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Pubblicato in Floriani, S., Siebert, R. (a cura di), Andare oltre. La rappresentazione del reale tra letterature e scienze sociali, Pellegrini editore, Cosenza, 2013, pp. 113-128 “Come una scarpa in mezzo al mare”*. Narrare e ascoltare il racconto dei viaggi migranti di MONICA MASSARI Non si era notato che, dopo la fine della guerra, la gente tornava dal fronte ammutolita, non più ricca, ma più povera di esperienza comunicabile? […] nulla era rimasto immutato fuorché le nuvole, e sotto di esse, in un campo di forze attraversato da micidiali correnti ed esplosioni, il minuto e fragile corpo dell’uomo. W. Benjamin, Il narratore. Considerazioni sull’opera di Nicolaj Leskov (1936) Storie irredente La rilevanza della narrazione e del racconto come strumenti in grado di fornire rappresentazioni efficaci di sé, della propria esperienza biografica, del senso soggettivo delle realtà e dei processi sociali costituisce indubbiamente un dato oramai acquisito della ricerca etno-sociologica sui fenomeni migratori. Le testimonianze orali, i racconti di vita, le narrazioni autobiografiche sono fonti essenziali per poter accedere alla sfera delle emozioni, delle motivazioni, dei significati soggettivi attribuiti all’esperienza vissuta (Bertaux 1999; Bichi 2000; Boccagni 2011). Ma anche agli eventi, ai contesti, ai processi più propriamente sociali che compongono quell’incerto quotidiano che i migranti si trovano ad abitare. Se, da un lato, queste fonti sono indubbiamente essenziali per acquisire informazioni utili a ricostruire e comprendere fenomeni sociali su cui è difficile svolgere ricerca empirica diretta – come appunto avviene per i fenomeni sociali sommersi, qual è il caso dell’immigrazione irregolare – dall’altro esse pongono il ricercatore dinanzi a una serie di difficoltà, che solo in parte riguardano questioni più propriamente metodologiche. I racconti a cui si farà riferimento nel corso di queste pagine – che ci parlano di storie di uomini e donne passati attraverso vicende talvolta drammatiche, come è il caso di coloro che attraversano il Mediterraneo – pongono difficoltà soprattutto a un livello più profondo. Si tratta, infatti, di storie che parlano di vite interrotte, fughe, sradicamenti, corpi abusati, identità negate, misconoscimenti, rimozioni; ma anche di forme di sovversione, resistenza, di tentativi di reclamare strenuamente, comunque, la propria soggettività. Dense di descrizioni narrative di frammenti di esperienze vissute, di segmenti biografici rilevanti, di dettagli utili per comprendere ciò che talvolta potrebbe apparire oscuro o, quantomeno, poco ovvio, queste storie spesso ci parlano di vissuti che si confrontano con la dimensione dell’orrore e dell’incommensurabile (Agier 2010, p. 5), ma che, al contempo, e malgrado tutto, lasciano dei residui che fanno intravedere e danno forma e sostanza all’inimmaginabile (DidiHuberman 2005). Le testimonianze dei rifugiati, di chi fugge dai conflitti e dalla violenza, degli esuli * Dall’intervista a Duniya, una giovane migrante somala. Desidero ringraziare Iain Chambers per la disponibilità con cui ha accolto l’invito a leggere una versione precedente di questo scritto e per i preziosi commenti. 1 clandestini rievocano, talvolta, le memorie inaudibili dei sopravvissuti ai più noti eccidi e persecuzioni del ’900 e come quelle risultano di sovente abitate da ce(n)sure, interruzioni, rimozioni, vuoti. Il tempo dilatato dei silenzi durante un’intervista, gli sguardi muti, il fruscio silenzioso dello scorrere della registrazione tradotto nei puntini di sospensione trascritti su un foglio bianco comunicano informazioni di cui non sempre si comprende la natura, ma se ne intuisce spesso la rilevanza1. La trama che queste narrazioni faticosamente tentano di ricomporre, dando ordine e nome a eventi di cui si è stati e si è protagonisti (Jedlowski 2010a, p. 20), non può infatti essere disgiunta, talvolta, dal trauma che l’esperienza vissuta evocata nel corso del racconto inevitabilmente ridesta e dallo spaesamento che suscita in chi si trova a essere il destinatario del racconto stesso. Il dolore, la violenza, l’umiliazione, il lutto che si intravedono dietro lo sguardo di chi ricostruisce e racconta memorie traumatiche – come appunto nel caso dei viaggi irregolari dei migranti attraverso le frontiere – contengono inevitabilmente un potenziale destabilizzante anche per chi ascolta. Quello sguardo incerto che non solo ci parla di un’esperienza individuale drammatica, ma che ci conduce ineluttabilmente a confrontarci con le matrici storiche e sociali della sofferenza e con le strutture di potere fortemente asimmetriche che producono l’illegalità, la clandestinità, la condizione di nonpersone, come giustamente sottolinea Roberto Beneduce (2010, p. 4), ci interpella e ci pone dinanzi a un interrogativo di non facile soluzione: quale possibilità abbiamo di accogliere quelle storie irredente e di ascoltare la loro voce oppressa2? Viaggi attraverso il deserto e il mare A seguito dell’esplosione della “primavera araba” e delle rivolte che dalla Tunisia si sono estese, a partire dalla fine del 2010 e i primi mesi del 2011, in diversi Paesi dell’area nord-africana, la ripresa poderosa e, al contempo, drammatica dei viaggi dei migranti fra le due sponde del Mediterraneo ha acquisito nuovamente visibilità nel dibattito pubblico. Viaggi, come sappiamo, moltiplicatisi dall’inizio del 2011 e che hanno visto Lampedusa, dopo una parziale interruzione durata poco più di un anno, assurgere nuovamente a luogo fisico e simbolico emblematico di una delle pagine più drammatiche della storia contemporanea, quella delle migrazioni irregolari: indotte, spesso forzate, obbligate e comunque realizzate in condizioni di estrema pericolosità, affrontate talvolta con la consapevolezza che il viaggio che si intraprende possa tramutarsi, letteralmente, in un non ritorno3. Secondo i dati disponibili, dal 1988 oltre 18.000 migranti sono morti tentando di raggiungere in maniera irregolare l’Europa, di cui oltre 2.000 nel corso del 20114. E molti altri sono i migranti tragicamente dispersi in mare di cui non si sa tuttora nulla. L’attraversamento del Mediterraneo su imbarcazioni di fortuna, affidate alla guida di persone per lo più inesperte, in condizioni di navigazione talvolta estreme, senza alcun equipaggiamento utile a fronteggiare i mille pericoli che il mare potrebbe presentare costituisce l’ultima fase di un viaggio iniziato, talvolta, molto tempo prima5. Oltre a coloro che partono dai Paesi più prossimi ai luoghi di imbarco – soprattutto tunisini, egiziani e marocchini – buona parte dei migranti giunti via mare sulle coste siciliane in questi ultimi anni proviene dall’Africa sud-occidentale – Nigeria, Ghana, Costa d’Avorio – e dall’Africa orientale, in particolare dalla Somalia e dall’Etiopia. I loro racconti parlano di mesi, talvolta anni, trascorsi in cammino attraverso i meandri di quella geografia parallela, in parte 1 Si tratta in molti casi di silenzi eloquenti se non, addirittura, assordanti, che sono inestricabilmente avvinti a storie individuali, ma di cui è evidente la matrice politica e, per così dire, macrosociale. 2 Come giustamente mi suggerisce Iain Chambers, questa interrogazione “va ben oltre l’ascoltatrice per toccare il cuore di tenebra occidentale”. 3 Anche in Italia si dispone attualmente di vari testi di natura giornalistica e, più propriamente, scientifica riguardanti il fenomeno dell’immigrazione irregolare via mare dal Nord Africa verso le coste siciliane. Fra i principali si ricordano: Bellu (2004); Del Grande (2007; 2009); Delle Donne (2004); Gatti (2008); Liberti (2008); Monzini (2008). A questi occorre aggiungere come, grazie all’iniziativa di giovani documentaristi, film-makers e attivisti nel campo delle migrazioni, siano stati prodotti, negli ultimi anni, diversi audiovisivi che trattano espressamente il fenomeno. Fra questi si segnalano, fra i più noti: Biadene, Segre e Ymer (2008); Cederna e Ymer, (2010); Segre (2006; 2007), oltre a una serie di audio-documentari realizzati da Roman Herzog (2008; 2009). 4 Informazioni tratte dal sito dell’Osservatorio Fortress Europe e aggiornate al 13 luglio 2012: http://fortresseurope.blogspot.it/p/fortezzaeuropa.html. 5 Le informazioni riguardanti i viaggi via mare dei migranti dal Nord Africa verso le coste siciliane sono tratte principalmente da Massari (2010). 2 sovrapponibile alle mappe ufficiali, fatta di attraversamenti, soste forzate, soggiorni temporanei in luoghi di frontiera in attesa del passaggio giusto, del denaro necessario, della guida più esperta o, più semplicemente, del momento più propizio a continuare il viaggio6. Affidati alla perizia e, molto meno, alla benevolenza di passeur, dallala (intermediari) e mediatori che offrono a pagamento i propri servizi di accompagnamento lungo tratti più o meno lunghi del percorso che li condurrà verso il porto d’imbarco, i migranti si trovano a sperimentare, durante questa lunga fase del viaggio, situazioni estremamente difficili, spesso ai limiti della tolleranza fisica, ma soprattutto psicologica. Nelle conversazioni avute con molti di loro, ricorre frequentemente il racconto di violenze, abusi, soprusi esercitati sia dai vari mediatori contattati dai migranti per percorrere alcune tappe del tragitto, sia dalle forze dell’ordine, poliziotti, personale di frontiera incontrati nei vari Paesi attraversati. È oramai risaputo, infatti, come “l’industria dell’ingresso clandestino”, che ha consentito e consente tuttora a chi non dispone dei requisiti necessari per giungere in maniera regolare nella cosiddetta Fortezza Europa, possa operare grazie a un’intricata rete di rapporti reciprocamente vantaggiosi gestita solo in parte da network illeciti composti da gruppi criminali. Dall’analisi delle informazioni disponibili emerge come questi viaggi spesso siano resi possibili dai servizi offerti a pagamento da singoli individui che dispongono di particolari know-how, come appunto nel caso dei passeur o degli agenti di viaggio, mediatori in grado di mettere in contatto la domanda con l’offerta, semplici cittadini che offrono alloggi dove ospitare momentaneamente i migranti in fuga o che provvedono ad organizzarne il soggiorno – fornendo loro pasti, informazioni, tessere telefoniche con cui chiamare i famigliari in patria –, connazionali dei migranti stessi che risiedono stabilmente nei luoghi di transito e che si offrono come intermediari. Ma anche poliziotti corrotti, personale di frontiera, funzionari di ambasciate, esponenti delle istituzioni – come, ad esempio, direttori di carceri e di altri luoghi di detenzione presenti in diverse aree della Libia – entrati a far parte, in maniera più o meno organica, del complesso sistema che consente, ad esempio, a una donna partita da uno sperduto villaggio somalo dell’area di Mogadiscio di giungere dopo cinque, sei, sette mesi o addirittura un anno di viaggio in uno dei porti di partenza situati nella zona di Zuwarah o di Tripoli, da cui imbarcarsi alla volta dell’Italia (Massari 2010). Sia per i migranti provenienti dall’Africa sub-sahariana che per coloro che provengono dall’area orientale del continente l’attraversamento del deserto per entrare in Libia costituisce indubbiamente una delle fasi più difficili del viaggio. A seconda del denaro di cui si dispone e, dunque, dei servizi che si è in grado di acquistare, l’attraversamento del deserto può richiedere una settimana di viaggio – qualora venga percorso con automezzi – o addirittura anche tre-quattro settimane nei casi in cui se ne percorra una parte a piedi, sempre accompagnati da guide locali e intermediari. Per i migranti si tratta di uno dei momenti di maggiore vulnerabilità a causa delle condizioni particolarmente dure in cui si svolge il viaggio stesso: con un equipaggiamento ridotto al minimo e con scorte di acqua e di cibo quasi sempre insufficienti a fronteggiare contrattempi e ritardi rispetto ai tempi originariamente previsti. Questo è il racconto di Hudson, un ragazzo ghanese: Un giorno particolare, il guidatore venne, ci prese, noi avevamo acqua, avevamo ogni cosa nel pick-up, io avevo anche medicine… perché la macchina avrebbe attraversato il deserto in un certo posto. Poi, per raggiungere un posto avremmo dovuto camminare a piedi, per 3 o 4 giorni, a seconda dell’area che devi attraversare. Il viaggio in macchina è durato una settimana, la macchina camminava nel deserto, ogni tanto dormivamo, il guidatore si fermava per fare la pipì, per mangiare… poi raggiungemmo un posto e il guidatore ci disse che ci saremmo dovuti fermare lì. Ci consegnarono a una persona, il nome locale è ghide, che ci avrebbe accompagnato a piedi e mostrato la strada. […] Noi lo seguimmo e passammo attraverso le montagne. La guida ci condusse per circa due giorni e poi si dileguò, così dovemmo proseguire per conto nostro. […] Quando l’uomo scappò, seguimmo le orme dei piedi di altre persone… e tutti… alcune persone dicevano: “questa è una via”, altri dicevano: “questa è una via”. Così qualsiasi strada sceglievi, quella che ti sembrava giusta seguivi. […] Noi seguimmo le orme delle persone, vedemmo altre persone che avevano camminato ed erano morte, molte persone che erano morte sulla via, perché a volte l’acqua che porti finisce e, anche se finisce, devi continuare a camminare e finisci per morire (ivi). 6 Nel corso della ricerca sul campo, svoltasi negli ultimi mesi del 2009, l’équipe composta da Monica Massari e Gianluca Gatta ha intervistato 30 donne e uomini migranti giunti in Italia in maniera irregolare nel periodo compreso fra l’agosto 2007 e il dicembre 2009 (cfr. ivi). 3 Ma si tratta di un viaggio estremamente pericoloso anche a causa delle continue incursioni da parte di banditi e mercenari che, spesso con la complicità degli stessi accompagnatori, aggrediscono i migranti, sottraendo loro i pochi beni essenziali di cui dispongono. E dunque rendendo pressoché impossibile, per alcuni, la continuazione del viaggio stesso. Nel nostro gruppo sono morte tre persone, mentre camminavamo, collassarono… Li lasciammo lì… Mentre camminavamo vedemmo dei predoni… dei ladri… vennero con le armi, chiesero a tutti di sdraiarsi, presero tutti i nostri vestiti, poi presero tutti i nostri soldi, tutto il nostro cibo, e controllarono se avevamo nascosto soldi nell’acqua […]. Io nelle mie scarpe, avevo tagliato giù (nella suola), messo dentro il denaro e incollato, ma loro prendono ogni cosa da te! E poi ti danno i loro vestiti. […] Perdi ogni cosa. È la guida che li porta… e ha dei legami con i predoni. Così da quel punto camminai con i miei amici tre giorni. Vedemmo la luna e pensammo che fossero luci, così seguimmo la luna […] se vedi che c’è qualche luce, poi sai dove andare. […] Così noi seguimmo la luna, camminavamo, ma non vedevamo niente, non c’era niente, pensavamo fossero luci e invece era la luna… (ivi). Raccogliendo una dopo l’altra queste storie si è indotti a pensare che durante questo lungo percorso – attraverso il deserto e, poi, il mare – venga realizzato quasi una sorta di perverso apprendistato, di socializzazione anticipatoria nei confronti di ciò che attende i migranti nella fase successiva del viaggio, cioè una volta giunti a destinazione in Europa dove, in molti casi, saranno sottoposti a forme di sfruttamento estremo. Si procede attraverso gradi crescenti di pericolosità, soglie progressive di assoggettamento, subordinazione, annullamento di qualsiasi barlume di autonomia e di volontà. L’abbandono, la minaccia costante di ritorsioni violente e punizioni, l’incombenza della morte si ripropongono incessantemente durante tutto il percorso, ogni volta con un grado crescente di intensità. Racconta ad esempio Duniya, una ragazza somala di circa 30 anni, a proposito dell’ultima parte del suo viaggio, quello attraverso il mare da Zuwarah, in Libia, verso Lampedusa: Il mare era bello. Questo ci ha salvati, che il mare non era arrabbiato. Abbiamo aspettato due giorni e due notti così, aspettando di morire. Già la mattina, alle 2 di giovedì era finito il pane e l’acqua. Poi venerdì è finito tutto il cibo. Il gommone era rotto, il motore era rotto. Aspettavamo di morire. Tutti dobbiamo morire. Preghiamo. Tutti avevamo paura, piangevamo e chiedevamo a Dio di salvarci. La notte poi avevamo ancora più paura, senza luce. Poi la mattina di sabato vedevamo passare delle grandi navi, tutti le indicavano. Ma loro non ci vedevano perché eravamo come una scarpa in mezzo al mare. Eravamo troppo piccoli (ivi). Letteralmente alla mercé di individui senza scrupoli da cui si dipende totalmente con ben poche possibilità di scelta e in balia di situazioni in cui non si dispone di alcuna capacità di orientamento, questi uomini e queste donne riescono comunque ad attivare forme di resistenza fisica e psicologica inimmaginabili di cui si trova, in qualche modo, un’eco nei racconti che ci hanno affidato. Penso, ad esempio, alla delicatezza struggente di certe immagini – la luna, la scarpa in mezzo al mare, il ricordo frequente dei delfini che accompagnano nel viaggio le imbarcazioni di fortuna dirette verso le coste siciliane – che solo apparentemente introducono una dissonanza rispetto all’orrore di ciò che viene narrato e che ci riportano all’enigma del ricordare e raccontare esperienze come queste. Ma che, dall’altro lato, ci consentono di comprendere un po’ più da vicino quel paradosso della condizione dei sopravvissuti “forzati a confrontarsi, senza tregua, con l’incomprensibilità della loro condizione” (Beneduce 2010, p. 9) e, al contempo, impegnati a opporre, in qualche modo, delle forme di resistenza7, a cercare di riappropriarsi, strenuamente, di una loro soggettività8. Narrazione vs. relazione 7 Come ben sanno coloro che, oltre a studiare le migrazioni, si trovano quotidianamente a lavorare con i migranti, accanto a una riflessione sulle dimensioni del dolore e della sofferenza devono necessariamente esserci la consapevolezza e l’adeguata valorizzazione della fatica dei processi di costruzione di soggettività da parte dei migranti che lottano strenuamente contro i ricorrenti tentativi di dipingerli secondo un’ottica esclusivamente vittimizzante (Gatta 2011). 8 Judith Butler (2005) ci ricorda come l’espressione foucaultiana “soggettivazione”, in qualche modo evocata fra le righe del nostro discorso, richiami una duplice accezione: rendere soggetto e assoggettare. 4 Accanto all’analisi delle dinamiche di questi viaggi e alle caratteristiche di questi spostamenti, il sociologo è inevitabilmente obbligato a chiedersi quale osservazione, quale tipo di analisi siano praticabili di fronte agli orrori e al dolore9. Rileggendo a distanza di tempo storie come queste, raccolte nel corso della ricerca sul campo, non si può non soffermarsi su questioni legate alla memoria, all’oblio, alla sofferenza, al lutto, a quella “violenza della Storia” (ivi, p. 4) che spesso si è invitati ad accogliere con rassegnazione. Ma anche al silenzio, al terrore, all’umiliazione di donne e uomini che continuano a vivere assediati da ricordi, esperienze, ferite difficilmente narrabili, difficilmente traducibili10. Fra l’altro in una lingua che non è la propria, ma è legata a universi morali, sociali e culturali sensibilmente diversi, sostanzialmente estranei. L’obiettivo originario della ricerca – che era appunto quello di ricostruire e analizzare la complessa organizzazione del viaggio verso l’Italia e le modalità attraverso cui si era potuto svolgere – si è trovato pertanto ad essere travolto da una serie di questioni, sopraffatto da una moltitudine di interrogativi che tuttora emergono, dentro di me, come echi, sottofondi, voci bisbiglianti, suoni soffocati. E che rimandano alla domanda posta all’inizio di queste riflessioni: quale possibilità abbiamo, come ricercatori, di accogliere e comprendere un idioma, un linguaggio, una storia che solo in parte ci parla di sofferenza individuale? Le implicazioni sociali, politiche, culturali di queste narrazioni sono infatti evidenti e ci parlano di un passato, ma anche di un presente, coloniale e postcoloniale, che non si può ignorare. Il senso più profondo di queste implicazioni mi sembra sia ben espresso nelle parole di Iain Chambers: I frammenti del passato che erompono nel presente non ci indirizzano né verso le definizioni dei giudizi ufficiali né semplicemente verso l’inutile farsa del non risolto e le vaghezze inconcludenti della molteplicità, quanto piuttosto verso una densa costellazione di vite trascorse che offuscano qualsiasi tentativo di raccontare. Il frammento, la voce dimenticata, il corpo ignorato alludono, quando non possono rappresentare, all’interferenza e all’interrogativo depositati nella storia che ci ha consegnati al nostro tempo e al nostro spazio (Chambers 2007, p. 28). Dunque il richiamo all’esercizio di un sapere critico diventa cruciale ed esso si salda con la necessità di pervenire a un altro modo di ri-raccontare che sia in grado, fra le altre cose, di inglobare al proprio interno, senza pretendere di dipanarli, anche i silenzi. Chi lavora a stretto contatto con i migranti – operatori, studiosi – viene spesso indotto a operare una sorta di “continuo svuotamento di sé e della propria (privilegiata) alterità, chiamata in causa e in qualche modo rispecchiata, e capovolta, dall’oggetto stesso di indagine” (Triulzi, Carsetti 2007)11: oggetti di indagine che appunto reclamano a viva voce la propria soggettività e che sovvertono la schematicità di posture – oggetto/soggetto – destinate inesorabilmente a implodere. Il fatto di trovarsi di fronte a individui segnati da traumi, fratture, portatori di “memorie scomode” che mettono in luce aspetti, caratteristiche del nostro mondo che non è possibile ignorare (Mantovani 2010, p. 13) crea un legame profondo destinato a durare. Il ricercatore, che è il destinatario di quei racconti, certamente li utilizzerà per validare o meno alcune spiegazioni teoriche di particolari contesti o processi sociali. Cercherà, poi, di individuare le modalità attraverso cui il soggetto intervistato costruisce e ricostruisce la rappresentazione di sé e della propria esperienza biografica (Longo 2006). Ma non potrà, ugualmente, sottrarsi dal sentire su di sé quella dose di responsabilità che la posizione di destinatario di quei racconti inevitabilmente gli affida (Jedlowski 2010b, p. 23) e con cui è chiamato a fare i conti ben oltre il completamento della sua ricerca. La dimensione relazionale che il racconto crea, in casi come questi, modifica per sempre, verrebbe da dire, il rapporto tra chi narra e chi ascolta. Se “la qualità dell’ascolto su cui il narratore sente di poter contare determina la qualità del racconto” (Jedlowski 2009, p. 31) è inevitabile che alla 9 Le ricerche e le riflessioni condotte da Roberto Beneduce, etno-psichiatra, direttore del Centro Frantz Fanon di Torino, costituiscono un punto di riferimento essenziale per coloro che lavorano sui temi legati alle memorie traumatiche e a cui sento di essere particolarmente debitrice. Su questo aspetto si rimanda, fra i vari contributi prodotti dallo studioso in questi anni, ad uno dei suoi ultimi lavori, già citato in questo capitolo: Beneduce (2010). 10 La questione dell’intraducibilità assume ovviamente una rilevanza particolare anche da un punto di vista epistemologico e impone al/alla ricercatore/trice la necessità di ripensare criticamente – ancora una volta – l’adeguatezza dei propri strumenti di analisi e delle proprie categorie concettuali. 11 Mi sembra che questo sia uno dei significati, fra gli altri, evocati da Vito Teti con l’espressione “etnografia rovesciata”: un’etnografia in cui trovano posto le prospettive di chi vogliamo conoscere; cfr. il saggio di Teti contenuto in questo volume. 5 responsabilità epistemologica, per così dire, si affianchi una responsabilità politica anche dello scienziato sociale chiamato ineluttabilmente a confrontarsi ed, eventualmente, con il proprio lavoro a sovvertire quello stato di “anestesia culturale” o di indifferenza pubblica che queste storie – su cui disponiamo oramai di informazioni sempre più accessibili – incredibilmente generano tuttora12. Riflessioni conclusive: ascoltare per poter ri-narrare Grazie ai lavori sulle narrazioni che si stanno oramai consolidando anche in Italia13, oggi comprendo meglio come per coloro che hanno vissuto da protagonisti vicende come queste sia difficile parlare, narrare l’indicibile, ciò che si è vissuto veramente. Molti protagonisti di queste storie si difendono, si proteggono dal ricordo traumatico con il silenzio; e l’intervista talvolta squarcia quasi con violenza quel velo, lasciando il dolore nudo nella sua oscenità. Un silenzio che parla di una violenza, ma anche di pratiche sociali, politiche incomprensibili: ricordare è doloroso anche perché è quasi impossibile delimitare, addomesticare un’esperienza così traumatica. L’oblio è indubbiamente funzionale alla sopravvivenza (Beneduce 2010). Il cinema, il documentario, il romanzo autobiografico, sotto questo profilo, cercano di supplire a questo silenzio, raccontando – come ci ricorda Paolo Jedlowski (2009) nella sua analisi di Heimat – la storia di chi non sa o, aggiungerei, non può raccontare la propria storia, costruendo idealmente quel cerchio narrativo in cui è lecito anche rimanere muti: “Pensavo che avrei dimenticato tutto ciò” dice Dagmar Yimer, giovane regista eritreo protagonista e autore di Come un uomo sulla terra e altri documentari dedicati a questo tema, “ma poi insieme abbiamo capito che dovevamo raccontare”. Ancora più difficile è, talvolta, trovare chi voglia veramente ascoltare questi racconti: perché – come accennavo prima – raccontare significa anche stabilire una relazione con chi ti ascolta, con il destinatario del proprio racconto. Ma questi racconti sono spesso inaudibili, nel senso che si preferirebbe non ascoltarli, o avvallare le contro-narrazioni che vengono fatte a livello politico, istituzionale: la retorica dell’invasione, dell’emergenza biblica, dei “clandestini”. Chi, in qualche modo, è interessato a raccogliere queste storie per poterle poi rinarrare, servendosi degli strumenti delle scienze sociali, non ha un percorso facile dinanzi a sé. Ci si trova ad essere ascoltatori, il più possibile attenti, composti di ciò che viene narrato e che con le domande si cerca di sollecitare: il ricercatore, in questo caso, raccoglie le informazioni con il proposito di analizzarle e studiarle, inserendole in un contesto più ampio di riflessione. Ma il ruolo dell’osservatore ‘esterno’, in questi casi, può anche entrare in crisi, sgretolarsi, a seguito del coinvolgimento progressivo, profondo all’interno di una trama complessa di interazione. Mentre raccoglievo e ascoltavo le storie che dovevano comporre la base empirica da cui attingere le informazioni sull’organizzazione del viaggio che dal loro Paese li aveva condotti a sbarcare sulle coste siciliane, dentro di me si faceva strada sempre più la consapevolezza di qualcosa a cui non avevo pensato prima. E cioè che, per alcuni dei migranti che avevo incontrato, quella era la prima volta che raccontavano la propria storia, che ricostruivano la memoria di ciò che avevano vissuto, di ciò che per loro era stato. Raccontando la propria esperienza, essi cercavano di articolarla, di dare ordine ai ricordi, di ricostruire una trama e tutto ciò aveva inevitabilmente un effetto dirompente. La consapevolezza di ciò che avevano vissuto emergeva proprio durante il racconto. Come nel caso di Jesus, un ragazzo nigeriano di 17 anni incontrato a Napoli e che nel corso del suo racconto, quasi come un tragico mantra, ripeteva ad ogni pausa: “Non è possibile, Dio, non sono io ad aver vissuto tutto questo” (Massari 2010). Chi si trova ad essere destinatario di questi racconti è obbligato, in qualche modo, a fare i conti anche con i limiti della propria apparente impotenza nel momento in cui, ad esempio, gli vengono 12 Come evidenzia Carla Benedetti (2011, p. 52), lo scontornamento, la frammentazione dell’informazione televisiva su temi come questi, spesso “spezzano il processo conoscitivo e emotivo”, modificano il sentire, atrofizzano la facoltà del compianto, inducendo “un’accettazione paralizzata del male”. 13 Per una bibliografia sul tema si rimanda a Jedlowski (2000) e alle note al capitolo 2 in Jedlowski (2009). 6 rivolte domande come quella che pone Dagmar Yimer alla platea, presentando pubblicamente il suo documentario: “Perché ho fatto parte di questa generazione che fugge?”14. Il fatto di trovare un contesto di ascolto disponibile ad accogliere i linguaggi dell’inquietudine, in grado di offrire percorsi che restituiscano alle persone la loro interezza, forse può far sì che il racconto, la testimonianza siano concepiti come strumenti per riappropriarsi di una coscienza condivisa (Beneduce 2010). Come sottolineano studiosi e operatori che hanno scelto di lavorare a fianco dei migranti: Il nostro sguardo diventa importante se cerca di restituire alla persona la sua interezza, alle vite la qualità narrativa, alla frattura il valore di un’iniziazione, una trasformazione che porta con sé tutta l’identità e tutta la storia, individuale e collettiva (Triulzi, Carsetti 2007). È forse proprio qui che i nessi fra sapere sociologico e paradigma narrativo nelle sue varie forme possono essere esplorati, dal momento che queste memorie traumatiche non esprimono soltanto una domanda individuale, ma soprattutto collettiva, sociale. Sono infatti i sopravvissuti ai massacri, i rifugiati, i migranti, i vari dannati della terra, come ci dice Roberto Beneduce (2010, p. 109) nella conclusione del suo testo dedicato alle archeologie del trauma, “a farsi, con i loro corpi e le loro esistenze, espressione di una memoria indesiderata che si preferirebbe spesso dimenticare o tacere”, di un passato irrisolto, di ineguaglianze e asimmetrie che hanno lasciato una traccia profonda, anche nella storia recente, e che non smettono di interrogarci. 14 Si fa qui riferimento all’intervento di Dagmar Yimer in occasione della presentazione pubblica del suo documentario Come un uomo sulla terra tenutasi a Certaldo (Firenze) il 17 aprile 2010. 7 Riferimenti bibliografici Agier, M. (2010): Inchiesta sulle testimonianze dei rifugiati nei campi africani, in “Studi Culturali”, VII, 1. Batini, F., Giusti, S. (a cura) (2010): Imparare dalle narrazioni, Edizioni Unicopli, Milano. Bellu, G. M. (2004): I fantasmi di Portopalo, Mondadori, Milano. Benedetti, C. (2011): Disumane lettere. Indagini sulla cultura della nostra epoca, Laterza, Roma-Bari. Beneduce, R. (2010): Archeologie del trauma. Un’antropologia del sottosuolo, Laterza, Roma-Bari. Benjamin, W. (1936): Il narratore. Considerazioni sull’opera di Nikolaj Leskov, trad. it. Einaudi, Torino, 2011. Bichi, R. (2000): La società raccontata. Metodi biografici e vite complesse, FrancoAngeli, Milano. Bertaux, D. (1998): Racconti di vita. La prospettiva etno-sociologica, trad. it. FrancoAngeli, Milano, 1999. Boccagni, P. (2011): Una finestra aperta sulla migrazione? L’uso e le potenzialità dei racconti di vita in una ricerca tra i migranti ecuadoriani, in “Studi Culturali”, VIII, 1. Butler, J. (1997): La vita psichica del potere, trad. it. Meltemi, Roma, 2005. Chambers, I. (2007): Le molte voci del Mediterraneo, Raffaello Cortina, Milano. Del Grande, G. (2007): Mamadou va a morire. La strage dei clandestini nel Mediterraneo, Infinito Edizioni, Roma. Id. 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Collabora come consulente con organismi internazionali e istituti di ricerca europei. I suoi interessi di studio sono attualmente rivolti ai processi di costruzione sociale dell’alterità e delle differenze sul piano culturale e religioso e alle nuove forme di razzismo e di discriminazione. Fra le sue pubblicazioni recenti: Islamofobia. La paura e l’islam (Laterza 2006); “L’altro musulmano: dall’esperienza del pregiudizio alla richiesta di riconoscimento” (in Mondi Migranti 2008/1), “The Other and her Body: Migrant Prostitution, Gender Relations and Ethnicity” (in Cahiers de l’UrmisUnité de Recherche Migrations et Société 2009/12) e Attraverso lo specchio. Scritti in onore di Renate Siebert (a cura, Pellegrini 2012). 9