere che la deroga introdotta da tale disposizione riguardi soltanto il principio secondo il quale il
calciatore colpito da squalifica deve scontare la sanzione nelle gare ufficiali della squadra per la
quale egli giocava quando ha commesso l’infrazione.
Le ragioni sopra diffusamente esposte inducono, peraltro, la Corte a ritenere preferibile
l’interpretazione qui prospettata; tuttavia la delicatezza della materia trattata e la presenza di
pronunce fra loro contrastanti dei giudici sportivi e, nei limiti indicati, della stessa Corte Federale,
inducono a ritenere urgente un intervento normativo vòlto ad introdurre una disciplina chiara e
pienamente coordinata.
P.Q.M.
La Corte Federale esprime il parere interpretativo che, nel caso di trasferimento di
un
calciatore,
comma
6,
la
Codice
squalifica
Giustizia
residua
deve
Sportiva,
essere
nelle
gare
scontata,
ufficiali
ai
sensi
disputate
dell’art.
dalla
17,
prima
squadra della nuova società, intesa come formazione che partecipa alla più elevata delle
competizioni.
IL PRESIDENTE Dott. Pasquale de Lise
Pubblicato in Roma il 11 aprile 2006
IL SEGRETARIO
IL PRESIDENTE
Dott. Francesco Ghirelli
Dott. Franco Carraro
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