Isola Nera 1/29 Marzo 2006

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Isola Nera 1/29 Marzo 2006
Isola Nera 1/29
Quel Canto Silente Della Luna
SPeciale
donna
Casa di poesia e letteratura.
La prima in Sardegna, in Italia, aperta alla creazione letteraria degli autori italiani e di autori in lingua italiana.
Isola Nera è uno spazio di libertà e di bellezza per un mondo
di libertà e bellezza che si costruisce in una cultura di pace.
Direzione Giovanna Mulas. Coordinazione Gabriel Impaglione. [email protected] - marzo 06 Lanusei, Sardegna
Ritornare a quel Volo
stralcio da Lughe De Chelu (e jenna de bentu), G. Mulas
(…)Ebbe il flash di suo padre e degli schiaffi ai figli, alla moglie, ad una società colpevole di essergli,nella
mente,continuamente ostile.
(-Che razza di…di puttana sei?- E tu che uomo sei per chiamare così chi ti è rimasta accanto dieci anni dandoti tutto? Non puoi tarpare in eterno le ali
ad un’aquila, Stefano- Io VOGLIO TE! Non ti concederò mai il divorzio…piuttosto ti ammazzo...Mia o di nessuno-Ci siamo sposati che eravamo due ragazzini, siamo cresciuti,maturati seguendo due strade diverse.Vuoi vivere con una
donna che non è in grado di amarti come vuoi? Meritiamo di meglio tutti e due-CHE…CHE ACCIDENTI NE SAI TU DI QUELLO CHE MERITO IO? UNA…DONNA! CHE NE SAI,TU? IO TI
AMMAZZO…RICORDALO!E CON TE AMMAZZO LA TUA SCRITTURA. TUTTO QUELLO CHE HAI CE
L’HAI GRAZIE A ME…NON AVRESTI AVUTO NEPPURE UNA LIRA PER SPEDIRLI,I TUOI FOTTUTI
MANOSCRITTI,SENZA DI ME!! …NON METTERMI ALLA PROVA, GIONA!-). Francesco imboccò l’ascensore.
Accese un sigaro e sorrise falsamente alla graziosa e giovane segretaria assunta da pochi giorni dall’avvocato Ferri. Lei
rispose impacciata al sorriso,strinse al petto la pila di pratiche e cartelle, rassettò maldestramente la gonna scura,forse
eccessivamente lunga.L’ascensore si fermò al piano terra del Grattacielo Degli Avvocati, come lo chiamavano in città;
INT. STUDI LEGALI ASSOCIATI,come figurava nell’elenco del telefono,il PalazzoDeiGrattaCulieC., come lo
chiamava Giovanni Soro,il verduraio all’angolo di via Roma. Odore di detersivo per pavimenti,caffè e alcool. La
moglie del portiere parla al telefono accanto ad un televisore mignon acceso,muto, su IT’S A WONDERFUL LIFE di
Frank Capra, altri quattro mini schermi paralleli,due dedicati agli interni del grattacielo,due per una visione agli ingressi
principali. Una radio continua a trasmettere notiziari speciali sulla Freedom Iraq,a quanto pare i medici di Baghdad
girano per i vari SaddamOspedali armati di Kalashnikov per evitare i saccheggi dei medicinali di prima
necessità.Mostrano ai giornalisti interi container di cadaveri.
Vi assicuro che il puzzo è terribile, commenta la reporter via radio.
Il portiere sbuffa di disappunto, chiude la rivista lasciandoci la mano destra in mezzo.
Spalanca gli occhi e fissa Francesco, in attesa.
-Il mio taxi è arrivato?-Si,avvocato.Da cinque minuti circa-Grazie.-Di niente avvocato.Buona giornata-Salve-.
(-Salve.
Posso entrare a salutare i bambini?-.
Francesco aveva tirato la madre per la gonna, lei aveva sorriso. “Facciamo entrare papà?” aveva sussurrato al piccolo
ma col terrore nel cuore perché sentiva dentro, lo sentiva che no,non avrebbe dovuto fargli varcare quella soglia.Erano
separati e lui,in preda ad un raptus di violenza della quale Giona non avrebbe mai sospettata l’esistenza; due mesi prima
aveva tentato di strangolarla.Si era fermato in tempo lasciandola così,sospesa tra cielo e terra, buttata sul letto piangente
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e semisvenuta coi bambini nella camera attigua che urlavano terrorizzati. Comunque restò calma,pensò che se i piccoli
vedevano il padre una volta in più delle due stabilite dal giudice non avrebbe loro fatto che bene, pensò che con gli
avvertimenti,le minacce subìte dalla Polizia a suo tempo, il suo ex marito non poteva,NON DOVEVA essere tanto pazzo
da…riprovarci ancora.Mise a tacere la spiacevole sensazione d’allerta che l’aveva colta al solo sentire la voce di lui così
calma; troppo calma. Gli aveva già detto che nonostante tutto l’aveva perdonato per quel gesto che non ammetteva
scusante alcuna ma che stava soltanto a lui accettare e capire la sua decisione di donna, di madre che tale non può essere
con accanto un uomo che le è estraneo. Diede i due giri di chiave alla porta e l’aprì. L’uomo sorrise ed entrò nella casa
riscaldata, profumata di minestrone e lenticchie.I bambini gli corsero incontro come pettirossi, lui non li guardò
neppure.
Fissò Giona e lei capì di essere in trappola.). - Sarà la scusa per allontanarmi da questa merda di lavoro.
Una giornata diversa, mettiamola così Franco.-, pensò il rampante avvocato mentre il taxista,fermo al semaforo,
accompagnava gracchiando “Splish splash” da una musicassetta stonata di Bobby Darin.Va bene, disse a sé stesso, va
tutto bene e non hai niente da temere.Ciò che è successo è successo.Ora è finita.E controllati.
Franco accese una sigaretta,aspirò con boccate avide,amare.
-Allora,mi ami o no?-Che significa? Siamo separati legalmente,ormai.Volevi salutare i bambini…fallo.Non ti impedirò mai di farlo-MI AMI O NO?non ha senso non ha senso non
Giona tremò in ogni fibra.Non c’era più nulla del ventenne impacciato e timido che aveva sposato nell’uomo che le
troneggiava davanti a impedirle qualsiasi possibilità di fuga,prepotente e sferzante,conscio della propria forza. Luigi, il
figlio maggiore,si parò di fianco alla madre,scrutandola in silenzio.Lei fece cenno di no col capo,no,vai di là
tesoro,non c’è nulla di cui preoccuparti.Non accadrà nient’altro che non ti farà dormire la notte,piuttosto…muio io.Il
bambino obbedì allo sguardo, lei puntò gli occhi sull’ex marito.
-No-, disse sicura.
-No?non ha senso
-No.-.
-puttana!-. E accadde. L’uomo si scagliò su di lei,l’acchiappò al collo e strinse con quanta forza aveva in corpo,strinse
buttandola all’indietro e Giona cadde battendo la testa prima sulla credenza legnosa,poi sul pavimento. L’uomo strinse
e mentre parlava (cosa farfugliava, cos…?) e le parlava lei non capiva , solo la luce andava a spegnersi dentro e fuori
di lei ed il pensiero,in quel momento,erano i bambini…forse a sua madre in mare era capitato così e la luce che si
spegne d’un colpo e le urla che s’affievoliscono in fretta e i secondi volano e la morte in faccia eccola qui,ha gli occhi
folli dell’uomo che ti ha dato tre figli e dice di amarti e.
Caos.
Caos della materia,Giona.
Forse la stretta si allenta…Giona boccheggiò, riuscì a divincolarsi come nella pellicola rotta di un film che scorre
troppo lenta.Giona animale ferito si muove a quattro zampe, si alza e zoppica verso la camera da letto (perché ho tolto
le chiavi dalle porte?perché i bambini non ci si chiudessero dentro perché…), sente il sangue scorrere nel collo, forse è
già morta forse…
Lui la raggiunge alle spalle,l’afferra per i piedi e lei rovina in avanti battendo la faccia,le mani si allungano sul
pavimento e strisciano e graffiano ma è tutto liscio perché è liscio? E lì penetra la prima coltellata,nella schiena,in
basso.E il dolore le mozza il respiro.Urla Giona e urla e la furia l’assale, l’adrenalina è a mille.
-LASCIAMIIII!!!-.
Si divincola ancora e raggiunge la specchiera,artiglia la spazzola d’argento e la batte sul capo dell’altro che rimane a
fissarla instupidito,gli occhi spalancati e assenti mentre un rivolo rosso e caldo gli scorre sulla tempia.E’ il
momento.Giona si alza,incespica e cade,si rialza,si getta claudicando fuori della camera,attraversa il corridoio,
raggiunge la porta d’ingresso.Cerca con gli occhi i figli ed eccoli accovacciati, gli agnelli, in un angolo della culla di
Francesco dove piangono di terrore, in silenzio. Vorrebbe abbracciarli, chiuderli in sé a bozzolo e portarli via ma non
può,perderebbe secondi preziosi.
–Re…state fermi lì…mamma sta bene, chiede aiuto e torna da voi!- ordina Giona. Cerca di rassicurarsi; non accadrà
nulla di male ai bambini; a lui non interessano loro, lui vuole LEI.Ma deve fare in fretta,essere veloce prima che lui la
raggiunga alle spalle per finirla.La chiave,gira la chiave…la porta. Esce nel pianerottolo zoppicando semisvenuta,
grida e non ha fiato, emette un sibilo roco che poco ha di umano e i vicini aprono a rotazione,corrono fuori,chi
soccorre,chi chiama la Polizia che è già arrivata perché,al momento dell’aggressione,il piccolo grande Luigi è riuscito
a comporne il numero nel telefono, lui che mai prima,senza il permesso della madre,ci aveva giocato col telefono di
casa.
-PERDE MOLTO SANGUE, CHIAMATE UN’AMBULANZA!!-I…i miei bambini…voglio vedere i miei bambini…lui è pericoloso e…Una squadra di poliziotti irrompe in casa, i bambini stanno bene, non smettono di piangere ma stanno bene,lui è di là,
in bagno che ha tentato di tagliarsi le vene ma i piccoli stanno bene signora,deve andare in ospedale per i controlli è
ferita è pericoloso e come è successo perché l’hai fatto entrare perché è il padre dei miei figli…è il padre dei bambini è
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venuto con l’intenzione di ammazzarti; aveva il coltello nascosto nella manica del giubbotto ricorda qualcosa può
parlare sono cose che succedono e stia tranquilla è passato tutto i miei figli,cosa hanno visto i miei figli e.
E Giona sviene.
Chiedo il silenzio stampa. (L’ha fatto per punirmi ancora e ancora e anc… ?) Buio
Non è colpa di nessuno, lo so. Non scriverò più…non ci riuscirò e non DEVO,forse è colpa mia…cos’è la mia
libertà?Dove mi ha portata e a cosa?
Ad ubriacarmi per riuscire a dormire la notte ed essere stordita il giorno dopo qualcuno la chiama Notte Oscura Dello
Spirito.Mooolto romantico.
Devo reagire per i miei figli (ma che madre sono…IO?) devo reagire per crescerli e la creatura che
aspetto…OddioNonRiesco
Valium e sputa l’osso sputa l’osso sputa l’osso
E questi anni di lavoro e privazioni e sacrifici…ora ci sono riuscita, sono in cima alla mia scala ma
Padre mi aiuti…mi sto perdendo, sto perdendo la mia strada
E non posso salvarmi, forse non lo merito. Io…
Luce, Giona.Cercare la sirena
Nel capo le pulsavano parole acri che premevano per scappare.Lentamente gli occhi si abituavano alle tenebre.
Avvertiva la bocca asciutta,ancora impastata dall’alcool,aveva voglia di vomitare e con indosso soltanto maglietta di
cotone e i pantaloni della tuta che non cambiava da tre giorni; non sentiva freddo seppure mancasse un’ora circa all’alba
di una mattina di metà gennaio.L’erba rasa, brinata del prato all’inglese declinava dolce fino ai bordi di una piscina a
forma di ninfea,illuminata da una fila di dodici lampioni licenziosi. Un dobermann adulto le andò incontro
scodinzolando. –Sssh,buono.Buono-, lo rassicurò Giona con una carezza distratta. Le pareva di vivere in un limbo in
quei giorni durante i quali non esistevano orari e poggiava i piedi fuori del letto come un automa, aspettando con
ingordigia la notte per rifugiarsi in un mondo che,si rendeva conto, diventava sempre più accettabile di quello reale.
Una vita parallela. E peccato che in quella vita parallela la perseguitassero comunque i fantasmi dei ricordi.Peccato
davvero, Giona. Ma NON PENSARE,in quel momento,era la cosa più saggia da fare.Con una mano ravvivò i capelli
lunghi, mossi, trascurati e in disordine portandoli indietro.Pensò ai suoi figli in casa dello zio,a Roma.(“Cambiare aria
farà loro bene,Giona.Se permetti voglio portarli un po’ con me in continente.Giona,mi ascolti?”. Giona sedeva assorta
davanti a due monitor ronzanti.Su uno degli schermi erano visualizzati una mappa del sito archeologico di Jef elAhmar, in Siria, testi in demotico e greco antico. “Ti ascolto sempre Giuseppe. Forse sei l’uomo che ascolto di più. E
non ho nulla da obiettare.” Fece una pausa. “Ai bambini farà bene”, ripetè in tono troppo enfatico. Giuseppe aveva
scambiato uno sguardo d’intesa con la moglie,infermiera professionale al Fate Bene Fratelli.Non avevano avuto
figli.”Giona noi…vorremmo che venissi anche tu”. La donna,che per tutto il giorno aveva provato a lavorare al nuovo
romanzo maledicendolo e ottenendone cinque righe in tutto e della stessa frase soltanto espressa con parole diverse;
aveva allontanato da sé la scrivania con uno scatto nervoso della poltroncina girevole. Scrutò il fratello con occhi
cerchiati e lucidi di febbre, pallida e smagrita. “No. Ho bisogno di stare sola.DEVO stare sola,in questo momento.Lo
capisci Giuseppe?”.L’uomo l’aveva fatta alzare dalla scrivania e le aveva raccolto il mento tra il pollice e l’indice.-Hai
bevuto anche questa notte,Giona mia…e quel bellimbusto di cronista con cui esci…-Sergio… mi amaLe veniva da ridere.
Amore…che meravigliosa parola, Giuseppe
Portò la mano alla bocca come una sonnambula e incespicò su di un risolino isterico, il fratello corrugò la fronte
-E tu? TU lo ami, fuori dal letto? Quell’uomo ama il tuo nome Giona, e il tuo corpo. E’ una sanguisuga che si fa
pubblicità alle tue spalle-Che…CHE DIAVOLO VUOI DA ME, GIUSEPPE? COSA ACCIDENTI VOLETE TUTTI?Ho visto in faccia la mia morte.
Penso ad un albero.
Gli uomini non sono alberi.Non basta il sole e la terra, per crescere.
C’è altro,Giuseppe.
Gli uomini vogliono un posto al sole, per crescere orgogliosamente rigogliosi del sé
Debbono utilizzare l’intelligenza superiore.Come utilizzarla è soggettivo.
Si.Ecco.Ciò che li accomuna agli alberi è il sole.Ma c’è dell’altro.
ALTRO.
-E tu cosa combini?Perché?Voglio aiutarti, ma non so come pizzinnè!-
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Altro, vita e morte;MorteVita. Non è la stessa cosa,dopotutto?Il bruco muore e nasce la farfalla.Un fiume si sacrifica al
mare ed il mare stesso pare aspettare ogni fiume che a lui confluirà. E la luna? All’alba attende,attende paziente un
giorno nel proprio guscio,prima di tornare a rischiarare la notte.Che siamo destinati anche noi a morire per
comprendere l’essenza della vita?Buio per luce.
Gli uomini.
Gli uomini la vita devono viverla e non vegetarla, Giuseppe Fratello Caro.
Io sto vivendo.Semplicemente vivendo.Modus Vivendi e Operandi, you Know?
Ciò che non abbiamo vissuto prima,e tu dovresti saperne qualcosa.
Plebe.Siamo plebei,fratello Caro anzi, Plebei con la P maiuscola che hanno consumato le unghie e i denti per fare ciò
che fanno.
Non sono un albero Giuseppe e non lo sarò mai.Non voglio esserlo.Ma voglio ugualmente il MIO sole.
C’ è un momento nella vita in cui
-Vattene fuori di qui,Giuseppe.Prenditi i miei figli per un pò, tua moglie,prenditi anche cane, cuoca e cameriera se vuoi.
La baby sitter due/tre volte la settimana. Ma vattene!–
si avvisa di star perdendo la rotta
e pare non esista bussola che possa evitarlo, Giuseppe Caro
L’uomo aveva sospirato
Sapessi che bei sogni faccio la notte,fratello caro.
Ti descrivo il mio tipico Sogno Di Una Notte Di Mezzo Inverno?
Va bene,se proprio insisti,lo descrivo.
Siedi pure,c’è tempo.Gradisci un Valium?
Nuda in un tunnel.Un lungo tunnel,buio e putriscente,l’odore di marcio ti avvolge fino alle ossa.E topi, ragni e
scarafaggi…il mio tunnel preferito ne brulica.. Giù in fondo vedo una luce che pulsa,Giuseppe, ma è in fondo e io corro
per raggiungerla e corro scivolando nella melma,cadendo e rialzandomi e corro e corro e corro
Ma non la raggiungo mai
-Giona?! Stai bene?-S…si.Bene–Un angelo è sempre un angelo, pizzinnè. Anche con le ali spezzate -.
Giona non aveva risposto. Sfuggendo le dita e lo sguardo dell’altro aveva ciondolato il capo come un fantoccio rotto,
cominciato a piangere un dolore tremolante,inspiegabile,senza fine. Il fratello l’aveva abbracciata. “Un angelo è sempre
un angelo.E prima o poi torna a volare…DEVE tornare a volare, perché è nella sua condizione, volare.
Coraggio, pizzinnè.Il coraggio ci vuole-. Sarah,la cognata,senza fare commenti aveva spinto i bambini fuori dello studio
della donna.).
Albero.Sirena.
E ora le foglie turbinavano e stormivano col vento secco, tagliente sul viso pallido e disfatto.
Giona era apatica.
S’infilò nell’MG e con un rombo intessuto d’energia il motore s’avviò,i fanalini di coda s’illuminarono. Uscì dal
parcheggio dove spiccava un PRIVATO segnalato in caratteri cubitali e con uno stridio di gomme lanciò l’auto in un
viottolo tra bidoni di spazzatura ed un cumulo pericolante di mattoni e terra per poi immettersi su di una vecchia strada
secondaria,in direzione del mare.Va tutto bene,va tutto bene come deve andare Giona scrittrice sarda di razza che non
concepisce mentori.Doveva andare così dall’inizio.Adesso lanciamo la macchina coi fari che illuminano i tronchi e
sostituiscono le stelle fino al molo dove non c’è nessuno che ti aspetta se non il tuo mare.Eppoi facciamo il tuffo,ti va
bambina?Non rispondi?Mah.Was will das Weib?
-Si che mi va-,biascicò Giona non pensare a nulla.I bambini stanno bene anzi,staranno meglio con lo zio e sua moglie
posata infermiera professionale che con una scrittrice sarda di razza che si ubriaca la notte e va avanti a Prozac e
Lexotan.Molto poetico tutto ciò.God save the Queen.Molto poetico tutto ciò.Si si Sissignori.
Pigiò il piede sull’acceleratore e imboccò i tornanti furiosa,hai perso tutto,cara mia la sissignora sarda di razza
candidata al Nobel per la letteratura. Giacomo è svanito come il genio della lampada così pure l’ex marito che hai
fatto uscire di senno e il lavoro?che ne dici se adesso ti salta il contratto editoriale con Francia e Germania perché non
riesci a buttare un rigo in grazia di Dio?Quel protégé del tuo paziente inglese agente si romperà moooolto,si.E ti dirà
di andare a farti fottere e avrà ragione .E i bambini?Il loro padre è partito verso altra destinazione per colpa
tua,caaaara.Che porti sfiga? Magari porti sfiga sfiga uno appresso all’altro,col finestrino aperto e il vento ghiacciato a
sferzare volto e capelli e anima. Dopo una curva,finalmente apparve il mare e Giona sorrise,acellerò ancora.E vai vai
vaivaievaiiiiii!!!
Il mare,la spiaggia onde alte immense rabbiose che aspettano inquiete, il molo.Prese a piovigginare. Virò verso la
spiaggia si si!Che bella idea!Dalla spiaggia va meglio bambina e,in medias res,…le onde ti vengono incontro e tu vai
incontro a loro siiiiiiiiiiiii!!!
Giona sterzò e in un testacoda posizionò l’auto parallela alla linea del bagnasciuga.Frenò arrestandola,aprì ulteriormente
il finestrino e aspirò ansante le stille di pioggia, la nuca abbandonata al poggiatesta del sedile.Fissò un punto impreciso
di fronte a lei,ingranò la marcia e partì acellerando,acellerando ancora vaivaivaiiiiiiiiiiiii e sollevando schizzi d’acqua
salata,proiettili di sabbia.Virò.Ecco il mare davanti e si avvicina, il respiro è rapido e breve,le onde frantumano la rena e
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la pioggia vaiiiiiiiiiiiiii e il ricordo che urla e tutto scorre fuori veloce fugit inreparabile tempus monocromatico, la
colonna sonora è il sibilo del vento.
Frenò un istante prima che l’auto spaccasse in due il mare.L’onda si alzò alta sopra la capote e Giona ne vide il cumulo
d’acqua erto, pieno e vigoroso e sibillino,blu, e dietro spuntò il sole, sorse come ogni giorno e la pioggia smise di
cadere.L’onda cadde frantumandosi sull’auto che vibrò e la riva, perdendosi in mille gocce solitarie. Giona serrò la
mascella, poggiò la testa sul volante battendola piano una,due volte. Il parabrezza era coperto dagli spruzzi salati;
riusciva a stento a vedere. Ma spiò il sole svegliandosi con esso, gl’imprevedibili riverberi giallo arancio a chiazzare
cielo e nuvole, l’acqua. Albero.Sirena.Luce. Tirò il freno a mano.Spalancò lo sportello della macchina, uscì e odorò il
salmastro lottando contro le folate. Sedette sulla sabbia bagnata,levò le scarpe e raccolse le ginocchia al petto come
faceva da bamb ina, attese l’altra onda alzarsi e caderle come una frustata di ghiaccio ai piedi, rabbrividì, sorrise e il
sorriso divenne riso mentre lacrime diverse,liberatorie,presero a scorrere. Giona rise scotendo la testa e infine,dinanzi al
suo mare,annuì.
Sono tornata pensò.
Un Espacio Libre!!!
El blog de Isla Negra
http://isla_negra.zoomblog.com
Secondo il rapporto del "Panos Institute" è la
prima causa di morte, più del cancro e della guerra
La violenza sulle donne
non conosce confini
Claudia Di Giorgio
Per le donne tra i 15 e i 44 anni la violenza è la prima causa di morte e di invalidità: ancor più del cancro, della malaria, degli
incidenti stradali e persino della guerra. Questo dato sconvolgente, proveniente da una ricerca della Harvard University, apre il
rapporto sulla violenza contro le donne nel mondo diffuso in questi giorni dal "Panos Institute" di Londra, un'organizzazione non
governativa che si occupa di problemi globali e dello sviluppo. Il rapporto, preparato per l'apertura di una sessione delle Nazioni
Unite sulla condizione femminile, raccoglie studi e ricerche sul problema della violenza sulle donne effettuati in ogni parte del
pianeta da organismi e istituti nazionali e internazionali. Dalle sue pagine, emerge la drammatica fotografia di una realtà che non
risparmia nessuna nazione e nessun continente.
Le ricerche compiute negli ultimi dieci anni sono concordi: la violenza contro le donne è endemica, nei paesi industrializzati come in
quelli in via di sviluppo. E non conosce differenze sociali o culturali: le vittime e i loro aggressori appartengono a tutte le classi e a
tutti i ceti economici. Secondo l'Organizzazione mondiale della sanità, almeno una donna su cinque ha subito abusi fisici o sessuali
da parte di un uomo nel corso della sua vita. E, come si può verificare anche solo aprendo le pagine di cronaca dei quotidiani, il
rischio maggiore sono i familiari, mariti e padri, seguiti a ruota dagli amici: vicini di casa, conoscenti stretti e colleghi di lavoro o di
studio.
La violenza domestica
In Gran Bretagna, ad esempio, ogni anno una donna su dieci viene picchiata a sangue dal partner, marito o amante che sia. In Canada
e in Israele è più probabile che una donna venga uccisa dal proprio compagno che da un estraneo. In Russia, un omicidio su
cinquanta è compiuto dal marito nei confronti della moglie. La violenza contro le donne è diffusa persino nelle avanzate democrazie
scandinave: Marianne Eriksson, parlamentare europea della Svezia, ha dichiarato che, nel suo paese, "ogni dieci giorni una donna
muore in seguito agli abusi subiti da parte di un familiare o di un amico". E negli Stati Uniti, ogni 15 secondi, viene aggredita una
donna, generalmente dal coniuge: non è un dato riferito un'organizzazione femminista, ma da una severa rivista giuridica della
facoltà di legge di Harvard.
Il terzo mondo
Per quel che riguarda il mondo in via di sviluppo, le informazioni si fanno, se possibile, ancora più drammatiche, ma allo stesso
tempo diventa più difficile raccogliere dati precisi, sia perché le indagini statistiche sono meno frequenti e accurate sia per ragioni
squisitamente culturali. La violenza sulle donne, infatti, in gran parte del mondo è una normale componente del tessuto culturale e
non viene identificata come tale neppure dalle sue vittime. Un gruppo di ricerca che investigava nei paesi a sviluppo minimo ha
comunque rilevato una stretta connessione tra livelli più alti di violenza contro le donne e società in cui la dipendenza economica
femminile dagli uomini è più elevata o dove le donne hanno meno voce in casa o nella società. In molti paesi in via di sviluppo,
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picchiare la moglie fa parte dell'ordine naturale delle cose, una prerogativa maschile ancora indiscussa: in un distretto del Kenia, il 42
per cento delle donne intervistate venivano picchiate regolarmente dal marito. Lo stupro da parte del marito, poi, è ancora
perfettamente legale in gran parte del mondo, e quantificarne l'incidenza è quasi impossibile.
Povertà e prostituzione
Anche la povertà miete vittime in primo luogo tra le donne: in Nepal, circa 10 mila ragazze ogni anno vengono vendute dalle
famiglie per essere avviate alla prostituzione. Nell'Asia sudorientale, i trafficanti selezionano le comunità più deboli, arrivano nei
villaggi durante un periodo di siccità o una carestia e convincono le famiglie a vendere le figlie in cambio di due soldi. Secondo
l'Organizzazione internazionale per l'emigrazione, nei mercati occidentali della prostituzione arriva ogni anno quasi mezzo milione di
donne, provenienti un po' dappertutto.
Le mutilazioni genitali
Un problema specifico di alcune culture africane è invece quello della mutilazione genitale, ancora ampiamente praticata, ed
effettuata quasi sempre in condizioni sanitarie abominevoli, senza anestesia e soprattutto su bambine anche in tenerissima età. Gli
effetti sulla salute sono devastanti, e colpiscono le donne in ogni momento della loro vita sessuale e riproduttiva. Oggi sarebbero 130
milioni le donne che hanno subito questo genere di mutilazione, e i flussi migratori stanno facendo arrivare il problema (e le sue
conseguenze) fin nelle ricche civiltà occidentali.
Lo stupro
Lo stupro è una piaga che colpisce ogni parte del globo: i dati dell'Organizzazione mondiale della sanità fissano tra il 14 ed il 20 per
cento il numero di donne che, negli Stati Uniti, subiscono uno stupro durante il corso della vita. Percentuali analoghe sono indicate da
studi effettuati in Canada, Corea e Nuova Zelanda. In alcuni paesi, tuttavia, perseguire i colpevoli è più facile che in altri. In Pakistan,
ad esempio, per ottenere il massimo della pena la donna che denuncia il suo stupratore deve presentare quattro testimoni e maschi e
non può testimoniare lei stessa. Inoltre, la vittima che non riesce a dimostrare il reato viene incriminata per attività sessuali illecite,
incarcerata o frustata pubblicamente. La violenza sessuale è anche un'arma di guerra, solo da poco riconosciuta come tale dalle leggi
internazionali. I conflitti con un forte connotato etnico, come quelli nei Balcani o in Africa centrale, vedono l'uso dello stupro come
strumento bellico da parte di entrambi i contendenti. Nel 1993, il Centro per i crimini di guerra di Zenica aveva documentato in
Bosnia 40 mila casi di sturpro, ma le cifre reali sono ritenute ben più alte e vi sono sospetti che persino alcuni soldati dell'Onu si
siano resi responsabili di aggressioni.
Quei ritardi internazionali
Il grande silenzio
sui diritti delle donne
“Il nemico intimo": così il "Panos Institute" intitola il suo documento sulla violenza contro le donne nel mondo, una
raccolta di dati e ricerche che denuncia un aspetto della condizione femminile troppo spesso sottovalutato o rimosso.
C'è molto silenzio, dietro questa realtà di soprusi e di violenze vissute soprattutto tra le mura domestiche e con la
frequente complicità della tradizione e della legge. Proprio quest'anno, in dicembre, si celebra il cinquantesimo
anniversario della dichiarazione dei diritti umani. Ma la comunità internazionale ha tardato molto a considerare la
violenza sulle donne come una violazione di principi teoricamente universali. Si è dovuto aspettare fino al 1993
perché la violenza tra le mura domestiche fosse esplicitamente inserita tra le violazioni dei diritti umani e perché i
diritti delle donne fossero dichiarati una componente "inalienabile, integrale e indivisibile dei diritti umani."
Tuttavia, sebbene i documenti internazionali che condannano la violenza sulle donne siano ormai parecchi, non esiste
un reale consenso sulla questione. Ancora adesso le Nazioni Unite non riescono a trovare un accordo su come debbano
essere protetti i diritti delle donne: ben 30 paesi hanno rifiutato di ratificare la Convenzione per l'eliminazione delle
discriminazioni verso le donne, e persino tra i firmatari, quasi un terzo ha espresso forti riserve per motivi
culturali o religiosi.
Inoltre, la Convenzione rischia, almeno per ora, di rimanere un semplice pezzo di carta, una dichiarazione di buona
volontà puramente formale. Non esiste infatti ancora alcuna sede dove denunciare le violazione e tanto meno un
meccanismo per perseguirle, a differenza di quel che accade per altri importanti trattati internazionali sui diritti umani.
La riunione delle Nazioni Unite che si apre il 2 marzo dovrebbe appunto affrontare questo aspetto del problema, con
quale possibilità di risultati concreti è ben difficile prevedere. Rimane poi il dubbio che i decreti dell'Onu servano a
poco quando si tratta di combattere una forma di violenza che si svolge soprattutto nel privato e che dipende in larga
misura da atteggiamenti culturali e religiosi molto diversi e localizzati. Tuttavia, ricorda il "Panos Institute"
concludendo il suo rapporto, l'atteggiamento della comunità mondiale può aprire le porte agli interventi nazionali e ha
inoltre un forte peso sull'opinione pubblica e sui mass media, che ancor oggi, ed anche nei paesi occidentali,
sottovalutano e banalizzano la violenza contro le donne. (c.d.g.)
Un argomento vasto e intricato come la violenza sulle donne è presente su Internet in moltissime forme, che vanno dalle raccolte di dati e
documenti giuridici fino alle iniziative dirette di lotta o di supporto alle vittime degli abusi. Per ripercorrere il cammino del dibattito e dell'azione a
livello internazionale si possono consultare le pagine Web delle Nazioni Unite, che all'interno del loro sitodedicano alle donne un'intera sezione.
Womenwatch si propone come "la finestra Internet dell'Onu sul progresso e l'aumento di potere delle donne", raccoglie documenti e informazioni
sulle attività delle varie agenzie Internazionali impegnate nel settore, tra cui la pagina del CEDAW , la Commissione per l'eliminazione delle
discriminazioni verso le donne.
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Passando dall'ufficialità all'attivismo politico, il NOW, la più grande organizzazione femminista degli Usa, offre materiali, anche legislativi, e un
elenco delle sue iniziative. Da segnalare la sezione sulla nuova legge contro la violenza sulle donne, un ampliamento di quella del 1994 che sarà
presentato entro l'anno al Congresso americano. Una nutritissima collezione di studi, ricerche e materiali pedagogici o preventivi è invece in Rete a
cura del Minnesota Center Against Violence and Abuse, nel quale si trova anche un newsgroup e delle mailing list dedicate alla discussione digitale
sul tema della violenza. L'impegno contro la violenza sulle donne non è una prerogativa esclusivamente femminile e in questo senso merita una visita
anche il sito del MADV (Men and Women against Domestic Violence), una "cyberorganizzazione" che ritiene che le aggressioni tra le mura di casa
siano un problema che riguarda anche gli uomini. La pensano lo stesso anche in Italia i fondatori dell'associazione bolognese Uomini contro la
violenza alle donne. La loro iniziativa fa parte di "Zerotolerance", "Tavola delle donne sulla violenza e la sicurezza in città" promossa dal Comune di
Bologn a. Sempre a Bologna, la Casa delle donne per non subire violenza è uno dei pochi centri antiviolenza italiani presenti su Internet, assieme al
Telefono Rosa di Torino e all'associazione Artemisia di Firenze. Infine, sempre in italiano, due siti di informazioni sulle donne: lo Spazio Donne La
Città Invisibile e il server dell'associazione Orlando.
(del 28 febbraio 1998) Fonte: http://www.repubblica.it
Teresa Fantasia
conduce, in Buenos Aires, il programma radiofonico
“Sardegna nel Cuore”
dedicato a tutti i sardi in Argentina
[email protected]
www.am1250.com.ar
in diretta ogni domenica, h 8.00 (Buenos Aires)
Valentina Acava Mmaka
Nostalgie Vibranti
Il buio cade
sulla rena destata
da un 'a solo' vento,
geometra dell'aria risveglia
da imprecise altitudini
le sottili fragranze
dell'acacia spinosa.
Nostalgie vibranti
tambureggiano
nel bush
ancora addormentato
sulle teste
dei baobab pensanti,
vecchi guardiani
di stirpi nate
appena ieri.
Terra di rinascenze compiute
delirio di flore oniriche
qui, l'oblio, è metafora
di un pensiero in movimento;
è il tuo popolo
che cammina fermo
sulle tue imponenti gibbosità
incidendo il suolo duro
di nuove aspirazioni
che la pioggia cancella
e restituisce ...
stratificazioni di memorie ...
è la tua gente
che in ogni luogo
cerca in un volto
il sorriso del cuore.
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Ilha Negra
Rivista di letteratura in portoguese
Diretta da Amelia Pais (Portogallo)- Gabriel Impaglione (Italia).
Mail: [email protected]
Gaspara Stampa
Padova, Italia- 1523-1554
VI
Un intelletto angelico e divino,
una real natura ed un valore,
un disio vago di fama e d'onore,
un parlar saggio, grave e pellegrino,
un sangue illustre, agli alti re vicino,
una fortuna a poche altre minore,
un'età nel suo proprio e vero fiore,
un atto onesto, mansueto e chino,
un viso più che 'l sol lucente e chiaro,
ove bellezza e grazia Amor riserra
in non mai più vedute o udite tempre,
fûr le catene, che già mi legâro,
e mi fan dolce ed onorata guerra.
O pur piaccia ad Amor che stringan sempre!
VII
Chi vuol conoscer, donne, il mio signore,
miri un signor di vago e dolce aspetto,
giovane d'anni e vecchio d'intelletto,
imagin de la gloria e del valore:
di pelo biondo, e di vivo colore,
di persona alta e spazioso petto,
e finalmente in ogni opra perfetto,
fuor ch'un poco (oimè lassa!) empio in amore.
E chi vuol poi conoscer me, rimiri
una donna in effetti ed in sembiante
imagin de la morte e de' martiri,
un albergo di fé salda e costante,
una, che, perché pianga, arda e sospiri,
non fa pietoso il suo crudel amante.
VIII
Se così come sono abietta e vile
donna, posso portar sì alto foco,
perché non debbo aver almeno un poco
di ritraggerlo al mondo e vena e stile?
S'Amor con novo, insolito focile,
ov'io non potea gir, m'alzò a tal loco,
perché non può non con usato gioco
far la pena e la penna in me simìle?
E, se non può per forza di natura,
puollo almen per miracolo, che spesso
vince, trapassa e rompe ogni misura.
Come ciò sia non posso dir espresso;
io provo ben che per mia gran ventura
mi sento il cor di novo stile impresso.
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IX
S'avien ch'un giorno Amor a me mi renda,
e mi ritolga a questo empio signore;
di che paventa e non vorrebbe, il core,
tal gioia del penar suo par che prenda;
voi chiamerete invan la mia stupenda
fede, e l'immenso e smisurato amo re,
di vostra crudeltà, di vostro errore
tardi pentite, ove non è chi intenda.
Ed io cantando la mia libertade,
da così duri lacci e crudi sciolta,
passerò lieta a la futura etade.
E, se giusto pregar in ciel s'ascolta,
vedrò forse anco in man di crudeltade
la vita vostra a mia vendetta involta.
X
Alto colle, gradito e grazioso,
novo Parnaso mio, novo Elicona,
ove poggiando attendo la corona,
de le fatiche mie dolce riposo:
quanto sei qui tra noi chiaro e famoso,
e quanto sei a Rodano e a Garona,
a dir in rime alto disio mi sprona,
ma l'opra è tal, che cominciar non oso.
Anzi quanto averrà che mai ne canti,
fia pura ombra del ver, perciò che 'l vero
va di lungo il mio stil e l'altrui innanti.
Le tue frondi e 'l tuo giogo verdi e 'ntero
conservi 'l cielo, albergo degli amanti.
colle gentil, dignissimo d'impero.
XI
Arbor felice, aventuroso e chiaro.
onde i due rami sono al mondo nati,
che vanno in alto, e son già tanto alzati,
quanto raro altri rami unqua s'alzâro:
rami che vanno ai grandi Scipi a paro,
o s'altri fûr di lor mai più lodati
(ben lo sanno i miei occhi fortunati,
che per bearsi in un d'essi miraro),
a te, tronco, a voi rami, sempre il cielo
piova rugiada, sì che non v'offenda
per avversa stagion caldo, né gelo.
La chioma vostra e l'ombra s'apra e stenda
verde per tutto; e d'onorato zelo
odor, fior, frutti a tutt'Italia renda.
Poetessa e scrittrice. Figlia della buona borghesia, rimase orfana di padre molto giovane. La sua vita, di cui si sa molto poco, fu
assai romanzata. Trasferitasi a Venezia con la madre e i due fratelli, a venticinque anni si innamorò follemente del giovane conte
Collatino di Collalto, per il quale compose i versi sublimi, che le hanno donato un posto d'onore nella Nostra letteratura. Il suo
canzoniere, una forma di diario intimo in cui si alternano gioie ed angosce, è una delle testimonianze letterarie più delicate della
sensibilità femminile dell'epoca. La causa della sua morte, avvenuta per suicidio, ha, inoltre, ispirato diverse tesi romantiche sulle
pene d'amore subite dalla giovane poetessa, che per decenni è stata considerata un archetipo dello struggimento.
fascismo - nazismo
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Donne
A. Buttafuoco, S. Sgarioto
Colpisce, rispetto al tema del rapporto tra donne e regime fascista, il grave ritardo della storiografia italiana, mentre
quella tedesca rispetto al nazismo registra una qualità e una quantità notevole di interventi.
LE CAUSE DI UN RITARDO. Sebbene anche in Germania abbia a lungo pesato sulla ricerca quella che appare come
una rilevante difficoltà di individuare le categorie di analisi adeguate a cogliere un fenomeno così contraddittorio e
doloroso come, per esempio, la massiccia adesione di donne al regime perfino nell'applicazione delle sue politiche di
sterminio (N. Gabriel, Un corps à corps avec l'Histoire: les féministes allemandes face au passé nazi, in Femmes et
fascismes, a c. di R. Thalmann, 1986), la produzione degli studi, specie dopo la spinta venuta dal movimento
femminista a un ripensamento complessivo delle radici storiche dell'ideologia del genere, appare articolata e matura. Il
ritardo italiano è stato attribuito a cause diverse che peraltro convincono solo in parte. Si è osservato che la mancanza di
una ricerca specifica era dovuta, per quanto riguarda gli anni dell'immediato dopoguerra, all'idea diffusa secondo cui
poiché le donne sotto il regime fascista non avevano avuto alcuna visibilità e legittimità politica, si sarebbe potuto
parlare soltanto di un'assenza e non di un rapporto tra donne e fascismo: e su un'assenza l'indagine storiografica non può
procedere. Si è poi visto, con maggiore plausibilità, che poiché la storiografia sul fascismo ha per lungo tempo
privilegiato la ricostruzione dell'opposizione al regime, gli studi, sia pure sporadici, dedicati alle donne italiane tra le
due guerre hanno privilegiato per anni la scoperta o la riscoperta delle donne attive nei movimenti antifascisti (I.
Vaccari, La donna nel ventennio fascista 1919-1943, in Donne e Resistenza in Emilia-Romagna, 1978), fino alla
stagione, che ha ritrovato soltanto di recente una sua nuova vitalità, delle ricerche sulle donne nella Resistenza (A.M.
Bruzzone, R. Farina, La Resistenza taciuta. Dodici vite di partigiane piemontesi, 1976; B. Guidetti Serra, Compagne,
1977). In realtà appare piuttosto evidente, sul lungo periodo, la difficoltà di affrontare un'analisi più rigorosa e articolata
delle politiche del regime nei confronti delle donne e del loro esito, oltre la pur necessaria denuncia di un'ideologia
misogina e oppressiva (P. Meldini, Sposa e madre esemplare. Ideologia e politica della donna e della famiglia durante
il fascismo, 1975). Tanto più appare difficile, poi, indagare a fondo sulle donne non soltanto come destinatarie di
politiche specifiche, ma come soggetti attivi. Risulta difficile cioè guardare alle motivazioni di coloro che al fascismo
aderirono con convinzione, divenendo sostenitrici del suo progetto politico-sociale. In questa chiave il tentativo di
analisi di M.A. Macciocchi (La donna "nera". Consenso femminile e fascismo, 1976) appare del tutto fuorviante,
nell'uso improprio, tra l'altro, di categorie psicanalitiche poco rigorose e soprattutto ben poco utili per comprendere il
fenomeno nella sua complessità e varietà di espressioni
LE PRIME VERE RICERCHE. Soltanto a partire dalla seconda metà degli anni Settanta si può cominciare a parlare
di una vera e propria storiografia che indaga con serietà di intenti e rigore scientifico su entrambi i problemi: quello
dell'atteggiamento ideologico e delle politiche fasciste che incisero sulla condizione complessiva delle donne italiane e
quello del rapporto instaurato da gruppi di donne con il movimento fascista e poi con il regime, fino alle militanti della
Repubblica di Salò. Alla luce di documentazione inedita o di riletture anche delle fonti più frequentate, per così dire,
dalla storiografia generale sul fascismo, si è cominciato a indagare su alcune questioni di fondo quali i caratteri e le
radici culturali dell'ideologia fascista sulla famiglia; la natura e la portata delle campagne demografiche; le norme
espulsive delle donne dal mercato del lavoro; l'effettivo funzionamento di istituzioni fiore all'occhiello del regime, ma
di fatto fallite, tra cui paradigmatica appare la vicenda dell'Onmi (Opera nazionale maternità e infanzia). Molte ricerche,
oltre alle fonti d'archivio e alla pubblicistica, ricorrono alle fonti orali di cui si fa un uso sempre più consapevole, sotto
il profilo metodologico, per ricostruire, per esempio, gli atteggiamenti e le resistenze nei confronti delle politiche
demografiche e dei provvedimenti pronatalisti da parte di donne appartenenti alla classe operaia (L. Passerini, Donne
operaie e aborto nella Torino fascista, in "Italia contemporanea", 1982; Id., Torino operaia e fascismo, 1984). Ricerche
rigorose e sostenute da un'ampia base documentaria sono state avviate negli anni Ottanta del Novecento sulla militanza
femminile fascista, sia nella prima fase movimentista, dalle origini al delitto Matteotti (D. Detragiache, Il fascismo
femminile da Sansepolcro all'affare Matteotti 1919-1925, in "Storia contemporanea", 1983), siadopo il consolidamento
del regime attraverso l'organizzazione dei Fasci femminili (S. Bartoloni, Il fascismo femminile e la sua stampa: la
"Rassegna femminile italiana" 1925-1930, in "Dwf", 1982), sia nella Repubblica sociale italiana, attraverso l'indagine
sull'arruolamento volontario di circa seimila giovani donne nel Servizio ausiliario femminile (M. Fraddosio, Donne
nell'esercito di Salò, in "Memoria", 1982; Id., La donna e la guerra. Aspetti della militanza femminile nel fascismo:
dalla mobilitazione civile alle origini del Saf nella Repubblica sociale italiana, in "Storia contemporanea", 1989).
BIOGRAFIE E ALTRI FILONI DI STUDIO. Un filone a sé, nella ricerca sul rapporto donne e fascismo, è
rappresentato da alcune biografie, tra cui spiccano quelle dedicate a donne già protagoniste delle lotte d'inizio secolo
nell'ambito del partito socialista o del movimento di emancipazione femminile che divennero figure significative, sia
pure rivestendo ruoli diversi, anche nell'ambito del regime, grazie all'amicizia personale con Mussolini oltre che per
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convinzione personale e che scontarono cocenti de-lusioni e amarezze profonde: Margherita Sarfatti, costretta all'esilio
dopo la promulgazione delle leggi razziali e Regina Terruzzi, dirigente delle massaie rurali, rimasta nonostante tutto
legata a ideali di giustizia sociale che il regime fu ben lontano dal realizzare (P.V. Cannistraro, B.R. Sullivan,
Margherita Sarfatti, 1994; D. Detragiache, Du socialisme au fascisme naissant: formation et itinéraire de Regina
Terruzzi, in R. Thalmann, a c. di, Femmes et fascismes, 1986). Studi sulla stampa femminile fascista cominciano a
scavare più a fondo sulle varie modalità attraverso cui si espresse un rapporto spesso ambivalente e contraddittorio tra le
intellettuali e i valori del regime (E. Scaramuzza, Professioni intellettuali e fascismo. L'ambivalenza dell'Alleanza
muliebre culturale italiana, in "Italia contemporanea", 1983; E. Mondello, La nuova italiana. La donna nella stampa e
nella cultura del Ventennio, 1987; S. Follacchio, Discutendo di femminismo. "La Donna italiana", in M. Addis Saba, a
c. di, La corporazione delle donne. Ricerche e studi sui modelli femminili nel ventennio, 1988; H. Dittrich-Johansen,
Dal privato al pubblico: maternità e lavoro nelle riviste femminili dell'epoca fascista, in "Studi storici", 1994).
Analogamente si comincia a indagare sulla condizione delle lavoratrici di fabbrica durante il ventennio (P.R. Willson,
The Clockwork Factory. Women and Work in Fascist Italy, 1993). Il panorama delle ricerche, tuttavia, continua ad
apparire ancora troppo povero e frammentato, specie se confrontato con quanto sta avvenendo nella storiografia tedesca,
sebbene di recente sia stato pubblicato anche in Italia il volume della studiosa statunitense V. De Grazia (Le donne nel
regime fascista, 1993), che ha il merito di proporre una ricostruzione complessiva e quindi sintetica, nonostante la mole,
delle principali questioni poste dal tentativo di "nazionalizzazione delle donne" operato dal fascismo e dalla risposta da
parte delle interessate. Persino questa ricerca, tuttavia, non è esente da alcune approssimazioni e genericità: d'altra parte
la chiave di lettura adottata appare stimolante, ma talora poco duttile nel cogliere gli aspetti più problematici di
esperienze tra loro spesso assai diverse, sebbene l'autrice sottolinei opportunamente che le politiche del regime, così
come gli atteggiamenti delle donne, non seguirono un orientamento definito e univoco per tutto il corso del ventennio,
ma anzi appaiono entrambi contraddittori e ambivalenti. Il regime, oscillante tra conservazione e modernizzazione,
attinge, come sottolinea a più riprese De Grazia, alla tradizione del liberalismo italiano, promuovendo al tempo stesso la
presenza delle donne nella sfera pubblica, sia pure al fine della costruzione dello stato totalitario. Le donne, dal canto
loro, si pongono di fronte al fascismo seguendo una propria strategia di rapporto con la modernità, che smentisce per
esempio le campagne demografiche del regime attraverso la co stante limitazione delle nascite: limitazione che tende,
peraltro, alla valorizzazione della maternità, nel senso di mirare alla qualità di questa esperienza piuttosto che alla
quantità dei figli. L'attenzione delle storiche tedesche nei confronti del rapporto tra donne e nazismo si è orientata su
vari ambiti di indagine: dalla condizione delle lavoratrici tra la Repubblica di Weimar e la seconda guerra mondiale alle
politiche del regime sulla famiglia; dalle politiche di selezione della razza "ariana" attraverso pratiche denataliste e
sterilizzazione coatta alla militanza femminile, con un'analisi delle organizzazioni femminili naziste; fino alle ricerche
sulle attività del personale femminile nei campi di sterminio. Su quest'ultimo aspetto, in particolare, si rileva una
produzione significativa, sia sotto il profilo metodologico che sotto il profilo politico, giacché si esce definitivamente da
un'impostazione che vedeva le donne come naturalmente estranee alla politica e alla violenza, assumendone,
ideologicamente, una presunta "innocenza" storica.
NUOVE CATEGORIE DI ANALISI. Gli studi di E. Harvey (Women as Agents of Nazi Settlements Policies in
Western Poland, relazione presentata al seminario internazionale su "Donne, guerra, Resistenza nell'Europa occupata",
Milano 14-15 gennaio 1995) sulle donne impiegate come agenti nella politica di colonizzazione nazista dei territori
polacchi in cui risiedevano comunità tedesche, o quelli di G. Schwarz (Donne Ss addette alla sorveglianza nei campi di
concentramento nazisti 1933-1945, relazione presentata allo stesso seminario internazionale) sulle addette ai campi di
sterminio risultano, in questo senso, esemplari, poiché gettano una luce nuova su fenomeni poco noti o sottaciuti. Di
grande importanza, sotto il profilo dell'elaborazione di categorie di analisi nuove, oltre che sul piano delle fonti
utilizzate, sono anche e soprattutto le ricerche di G. Bock (Zwangssterilisation im Nationalsozialismus: Studien zur
Rassenpolitik und Frauenpolitik , 1986; Il nazionalsocialismo: politiche di genere e vita delle donne, in G. Duby, M.
Perrot, Storia delle donne. Il Novecento, 1992) sul rapporto tra razzismo e politiche di genere attuate dal nazismo. Il
regime, sostiene per esempio la studiosa, non promosse affatto, come vuole un luogo comune storiografico diffuso, il
"culto della maternità". Al contrario, proprio attraverso l'idea della selezione di una razza superiore, procedette a una
politica tesa a scegliere quali donne dovessero procreare e quali no, applicando di fatto, anche attraverso il ricorso ad
atti di polizia, una classificazione delle donne che venivano distinte tra quelle da incoraggiare a far figli, quelle i cui
figli non erano del tutto sgraditi, quelle che avrebbero fatto meglio a non averne, quelle alle quali si sarebbe dovuto
impedirlo a ogni costo, anche attraverso la sterilizzazione coatta. Ebree, zingare, straniere, slave, donne di colore o
"ariane" affette da malattie o sospettate di debo-lezza mentale o fisica, appartenenti comunque a gruppi che
minacciavano il Volkskörper (il corpo etnico) nella sua presunta purezza e superiorità furono soggette ad aborti
procuratianche oltre il sesto mese di gravidanza, a interventi chirurgici o somministrazione di sostanze per renderle
sterili. Il novanta per cento di esse morirono in seguito a questi interventi che si possono considerare a tutti gli effetti,
secondo Bock, una delle pratiche di sterminio operate dal nazismo nei confronti degli individui e dei gruppi considerati
indesiderabili. Importanti le osservazioni di Bock anche sul lavoro femminile durante il periodo nazista: al contrario di
quanto di solito si scrive, basandosi sulla lettera della propaganda e non sulle politiche effettive, durante il nazismo il
numero delle donne, comprese quelle sposate, impiegate in lavori salariati aumentò in modo considerevole (e questo
spiega, in parte, l'adesione di molte donne al regime, al quale si attribuiva il merito di alleviare la disoccupazione).
L'ideologia familista non poteva superare l'interesse del regime alla potenza economica e militare, né le tendenze
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modernizzatrici nell'economia venivano contrastate in nome della maternità che, come abbiamo visto, per il nazismo
non era un obiettivo così assoluto come si pretende. Le ricerche sul rapporto donne-nazismo, dunque, appaiono, anche
alla luce di questi studi, in pieno sviluppo e, salvo ovvie eccezioni, capaci di interrogare questo momento storico con
domande che ribaltano certezze consolidate, storiografiche e no, anche a costo di scoperte talora laceranti sulla
"complicità" attiva delle donne al regime persino nelle sue espressioni più aberranti.
• S. Bartoloni, Le donne sotto il fascismo (discussioni e dibattiti), in "Memoria", n. 10, 1984; C. Saraceno, La
costruzione della maternità e della paternità nell'Italia fascista, in "Storia e memoria", n. 1, 1994; G. Czarnowski, Das
kontrollierte Paar. Ehe- und Sexualpolitik im Nationalsozialismus, Deutscher Studien Verlag, Weinheim 1991; D.
Reese, "Straffe, aber nicht stramm - herb, aber nicht derb". Zur Vergesellschaftung der Mädchen durch den Bund
Deutscher Mädel im sozialkuturellen Vergleicht zweier Milieus, Beltz, Basilea 1989; C. Koonz, Mothers in the
Fatherland. Women, the Family and Nazi Politics, New York 1987; C. Sachse, Betriebliche Sozialpolitik als
Familienpolitik in der Weimarer Republik und im Nationalsozialismus, Amburgo 1987; D. Reese, C. Sachse,
Frauenforschung zum Nationalsozialismus. Eine Bilanz, in L. Gravenhorst, C. Tatschmurat, a c. di, Töchterfragen.
Ns.Frauengeschichte, Kore, Friburgo 1990; J. Stephenson, The Nazi Organisation of Women, Londra 1991.
Fonte: http://www.pbmstoria.it
Alfonsina Storni
Argentina
Due parole
Questa notte all'orecchio m'hai detto due parole.
Due parole stanche
d'esser dette. Parole
cosi' vecchie da esser nuove.
Parole cosi' dolci che la luna che andava
trapelando dai rami
mi si fermo' alla bocca. Cosi' dolci parole
che una formica passa sul mio collo e non oso
muovermi per cacciarla.
Cosi' dolci parole
che, senza voler, dico: "Com'e' bella la vita!"
Cosi' dolci e miti
che il mio corpo e' asperso di oli profumati.
Cosi' dolci e belle
che, nervose, le dita
si levano al cielo sforbiciando.
Oh, le dita vorrebbero
recidere stelle.
Trad.Angelo Zanon Dal Bo
Isla Negra
revista en español de poesía y narrativa breve
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Ada Negri (1870 - 1945)
"Periandro, signore di Mileto, spedì una nave trireme alla poetessa di Lesbo perché andasse da lui a recargli il dono
della sua poesia. Saffo accolse l'invito e giunse alla reggia con due canzoni, irrorate dal riso innumerevole delle onde:
e la reggia ne fu tutta celeste.
Non sul comando d'un principe, ma sul filo dell'amicizia con una gentildonna pavese - Luisa Boerchio - un giorno
Ada Negri venne tra noi [a Pavia, ndr] col suo dono poetico. E da non so quanti anni, al giungere dell'autunno - quando
sulla nostra terra i giorni si fanno più nudi e l'umido e le nebbie fanno cercare un angolo accogliente - ella lasciava
Milano e tornava nel tiepido nido che l'amicizia le preparava. Vi si fermava due mesi, tre mesi, cinque mesi (...)"
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"(...) Così io la rivedo nella mia città: camminare rasente ai muri, e improvvisamente fermarsi a guardare con
interesse una vecchia posterla di legno, l'erba d'un sagrato. Piena d'anni era, ma ribelle a invecchiare. Diritta e invitta.
Pallidissima il volto, tutto osso e fermezza, balenato da occhi grandi e bizantini difesi da sopracciglia pesanti. La testa,
un gran cespuglio nevicato. Correggeva la persona tozza e tracagnotta con movimenti lenti e dominanti. Abitavano in
quel suo portamento la nobiltà d'una regina e la fresca audacia della zingara. E non l'abbiamo vista un giorno d'estate
fermarsi alla fontanella pubblica, premere la bocca alla cannella, lasciando poi sgocciolare l'acqua per il mento e
gettare attorno quegli occhi magnetici in sfida ai passanti? E bastò quel movimento poco controllato, perché dalle
spalle le si scaricasse tutto il peso degli anni e delle sofferenze e delle esperienze, e ci rimbalzasse davanti, nel suo
corpetto rosso, la vergine ventenne, la leggendaria monella di Fatalità e Tempeste [le prime opere di Ada Negri, 1892 e
1898, ndr] (...)"
Ada Negri nacque da una famiglia molto povera, e può essere considerata la prima scrittrice italiana proveniente dalla
classe operaia. Suo padre, Giuseppe, era un manovale e sua madre, Vittoria Cornalba, una tessitrice. Ada passò la sua
infanzia solitaria, nella loggia da portiera dove lavorava la nonna, osservando il continuo passaggio delle persone, cosa
che descrive nel suo romanzo autobiografico, Stella mattutina (1912).
Grazie ai sacrifici della mamma, Ada Negri poté studiare, fino ad ottenere un diploma di insegnante elementare.
Insegnò, quindi, a partire dal 1888, nella scuola elementare Motta Visconti, di Pavia. In questo periodo pubblicò le sue
prime poesie, raccolte nel volume Fatalità (1892). Dopo il grande successo di questo libro, Ada negri acquistò una certa
fama, e le venne attribuito il titolo di "professoressa", per poter insegnare nei licei.
Nel 1896, si sposò con Federico Garlanda, da cui, nel 1904, ebbe Bianca, sua unica figlia. Pochi anni dopo, i due si
separarono, ed Ada, con l'inizio della Prima Guerra Mondiale , si spostò in Svizzera. Successivamente, ebbe una
relazione tormentata con un altro uomo, esperienza descritta dalla scrittrice nel suo libro di poesie, Il libro di Mara
(1919). Un volume scritto con inusuale franchezza, per la società italiana del tempo, fortemente cattolica e
conservatrice.
Nel 1894, vinse il premio Milli per la poesia, e, nel 1931, il premio Mussolini, per la carriera. Nella sua seconda
collezione di poesie, Tempeste, uscita nel 1895, affrontò temi sociali rivoluzionari espressi con un linguaggio molto
moderato.
Dopo le orazioni patriottiche tenute dalla scrittrice, raccolte, nel 1918, in Orazioni, Ada Negri pubblicò Maternità
(1904) e Dal profondo (1910), due opere spiccatamente introspettive. A seguito di questo periodo di malinconia, uscì
Esilio (1914), e, nel 1917, una raccolta di quattordici racconti, Le solitaire, in cui la scrittrice raccontò la sua modesta
visione del mondo, in qualità di ragazza venuta dalla campagna.
Nel 1919, uscì Il libro di Mara, a cui fece seguito I canti dell'isola (1924). Uscirono inoltre, Vespertina (1930), un libro
di poesie, Finestre alte (1923) e Le strade (1926), entrambi libri di racconti, poi Di giorno in giorno, che contiene una
raccolta di meditazioni sulle opere della scrittrice, ed Erba sul sagrato (1939). L'ultima opera conosciuta di Ada negri
fu Oltre, uscito postumo , in cui l'autrice propose una sua agiografia di santa Caterina da Siena. Nel 1940, Ada Negri
divenne membro dell'Accademia Italiana, e nel 1945 morì.
"La casa si trova sulla via del borgo che conduce alla chiesa parrocchiale: è un solo piano oltre il terreno, ha
muraglia grosse con i segni del tempo sugli intonachi stanchi, davanzali troppo alti..."
Ada Negri, Orto
Alda Merini
Amleto di carta
A Giuliano Grittini
Tu Amleto di carta sei una perla che ha visto la morte.
Un giorno tanti anni fa quando hai visto una donna hai pensato
che fosse la tua fede in Dio.
Era bella ma era amara come tutte le sorti dell'uomo.
Come amante eri un saggio
bevendo lei hai bevuto la sua cicuta.
Come era amara e come era dolce.
Possedendo lei hai sentito nel suo grembo la polvere di tante strade
hai visto rose e cancelli, cancelli e rose.
Possedendo lei hai capito che la vita era uno sbaglio
e che solo l'amore è la vera tragedia dell'uomo.
Non eri mai stato un uomo e lei non era mai stata una donna.
Il fatto è che uniti dalle vostre mani
avevate scoperto che eravate grandi come l'universo.
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Il vostro errore è stato quello di scoprire la verità.
Tu oggi sei morto
ma non è che sei morto perchè hai una sepoltura
ma perchè hai mangiato, digarito e amato il suo cuore
come si mangia la luna e il sole.
Tu sei diventato il re dell'universo, tu sei impazzito d'amore.
Ti piace sentirla lontana dal tuo martirio
dalla tua veloce bocca che è sempre un figlio
un condottiero segreto che naviga il dolore come un gaudio.
Ma poi un giorno avete scoperto una terra
dove non abitava nessuno e lì avete messo la tenda dell'amore.
Avete mangiato i vostri pensieri come una cacciagione.
Come sono belli i pensieri d'amore
sono colombe alte di cui si mangiano anche le piume.
Eppure il cuore del vostro cuore non è una statua solitaria
ma un occhio in cui tanti guardano
per concepire il paradiso della pace.
Tu e lei siete morti in questo silenzio
ma la vostra sepoltura non è mai esistita.
Grazia Deledda
Sardegna
Canne al vento: Capitolo sesto
Nei tempi di carestia, cioè nelle settimane che precedevano la raccolta dell'orzo, e la gente, terminata la provvista del
grano, ricorre all'usura, la vecchia Pottoi andava a pescare sanguisughe. Il suo posto favorito era una insenatura del
fiume sotto la Collina dei Colombi presso il poderetto delle dame Pintor.
Stava là ore ed ore immobile, seduta all'ombra di un ontano, con le gambe nude nell'acqua trasparente verdognola
venata d'oro; e mentre con una mano teneva ferma sulla sabbia una bottiglia, con l'altra si toccava la collana.
Di tanto in tanto si curvava un poco, vedeva i suoi piedi ondulare grandi e giallastri entro l'acqua, ne traeva uno,
staccava dalla gamba bagnata un acino nero lucente che vi si era attaccato, e lo introduceva nella bottiglia
spingendovelo giù con un giunco. L'acino s'allungava, si restringeva, prendeva la forma di un anello nero: era la
sanguisuga.
Un giorno, verso la metà di giugno, ella salì fino alla capanna di Efix. Faceva un gran caldo e la valle era tutta gialla
sotto il cielo d'un azzurro velato.
Il servo intrecciava una stuoia, all'ombra delle canne, con le dita che tremavano per la febbre di malaria; vedendo la
vecchia che gli si sedeva ai piedi con la bottiglia in grembo, sollevò appena gli occhi velati e attese rassegnato, quasi
sapesse già quello che ella voleva da lui.
«Efix, sei un uomo di Dio e puoi parlarmi con la coscienza in mano. Che intenzioni ha il tuo padroncino? Egli viene a
casa mia, si mette a sedere, dice al ragazzo: suona la fisarmonica (gliel'ha regalata lui), poi dice a me: manderò zia
Ester, a chiedervi la mano di Grixenda; ma donna Ester non si vede, e un giorno che io sono andata là, donna Noemi mi
ha preso viva, e morta m'ha lasciata, tanti improperi mi ha detto. Tornata poi a casa, Grixenda m'ha anche lei mancato di
rispetto, perché non vuole che vada dalle tue padrone. Io non so da qual parte rivolgermi, Efix; non siamo noi che
abbiamo chiamato il ragazzo dalla strada: è venuto lui. Kallina mi dice: cacciatelo fuori. Ma lei lo caccia fuori, quando
ci va?»
Efix sorrise.
«Là non va certo per far all'amore!...»
Allora la vecchia sollevò irritata il viso e il suo collo parve allungarsi più del solito, tutto corde.
«E in casa mia viene forse a far all'amore? No; egli è un ragazzo onesto. Neppure tocca la mano a Grixenda. Essi si
amano come buoni cristiani, in attesa di sposarsi. Dimmi in tua coscienza, Efix, che intenzioni ha? Fammi questa carità,
per l'anima del tuo padrone.»
Efix diventò pensieroso.
«Sì, una sera, alla festa, egli mi disse: la sposerò... In mia coscienza credo però che egli non possa.»
«Perché? Egli non è nobile.»
«Non può, ripeto, donna!», disse Efix con più forza.
«Per denari ne ha, questo si vede. Spende senza contare. E il tuo padrone morto diceva, mi ricordo, quando anche lui
veniva a sedersi a casa mia ed era giovane e viveva mia nonna: l'amore è quello che lega l'uomo alla donna, e il denaro
quello che lega la donna all'uomo.»
«Lui? Diceva così? A chi?»
14
«A me, sei sordo? Sì a me. Ma io avevo quindici anni ed ero senza malizia. Mia nonna cacciò via di casa don Zame e
mi fece sposare Priamu Piras. E Priamu mio era un valent'uomo: aveva un pungolo con una lesina in cima e mi diceva,
avvicinandomelo agli occhi: vedi? ti porto via la pupilla viva se guardi don Zame quando ti guarda. Così passò il tempo.
Ma i morti ritornano: eccoli, quando don Giacintino sta seduto sullo sgabello e Grixenda sulla soglia della porta, mi par
di essere io e il beato morto...»
Quando ella incominciava a divagare così non la finiva mai, ed Efix che lo sapeva la mandò via infastidito.
«Andate in pace! Cercate anche voi un uomo con un buon pungolo, per nipote vostra!»
E la vecchia contenta di sapere che il ragazzo una sera alla festa aveva detto: «la sposerò» andò via senz'altro. Efix
rimase solo in faccia alla luna rossa che saliva tra i vapori cinerei della sera, ma si sentiva inquieto: nel sopore in cui
tutta la valle era immersa, il mormorio dell'acqua gli pareva il ronzio della febbre, e che i grilli stessi col loro canto si
lamentassero senza tregua.
No, la vita che Giacinto conduceva non era quella di un giovane onesto e timorato di Dio: giorno per giorno le grandi
speranze fondate su lui cadevano lasciando posto a vere inquietudini. Egli spendeva e non guadagnava; ed anche il
pozzo più profondo, pensava Efix, ad attingervi troppo si secca.
Qualche sera Giacinto scendeva al poderetto per portare in paese le frutta e gli ortaggi che le zie poi vendevano a casa
di nascosto come roba rubata, poiché non è da donne nobili far le erbivendole, e tutto questo era quanto di più utile egli
faceva: il resto del tempo lo passava oziando di qua e di là per il paese. Ma eccolo che vien su per il sentiero
trascinandosi a fianco come un cane la bicicletta polverosa: arriva ansante quasi venga dall'altro capo del mondo e dopo
aver gettato da lontano un involto al servo si butta per terra lungo disteso come morto.
E di un morto aveva il viso pallido, le labbra grigie; ma un tremito gli agitava la spalla sinistra, tanto che Efix
spaventato trasse di tasca un tubetto di vetro, fece cadere sulla palma della mano due pastiglie di chinino e gliele mise in
bocca.
«Mandale giù. Hai la febbre!»
Giacinto ingoiò le pastiglie e senza sollevarsi si strinse la testa fra le mani.
«Come sono stanco, Efix! Sì, ho la febbre: l'ho presa, sì! Come si fa a non prenderla, in questo maledetto paese? Che
paese!», aggiunse come parlando fra sé, stanco. «Si muore: si muore...»
«Alzati», disse Efix, curvo su lui. «Non star lì: l'aria della sera fa male.»
«Lasciami crepare, Efix! Lasciami! Che caldo! Non ho mai conosciuto un caldo simile: almeno da noi si facevano i
bagni...»
Che dirgli, per confortarlo? «Perché non sei rimasto là?» Efix sentiva troppa pietà di tanta miseria prostrata davanti a
lui, per parlare così.
«Che hai fatto oggi?», domandò sottovoce.
«E cosa vuoi che faccia? Non ce niente da fare! Scender qui a portarti il pane, tornar là a portare l'erba! E loro che
vivono come tre mummie! Zia Noemi oggi però s'e inquietata un poco, perché zia Ester mi diceva che non riesce a
metter su i denari per l'imposta. Si capisce! Spendono per me, e da me non vogliono niente! Io dissi a zia Ester: non
preoccupatevi, andrò io dall'esattore. - Una furia, zia Noemi! Aveva gli occhi come un gatto arrabbiato. Non la credevo
così collerica. Ebbene, mi disse persino: coi tuoi denari, se ne hai, compra un'altra fisarmonica a Grixenda. Che male
c'è, Efix, s'io vado da quella ragazza? Dove si va, se no? Zio Pietro mi porta alla bettola, e a me non piace il vino, lo sai;
il Milese vuole che io giochi (così s'è fatto la fortuna, lui!) ed a me non piace giocare. Vado là, dalla ragazza, perché è
buona, e la vecchia dice cose divertenti. Che male c'è, dimmi. Dimmi?»
Lo guardava di sotto in su, supplichevole, con gli occhi dolci lucidi alla luna. Efix aveva preso l'involto del pane, ma
non poteva mangiare; sentiva la gola stretta da un'angoscia profonda.
«Nessun male! Ma la ragazza, benché buona, è povera e non è degna di te.»
«L'amore non conosce né povertà né nobiltà. Quanti signori non han sposato ragazze povere? Che ne sai tu? Più di un
lord inglese, più di un milionario d'A merica han sposato serve, maestre, cantanti... perché? Perché amavano. E quelli
son ricchi: sono i re del petrolio, del rame, delle conserve! Chi sono io, al loro confronto? E le donne? Le principesse
russe, le americane, chi sposano? Non s'innamorano di poveri artisti e persino dei loro cocchieri e dei loro servi? Ma tu
che cosa puoi sapere?»
Efix stringeva fra le mani un pezzo di pane e gli sembrava di stringere il suo cuore tormentato dai ricordi.
«Eppoi dicono di credere in Dio, loro! Perché non mi lasciano sposare la donna che amo?»
«Taci, Giacinto! Non parlare così di loro! Esse vogliono il tuo bene.»
«Allora mi lascino formare la mia famiglia. Io, magari, porterò Grixenda in casa loro ed essa le aiuterà. Ormai esse sono
vecchie. Io lavorerò. Andrò a Nuoro, comprerò formaggio, bestiame, lana, vino, persino legna, sì: perché adesso, con la
guerra, tutto ha valore. Andrò a Roma e offrirò la merce al Ministero della Guerra. Sai quanto c'è da guadagnare?»
«Ma! E i capitali?»
«Non ci pensare, li ho. Basta mi lascino in pace, loro. Io non sono venuto per sfruttarle né per vivere alle loro spalle.
Ah, ma zia Noemi è terribile!», egli gemette a un tratto, nascondendosi il viso fra le mani. «Ah, Efix, sono così
amareggiato! Eppoi mi fa tanta vergogna vederle così misere; vederle vender di nascosto le patate, le pere e i pomi ai
bambini che entrano piano piano nel cortile, col soldo nel pugno, e domandando la roba sottovoce quasi si tratti di cosa
rubata! Mi vergogno, sì! Questo deve cessare. Esse torneranno quelle che erano, se mi lasceranno fare. Se zia Noemi
sapesse il bene che le voglio non farebbe così...»
«Giacinto! Dammi la mano: sei bravo!», disse Efix commosso.
15
Tacquero, poi Giacinto riprese a parlare con una voce tenue, dolce, che vibrava nel silenzio lunare come una voce
infantile.
«Efix, tu sei buono. Ti voglio raccontare una cosa accaduta ad un mio amico. Era impiegato con me alla Dogana. Un
giorno un ricco capitano di porto in ritiro, un buon signore grosso ma ingenuo come un bambino, venne per fare un
pagamento. Il mio amico disse: Lasci i denari e torni più tardi per la ricevuta che dev'essere firmata dal superiore. Il
capitano lasciò i denari; il mio amico li prese, andò fuori, li giocò e li perdette. E quando il capitano tornò, il mio amico
disse che non aveva ricevuto nulla! Quello protestò, andò dai superiori; ma non aveva la ricevuta e tutti gli risero in
faccia. Eppure il mio amico fu cacciato via dal posto... sì, saranno quattro mesi... sì, ricordo, in carnevale. Egli andò a
ballare. Si stordiva, beveva: non aveva più un soldo. Uscendo dal ballo prese una polmonite e cadde su una panchina di
un viale. Lo portarono all'ospedale. Quando uscì, debole e sfinito, non aveva casa, non aveva pane. Dormiva sotto gli
archi del porto, tossiva e faceva brutti sogni: sognava sempre il capitano che lo inseguiva, lo inseguiva... come nelle
scene del cinematografo. Ed ecco una sera, ecco proprio il capitano che va a cercarlo sotto gli archi del porto. L'amico
credeva di sognare ancora; ma l'altro gli disse: sa, è da un pezzetto che la cerco. So che è fuori di posto per via del
versamento, ma a me preme che i suoi superiori e tutti sappiano la verità. È meglio anche per lei: dica in sua coscienza:
li ho versati o no, i denari? - L'amico rispose: sì. - Allora il capitano disse: - Cerchiamo di aggiustare le cose. Io non
voglio rovinarla: venga a casa mia, ecco il mio indirizzo: venga domani e assieme andremo dai suoi superiori. - Va
bene! Ma l'indomani né poi l'amico andò. Aveva paura. Aveva paura. Eppoi il tempo era orribile ed egli non si muoveva
di là. Tossiva e un facchino gli portava di tanto in tanto un po' di latte caldo. Che tempo era? Che tempo!», ripeté
Giacinto, e sollevò il viso guardandosi attorno quasi per accertarsi che la notte era bella.
Efix ascoltava, col gomito sul ginocchio e il viso sulla mano, come i bambini intenti alle fiabe.
«Ma un giorno mi decisi e andai...»
Silenzio. Il viso dei due uomini si coprì d'ombra ed entrambi abbassarono gli occhi. La spalla di Giacinto tremava
convulsa; ma egli la sollevò e la scosse come per liberarsi dal tremito, e riprese con voce più dura:
«Sì, ero io, tu avevi capito. Andai dal capitano. Non era in casa, ma la cameriera, una ragazza pallida che parlava
sottovoce, mi fece aspettare in anticamera. La stanza era quasi buia, ma ricordo che quando un uscio s'apriva il
pavimento rosso luccicava come lavato col sangue. Aspettai ore ed ore. Finalmente il capitano tornò; era con la moglie,
grossa come lui, bonaria come lui. Sembravano due bambini enormi; ridevano rumorosamente. La signora aprì gli usci
per vedermi bene: io tossivo e sbadigliavo. Si accorsero che avevo fame e m'invitarono ad entrare nella sala da pranzo.
Io, ricordo, mi alzai, ma ricaddi seduto battendo la testa alla spalliera della cassapanca. Non ricordo altro. Quando
rinvenni ero a letto, in casa loro. La cameriera mi portava una tazza di brodo su un vassoio d'argento e mi parlava con
grande rispetto. Rimasi là più di un mese, Efix, capisci: quaranta giorni. Mi curarono, cercarono di rimettermi a posto;
ma il posto era difficile trovarlo perché tutti ormai sapevano la mia storia. D'altronde anch'io volevo andarmene lontano,
al di là del mare. Ciò che io ho sofferto durante quel tempo nessuno può saperlo: il capitano, sua moglie, la serva io li
vedo sempre in sogno; li vedo anche nella realtà, anche adesso, lì, davanti a me. Essi erano buoni, ma io vorrei
sprofondarmi per non vederli più. E il peggio è che non potevo andarmene da casa loro. Stavo lì, istupidito, seduto
immobile ad ascoltare la signora che parlava parlava parlava, o in compagnia della serva che taceva: sedevo a tavola
con loro, li sentivo scherzare, far progetti per me, come fossi un loro figliuolo, e tutto mi dava pena, mi umiliava,
eppure non potevo andarmene. Finalmente un giorno la signora, vedendomi completamente guarito, mi domandò che
intenzioni avevo. Io dissi che volevo venire qui dalle mie zie, di cui avevo parlato come di persone benestanti. Allora mi
comprarono il biglietto per il viaggio e mi regalarono anche la bicicletta. Io capii ch'era tempo d'andarmene e partii:
venni qui. Che liberazione, in principio! Ma adesso, in casa delle zie, sono ancora come là... e non so...».
Un grido che aveva qualche cosa di beffardo attraversò il silenzio del ciglione, sopra i due uomini, e Giacinto balzò
sorpreso credendo che qualcuno avesse ascoltato il suo racconto e lo irridesse: ma vide una piccola forma grigia lunga,
seguita da un'altra più scura e più corta, balzare come volando da una macchia all'altra intorno alla capanna e sparire
senza neppur lasciargli tempo di raccattare un sasso per colpirla.
Anche Efix s'era alzato.
«Son le volpi», disse sottovoce. «Lasciale correre: fanno all'amore. Sembrano folletti, alle volte» riprese mentre
Giacinto si buttava di nuovo per terra silenzioso. «Hai veduto com'eran lunghe? Mangiano l'uva acerba come diavoli...»
Ma Giacinto non parlava più. Ed Efix non sapeva cosa dire, se pregarlo di riprendere il racconto, se confortarlo, se
commentare in bene o in male quanto aveva sentito. Ecco perché era stato tris te, tutto il giorno, ecco come vanno le
cose della vita! Ma che dire? In fondo era contento che il passaggio delle volpi avesse fatto tacere Giacinto; tuttavia
qualche cosa bisognava pur dire.
«Dunque... quel capitano? Si vede che era uomo savio: capiva che la gioventù... la gioventù... è soggetta all'errore...
Eppoi quando si è orfani! Su, alzati; vuoi mangiare?»
Entrò nella capanna e tornò sbucciando una cipolla: Giacinto stava immobile, abbattuto, forse pentito della sua
confessione, ed egli non osò più parlare.
L'odore della cipolla si mischiava al profumo delle erbe intorno, della vite e della salsapariglia; le volpi ripassarono.
Efix cenò ma il pane gli parve amaro. E due o tre volte tentò di dire qualche cosa; ma non poteva, non poteva; gli
sembrava un sogno. Finalmente scosse Giacinto, tentò di sollevarlo, gli disse con dolcezza:
«Su, vieni dentro! La febbre è in giro...».
Ma il corpo del giovine sembrava di bronzo, steso grave aderente alla terra dalla quale pareva non volesse più staccarsi.
16
Efix rientrò nella capanna, ma tardò a chiudere gli occhi, e anche nel sonno aveva l'idea tormentosa di dover
commentare il racconto di Giacinto, non sapeva però come, se in bene o in male.
«Devo dirgli: ebbene, coraggio, ti emenderai! Dopo tutto eri un ragazzo, un orfano...»
Ma sognò Noemi che lo guardava coi suoi occhi cattivi, e gli diceva sottovoce, a denti stretti:
«Lo vedi? Lo vedi che razza di uomo è?».
Si svegliò con un peso sul cuore; benché fosse notte ancora si alzò, ma Giacinto se n'era già andato.
Per molti giorni non si lasciò più vedere, tanto che Efix cominciò a inquietarsi, anche perché gli ortaggi e i pomi si
ammucchiavano all'ombra della capanna e nessuno veniva a prenderli.
Ogni sera don Predu, che possedeva grandi poderi verso il mare, passava di ritorno al paese, e se vedeva il servo
tendeva l'indice verso la terra delle sue cugine e poi si toccava il petto per significare che aspettava l'espropriazione e il
possesso del poderetto; ma Efix, abituato a quella mimica, salutava, e a sua volta accennava di no, di no, con la mano e
con la testa.
Dopo la confessione di Giacinto s'inquietava però vedendo don Predu; gli sembrava più beffardo del solito.
Una sera aspettò accanto alla siepe, e gli chiese:
«Don Predu, mi dica, ha veduto il mio padroncino? L'altra sera venne qui che aveva la febbre e adesso sto in pensiero
per lui».
Don Predu rise, dall'alto del cavallo, col suo riso forzato a bocca chiusa, a guance gonfie.
«Ieri sera l'ho veduto a giocare dal Milese. E perdeva, anche!»
«Perdeva!», ripeté Efix smarrito.
«Come lo dici! Vuoi che vinca sempre?»
«A me disse che non giocava mai...»
«E tu lo credi? Non dice una verità neanche se gli dai una fucilata. Ma non è cattivo: dice le bugie, così perché gli
sembran verità, come i bambini.»
«Come un bambino davvero...»
«Un bambino che ha tutti i denti però! E come mastica! Vi mangerà anche il poderetto. Efix, ricordati: son qua io! Se
no, bastonate...»
Efix lo guardava dal basso, spaurito; e il grosso uomo a cavallo gli sembrava, nel crepuscolo rosso, un uccello di
malaugurio, uno dei tanti mostri notturni di cui aveva paura.
«Gesù, salvaci. Nostra Signora del Rimedio, pensa a noi...»
Don Predu s'era già allontanato, quando Efix lo raggiunse nello stradone porgendogli con tutte e due le mani un cestino
colmo di pomi e di ortaggi.
«Don Predu, mandi questo con la sua serva alle mie padrone. Io non posso abbandonare il poderetto... e don Giacinto
non viene...»
Da prima l'uomo lo guardò sorpreso; poi un sorriso benevolo gli increspò le labbra carnose. Sollevò una gamba e disse:
«Guarda lì, c'è posto».
Efix cacciò il cestino entro la bisaccia, e mentre don Predu andava via senza dir altro, se ne tornò su alla capanna: aveva
paura che le padrone lo sgridassero; sapeva d'aver commesso un atto grave, forse un errore; ma non si pentiva. Una
mano misteriosa lo aveva spinto, ed egli sapeva che tutte le azioni compiute così, per forza sovrannaturale, sono azioni
buone.
Aspettò Giacinto fino al tardi. La luna piena imbiancava la valle, e la notte era così chiara che si distingueva l'ombra
d'ogni stelo. Persino i fantasmi, quella notte, non osavano uscire, tanta luce c'era: e il mormorio dell'acqua era solitario,
non accompagnato dallo sbatter dei panni delle panas. Anche i fantasmi avevan pace, quella notte. Il servo solo non
poteva dormire. Pensava alla storia di Giacinto e del capitano di porto, e provava un senso d'infinita dolcezza, d'infinita
tristezza.
Tutti, nel mondo, pecchiamo, più o meno, adesso, o prima o poi: e per questo? Il capitano non aveva perdonato? Perché
non dovevano perdonare anche gli altri? Ah, se tutti si perdonassero a viceversa! Il mondo avrebbe pace: tutto sarebbe
chiaro e tranquillo come in quella notte di luna.
S'alzò e andò a fare un giro nel poderetto. Sì, sul sentieruolo bianco si disegnava anche l'ombra dei fiori: le foglie dei
fichi d'India avevano le spine, nell'ombra, e dove l'acqua era ferma, giù al fiume, si vedevano le stelle.
Ma ecco un'ombra che si muove dietro la siepe, fra gli ontani: è un animale deforme, nero, con le gambe d'argento:
scricchiola sulla sabbia, si ferma.
Efix corse giù; gli sembrava di volare.
«Sei tu! Sei tu? M'hai spaventato.»
Giacintino si tirò a fianco la bicicletta e lo seguì silenzioso; ma ancora una volta, arrivati davanti alla capanna si buttò a
terra gemendo:
«Efix. Efix, non ne posso più... Che hai fatto! Che hai fatto!».
«Che ho fatto?»
«Non so bene neppur io. È venuta la serva di zio Pietro, portando un cestino, dicendo che lo avevi consegnato tu al suo
padrone. C'erano zia Ruth e zia Noemi in casa, poiché zia Ester era alla novena: presero il cestino e ringraziarono la
serva, e le diedero anche la mancia; ma poi zia Noemi fu colta da uno svenimento. E zia Ruth la credeva morta, e gridò.
Corsero a chiamare zia Ester; ella venne spaventata, e per la prima volta anche lei mi guardò torva e mi disse che son
venuto per farle morire. Oh Dio, Dio, oh Dio, Dio! Io bagnavo il viso di zia Noemi con l'aceto e piangevo, te lo giuro
17
sulla memoria di mia madre; piangevo senza sapere perché. Finalmente zia Noemi rinvenne e mi allontanò con la mano;
diceva: era meglio fossi morta, prima di questo giorno. Io domandavo: perché? perché, zia Noemi mia, perché? E lei mi
allontanava con una mano, nascondendosi gli occhi con l'altra. Che pena! Perché son venuto, Efix? Perché?»
Il servo non sapeva rispondere. Adesso vedeva, sì, tutto l'errore commesso, consegnando il cestino a don Predu e
pensava al modo di rimediarvi, ma non vedeva come, non sapeva perché, e ancora una volta sentiva tutto il peso delle
disgrazie dei suoi padroni gravare su lui.
«Sta' quieto», disse infine. «Tornerò io domani al paese e rimedierò tutto.»
Allora Giacinto riprese
«Tu devi dire alle zie che non son stato io a consigliarti di incaricare zio Pietro della consegna del cestino. Esse credono
così. Esse credono, e zia Noemi specialmente, che io cerchi l'amicizia di zio Pietro per far dispetto a loro. Io sono amico
di tutti; perché non dovrei esserlo di zio Pietro? Ma le zie sanno che egli vuole comprare il poderetto. Che colpa ne ho
io? Sono io che voglio venderlo, forse?»
«Nessuno vuol venderlo. Perché parlare di queste cose? Ma tu, anima mia, tu... tu l'altra sera dicevi questo, dicevi
quest'altro: promettevi mari e monti, per far felici le tue zie; e ieri sera, invece, sei andato a giocare...»
«Giocando tante volte si guadagna. Io voglio guadagnare, appunto per loro: no, non voglio più essere a carico loro.
Voglio morire... Vedi» aggiunse sottovoce «adesso, dopo la scena di oggi, mi pare di essere ancora nella casa del
capitano... Dio mi aiuti, Efix!»
Efix ascoltava con terrore: sentiva d'essere di nuovo davanti al destino tragico della famiglia alla quale era attaccato
come il musco alla pietra, e non sapeva che dire, non sapeva che fare.
«Oh», sospirò profondamente Giacinto. «Ma di qui me ne vado certo; non aspetto che mi caccino via! Sono senza
carità, le mie zie, specialmente zia Noemi. Non m'importa, però: essa non ha perdonato mia madre; come può perdonare
me? Ma io, ma io...»
Abbassò la testa e trasse di saccoccia una lettera.
«Vedi, Efix? So tutto. Se zia Noemi non ha perdonato mia madre dopo questa lettera, come può aver l'animo buono? Tu
lo sai cosa c'è, in questa lettera, l'hai portata tu, a zia Noemi. Ed io gliel'ho presa: stava sul lettuccio, il giorno del mio
arrivo: io ne lessi qualche riga, poi la presi dall'armadio, oggi... È mia; è di mia madre; è mia... Non è degna di stare là
questa lettera...»
«Giacinto! Dammela!», disse Efix stendendo le mani. «Non è tua! Dammela: la riporterò io, alle mie padrone.»
Ma Giacinto stringeva la lettera fra le palme delle mani e scuoteva la testa. Efix cercò di prendergliela: supplicava,
pareva domandasse un'elemosina suprema.
«Giacinto, dammela. La riporterò io, la rimetterò nell'armadio. Parlerò io con loro, metterò pace. Tu aspettami qui. Ma
dammi la lettera.»
Giacinto lo guardò. La sua spalla tremava, ma gli occhi erano freddi, quasi crudeli. Allora Efix balzò, gli gravò le mani
sulle spalle, gli sibilò all'orecchio una parola.
«Ladro!»
Giacinto ebbe l'impressione di essere assalito da un avvoltoio; aprì le mani e la lettera cadde per terra.
la riviste di literatura in linba sarda
Isola Niedda 2
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Emily Dickinson
EEUU
Gioco alla Ricchezza - per placare
La Smania per l'Oro Mi ha trattenuto dall'essere un Ladro, credo,
Perché spesso, sfrontata
A causa del Bisogno, e dell'Opportunità Avrei potuto fare un Peccato
Ed essere Io stessa quella facile Cosa
Una Persona indipendente Ma ogni volta che il mio campo si dimostra
Troppo sterile per sostenermi
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Mi immagino come sarei E nuovo Conforto
Alla mia Poverta e a Me ne deriva Ci chiediamo se l'Uomo Che possiede - Stimi l'Opulenza Come Noi - Che non Possiamo mai Dovesse mai a queste Mani che frugano
Capitare di Regnare su una Miniera O nella lunga - volubile scadenza
Per vincere, arrivare il loro turno Quanto più adatte sarebbero - visto che il Bisogno Illumina così bene Non so che cosa, Desiderare, od Ottenere Sia bello in assoluto -
Maria Luisa Spaziani
Italia
Appennino ligure
Vengo a bruciare fra i tuoi rami neri,
mio salmastro paese di neve,
in te rinasco uccello del miracolo
nei silenzi scordati.
Ci fu un tempo di tregue e campane,
di sangue rosso, nettare e roveti.
Scendo viva nel pozzo della favola,
pietà di me, scivolose pareti.
Tu ti concedi a lampi, lo so bene,
come ogni crudele assoluto.
Ma in una goccia ruotano dei mondi,
perfino il sole è una pupilla cieca Ci fu un tempo di risse e campane,
di germogli e di verdi profeti.
Io vivo nello spazio se lo spazio si arrende.
La campana mi ritma ogni altrove.
Tratto da I fasti dell'ortica, 1996
Lettere 1
Il nostro amore che sarebbe fiorito con tutti i fiori della primavera torinese!
(così dolce per l’esule che ritorna!)
Dalle lettere di Amalia Guglielminetti a Guido Gozzano
Martedì (24 marzo 1908)
Perché mi fate piangere, Guido, perché mi fate rimpiangere quel poco che v’ho dato di me? Non dovevo venire con Voi
quel giorno per soffrirne dopo, così, per vedermi tolta anche la piccola dolcezza di sentirvi qualche volta vicino. E così
poca cosa la vita e così breve per negarci qualche poco della sua bellezza per tormentarci volontariamente anche quella
piccola parte di bene che ci concede?
Voi vi dite corazzato anzi insensibile ad ogni ferita. Io no, mio dolce Amico, o vi voglio bene e soffro crudelmente di
sentirvi tanto lontano. Mi pare di trovarmi più sola in quest’ombra grigia di banalità che ci circonda, sento d’aver
smarrito qualche cosa di più leggero, di più chiaro, di più elevato, l’amico che mi comprende, il fratello che sogna i miei
sogni e gioisce della mia gioia, la tenerezza che blandisce e riscalda il cuore.
Io non voglio che tu mi sfugga, Guido, io non voglio che tu mi segua di lontano come un estraneo, che tu mi riveda
ancora un giorno lontano quando forse i miei capelli non saranno più tanto bruni e la mia bocca fresca e i miei occhi
lucenti.
Lascia ch’io ti dica tu come un compagno, ch’io non senta fra noi il gelo di quella parola dura.
Io ti sono compagna ora senza tremori e senza fremiti, sorella della tua anima.
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Io ti saprei baciare la fronte con un sorriso sereno come si bacia un bambino. No, noi non abbiamo ancora sepolto nulla
di noi stessi. Io sono per te come il primo giorno che ti vidi, non sazia, né stanca, né oppressa dalla più piccola parte di
te. Sei nuovo e fresco al mio spirito come allora che m’eri ignoto.
Ogni tua parola è come una piccola luce che ti rischiara un momento e ch’io guardo risplendere con gioia nuova ogni
volta che tu parli.
E un senso strano ch’io non so dire, ma che non ho mai sentito per altri, una malia, quasi, che è credo, una occulta
profonda fraternità, un oscuro legame spirituale che ci unisce anche nostro malgrado. Ma tu non provi questo fascino, lo
so, poiché mi respingi dopo alcune ore di comune vita, mi allontani con un gesto che mi pare un urto di disdegno. Forse
io non sono stata con te, quel giorno, quella della tua attesa.
Fui rude, lo ricordo, violenta anche. Ma quale contrazione, quale ribellione era in me, allora, davanti a quel nuovo tu
che lottava contro la mia volontà aspra di solitaria! Ma ricordo anche un momento di chiara dolcezza, il mio volto
chinato sul tuo, le mie labbra parlanti con franca umiltà di cose umili e nascoste. Ma come puoi non volermi bene se mi
rivedi ancora in quell’atto? Nessuno, ti giuro, mi ha mai veduta così spoglia d’orgoglio, così vestita di pura tenerezza.
Tu solo che non mi ami, tu solo che mi sfuggi.
Scrivimi che ci vedremo ancora quando e come il destino lo vorrà, semplicemente, come due amici buoni che la fedeltà
riconduce tratto tratto l’uno all’altro. Ho bisogno di sentirti parlare, di te, di me, de’ tuoi e dei miei sogni, del tuo e del
mio avvenire, di tante cose piccole e grandi e vane. E’ così buona l’amicizia ed io non ho amiche vere, non ho forse
amici veri, non mi sento legata che a te.
Non voglio che ci cerchiamo con l’ansia del desiderio, ma che ci vediamo naturalmente come vogliono le vicende della
nostra vita. Non farmi ancora piangere e rimpiangere, Guido, dammi ancora le prove e se vuoi qualche segno di bontà in
cambio di tutta la mia tenerezza. Vieni a dirmi addio prima di lasciare Torino. Ci sapremo stringere le mani con
dolcezza ma senza fremito. Verrai? Non dirmi, non dirmi di no...
(Amalia Guglielminetti)
ai cani sciolti della letteratura consigliamo vivamente
www.villanovastrisaili.com
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di Rina Brundu. Salotto letterario
Margherita Guidacci
Italia
quel che le foglie recano già scritto
in sé, nelle intricate nervature
simili a vene sul dorso della mano
o linee incise nel palmo. Il sguardo,
che segue il biforcarsi di vie segrete,
coglie ad incroci turgidi di linfa
i nodi del significato. Così
si fa più chiaro il messaggio.
Ma quella che tu chiedi, e che tu chiami
la mia risposta. E' la vita che parla
in ogni cosa viva, mentre passa
verso la morte. Vi pongo di mio
soltanto un giusto angolo di sguardo.
E il calmo gesto con cui, dopo averle
lungamente scrutate, affido al vento
queste mie foglie, e il vento se le porta,
esso solo compiendo
per un diritto immemorabile
il sussurrante vaticinio.
Tratto da Il buio e lo splendore
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Emily Bronte
«Ho sognato nella mia vita, sogni che son rimasti sempre con me, e che hanno cambiato le mie idee; son passati
attraverso il tempo ed attraverso di me, come il vino attraverso l'acqua, ed hanno alterato il colore della mia mente.»
da Cime Tempestose
(1801)
Ritorno adesso da una visita al mio padrone di casa: l'unico vicino con il quale avrò a che fare. Magnifico paese, questo.
Credo che in tutta l'Inghilterra non avrei potuto trovare un luogo così discosto da ogni rumore mondano. Un vero
paradiso del perfetto misantropo: e il signor Heathcliff ed io siamo fatti apposta per dividerci tanta solitudine. Ma che
bel tipo, costui! Certo non immaginava quale calore di simpatia sentissi in cuore per lui mentre, avvicinandomi a
cavallo, vedevo i suoi occhi neri muoversi, pieni di sospetto, sotto le sopracciglia, e le sue dita sprofondarsi ancor più,
con un gesto di risoluta diffidenza, nel panciotto, all'annuncio del mio nome.
-Il signor Heathcliff?- chiesi.
Un cenno del capo fu la sua risposta.
Vivian Lamarque
Italia
Autoritratto
Io uovo di Pasqua
ho carta e carta adosso
un fiocco rosa stretto
cioccolato nero in fronte
pulcini a mille in testa
sto dietro al vetro
con una sorpresa dentro.
Tratto da Un quieta polvere, 1996
Agatha Christie
Il ritratto di Elsa Greer
"Una frase gli frullava nel cervello e non riusciva a scacciarla: - Lei morì giovane... Questo era il suo pensiero (di Poirot) mentre guardava Elsa. Non l'avrebbe mai riconosciuta dal ritratto che Meredith gli
aveva mostrato. Quello era soprattutto il ritratto della giovinezza e della vitalità. Nella donna che gli stava di fronte, non
c'era giovinezza... pareva che non ci fosse mai stata. E tuttavia si rese conto, come non si era reso conto dal quadro, che
Elsa era bella. I suoi capelli neri erano pettinati alla perfezione, i lineamenti erano classici, il trucco perfetto. "
Virginia Woolf
Il cinema
«Le persone orgogliose allevano le pene tristi dentro se stesse.» Emily Dickinson
certe persone sostengono che il nostro lato selvaggio non esista più e che abbiamo raggiunto l’ultimo stadio della
civiltà, dove tutto è già stato detto e dove è ormai troppo tardi per mostrarsi ambiziosi. Ma questi cosiddetti filosofi
hanno presumibilmente dimenticato il cinema, o, perlomeno, non hanno mai avuto modo di vedere i “selvaggi” del XX
secolo guardare i film. Essi non si sono mai seduti davanti a uno schermo a riflettere su come, nonostante i vestiti
indossati e i tappeti sotto i piedi, non ci sia poi una gran differenza fra loro e quegli uomini nudi dagli occhi vivaci i
quali, sbattendo due pezzi di ferro l’uno contro l’altro, riconoscevano in quel rumore metallico un’anticipazione della
musica di Mozart.
Naturalmente, in questo caso, i pezzi di ferro sono così finemente lavorati e coperti con aggiunte di materia estranea che
risulta estremamente difficile percepire distintamente qualsiasi suono. Tutto è un insieme di rumori misti e confusi che
genera caos. È come se stessimo scrutando dal bordo di un calderone dentro il quale, lentamente, sembrano ribollire
frammenti di tutte le forme e di tutti i sapori, e dove, ogni tanto, qualche forma più grande tenta di sollevarsi per
sfuggire al caos. Eppure, a prima vista, l’arte del cinema sembra semplice, persino stupida. C’è un re che stringe la
mano ad una squadra di football; c’è lo yacht di Sir Thomas Lipton; c’è Jack Corner che vince il Grand National.
L’occhio assorbe tutto istantaneamente e il cervello, piacevolmente stimolato, si appresta a guardare le immagini che si
succedono, senza rifletterci troppo. Per l’occhio comu ne, l’occhio inglese privo di senso estetico, è un semplice
meccanismo che impedisce al corpo di cadere in difficoltà, rifornendo il cervello di giocattoli e dolciumi per tenerlo
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tranquillo, continuando a comportarsi come una competente balia, fino a quando la mente non decida che sia ora di
svegliarsi. Qual è il motivo, dunque, che lo fa improvvisamente svegliare nel bel mezzo di un piacevole sonno per
domandare aiuto? L’occhio si trova in difficoltà. L’occhio vuole aiuto. L’occhio dice al cervello: “Sta accadendo
qualcosa che assolutamente non comprendo. C’è bisogno di te”. Entrambi guardano il re, la nave, il cavallo e
immediatamente il cervello capisce che hanno assunto una qualità che non appartiene a una semplice fotografia della
vita reale. In verità essi non sono diventati più belli, per quanto possano essere belle le immagini, ma dovremmo
definirli maggiormente reali - il nostro vocabolario è miseramente insufficiente - o reali ma con una diversa percezione
della realtà rispetto a quella della vita quotidiana? Li vediamo come essi sono quando noi non siamo presenti. Vediamo
la vita come essa appare quando non vi prendiamo parte direttamente. Mentre fissiamo l’immagine, sembriamo
distaccati dalla meschinità della vera esistenza. Il cavallo non ci calpesterà. Il re non stringerà la nostra mano. L’onda
non bagnerà i nostri piedi. Da questa posizione di vantaggio, mentre guardiamo i nostri antenati, abbiamo tutto il tempo
per provare pietà e divertimento, per generalizzare e attribuire a un uomo le caratteristiche di tutta la sua razza. Mentre
guardiamo navigare la barca e infrangersi le onde, abbiamo tempo di spalancare le nostre menti alla bellezza, per
registrare la strana sensazione che questa continuerà a fiorire anche se non la vedremo più. Inoltre, ci viene detto che
tutto ciò è successo dieci anni fa. In altre parole, stiamo guardando un mondo che è già sommerso. Le spose che escono
dalla chiesa sono diventate madri; gli uscieri servizievoli sono diventati silenziosi; le madri piangono; gli ospiti
gioiscono; quello è stato vinto e questo è stato perso e tutto è ormai morto e sepolto. La guerra aveva generato un
baratro ai piedi di tutta questa innocenza e ignoranza, ma, nonostante ciò, si continuava a ballare, a fare piroette, ad
affannarsi e a desiderare, così che il sole potesse splendere e le nuvole diradarsi fino a scomparire.
Ma i registi sembrano insoddisfatti di certe ovvie fonti di interesse come il passare del tempo e la suggestività della
realtà. Disprezzano il volo dei gabbiani, le navi sul Tamigi, il Principe di Galles, la Mile End Road, Piccadilly Circus.
Vogliono migliorare, cambiare e creare un’arte propria, come se tutto ciò fosse possibile. Molte altre arti sembravano
pronte ad offrire il loro aiuto. La letteratura, per esempio. Tutti i più famosi romanzi del mondo, con i personaggi più
celebri e le scene più famose, sembravano semplicemente domandare di essere trasformati in film. Cosa poteva essere
più facile e più semplice? Il cinema si avventava sulla sua preda con enorme rapacità e fino ad oggi ha sempre
continuato a nutrirsi largamente del corpo della sua sfortunata vittima. Ma, per entrambi, i risultati si sono rivelati
disastrosi. L’alleanza è innaturale. L’occhio e il cervello vengono spietatamente staccati mentre cercano di lavorare in
coppia. L’occhio dice: “Ecco Anna Karenina”. Una donna sensuale vestita di velluto nero e perle si presenta davanti a
noi. Ma il cervello dice: “Questa donna può essere tanto Anna Karenina quanto la regina Vittoria”. E questo perché il
cervello conosce Anna quasi esclusivamente dalla sua personalità, dal suo charme, dalla sua passione e dalla sua
disperazione. Invece il cinema pone tutta l’enfasi sui suoi denti, le sue perle, il suo velluto nero. Poi l’occhio vede che
“Anna si innamora di Vronskij”: la signora in velluto nero cade tra le braccia di un gentiluomo in uniforme e la coppia
si bacia con grande passione, grande risoluzione e infiniti gesti sul sofà di un’impeccabile biblioteca, mentre il
giardiniere sta casualmente falciando il prato. In questo modo ci facciamo strada a fatica attraverso i più famosi romanzi
del mondo. In questo modo li articoliamo in parole di una sillaba, scritta fra gli scarabocchi di uno scolaretto analfabeta.
Un bacio vuol dire amore. Una tazza rotta significa gelosia. Un sorriso è felicità. La morte viene raffigurata con un
carro funebre. Nessuna di queste immagini ha il minimo legame con il romanzo di Tolstoj e, soltanto quando
smetteremo di cercare di collegare le immagini con il libro, riusciremo a immaginare, da alcune scene del tutto casuali come il giardiniere che falcia l’erba - ciò che il cinema sarebbe in grado di fare se fosse lasciato libero di esprimersi
attraverso i propri stratagemmi.
Ma allora quali sono questi stratagemmi? Se cessasse di essere un parassita, come potrebbe camminare eretto? Per ora
possiamo solo azzardare alcune ipotesi a partire da qualche indizio. L’altro giorno, per esempio, durante una proiezione
del “Dr. Caligari”, improvvisamente apparve in un angolo dello schermo un’ombra che semb rava un girino.
Quest’ombra cominciò a gonfiarsi enormemente e a tremare, per poi sprofondare di nuovo nel nulla. Per un istante
sembrava incarnare qualche mostruosa fantasia della mente malata di un pazzo. Per un istante sembrava che il pensiero
venisse trasmesso meglio attraverso le immagini, piuttosto che attraverso le parole. Il girino mostruoso e tremante
sembrava incarnare la paura stessa e non l’affermazione: “sono spaventato”. In effetti, l’ombra era casuale e l’effetto
non voluto. Ma se, a un certo punto, un’ombra può suggerire molto più dei gesti e delle parole di persone realmente
impaurite, sembra chiaro che il cinema possieda innumerevoli simboli per tutte quelle emozioni che finora non hanno
mai trovato il modo d’esprimersi. Il terrore può avere, oltre alle sue forme comuni, la forma di un girino che cresce, si
gonfia, trema e scompare. La rabbia non è soltanto declamazione e retorica, facce infiammate e pugni chiusi. Forse può
essere anche una linea nera che si contorce su un foglio bianco. Non è più necessario che Anna e Vronskij si guardino
sdegnatamente o si facciano smorfie. Hanno a portata di mano qualcosa, ma cosa? Esiste dunque un qualche linguaggio
segreto che possiamo sentire e vedere ma non pronunciare? E se è così, come si potrebbe renderlo visibile? Esiste cioè
una qualche caratteristica del pensiero che può essere resa visibile senza l’aiuto delle parole? Se esiste, possiede
velocità e lentezza, immediatezza, precisione e circonlocuzione vaporosa. Ma nei momenti di grande emozione possiede
anche il potere di creare delle immagini e il bisogno di scaricare il fardello a qualcun’altro, di lasciare scorrere
l’immagine da una parte all’altra. Per qualche strana ragione, l’apparenza del pensiero risulta più bella, più
comprensibile e più disponibile del pensiero stesso. Come tutti sanno, in Shakespeare le idee più complesse formano
catene di immagini che il lettore deve saper scalare, cambiare e girare, perché possa raggiungere la luce del giorno.
Naturalmente le immagini del poeta non sono né incastonate nel bronzo né tracciate a matita. Sono un insieme di mille
suggerimenti in cui la facoltà visiva è solo la più ovvia, oltre che la più importante. Persino l’immagine più semplice -
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“My luve’s like a red, red rose, that’s newly-sprung in June” - trasmette l’impressione di umidità, calore, bagliore
rossastro e morbidezza dei petali, inestricabilmente mescolati e amalgamati alla melodia di un ritmo cadenzato, che
rappresenta la voce della passione e l’esitazione dell’amante. Il cinema deve evitare tutto ciò, perché accessibile solo ed
unicamente all’universo delle parole.
Eppure, se i nostri pensieri e i nostri sentimenti sono collegati alla vista, allora qualche residuo di emozione visiva, che
non è di alcuna utilità né al pittore né al poeta, può ancora essere sfruttata dal cinema. Sembra molto probabile che tali
simboli saranno del tutto dissimili dagli oggetti reali che vediamo davanti a noi. In futuro, i film saranno composti da
qualcosa di astratto, qualcosa che si muove con arte conscia e controllata, qualcosa che richiede il delicato aiuto delle
parole e della musica, pur adoperandole in modo servile, per rendersi intelligibile. Allora, quando verrà trovato qualche
nuovo simbolo per esprimere il pensiero, il regista avrà enormi ricchezze a sua disposizione. L’esattezza della realtà e il
suo nuovo sorprendente potere suggestivo sarà a portata di mano. Eccoli in carne e ossa tutte “le Anna” e tutti “i
Vronskij”. Se, in questa realtà, il regista potesse infondere emozione, se potesse animare con il pensiero la forma
perfetta, allora custodirebbe un grande tesoro da tramandare. Perciò, mentre il fumo esce dal Vesuvio, dovremmo essere
in grado di percepire il pensiero nella sua natura selvaggia, nella sua bellezza, nella sua stranezza; questo pensiero
fuoriesce dagli uomini con i gomiti appoggiati sul tavolo o dalle donne con piccole borsette che scivolano sul
pavimento. Dovremmo vedere queste emozioni mescolarsi ed influenzarsi a vicenda.
Dovremmo vedere violenti cambiamenti di emozione prodotti dal loro scontro. I contrasti più fantastici potrebbero
scintillare davanti a noi a una velocità che lo scrittore solo invano può cercare di cogliere; meravigliose visioni di archi
e merli, di cascate e fontane, che a volte ci fanno visita in sogno e a volte si formano nella penombra di una stanza, per
poi materializzarsi davanti ai nostri occhi appena svegli. Nessuna fantasia sarebbe allora troppo improbabile o senza
sostanza. Il passato potrebbe scorrere liberamente, le distanze sarebbero eliminate e gli abissi che sconvolgono i
romanzi (per esempio quando Tolstoj deve passare da Levin ad Anna, provocando enormi scossoni che bloccano la
nostra partecipazione) potrebbero scomparire attraverso l’uso dello stesso sfondo o la ripetizione di determinate scene.
Ancora nessuno può dirci come tutto questo debba essere tentato o, più o meno, realizzato. Qualche indicazione forse
arriva dal caos delle strade, in cui l’insieme contingente di colori, suoni e movimenti suggerisce che si tratti di una
scena che avrebbe bisogno di un nuovo mezzo espressivo per essere colta e fissata. E, qualche volta, al cinema, nel bel
mezzo di una grande destrezza e immensa competenza tecnica, il sipario si apre su una bellezza sconosciuta e
inaspettata. Ma soltanto per un momento. Perché qualcosa di strano è accaduto: mentre tutte le altre arti sono nate nude,
questa, la più giovane, è nata completamente vestita. Riesce a dire tutto prima di avere qualcosa da dire. È come se la
tribù selvaggia, invece di trovare due pezzi di ferro con cui giocare, avesse trovato, lungo la riva, violini, flauti,
sassofoni, trombe e pianoforti di Erard e Bechstein, e avesse cominciato con grande energia, ma senza conoscere
nemmeno una sola nota, a suonarli tutti contemporaneamente.
Pubblicato per la prima volta in Arts, giugno 1926.
Traduzione a cura di Francesca Andreoli, Mara Casali, Luca Pasquale.
Lettere 2
Sibilla Aleramo a E. Cecchi
[Bagni di Casciana, Pisa 25 ottobre 1916]
Non so cosa vi scrissi l'altro giorno in qualche minuto che avevo libero. Stasera ho davanti a me il tempo. C.[ampana] è
partito. Volevo partir io, dopo una serie di giorni e notti in cui ho ascoltato le cose più atroci, subìto le cose più atroci.
Allora ha avuto come un risveglio, e s'è determinato di colpo a tornar lassù in Mugello, "lontano dal mondo, ch'è brutto
troppo, fuori della vita, di nuovo". M'ha promesso che ci ritroveremo, più tardi... Cecchi, vi ho scritto che m'ama? Voi
avrete sorriso. Eppure, e amore, è dolore, una cosa orrida e meravigliosa. Vedere nel suo cuore, ho meritato questo dono
spaventoso. Che accadrà ora? Non possiamo rinunciare, vedete. Gli ho detto iersera, un momento che il parossismo
delle sue ingiurie mi v'ha indotto, gli ho detto che v'avevo veduto, a Firenze, e le vostre esortazioni. È rimasto colpito.
Forse anche per questo è partito. Poter guarirlo! Voi dite che con questo desiderio lo diminuisco. Ma se sapeste il grado
della sua sofferenza! La mia [s]'era fatta insostenibile: la sua lo è sempre stata. Prima di partire ha scritto una cartolina a
Boine: gliene aveva mandata una l'altro ieri dove mi dava della troia... Oggi ha scritto: "perdonate, era falsa, era la mia
solitudine che ha voluto riprendermi, parto, forse qualche parola potrò ancora dirvi di quelle che amate: le avrò pagate
molto care". Torna su alla Casetta (Firenzuola): una tana da lupi, in questi mesi... Io non so che farò. Stasera sono a letto
con febbre. Vuole che termini qui i bagni, e poi venga a Firenze, dove, ha detto, verrà a trovarmi... Perdonate che vi
scrivo come se piangessi. Voi non avete nulla da rispondermi, lo so, da aggiungere a quanto mi diceste, o da mutare. Ma
amateci, Cecchi, dal punto in cui non potete più parlare. Forse vinceremo. Addio. Vi riscriverò. Se Leonetta è arrivata,
abbracciatela per me.
Sibilla
Alejandra Pizarnik
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Argentina
Questo lillà perde i fiori.
Da se medesimo cade
e cela la sua antica ombra.
Morirò di cose come questa.
Il Vangelo Delle streghe
Sacra Inquisizione e dintorni
La finalita' del processo e della condanna a morte non e' salvare l'anima dell'accusato, ma mantenere il bene pubblico e
terrorizzare il popolo.
E' compito dell'avvocato incitare l'accusato alla confessione e al pentimento, e sollecitare una penitenza per il crimine
che ha commesso.
Non siamo dei carnefici!
Che si faccia di tutto affinche' il penitente non possa proclamarsi innocente cosi' da non dare al popolo il minimo
motivo di credere che la condanna sia ingiusta.
Per quanto sia duro mandare al rogo un innocente…
Lodo la pratica di torturare gli accusati.
Francisco Pena
Dottore in diritto canonico e diritto civile. Curatore nel 1578 del "manuale dell'inquisitore" gia' del 1376 del domenicano Nicolau
Eymerich
Segue un elenco di comportamenti che portavano una donna ad incorrere nel crimine di eresia, redatto nel 1300.
E' eretica:
ogni scomunicata
ogni simoniaca (chi commercia in qualsiasi maniera sacramenti o cose sacre ingenere)
chiunque si opponga alla Chiesa di Roma e osi contestare la dignita' che essa ha ricevuto da Dio
chiunque commetta errori nella spiegazione delle sacre scritture
chi crea una nuova setta o aderisce ad una setta esistente (nota: erano sette anche il giudaismo e l'islamismo)
chi non accetta la dottrina romana in materia di sacramenti
chiunque esprima un'opinione diversa dalla Chiesa di Roma su uno o piu' articoli di fede
chiunque metta in dubbio la fede.
Bestemmie, sacrilegi, attacchi a fondamenti stessi della chiesa, violazione dei giudizi e delle leggi sacre, ingiustizie,
calunnie e crudelta' di cui sono vittime i cattolici. (…) ogni nazione che lasci spuntare l'eresia nel suo seno, la coltivi,
che non la estirpi subito, si perverte, corre incontro alla sovversione, puo' finanche scomparire.
______________________________________________________________________________________
Amélie Nothomb
Francia
un brano tratto da Antichrista
Il primo giorno la vidi sorridere. Subito desiderai conoscerla.
Sapevo bene che non sarebbe accaduto. Di fare un passo verso di lei, no, non ne ero capace. Aspettavo sempre che
fossero gli altri ad avvicinarsi a me, ma nessuno lo faceva mai.
Era questo, l’università: credere che ti saresti aperta sull’universo e non incontrare nessuno.
Una settimana dopo i suoi occhi si posarono su di me.
Pensai che li avrebbe distolti molto in fretta. E invece no: rimasero lì e mi squadrarono da capo a piedi. Non osai
sostenere quello sguardo: mi mancava la terra sotto i piedi, facevo fatica a respirare.
Poiché la cosa continuava, la sofferenza divenne intollerabile. A prezzo di un coraggio senza precedenti, piantai i miei
occhi nei suoi: lei mi fece un piccolo gesto con la mano e rise.
Poi, la vidi parlare con dei ragazzi.
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L’indomani, venne verso di me e mi salutò.
Contraccambiai e tacqui. Odiavo il mio imbarazzo.
– Sembri più o giovane degli altri – osservò.
– Lo sono, infatti. Ho comp iuto sedici anni un mese fa.
– Anch’io ho sedici anni. Compiuti da tre mesi. Non l’avresti mai detto, confessa.
– È vero.
La sua sicurezza compensava i due o tre anni che ci separavano dagli altri studenti.
– Come ti chiami? – mi chiese.
– Blanche. E tu?
– Christa.
Quel nome era straordinario. Meravigliata, tacqui di nuovo. Lei vide il mio stupore e aggiunse:
– In Germania è abbastanza comune. – Sei tedesca?
– No. Vengo dai cantoni dell’Est.
– Parli tedesco?
– Certo.
La guardai con ammirazione.
– Ciao, Blanche.
Non ebbi il tempo di salutarla. Era già in fondo alle le scale dell’anfiteatro. Una combriccola di studenti la invocò a gran
voce. Raggiante, Christa si diresse verso il gruppo che la chiamava.
“È integrata” pensai.
La parola aveva per me un significato enorme. Io non mi ero mai sentita integrata nella benché minima cosa, e verso chi
lo era provavo un misto di disprezzo e gelosia.
Ero sempre stata sola, e non mi sarebbe dispiaciuto se fosse stata una scelta. Ma non lo era mai stata. Sognavo
l’integrazione, anche solo per poi concedermi il lusso della disintegrazione.
Sognavo soprattutto di diventare amica di Christa. Avere un’amica mi sembrava incredibile. Tanto più se l’amica era
Christa… ma no, impossibile persino sperarlo.
Per un attimo mi chiesi perché quell’amicizia mi sembrasse così desiderabile. Non trovai una risposta chiara: quella
ragazza aveva qualcosa, ma non riuscivo a capire di cosa si trattasse.
Ero appena uscita dalla città universitaria quando una voce gridò il mio nome.
Non mi era mai accaduto nulla di simile, e la cosa mi gettò in una specie di panico. Mi voltai e vidi Christa che mi
raggiungeva di corsa. Era straordinario.
– Dove vai? – mi chiese, accompagnandomi.
– A casa.
– Dove abiti?
– A cinque minuti da qui.
– Quello che ci vorrebbe per me!
– Perché? Tu dove abiti?
– Te l’ho detto: nei cantoni dell’Est.
– Non dirmi che torni là ogni sera.
– Sì.
– È lontano!
– Sì: due ore di treno all’andata e due al ritorno. Senza contare i tragitti in autobus. È l’unica soluzione che ho trovato.
– E ce la fai?
– Vedremo.
Non osai farle altre domande, per paura di metterla a disagio. Senza dubbio non aveva i mezzi per pagarsi un posto in
città.
Arrivate davanti al mio portone, la salutai.
– Abiti con i tuoi? – chiese.
– Sì. Anche tu vivi con i tuoi genitori?
– Sì. – Alla nostra età è normale – aggiunsi senza sapere il perché.
Scoppiò a ridere come se avessi detto qualcosa di assurdo. Me ne vergognai.
Non sapevo se ero sua amica. Secondo quale criterio, necessariamente misterioso, ci si riconosce amici di qualcuno? Io
non avevo mai avuto un’amica.
Per esempio, lei aveva riso di me: era un segno di amicizia o di disprezzo? A me, aveva fatto male. Perché già ci tenevo,
a lei.
Approfittando di un istante di lucidità, me ne chiesi il perché. Il poco, pochissimo, che sapevo di lei giustificava il mio
desiderio di piacerle? O era per la miserabile ragione che, unica della sua specie, lei mi aveva guardata?
Il martedì, le lezioni cominciavano alle otto del mattino. Christa aveva delle occhiaie enormi.
– Hai l’aria stanca – osservai.
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– Mi sono alzata alle quattro.
– Alle quattro! Ma non avevi parlato di due ore di treno?
– Non abito proprio a Malmédy. Il mio paese si trova a mezz’ora dalla stazione. Per prendere il treno delle cinque, mi
devo alzare alle quattro. E anche a Bruxelles, l’università non è mica dietro alla stazione.
– Svegliarsi alle quattro del mattino è disumano.
– Hai un’altra soluzione? – mi disse in tono infastidito.
Mi voltò le spalle e se ne andò.
Mi odiai a morte. Bisognava che la aiutassi.
La sera parlai di Christa ai miei genitori. Per raggiungere lo scopo, dissi che era mia amica.
– Hai un’amica? – mi interrogò mia madre sforzandosi di non mostrare troppo stupore alla notizia.
– Sì. Posso ospitarla da noi il lunedì sera? Vive in un paese nei cantoni dell’Est e il martedì si deve alzare alle quattro
per venire a lezione alle otto.
– Non c’è problema. Metteremo la brandina in camera tua.
L’indomani, a prezzo di un coraggio senza precedenti, ne parlai a Christa:
– Se vuoi, il lunedì sera puoi dormire da me.
Mi guardò con radiosa meraviglia. Fu il momento più bello della mia vita.
– Davvero?
Rovinai subito la situazione, aggiungendo:
– I miei genitori sono d’accordo.
Scoppiò a ridere. Avevo detto un’altra cosa assurda.
– Allora vieni?
Il vantaggio si era già invertito. Non le stavo più facendo una cortesia: la supplicavo.
– Sì, verrò, – rispose, con l’aria di intendere che era per farmi un piacere.
La cosa non mi impedì di esserne felice e di attendere il lunedì con ansia.
Figlia unica, poco portata per l’amicizia, non avevo mai ospitato nessuno a casa mia, tanto meno a dormire nella mia
stanza. La prospettiva mi spaventava di gioia.
Il lunedì arrivò. Christa non mi rivolse sguardi speciali. Ma la constatazione che aveva uno zainetto con le sue cose
sulle spalle mi inebriò.
Quel giorno, le lezioni terminavano alle quattro del pomeriggio. Attesi Christa ai piedi dell’anfiteatro. Ci mise una vita
a congedarsi dalle sue numerose relazioni. Poi, senza fretta, mi raggiunse.
Fu solo quando uscimmo dal campo visivo degli altri studenti che si degnò di rivolgermi la parola, con un’amabilità
forzata, come per sottolineare che mi stava facendo un favore.
Isola Nera
Casa di Poesia e Lettere
Per l’invio di materiale letterario:
Via Caprera 6 – 08045- Lanusei. Italia
Casa di poesia e letteratura. La prima in Sardegna; in Italia, aperta alla creazione letteraria degli
autori italiani e di autori in lingua italiana. Il progetto Isola Nera riguarda la prossima pubblicazione
in formato cartaceo. Isola Nera merita degli sponsors in grado di valorizzare l’iniziativa e dalla quale
vengano valorizzati. Si accettano e vagliano proposte.
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hasta la pròxima…
al prossimo numero
Ringraziamo calorosamente tutti i lettori che hanno inviato commenti , auguri, critiche in merito alla
Nomination al Nobel per la Letteratura 2006 e l’adesione alla Legge Bacchelli pro Giovanna Mulas.
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