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Alfabeto kosovaro -Venticinque storie dal Paese più giovane d'Europa di Giulia Bondi e Anna Maria Selini Sandali sportivi calpestano le strade polverose di Pristina. Poche donne kosovare sarebbero a proprio agio indossandoli. Gli altri piedi scavalcano voragini, evitano cartacce, zigzagano tra le lastre di pietra di via Madre Teresa comodamente calzati in tacchi a spillo vertiginosi. I nostri hanno scarpe sportive e rasoterra. Straniere e riconoscibili, ma accolte quasi ovunque come figlie o sorelle, in tre settimane di viaggio su e giù per il Kosovo abbiamo ascoltato decine di voci, soprattutto giovani e donne, del paese più giovane d'Europa, l'ultimo nato dalla dissoluzione dei Balcani dopo i sanguinosi conflitti degli anni Novanta, ancora occupato dalla Missione ad interim delle Nazioni Unite, Unmik. Un mosaico pieno di contraddizioni e memorie divise, che abbiamo cercato di raccontare in un piccolo vademecum: 25 frammenti per il Kosovo dalla A alla Z. A come Aquila Aquila si dice Shqipe, ed è il simbolo degli albanesi. Da Aquila viene l'aggettivo schipetaro, Aquila è anche un nome femminile in voga, nei periodi in cui perfino l'anagrafe si veste di nazionalismo e le frecce per Belgrado spariscono dai cartelli stradali. L'aquila nera bifronte spicca sul fondo rosso delle bandiere. Ha guidato i guerriglieri dell'Esercito di liberazione del Kosovo come la stella sul basco del Che l'equipaggio del Granma. Sventola ai matrimoni, ciondola dagli specchietti retrovisori. Ma è la bandiera dell'Albania. Ai due milioni di abitanti del nuovo Kosovo indipendente serve un vessillo diverso. La bandiera ufficiale è una carta geografica dorata su fondo azzurro, con sei stelle d'oro che citano in modo quasi commovente l'Unione Europea e il desiderio di entrarci, anche se dovrebbero simboleggiare i sei popoli del Kosovo: albanesi (la maggioranza), serbi, rom, bosniaci, turchi e gorani. Alla gente, la nuova bandiera non piace. "Avevano indetto un concorso di idee - protesta il pubblicitario Fisnik Ismaili - poi hanno fatto di testa loro, scegliendo il peggio: come fa bambino a disegnarla?". Il nuovo simbolo ha già suggerito decine di barzellette, la più comune delle quali racconta che, di fronte ai sei asterischi che sormontano la bandiera, un noto politico abbia sbraitato: "che diavolo ci fa lì sopra la mia password?". Un'altra aquila nera, ma in campo giallo, c'è anche sulla bandiera tradizionale bizantina. Le narrazioni più semplicistiche dei conflitti balcanici parlano di odi etnici e religiosi insormontabili, sopiti per secoli sotto imperi e dittature, differenze abissali esplose nelle guerre negli anni Novanta. E allora, come mai l'aquila degli ortodossi è uguale a quella dei musulmani? Perché tra gli albanesi ci sono sia islamici che cattolici? Chi sono i gorani, popoli dei monti di lingua serba e religione del Profeta? Come mai a nel centro di Prizren tra moschea, chiesa cattolica e chiesa ortodossa ci sono meno di cento metri in linea d'aria? Le aquile stanno a guardare. B come Brasilena, una calabrese a Mitrovica Al Cafè Paris di Mitrovica nord si beve Brasilena, una gassosa calabrese al caffè, introvabile in Italia a nord di Lamezia Terme. La importa Ivano, un quarantenne che vive qui da qualche anno, sposato a una ragazza serba. "Non dico che preferisco il Kosovo all'Italia. Ma certamente preferisco Mitrovica a Rosarno e i suoi clan". Kosovska Mitrovica è la città divisa, rimasta per metà sotto il controllo di Belgrado. Militari francesi e poliziotti giordani controllano il ponte sul fiume Ibar, che separa il sud albanese dal nord serbo. Cinquanta metri più indietro, il ponte pedonale si attraversa senza check point, i bambini fanno il bagno e le famiglie organizzano picnic. Sulla collina che sovrasta la città, un monumento ricorda i minatori di Trebca, e un adagio serbo recita " Trebca se radi, Beograd se gradi": qui si lavora, e Belgrado si arricchisce. Radici del separatismo che sembrano più economiche che etniche. A Mitrovica nord ci sono tre palazzi, le torri, dove vivono anche famiglie albanesi. Anche la collina di Koha Ditore è multietnica, e gli attivisti di Community building Mitrovica organizzano attività e momenti di incontro tra serbi, albanesi, bosniaci e rom. A Mitrovica nord si paga in dinari. Le vecchiette siedono, nere dalla testa ai piedi, accanto alle cassette di cipolle ed erbe dell'orto. Le bionde cotonate gli passano accanto in tacchi a spillo. Adesivi in caratteri cirillici inneggiano a Ratko Mladic, manifesti rossi dichiarano "Il Kosovo è Serbia", e un anziano commerciante, nel sentirci parlare italiano, azzarda perfino un "Trst je nas", Trieste è nostra. Altre donne in nero siedono accanto al ponte, sotto al monumento che ricorda i serbi caduti nei 78 giorni di bombardamenti Nato del ‘99. Ci salutano con parole italiane, fumano come turche. C come Clinton, il boulevard Un vistoso fuoristrada Hummer giallo arranca nel traffico accanto a una vecchissima Zastava argento metallizzato, uscita dalla fabbrica modello di Kragujevac sui telai della storica Fiat Seicento. Il viale, pochi alberi e tante buche, si chiama Boulevard Bill Clinton. Nel nuovo Kosovo, molti interventi in materia di strade si sono concentrati sulla toponomastica. Nelle vie di Pristina nomi titoisti come Partizanska o Lenina hanno lasciato il posto a personaggi bipartisan come Madre Teresa o vari martiri ed eroi dell'Uck, l'Esercito di liberazione del Kosovo. Non poteva mancare la celebrazione in vita dei protettori angloamericani: non solo Clinton ma anche il fedele Blair e Madeleine Allbright, segretario di stato americano che si dice non restasse indifferente al fascino del guerrigliero chiamato Serpente, Hashim Thaci, oggi Primo ministro del Kosovo. A proposito di serpenti, per evitare confusione con le pronunce locali, il contingente americano della Nato ha ribattezzato ogni strada di scorrimento tra le città principali con un nome di animale e il corrispondente disegno. E se di fronte a Cane e Gatto si può pensare inizialmente a un cartello di pericolo per il possibile attraversamento, Leone e Pinguino sembrano un po' troppo, anche al più avventuroso esploratore del piccolo Assurdistan balcanico. D come Dobrila, la pasionaria "Quando una potenza straniera fa un'occupazione, e pochi mesi dopo installa in quella terra la sua più grande base militare, che cosa vuol dire questo? Perché mi chiedi a chi è servita l'indipendenza del Kosovo?". Ha il carisma di una storia misteriosa alle spalle, le certezze incrollabili della fede e nessun pelo sulla lingua Dobrila Bozovic, ex docente di storia dell'arte a Parigi e oggi portavoce laica del Patriarcato di Pec, culla della cultura serbo ortodossa nel cuore del Kosovo, protetto giorno e notte dai soldati del contingente italiano Kfor. Dobrila decifra per noi gli affreschi bizantini raccontando la storia del Patriarcato, ci autorizza a scattare foto incurante delle proteste delle monache, liquida con freddezza due soldati sloveni arrivati per una visita guidata. "Siete in ritardo e piove. Se arrivavate all'ora giusta, non c'era pioggia e non c'erano sloveni", ci bacchetta ironica all'inizio della visita. Poi ci trattiene per quasi due ore davanti a caffè e dolcetti turchi, ricorda la casa della sua infanzia accanto a una moschea, la colonna sonora del canto del muezzin. "Se islam e cristianesimo non possono vivere insieme nei Balcani, allora non può esserci pace in nessun luogo. Noi siamo stati manipolati, tutti e due i popoli, sia i serbi che gli albanesi", dice. Manipolati da chi aveva interesse a sbriciolare il multiculturalismo jugoslavo in uno spezzatino di stati cuscinetto etnici, senza risorse e senza storia. "Vogliono che la Serbia accetti l'indipendenza del Kosovo per entrare in Europa - dice, - ma il Kosovo è la culla della nostra cultura e religione, o entriamo in Europa con Cristo o rinneghiamo la nostra anima. Dovete capire che l'economia e la demografia non sono tutto. Il 90% di popolazione albanese, per i serbi non è che un numero". Due milioni di abitanti, un territorio grande come l'Abruzzo, separato dalla nostra penisola solo da un pezzo di Montenegro e un braccio di mar Adriatico, coperto di montagne e punteggiato di preziosissimi monasteri ortodossi, in parte danneggiati durante gli atti vandalici antiserbi del 2004. In Kosovo, anche i monasteri parlano delle tante culture dei Balcani. Il Monastero di Decani, a pochi chilometri da Pec, è una visione: militari all'ingresso, un pesante portone di legno. E oltre il muro, su un prato verde, un perfetto edificio romanico, candido come la cattedrale di Trani, scolpito dagli stessi artigiani negli stessi anni. All'interno del Monastero, la magia, il salto a oriente, negli azzurri della pittura bizantina, odore di incenso e Cristi Pantocratori. "Adesso non si può dire cosa sia successo sulla nostra terra, è passato troppo poco tempo - sospira Dobrila, - forse saranno i nostri nipoti a poterlo raccontare". E come Elettricità, quando c'è Il ticchettio dei tacchi a spillo, il frastuono del traffico, il rumore ripetitivo dei generatori. Ecco i suoni che accompagnano chi cammina tra le strade di Pristina. Nella capitale, come nelle altre città kosovare, l'elettricità manca anche per 6 ore al giorno. Nonostante, o forse a causa delle privatizzazioni che hanno svenduto a privati il patrimonio industriale delle cooperative ex jugoslave, dette Socially owned enterprises, mancano gli investimenti per rinnovare le centrali elettriche. La centrale di Obilic, poco distante dalla capitale, avvelena l'aria, i campi e le baracche dei rom che sorgono ai suoi piedi. E la compagnia elettrica statale Kek non può far altro che tagliare la luce quando non ce n'è più. I quartieri da lasciare al buio, spiega la guida di Pristina, vengono scelti in base a quante persone residenti pagano l'elettricità: meno black out per le zone più virtuose. Chiunque possa permetterselo ha un generatore. Gli altri, candele. Anche la candela rossa ideata come gadget da un'agenzia pubblicitaria kosovara acquista, al primo black out, una luce non banale. F come Firenze Where are you from? Firènze, risponde la ragazzina con perfetto accento toscano, la e aperta, un'aspirazione di fondo che coinvolge anche la f e la z. Accanto a lei, la nonna coi pantaloni alla turca, foulard in testa, una geografia di rughe sulla faccia. Siamo a Shtupel, nel centro del Kosovo, uno dei villaggi dove nel '98 è nata l'Uck e dove, pochi mesi fa, qualcuno ha fatto saltare una dozzina di case ricostruite per il rientro dei serbi. Qui, come nel resto di questo neonato paese, luglio e agosto sono i mesi del rientro della diaspora. Madri di famiglia con 3 o 4 figli al seguito stipano i voli diretti a Pristina. Nonne kosovare affettano cetrioli e angurie per merende di stagione. E migliaia di nipotini espatriati, molti dei quali parlano a stento la lingua madre, si preparano a una lunga estate nei villaggi. "M'annoio", mi aveva detto la mia vicina di posto in aereo, una teenager brescianakosovara vestita di marche contraffatte dalla testa ai piedi, ombelico a vista pochi centimetri sopra la cintura di sicurezza. "Fortuna che ad agosto andremo qualche giorno al mare vicino a Scutari. Al mio villaggio non c'è niente da fare". Abbiamo iniziato a chiacchierare perché il suo lettore mp3 era scarico. Mi ha chiesto di ascoltare il mio, ci siamo divise una cuffia a testa. Paolo Conte cantava di Bartali, i Tiromancino descrivevano attimi, Madonna si sdilinquiva in urletti per l'uomo capace di farla sentire nuova e splendente, e l'Adriatico sotto di noi lasciava il posto al verde e marrone delle terre balcaniche. "Senti - mi dice dopo poco, sconsolata, - ma non ce l'hai Tiziano Ferro?". G come Gorazdevac, l'enclave Gorazdevac è un'enclave serba a pochi chilometri dalla città di Pec /Peja. I soldati Kfor presidiano la strada all'entrata e all'uscita dal villaggio. Tutto è scritto in cirillico, dall'insegna della Kafana alla didascalia sotto il teschio sui pali dell'alta tensione. Molti degli abitanti di Gorazdevac fanno parte di quella schiera di irriducibili che non hanno mai lasciato le proprie case, nemmeno nei giorni della contropulizia etnica nei confronti dei serbi, subito dopo l'ingresso della Nato in Kosovo nel '99. Tra questi, c'è Jelena, classe 1938. La incontriamo insieme ad altre due generazioni di donne, la nuora Nada e la nipote Dragana. "Per alcuni giorni non si vide nessuno - ricorda Jelena, - poi cominciarono ad arrivare i primi soldati a proteggerci. Gli facemmo festa ammazzando un maiale". La famiglia di Jelena non sfollò da Gorazdevac nemmeno durante la seconda guerra mondiale. La nuora, Nada, non è da meno. Vedova da alcuni anni, cresce 5 figli di cui una gravemente handicappata, Marina. Quando era più piccola, la portava a un centro diurno di terapia, ma ora muoversi, per i serbi, è troppo complicato. Davanti all'immancabile caffè, Nada scambia battute con Sonja, la volontaria dell'Operazione colomba che ci ha accompagnato qui. I ragazzi di Operazione colomba garantiscono un servizio di scorta civile, portano gli anziani serbi a fare compere a Pec per non farli sentire troppo isolati in questa sorta di Dogville con una strada e 10 case. Ma per i giovani, la città di riferimento è Mitrovica. È qui che andrà a studiare Dragana, che seduta in hot pants sul tappeto di casa fuma una sigaretta dopo l'altra. A Mitrovica studierà geografia. Una materia, da queste parti, tutt'altro che secondaria. H come How much Viene da chiedersi come faccia a vivere, la gente. Con i soldi dei parenti all'estero, rispondono in tanti. Con i soldi dei traffici illeciti, si legge su Limes. Certamente, consumando poco. Frutta e verdura di stagione, automobili scassate, case senza intonaco. Ma tutto il resto, i miniabiti in acrilico in vendita nei negozietti, i prodotti di importazione nei supermercati? In Kosovo, tutto è d'importazione. Quando si chiede How much, quanto costa, si scoprono prezzi non troppo diversi da quelli italiani ed europei in genere. I salari però, sono a livelli poco più che africani. Per chi ha un lavoro, naturalmente, perché la disoccupazione pare superi il 60 o il 70%, a seconda delle stime. Poi ci sono i matrimoni da 20 mila euro, le famiglie che si indebitano per non fare brutta figura davanti agli zii d'America o di Germania, tornati in patria per l'estate. I cellulari modernissimi nelle mani dei ragazzini. I negozi ricolmi di coloratissimi cd che poi, quando li apri, sono tutti masterizzati. Le donne rom che chiedono l'elemosina, un giovane mendicante che geme per otto ore al giorno davanti al Grand Hotel di Pristina. L'inaugurazione della nuova concessionaria Porsche e le marche italiane che spopolano nei grandi centri commerciali. Italiano è sinonimo di qualità, di paese amico del Kosovo, tra i primi a riconoscerlo. Gli albanesi ringraziano, i serbi ironizzano: "anche se ci avete bombardato, sedetevi da noi per un caffè". E sulla strada per l'aeroporto di Pristina, un noto ristorante porta il nome di Aviano in onore della nostra base americana. I come Ilire, diario di guerra "Essere tu il personaggio è diverso", racconta Ilire Zajmi Rugova, giornalista, scrittrice e corrispondente dal Kosovo per l'Ansa. Il suo compagno, Veton Rugova, è nipote dell'ex presidente Ibrahim Rugova, l'intellettuale leader del movimento che negli anni '90 cercò di opporsi pacificamente al regime di Milosevic, chiedendo agli albanesi kosovari disobbedienza civile verso tutte le istituzioni dell'allora provincia autonoma jugoslava, e organizzando un sistema parallelo di scuole, ospedali e servizi grazie ai finanziamenti dei connazionali espatriati. Con Veton, Ilire ha condiviso l'esperienza della guerra e il viaggio verso il campo profughi di Blace, in Macedonia. "Abbiamo persino dovuto pagare il biglietto per la pulizia etnica", ricorda Ilire. Beviamo caffè e acqua minerale slovena al bar nel giardino di Rtk, la televisione che Ilire stessa ha contribuito a fondare, in una via centrale di Pristina. Fuori dal cancello di metallo, dietro le vetrine dei negozi, sorridono manichini con chiassosi abiti da sposa in poliestere. Sui ciottoli della strada si affastellano bancarelle di frutta, verdura, t-shirt e bandierine. Ilire e Marco Guidi, il giornalista che ci accompagna nei primi giorni di viaggio, ricordano i giorni di giugno del '99 quando la Nato entrò nel paese. Nelle parole di Marco scorre l'adrenalina dell'inviato di guerra, nello sguardo determinato di Ilire e nelle sue parole chiare traspare appena l'emozione di ricordi dolorosi. "Il Kosovo - sostiene - è la vittoria dei giornalisti e della grande visibilità che hanno saputo dare alla nostra tragedia". Per lei, il bisogno di raccontare è stato più forte del dolore. Anche dal campo profughi scriveva e pubblicava il suo diario di guerra. Gli amici giornalisti italiani organizzarono per lei e i familiari un trasferimento in Italia, ma dopo solo pochi giorni Ilire sentì il bisogno di tornare in Kosovo, a scrivere e mostrare le storie del suo popolo. "L'arrivo della Nato ci ha salvati - dice - e anche oggi la presenza dei contingenti Kfor è fondamentale per tentare di combattere il crimine". Secondo Ilire però, gli internazionali oggi sono anche parte in causa in uno dei più gravi problemi del Kosovo, i traffici, soprattutto quello di donne da avviare alla prostituzione. "E quando si tratta di affari - spiega - i criminali albanesi e serbi vanno sempre d'amore e d'accordo, negli anni delle guerre come adesso". J come Jo Negociata "No ai negoziati, Autodeterminazione". Significano questo le scritte "Jo negociata" che tappezzano i muri delle città kosovare. È solo una delle campagne "virali" con cui gli attivisti del movimento Vetevendosje cercano di sensibilizzare la popolazione kosovara sulla corruzione dei propri governanti e la natura antidemocratica della presenza internazionale. "Gli internazionali vorrebbero portarci la democrazia stando al di sopra della legge - spiega Fatime, 27 anni, che ha passato l'adolescenza in Germania ed è rientrata in Kosovo nel 2000: - è come picchiare un bambino per insegnargli la non violenza. Insistono sulla questione etnica per tenere divisa la gente. Serbi e albanesi, invece, dovrebbero lottare insieme per un paese più giusto". Del movimento però non fanno parte giovani serbi, che sono meno del 10% della popolazione. Fatime racconta del febbraio 2007, quando la polizia Onu uccise due manifestanti: "noi avevamo megafoni, loro proiettili". Le prime azioni del movimento risalgono al '99, subito dopo la fine del conflitto serbo-albanese e l'ingresso delle truppe Nato. Nove anni dopo, il Kosovo si è dichiarato unilateralmente indipendente. Molti paesi Onu non lo riconoscono e 77 hanno approvato la mozione della Serbia per portare il caso alla Corte internazionale di giustizia. Sul territorio ci sono ancora Nato, missione Unmik delle Nazioni Unite e funzionari europei di Eulex. Vetevendosje continua con le azioni: cartelli coi volti dei parlamentari e la scritta "wanted", necrologi della risoluzione Onu 1244, quella che autorizzò - a posteriori - i bombardamenti Nato sulla Serbia di Milosevic, pur riconoscendone la sovranità sul Kosovo. Graffiti sui muri recitano "EU= idiot" e sui cassonetti d'immondizia c'è il nome di Ahtisaari, il mediatore finlandese che ha condotto le trattative post conflitto e vinto il Nobel per la Pace 2008. K come Kanun, la legge tradizionale Sono passati sei secoli da quando il principe Lek Dukagjini codificò nel Kanun le norme tradizionali che regolavano la società albanese. Tramandato fino ad allora in forma orale, il Kanun fu trascritto all'inizio del Novecento e anche oggi, tra telefonini e manifesti pubblicitari, continua ad esercitare la sua influenza soprattutto nei villaggi del Kosovo rurale. Il sistema si basa sul clan, la famiglia allargata di tipo patriarcale, sulla difesa dell'onore dei membri dagli attacchi esterni e sul rispetto a ogni costo della parola data. Ci sono villaggi abitati quasi esclusivamente da vedove, e non soltanto a causa della guerra ma anche per l'obbligo di vendetta: chi vede uccidere un proprio familiare deve continuare la faida sui parenti maschi dell'assassino fino al terzo grado. La popolazione kosovara è fatta per oltre metà da giovani sotto i 25 anni e i cambiamenti avanzano in fretta, ma per alcuni strati sociali liberarsi dalla tradizione è più difficile. Nel villaggio di Vitina, vicino al confine con la Macedonia, la chiesa cattolica è riuscita a spezzare in parte una dolorosa catena di vessazioni il cui anello debole erano le donne. Il Kanun prevede infatti che una donna rimasta vedova venga allontanata dalla casa del marito, lasciando ai suoceri gli eventuali figli. "In questo modo, i bambini rimanevano orfani due volte", spiega il parroco don Lush Gjergji, che con anni di tenace dialogo, offrendo alle vedove un sostegno economico, è riuscito a convincere molte famiglie ad abbandonare la crudele tradizione. Al posto del Kanun, oggi in Kosovo è in vigore un'avanzata costituzione, ma i tempi delle culture, si sa, sono più lunghi di quelli della politica. La centralità del clan è la cifra, ma anche un po' la forza, della società kosovara, in cui è normale che un fratello o una sorella emigrati si facciano carico di mantenere anche una decina di persone della famiglia d'origine. "Il Kanun è ancora presente in tutto - commenta la ricercatrice femminista Viollca Krasniqi: - nel modo in cui si fanno gli affari, nei discorsi dei politici, perfino nel modo di salutarsi". L come Lazar, il mito Un'attrice in abiti medievali declama un canto epico, incita i connazionali a cacciare lo straniero dalla propria terra sacra. Suore vestite di nero scattano foto con modernissime Nikon. Sacerdoti incartapecoriti agitano incensi, politici sudati depongono corone di fiori. Siamo a Gazimestan, 30 chilometri circa da Pristina. In un luogo qui vicino, detto Campo dei Merli, nel 1389 l'esercito serbo fu sconfitto dai turchi in un'epica battaglia. Esattamente seicento anni dopo, un celeberrimo discorso di Slobodan Milosevic segnò l'inizio della fine della Jugoslavia. È Vidovdan, giorno di San Vito e anniversario della battaglia. Per la prima volta, la festa si celebra nel Kosovo indipendente. Un gruppo di venti persone è arrivato a piedi da Belgrado dopo 15 giorni di cammino. Pullman sono arrivati da Mitrovica, tante famiglie sono in gita con le proprie auto, pellegrini, vecchi e bambini. I soldati irlandesi che presidiano il monumento tengono d'occhio tutti, fotografandoli con teleobiettivi potentissimi. Il comandante è molto gentile, organizza i tanti giornalisti presenti, proibisce solo di fotografare mezzi e installazioni militari. Le emozioni dei presenti, un migliaio di persone, vanno dal religioso al nazionalista. "Siamo venuti qui per dimostrare che il Kosovo non è un paese indipendente", spiega Dane, 20 anni, arrivato da Novi Sad con i compagni del movimento Obraz, vicino a posizioni neonaziste. "Il Kosovo è Serbia, ci è stato tolto con la violenza e siamo pronti a riprendercelo con le armi". Ci tiene a sottolineare che lui e i suoi amici sono giovani e forti. Ma come, gli chiediamo, non credi che ormai sia tempo di pace? "Questa non è pace", risponde sicuro: "dove sono i diritti umani? La gente delle enclave non può uscire di casa, non è libera nel proprio paese. Questa è ancora una guerra". Obraz significa onore. C'è chi indossa magliette "101% serbo", chi si è tatuato sul braccio un eroe medievale, chi ha la scritta "libertà o morte" sopra il basco nero. Questi giovani non rappresentano tutta la Serbia, ma certo ne incarnano il mito, gli sconfitti dalla storia che rimangono indomabili, come Lazar, il condottiero di Campo dei Merli. L'effigie di Lazar, che durante la celebrazione sarà interpretato da un attore invasato vestito di pesanti velluti, ci accompagna fin dal mattino, mentre saliamo tra i campi di grano alla collina di Gazimestan. Troneggia sulle bottiglie di domacja rakjia, la grappa fatta in casa che Jovan, intraprendente cinquantenne di Gracanica, ha disposto in bella mostra sul cofano della sua Renault scassata, per allettare gli acquirenti con un mix imperdibile di alcol e nazionalismo. Forse è proprio lui l'unico vincitore della giornata. M come Marthe, la nonna di Videja Marthe è rughe e pelle bruciata. La vocina di una strega, non c'è grasso sul suo corpo. Vedendo la casa di questa 86enne, nel villaggio di VidejaVidanje, non si fatica a credere alla Banca mondiale, secondo la quale il 40% dei kosovari vivrebbe con meno di due dollari al giorno. "Sono 66 anni che abito qui. Siamo nelle mani di Dio - dice mostrando le quattro pareti d'argilla, pronte a sbriciolarsi da un momento all'altro, dentro le quali vive con figlio nuora e nipoti. "Non abbiamo terra, solo qualche pollo, e la guerra del ‘99 ha peggiorato la situazione. Alle donne serbe, scherzando, dico che dovrebbero ricostruirmi la casa". Ironia così simile alla verità. In questo villaggio, vicino alla città di Klina, zona occidentale del Kosovo, alcuni serbi sono ritornati e le loro abitazioni in parte sono state ricostruite con il contributo dell'Amministrazione. Di fronte alla casa di Marthe, al di là della piccola strada sterrata, i vicini serbi salutano sorseggiando una bibita sotto il portico della villetta a due piani. "Durante la guerra noi abbiamo protetto gli albanesi - ricorda Milorad Sarkovich, responsabile (serbo) dell'ufficio rientri del Comune di Klina - mentre loro, a scontri terminati, hanno distrutto le nostre case. Noi li perdoniamo, ma non dimentichiamo". Questo Marthe lo sa, ma la guerra rende ancora più povero chi già lo era . "I miei figli sono scappati in Croazia per mangiare - racconta a sua volta - e solo alcuni sono tornati". Tra di loro sua nipote, una ragazzina silenziosa e magrissima, cresciuta lontano da qui. Da quando ha fatto ritorno in Kosovo non ha mai parlato in albanese, la lingua delle sua famiglia. Lo capisce e conosce, ma preferisce il serbo-croato. Come se dal '99 non fosse mai tornata a casa. N come Newborn, il neonato d'Europa In una delle piazze principali di Pristina, proprio di fronte al quartier generale dell'Unmik (la missione Onu che amministra il Kosovo), campeggia un'enorme scultura metallica. E' una scritta tridimensionale, costituita da grandi lettere gialle alte circa 3 metri, che recita "Newborn": neonato. Il 17 febbraio scorso, quando il Kosovo ha dichiarato unilateralmente la propria indipendenza dalla Serbia, il Newborn è stato scoperto e ripreso dalle televisioni di tutto il mondo, davanti a migliaia di albanesi festanti, mentre il premier Hashim Thaci vi apponeva per primo la propria firma. A ideare, in soli dieci giorni, la prima campagna per la nascita di un paese, è stata una squadra di giovani creativi di un'agenzia pubblicitaria locale, affiliata a una grande multinazionale della comunicazione. Gli stessi che nel 1999 vendevano a Londra, per finanziare l'Uck (l'esercito di liberazione del Kosovo) le t-shirt "Nato air: just do it". Oggi chiunque arrivi a Pristina, la capitale, lascia un segno del proprio passaggio sulla scultura, che meglio di ogni altro simbolo rappresenta il "neonato" d'Europa. O come 049 L'indipendenza passa anche attraverso un numero. O meglio un prefisso telefonico internazionale, che contraddistingue ogni Stato e che ancora il Kosovo non si è visto assegnare. Akan Ismaili è il giovane manager di Ipko, la compagnia di telecomunicazioni che, con il prefisso 049, ha rivoluzionato il mercato kosovaro abbassando drasticamente le tariffe. "Per chiamare internamente usiamo 049 o 044 per i cellulari, più i vari prefissi locali per i fissi - spiega Akan - ma per chi ci chiama dall'estero ci sono ben tre diversi prefissi internazionali: quello serbo, quello sloveno oppure quello del principato di Monaco". Ismaili confessa che il suo modello ispiratore è Steve Jobs, il fondatore di Apple, e spera di emularne il successo grazie a un sistema di servizi integrati tra cellulare, tv via cavo, internet e voice over ip. La sua compagnia, nata come iniziativa non profit per portare internet gratis ad associazioni e cittadini, è cresciuta negli anni con l'ingresso di capitali sloveni ed è arrivata a fatturare 6 milioni di euro nei primi 4 mesi del 2008. "Il mercato della telefonia cellulare prima era un monopolio - racconta Akan - e grazie a noi i prezzi sono scesi rendendo il telefonino accessibile a molte più persone". Come il suo guru Jobs, anche Ismaili non colleziona solo successi. La Commissione sull'indipendenza dei media del Kosovo ha sanzionato Ipko e altri 5 gestori della tv via cavo per avere rubato il segnale da un satellite, diffondendo canali come Cnn e National Geographic senza pagare i diritti. P come Pristina, la capitale Inutile chiedere un'indicazione stradale a Pristina. Qui, le vie, i governi, la storia, cambiano troppo in fretta e la gente ha rinunciato a ricordare i nomi delle strade e delle piazze. Meglio affidarsi a punti di riferimento come grandi negozi, ristoranti o sedi delle organizzazioni internazionali, che con poca discrezione hanno occupato il centro della città. Benvenuti a Prishtina (in albanese) o Pristine (in serbo), si legge avvicinandosi alla capitale del Kosovo, anche se qui di serbi se ne incontrano pochi. A ribadire la (costituzionale) parità delle etnie che compongono il mosaico kosovaro (albanesi, serbi, rom, turchi, gorani e bosniaci) c'è anche la nuova bandiera. Troppo simile a quella dell'Unione europea e per questo poco amata, comincia a fare timidamente la sua comparsa accanto all'onnipresente aquila a due teste albanese. Nelle vie grigie e trafficate, ai freddi palazzoni della vecchia Jugoslavia, si alternano moderni grattacieli di cristallo, nuovi status symbol di modello occidentale, come gli shopping center, le catene d'abbigliamento e le concessionarie d'auto di lusso, aperti a tutti ma accessibili a pochi. Lungo la centralissima via Madre Teresa, le bancarelle di libri, intanto, resistono allo scorrere del tempo e della crisi aumentando l'offerta di testi di seconda mano. "Gli internazionali - racconta un libraio che qualche mese fa ha dovuto chiudere il suo negozio - non sono interessati ai nostri libri e alla nostra cultura e i kosovari devono pensare a mangiare". Il fascino di Pristina è racchiuso nel piccolo cuore antico, attorno alla moschea vecchia, tra piccoli forni che vendono burek, il pane tradizionale, e negozi femminili alla moda saudita. Da queste parti può capitare di vedere una moschea sorgere sopra un supermarket, dove, inutile dirlo, è rigorosamente vietata la vendita di alcolici. E anche qui, tra i generatori elettrici, di cui sono dotati tutti gli esercizi commerciali, si moltiplicano gli Internet point. Pristina ama l'America che l'ha liberata: su un palazzo campeggia la gigantografia di Bill Clinton, gli Hillary's bar si incontrano ad ogni angolo e la sera i ragazzi riempiono i pub, mischiandosi ai cosiddetti "internazionali", presenti ormai dal '99. Grazie a loro, il costo degli affitti e della vita ha raggiunto i livelli di una capitale europea, senza che gli stipendi abbiano fatto lo stesso. Q come Quote (rosa) Unghie laccate di rosso, sguardo fiero enfatizzato dal trucco, femminismo e femminilità in ogni gesto. Vjollca Krasniqi è la direttrice del centro di ricerche e politiche di genere di Pristina, nonché docente alla facoltà di Sociologia. La incontriamo per capire meglio qual è la condizione delle donne in Kosovo. Per le strade di Pristina, emancipazione e tradizione si sovrappongono continuamente: giovanissime in abiti succinti, adolescenti col cellulare in mano, professioniste in eleganti tailleur, camminano tra ragazze velate dalla testa ai piedi e anziane con il fazzoletto annodato dietro la nuca. Il Kosovo ha una delle Costituzioni più avanzate dei Balcani in termini di diritti delle donne. Molti di questi, però, sono solo sulla carta: la famiglia albanese è ancora rigidamente patriarcale e alle donne serbe è pressoché negata la libertà di movimento fuori dalle enclaves. "Gli anni dopo la guerra - spiega Vjollca - hanno portato molti cambiamenti nella politica: oggi abbiamo quote rosa del 30% sia in ambito nazionale che locale, ma nella vita privata le donne sono ancora subordinate. Le giovani hanno apparentemente più libertà di scelta delle loro madri, ma a causa della situazione economica hanno più limiti e meno chance di fare carriera". "La condizione femminile è cambiata dopo la guerra - sostiene la giornalista Ilire Zajimi, la "Lilli Gruber del Kosovo" - adesso le donne lavorano e sono più coraggiose anche se questo spesso si traduce in più divorzi". Ma non per tutte è così. Besa Ismaili fa l'interprete per l'Osce, è musulmana e da pochi anni ha scelto di indossare il velo islamico. "La mia fortuna - spiega - è lavorare per un'organizzazione internazionale, perché uffici pubblici e aziende private kosovare difficilmente assumono le donne islamiche. Ogni epoca ha il suo capro espiatorio: nell'800 erano i neri, ora sono le donne col velo". R come rientri (dei serbi) Dopo l'ingresso della Nato, i profughi albanesi sono tornati, mentre i serbi hanno cominciato a fuggire. Nelle città se ne contano pochissimi e solo alcuni hanno fatto ritorno, trovando spesso la propria casa distrutta, per ritorsione dagli albanesi. Grappoli di case depredate, abbattute e andate a fuoco, soprattutto nella zona occidentale del paese, sono il segno più evidente della guerra consumatasi nove anni fa. Da allora, i serbi più irriducibili vivono nelle enclaves, presidiate giorno e notte dai militari della missione internazionale Kfor. I rapporti tra le due etnie, infatti, sono ancora molto tesi e per Belgrado questa regione continua a chiamarsi Kosovo e Methohija, la parte dove sorgono i più importanti luoghi di culto della religione e della cultura serbo-ortodossa. Per trovare esempi "felici" di convivenza, occorre andare in quei villaggi dove le relazioni interne alla comunità già prima delle guerra erano buone e andavano al di là della differenza etnica: è qui che i rientri sono riusciti meglio e in parte sono ancora in corso. Nel villaggio di Videja - Vidanje, per esempio, l'ong italiana Reggio Terzo Mondo, contribuisce alla riconciliazione attraverso diversi progetti come quello che ha dato vita all'associazione Indira. Sferruzzando e chiacchierando, un gruppo di donne albanesi, serbe e rom, grazie all'aiuto italiano tenta di emanciparsi e, cosa che non guasta, integrare il reddito familiare attraverso una collezione di scialli, guanti e borsette fatte a mano, vendute poi nelle botteghe equo-solidali nostrane. I coloratissimi gomitoli utilizzati sono di acrilico. La lana vera in Kosovo costerebbe troppo. S come sauditi, i "restauratori" dell'Islam Sulla facciata di una delle principali moschee di Pristina appaiono delle grandi scritte verdi, in arabo: è il segno dei sauditi. Dal 1999 a oggi, grazie a loro, decine di minareti e moschee, distrutti dal tempo o dalla guerra, sono stati ristrutturati o edificati da zero. E associazioni islamiche o magnati stranieri sempre più spesso offrono corsi di inglese, informatica, borse di studio o "incentivi" a kosovari particolarmente "meritevoli". Nora, per esempio, ha 20 anni e studia alla facoltà di legge dell'Università internazionale islamica della Malesia. Come lei, altri 24 studenti, provenienti dal Kosovo, hanno ricevuto una borsa di studio dalla Fondazione malese Al-Bukhary, che sponsorizza tutti i loro studi selezionando i migliori allievi dal Liceo Islamico di Pristina. "Il proprietario della fondazione - racconta - è l'ottavo uomo più ricco della Malesia". In tutti i Balcani, i beneficiari sono alcune centinaia di studenti che altrimenti non avrebbero i mezzi per formarsi. Ma dietro la filantropia, secondo diversi osservatori, si nasconderebbe dell'altro, così come dietro al numero crescente di donne, specie giovanissime, che indossano il velo islamico. "Questo fenomeno è completamente nuovo - commenta don Lush Gjergji, parroco della chiesa cattolica di Prizren e amico personale del compianto presidente Ibrahim Rugova - e si è diffuso solo dopo la guerra. Sono giunte molte organizzazioni e organismi anche di stati arabi che hanno un concetto di Islam estremamente diverso dal nostro, che è invece molto moderato, tradizionale, proeuropeo e procristiano. Ho la certezza che alcune di queste organizzazioni paghino una donna 500 o 1000 euro per vestirsi per qualche ora al giorno così, col fine di testimoniare la presenza islamica in Kosovo. Per fortuna la maggior parte dei fratelli albanesi rifiutano". Il centro studi Kipred, che tra i propri finanziatori annovera anche la fondazione americana Rockefeller, nel 2005 ha pubblicato uno studio sulle infiltrazioni del fondamentalismo islamico in Kosovo. "Abbiamo individuato dei rischi seri poco dopo la guerra - spiega il ricercatore Ilir Dugolli - con l'afflusso, a tre mesi dal conflitto, di circa mezzo milione di dollari per fare propaganda. A quanto ci risulta, però, il tentativo a oggi è fallito. La comunità musulmana non ha consentito l'ingresso di questo Islam politico dai paesi arabi. Non siamo immuni, però, da questo rischio. In particolare, è la disoccupazione, che va dal 40 al 60 percento, a preoccuparci. Anche se finora le infiltrazioni non hanno avuto successo, come in Bosnia, non bisogna lasciare libero questo spazio". T come turco, il caffè che non si rifiuta mai Entrare in una casa kosovara ed uscirne senza essersi sporcati le labbra di caffè, rappresenta una sorta di piccola grande offesa. La tradizionale bevanda turca, densa e polverosa (prima di berla occorre fare depositare la polvere per non ingoiarla) è infatti uno dei pochi elementi che accomuna tutte le etnie kosovare: che i vostri ospiti siano albanesi, serbi, rom, turchi o gorani, state sicuri che durante la vostra visita non mancheranno di offrirvi uno o più caffè. Rigorosamente accompagnati da tabacco (i kosovari fumano davvero come turchi), rakjia (la grappa locale) e spesso verdure di stagione (cetrioli, peperoni, ecc.). Insomma, tutto quello che la famiglia, a seconda delle proprie possibilità, è in grado di offrirvi. L'ospitalità nei Balcani è sacra (forse ancora più che nel nostro Sud Italia) e passa prima di tutto attraverso una buona tazza di caffè. U come Uck, l'esercito di liberazione Eroi della patria o terroristi? Come sempre, dipende dalla prospettiva da cui si guarda. Le campagne e città albanesi, "parlano" dell'Uck, l'esercito di liberazione del Kosovo, come dei nostri partigiani: per le strade si incontrano decine e decine di lapidi, scritte e monumenti dedicati ai guerriglieri martiri dell'indipendenza. Per i serbi invece si tratta di terroristi e violenti traditori. Quel che è certo è che il leader dell'Uck, nome di battaglia "serpente", Hashim Thaci, fatto sedere dagli americani al tavolo dei negoziati al posto del pacifista Ibrahim Rugova, oggi è il premier del Kosovo, nonché il leader del Pdk, il principale partito nato proprio dalla riconversione politica dell'Uck. Meno chiaro, invece, è quello che si nasconderebbe dietro il Pdk. Secondo molti osservatori le forme di finanziamento del partito sarebbero legate a oscuri traffici, traffici di armi, droga e prostituzione, di cui il Kosovo sembra essere uno dei principali punti di snodo in Europa. Intanto Ramush Haradinaj e la sua bionda moglie sorridono dalla copertina del periodico femminile Teuta e manifesti sui muri delle principali città esprimono all'ex guerrigliero il bentornato dopo l'assoluzione del Tribunale dell'Aja. V come Villaggio Italia Se per un attimo chiudi gli occhi ti sembra di stare in Italia, non certo in Kosovo. Con la pizzeria, il ristorante, la ormai mitica Radio West, che diffonde musica e canzoni nostrane, piazza Giovanni XXIII e le due mense (ottime), in cui i militari stranieri cercano di "infiltrarsi" costantemente. Benvenuti a Villaggio Italia, la sede della Multinational Task Force West, una delle cinque forze multinazionali della missione Kfor, a comando italiano. La base si trova a Belo Polje, piccolo Comune nei dintorni di Pec e ospita la maggior parte del contingente italiano in Kosovo, presente anche a Pristina, Decane e Djakovica. A Villaggio Italia sorge l'Health center, dove da aprile a novembre (quando era di stanza la Brigata Pinerolo, comandata dal generale Agostino Biancafarina) sono stati esaminati 512 casi di patologie non curabili in Kosovo, in particolare di giovani malati. Di questi, 122 sono stati inviati in Italia per curarsi nei nostri ospedali. Ad aderire a quest'attività, tra le più importanti di quelle promosse dalla Cooperazione civile e militare italiana (Cimic), sono le Regioni, gli ospedali e le associazioni italiane, sotto il coordinamento del personale medico e amministrativo dell'Health center, che segue dall'inizio alla fine l'iter del paziente. "Questo tipo di progetti sono una nostra prerogativa - spiega il maggiore Pierluigi Palumbo, responsabile della diagnostica dell'Health center - rientrano, infatti, nella politica sanitaria delle Forze Armate all'estero e ci contraddistinguono dalle altre nazioni". Tanto che gli americani starebbero studiando le attività Cimic e il nostro modo di relazionarci (e fare propaganda) con le popolazioni locali. Costruzione di scuole, acquedotti, generatori elettrici o ponti, come quello inaugurato a fine ottobre, sulla strada Tranzit di Peja, dalla cellula Cimic della MTFW. L'opera, costata 150 mila euro, è la più importante dal punto di vista sociale e ingegneristico realizzata in Kosovo dai militari italiani negli ultimi sei mesi. W come W il duce (e bandiera rossa) "Italiani, ah italiani... buongiorno signorina, W il duce e bandiera rossa". Inutile cercare di spiegare alla signora serba che incontriamo per una strada di Mitrovica Nord, che la frase appena pronunciata è più che una contraddizione. Quasi un ossimoro. L'ha imparata nel secondo dopoguerra, racconta, quando i soldati italiani occuparono questa stessa zona dei Balcani. L'Italia, vista da serbi, albanesi o rom, è tutta uguale: una Bengodi distante poche ore di viaggio, un paese dove si possono vincere milioni di euro alla televisione, sotto lo sguardo di belle donne poco vestite, con calciatori ricchi e stilosi come esempi nazionali. "Mio cugino gioca in una squadra di calcio italiana e presto sposerà una modella della televisione - racconta Ibra, che fa il cameriere in un hotel di Pristina - io verrò al matrimonio, sono sicuro che sarà da sogno e presto mi trasferirò da voi". "Mi piacerebbe fare l'attrice, se le condizioni di vita miglioreranno starò qui, se no andrò via. Magari in Italia o in Svizzera, chi lo sa...", racconta Akbulena, 19 anni, abito rosso aderente e pose da star, ha appena partecipato alla realizzazione di un video, finanziato dall'Osce, nel villaggio di Fushe Kosova. Se nei negozi si parla in italiano, l'accoglienza è entusiastica. Quasi tutti sanno qualche parola, imparata in un'esperienza di emigrazione o guardando Buona Domenica sul satellite. Per chi arriva in Italia parlando albanese o serbo, il trattamento è un po' diverso. Y come Yugoslavia Quando c'era nessuno la voleva, adesso che non c'è più tutti la rimpiangono. Cara vecchia Yugoslavia, sbriciolata da anni di guerre, di cui il Kosovo è solo l'ultimo dei frammenti. "Si stava meglio con Tito - racconta Januz, tassista albanese e cicerone - con lui andavamo tutti d'accordo". Al censimento voluto da Milosevic nel 2001, dove tra le proprie generalità si chiedeva di indicare anche la nazionalità "etnica", c'era ancora chi si definiva "Yugoslavo" e chi, come un gruppo di giovani della città di Pancevo, in Vojvodina, protestava contro l'idea stessa di etnia definendosi "Supereroe", "Extraterreste", "Cheyenne " o semplicemente "Umano". "Non so più neanche come chiamare il mio paese, in attesa di nuovi eventi lo abbiamo ribattezzato Serbia/Montenegro/Kosovo", ironizzava Ljubisa Vrencev, attivista dell'organizzazione ecologista e pacifista GruPa, nel periodo in cui la Federazione Yugoslava passava alle denominazioni più leggere di Federazione - e poi Unione - di Serbia e Montenegro, prima della definitiva scissione del 2006. Il tutto mentre la risoluzione Onu 1244 del 1999 contemporaneamente aveva sancito la sovranità della Federazione sul Kosovo e la legittimità della presenza internazionale Nato e Onu sulla ex provincia autonoma della Serbia. Ora che il Kosovo si è dichiarato indipendente, c'è addirittura chi vorrebbe dare vita alla Yugoslavia 2.0. "Facciamo un'altra Yugoslavia, tagliamo la Slovenia, loro sono diversi da noi - scherza, ma non del tutto, Milorad Sarkovich, responsabile serbo dell'ufficio rientri del Comune kosovaro di Klina e ci prendiamo l'Albania e la Macedonia, che invece ci assomigliano". Chissà cosa ne penserebbe Tito. Z come Zarifa, la "signora della guerra" Se non fosse per quella foto incorniciata, la tentazione sarebbe di non crederle. Come immaginare, dietro gli occhi da cerbiatta e il sorriso timido di oggi, la "signora della guerra" di ieri? Veniva chiamata così, Zarifa, l'infermiera tuttofare del piccolo villaggio di Shtupel. Durante il conflitto serbo-albanese del ‘99, unica donna tra decine di uomini, ha militato nell'Uck, l'esercito di liberazione del Kosovo. "Quando finivo i lavori di casa - racconta, mostrando tessera e foto in divisa - uscivo a fare pattuglia con gli altri perchè eravamo circondati dalla forze militari serbe e anche perchè avevo paura a stare sola. Per fortuna la guerra è finita altrimenti sarei diventata un uomo". Oggi Zarifa è anche presidente dell'associazione delle donne del paese, donne che da sempre la guardano con rispetto. Le albanesi, per cui ha combattuto, e le serbe, che non ha mai smesso di curare. "Dopo la guerra e gli scontri del 2004, insieme al medico, abbiamo fornito assistenza agli abitanti del villaggio di Bic e, come per tutti, siamo sempre a loro disposizione". È in questa stessa zona, a ovest del nuovo stato kosovaro a maggioranza albanese, che molte case serbe, appena ricostruite, sono state date al fuoco e subito distrutte. Zarifa sta per salutare anche loro. Come molti suoi connazionali, a breve lascerà il Kosovo per la Germania: ad attenderla c'è il suo futuro marito e una vita piena di speranze. Articolo pubblicato l'8/11/2008 su http://it.peacereporter.net/articolo/12661/