Gesù Cristo è risorto! L`amore ha sconfitto l`odio, la vita ha vinto la
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Gesù Cristo è risorto! L`amore ha sconfitto l`odio, la vita ha vinto la
Gesù Cristo è risorto! L’amore ha sconfitto l’odio, la vita ha vinto la morte, la luce ha scacciato le tenebre! Questa è la Pasqua per i cristiani: Gesù Cristo, per amore nostro, si è spogliato della sua gloria divina; ha svuotato sé stesso, ha assunto la forma di servo e si è umiliato fino alla morte, e alla morte di croce. Per questo Dio lo ha esaltato e lo ha fatto Signore dell’universo. Gesù è Signore! Con la sua morte e risurrezione Gesù indica a tutti la via della vita e della felicità: questa via è l’umiltà, che comporta l’umiliazione. Questa è la strada che conduce alla gloria. Al mattino di Pasqua, avvertiti dalle donne, Pietro e Giovanni corsero al sepolcro e lo trovarono aperto e vuoto. Allora si avvicinarono e si «chinarono» per entrare nel sepolcro. Per entrare nel mistero bisogna «chinarsi», abbassarsi. Solo chi si abbassa comprende la glorificazione di Gesù e può seguirlo sulla sua strada. La Pasqua di Gesù, la sua passione, morte e risurrezione, è l’oggetto di questo volume che raccoglie, come ormai è consuetudine, la formazione in servizio per gli insegnanti di religione della Diocesi di Milano dell’anno scolastico 2015-2016. Abbiamo raggiunto il «cuore», il culmine di un cammino triennale alla sequela di Gesù nel ripercorrere idealmente la sua vita in parallelo con la vita che si svolge all’interno delle scuole dell’infanzia. L’attesa evangelica della nascita di Gesù e il tempo dell’accoglienza che si vive ogni anno all’inizio della scuola (anno scolastico 2013-2014); testimo- 7 nianza adulta del Nazareno che guida e supporta la «normalità» della scuola (anno scolastico 2014-2015); la Pasqua che conduce ad avere occhi capaci di leggere tutti i momenti di «distacco» che nella scuola accadono a partire dalla gioia della risurrezione (anno scolastico 2015-2016). Che bello immaginare che ogni maestra lavori innanzitutto su di sé, facendo la fatica – ecco il momento dell’abbassamento, del chinarsi innanzi al mistero – di ritrovare i segni della risurrezione dentro il vissuto quotidiano perché possa, di conseguenza, escogitare quei percorsi che sappiano accompagnare ogni singolo bambino a percepire la vita oltre ogni «segno di morte». Non dobbiamo immediatamente immaginare la morte fisica di una persona; prendiamo coscienza che quasi ogni «no» è interpretato come «distacco», come «morte» da un bambino, e per questo è un altissimo compito educativo affiancarlo per condurlo al superamento, al passaggio da questa situazione a quella futura. Avrete certamente fatto l’esperienza di osservare come un bambino non voglia smettere di giocare se invitato a fare altro, come faccia fatica a riporre il giocattolo che ha tra le mani; spesso scoppia in pianto se viene «distratto» dal gioco anche solo usando un tono di voce «deciso». Egli fatica a percepire come possa esserci un momento ulteriore di gioco e quindi non vorrebbe mai terminare quello presente. Ancora: vi sarà capitato di essere testimoni della difficoltà che ha un bambino nell’addormentarsi, a volte fa dei veri e propri capricci. Ebbene, non è «monello», ma sta manifestando, con le sue capacità e con i pochi strumenti in suo possesso, che «lotta contro la morte»: non riesce infatti, a differenza di noi adulti, a concepire come «normale» il risveglio del giorno successivo. Non è possibile esimerci dalla fatica educativa di accompagnare i bambini a rileggere ogni distacco a partire dalle possibilità successive – che includono il ricordo di ciò che è stato – soprattutto oggi, quando la nostra mentalità comune vorrebbe escludere dall’esperienza della vita il «no» definitivo che pone l’evento del decesso. 8 Eppure i bambini «incontrano la morte»: nel sentire/vedere la tragicità di una notizia di cronaca nera al telegiornale; nella perdita di un oggetto «prezioso»; nella scomparsa del cagnolino, compagno di numerose corse nel prato; nella separazione dei genitori, fino alla mancanza di un parente stretto o, addirittura, di un membro della famiglia. Non possiamo immaginare che i bambini possano essere isolati o preservati dall’incontro con la morte fino al giorno in cui saranno adulti e quindi, secondo noi, capaci di accostarla. Se non sapremo educarli a dare senso a tutti gli aspetti che fanno parte della vita già a partire da quando sono piccoli, resteranno soli a dare nome a ciò che sta accadendo intorno a loro quando la stessa vita li porrà dentro tragici eventi e correranno il rischio di rimanerne preda. È nostra «gioiosa fatica» prenderli per mano e fare un tratto di strada con loro, in modo che ciascuno possa trarre dai doni, che sono in lui riposti, gli strumenti per concepire come la vita vada sempre oltre, per comprendere come la morte non abbia mai l’ultima parola. Mi piace immaginare che questo percorso di formazione in servizio abbia potuto fornire innanzitutto strumenti intelligenti a persone adulte che si giocano completamente quando un bambino propone loro di rispondere a questi grandi perché della vita. Ecco il senso della «gioiosa fatica» di proporre un testo come il presente, con l’augurio che possa raggiungere il maggior numero di educatori, non solo dei piccoli. Testo che raccoglie uno spettacolo teatrale che mostra e dimostra che è possibile raccontare la Pasqua di Gesù ai bambini, senza sterili paure adulte che, sovente, rendono ciechi i «grandi» di fronte ai bisogni reali dei piccoli. Ne potete trovare un commento approfondito, a cura della regista e attrice Anna Maria Ponzellini, nella terza parte di questo libro, e lo potrete «gustare» nella sua interezza attraverso il DVD allegato. La dottoressa Antonella Arioli ha poi affrontato la «gioiosa fatica» di tradurre un pensiero filosofico e pedagogico in suggeri- 9 menti che animino una didattica possibile in sezione. Troverete anche in forma scritta la «gioiosa fatica» del percorso biblico-teologico sulla settimana santa, affrontato grazie all’analisi del testo giovanneo. Entrare nel mistero della Pasqua significa capacità di stupore, di contemplazione; capacità di ascoltare il silenzio e sentire il sussurro di un filo di silenzio sonoro in cui Dio ci parla (cf 1Re 19,12). Entrare nel mistero ci chiede di non avere paura della realtà: non chiudersi in sé stessi, non fuggire davanti a ciò che non comprendiamo, non chiudere gli occhi davanti ai problemi, non negarli, non eliminare gli interrogativi… Entrare nel mistero significa andare oltre le proprie comode sicurezze, oltre la pigrizia e l’indifferenza che ci frenano, e mettersi alla ricerca della verità, della bellezza e dell’amore, cercare un senso non scontato, una risposta non banale alle domande che mettono in crisi la nostra fede, la nostra fedeltà e la nostra ragione. Ma per entrare nel mistero ci vuole umiltà, l’umiltà di abbassarsi, di scendere dal piedistallo del nostro io tanto orgoglioso, della nostra presunzione; l’umiltà di ridimensionarci, riconoscendo quello che effettivamente siamo: delle creature con pregi e difetti, dei peccatori bisognosi di perdono. Per entrare nel mistero ci vuole questo abbassamento che è impotenza, svuotamento delle proprie idolatrie… «Non si può vivere la Pasqua senza entrare nel mistero. Non è un fatto intellettuale, non è solo conoscere, leggere… È di più, è molto di più!», ci ha detto nella veglia pasquale Papa Francesco. Auguro a ogni lettore del presente volume di sperimentare questa esortazione. Don Gian Battista Rota Responsabile del Servizio per l’insegnamento della religione cattolica e del Servizio per la pastorale scolastica Arcidiocesi di Milano 10 1 LA MORTE COME RINASCITA Dal senso di vuoto alla ricostruzione della speranza Antonella Arioli Quella mattina M. non arriva a scuola. Faccio come al solito l’appello: i bambini – ancora un po’ assonnati – rispondono «presente», e lui è uno degli assenti. Sarà ammalato, penso. Continua a piovere, come la notte appena trascorsa. Una mattina grigia e uggiosa, tipicamente novembrina, che fa venir voglia di stare rintanati in casa. Poco dopo suona il campanello della scuola: è il parroco. Entra in sezione visibilmente scosso. Mi chiama in disparte: il papà di M. si è suicidato la scorsa notte, in corte, dietro alla stalla. I suoi bambini, mi dice, hanno sentito lo sparo e poi hanno assistito a tutto il trambusto… carabinieri, ambulanza, pianti, urla, disperazione. Non ci credo, dico io. Ricordo ancora di essermi portata una mano alla bocca, incapace di muovermi e di tornare dai bambini. Cosa dico? Come faccio con M.? E con gli altri bambini? Cosa avrà capito – con i suoi 4 anni e mezzo – di quello che è capitato a suo padre? Io e la collega rimaniamo letteralmente interdette. Dopo qualche giorno la mamma di M. si presenta a scuola col bambino per mano. Lui viene accolto subito dai compagni: in un attimo è sul tappeto in ginocchio, a giocare con loro. Sembra stanco, forse è qualche giorno che dorme male, ma si capisce subito che ritrovare gli amici gli fa bene. La mamma è scossa, non riesce a trattenere le lacrime. Ci anticipa che cambieranno paese: lasceranno quella corte, dove è successa quella cosa terribile. A M. e ai suoi fratelli lei ha detto che il papà adesso è in cielo. Non ha avuto il coraggio di dire che si è dato la morte, il loro papà. Lo sapranno quando sono più grandi. Dopo qualche giorno M. viene effettivamente ritirato da scuola. Ma facciamo in tempo a condividere un momento im- 13 portante, io e lui. Ricordo tutto nei minimi particolari: la luce di quel pomeriggio, l’ambiente, dove e come eravamo seduti, in attesa che arrivasse il pulmino. «Ma adesso lui dov’è?». Me lo chiede a bruciapelo, mentre fa dondolare quasi distrattamente le ginocchia. Me l’aspettavo che prima o poi sarebbe arrivata questa domanda, e la temevo. «È in cielo», mi affretto a rispondere, «proprio come ti ha detto la tua mamma». Ma lui non sembra soddisfatto. M. è sempre stato un bambino curioso e attento, che non si accontenta facilmente. «Lui ti guarda da lassù», continuo. «Ma da dove? Io non lo vedo…», mi dice M., mentre si sporge per guardare il cielo dalla finestra. In effetti, ripensandoci, potevo prevedere che mi rispondesse così. Lui ha bisogno di concretezza: di vedere dove adesso può essere il suo papà. Allora gli dico che ha ragione: in cielo non lo può vedere, perché il cielo è molto lontano dalla terra, e i nostri occhi non mettono a fuoco fin là. Ma il papà, invece, riesce a vedere lui e i suoi fratelli, perché da lassù è più facile vedere qui giù. E anche se non sarà più a casa con loro, lui continua a esserci qui dentro (e faccio il gesto di toccare il cuore). Aggiungo, dopo qualche secondo di silenzio, che la mamma lo porterà a vedere la nuova «casa» del papà (quella sì la potrà vedere, e anche toccare se vuole) che si chiama cimitero. Non appena M. sale sul pulmino, telefono alla mamma chiedendole di portare, quando se lo sentirà, M. e i suoi fratelli al cimitero. Lei acconsente, dicendomi che ci aveva già pensato. È l’ultima volta che ci sentiamo. Sia quel giorno che successivamente, a distanza di anni, mi ha accompagnato l’amarezza di essere stata evasiva, di essermi mostrata così in imbarazzo. Non ero pronta. Ma cosa avrei potuto dire o fare di diverso? È a partire da questi interrogativi che, nel contributo che segue, rifletteremo su perché e come parlare della morte ai bambini, con particolare riguardo alla fascia di età che interessa la scuola dell’infanzia. 14 INTRODUZIONE Esiste un’analogia stretta fra i termini greci che significano morire e iniziare. Plutarco Parlare della morte con i bambini non è facile, si sa. E questo a prescindere dalla loro età. Si tratta, infatti, di un argomento spinoso, che genera inquietudine prima di tutto negli adulti. Lo si può affrontare in vari modi e da diverse angolature. Il punto di vista che viene qui adottato è pedagogico1, nell’intento di accostare il tema della morte con i bambini in chiave evolutiva – come elemento che fa crescere – e non riparativa, come aspetto da curare o come mancanza da compensare. La nostra riflessione sulla morte in una prospettiva pedagogica, primariamente ma non esclusivamente rivolta agli insegnanti di religione cattolica, vuole fungere da stimolo per l’azione educativa e l’atteggiamento di cura agito nella quotidianità, nella convinzione che teoria e pratica non possano mai essere disgiunte. La centralità, pertanto, è sull’educare alla morte (e non sull’elaborazione del lutto), per comprendere come avvicinare a questo tema i bambini in un’ottica prima di tutto preventiva2. Su questa linea, è opportuno chiarire da subito che Una pedagogia della morte «è urgente e indispensabile» (R. Maragliano, Pedagogia della morte, Doppiozero Ebook, 2012). La «necessità di una educazione alla morte» emerge anche nel volume del pedagogista Raffaele Mantegazza (Pedagogia della morte. L’esperienza del morire e l’educazione al congedo, Città Aperta, Troina [EN], 2004, p. 125). Sul tema della morte dal punto di vista pedagogico si veda anche P. Malavasi, Per una pedagogia della morte, Cappelli, Bologna, 1985. 2 L’importanza di una «prevenzione pedagogica» intesa come educazione alla fragilità, all’ansia e al dolore viene messa in luce da Antonella Galanti, nella convinzione che sia possibile educare i soggetti, in ogni età del ciclo di vita, a convivere con 1 16 educare alla morte significa coltivare fin dall’infanzia un atteggiamento nei confronti della vita. E questo a partire dal risignificare la morte stessa, ossia vedendola non come qualcosa da subire, ma come occasione da cogliere per maturare, cambiare e fortificarsi. Parlare di morte vuole anche dire affrontare quelle «esperienzelimite» che ne lambiscono i confini, e che sono ugualmente attraversate dal vissuto lacerante della perdita. La morte, infatti, può assumere tante forme: quella del tradimento, dell’allontanamento, della separazione, della fine di un’amicizia, della conclusione di una bella avventura e finanche quella del termine di un percorso educativo3. Anziché negare la morte e le esperienze di sofferenza, è necessario educare i bambini a una presa di posizione nei confronti di quanto accade, accompagnandoli ad assumere un modo di essere pro-attivo. La prima condizione perché questo avvenga risiede nella disponibilità degli educatori ad aiutare i bambini a dare un senso a queste esperienze-limite. A decodificare, dunque, quello che accade al di fuori di sé – la fine di qualcosa o il congedo da qualcuno – e che nel contempo accade dentro sé stessi: i vissuti emotivi. Così, come adulti occorre assumersi la responsabilità – e anche la fatica – di affrontare il tema cruciale della morte a partire da sé, e poi con i bambini4, decidendo quale lettura dare a tale l’ansia quotidiana, ad attraversare le paure e i conflitti, a trasformare la sofferenza stessa da elemento distruttivo in risorsa creativa (cf A. Galanti, Sofferenza psichica e pedagogia. Educare all’ansia, alla fragilità e alla solitudine, Carocci, Roma, 2007). 3 «Sono gli educatori e le educatrici a dover comprendere il carattere necessariamente precario e mortale del rapporto educativo, l’unica relazione umana a portare scritto in fronte la data della sua morte» (R. Mantegazza, Pedagogia della morte, cit., p. 126). Su questo si veda anche J. Orsenigo, Oltre la fine. Sul compimento della formazione, Unicopli, Milano, 2004. 4 «La cultura della negazione del limite e della sofferenza rappresenta il fattore che maggiormente ostacola un’educazione che includa la finitudine e la temporalità dell’esistenza» (D. Bruzzone, Il lutto in famiglia: bambini e genitori di fronte alla morte, in «La Famiglia. Rivista di problemi familiari», La Scuola, Brescia, 49/259, 2015, p. 17). 17 fenomeno e, dunque, quale concezione di vita testimoniare. Così, scegliere di vedere la morte non solo come la fine di qualcosa ma anche come rinascita5, significa promuovere il passaggio dal senso di vuoto (non negandolo, bensì accogliendo lo scoraggiamento e il vissuto di insignificanza che comporta) alla speranza (accostando, a quel senso di vuoto, la forza di ricostruire e di ripartire). In questa prospettiva, la morte può essere vista come un evento generativo: come un’esperienza che, proprio attraverso il dolore e la sofferenza, genera nuovi significati, rinnovate priorità e che, pertanto, trasforma6. Un’esperienza davvero cruciale, poiché è dalla croce – come insegna il messaggio di Cristo – che si rigenera la vita. E questo è anche il messaggio che ritroviamo nello spettacolo teatrale Chicchirichì, messo in scena dalla compagnia Trapezisti Danzerini per i bambini della scuola dell’infanzia e capace di affrontare il tema complesso e delicato della morte di Gesù. La riflessione che segue incontrerà qualche frase di Giacometto (il protagonista dello spettacolo), fonte di significative suggestioni. Il significato di «morte come rinascita» risponde a un bisogno profondo dell’essere umano, come rivelano i miti e i simboli che ne accompagnano le manifestazioni culturali e del Sacro. In particolare, la simbologia della Luna rispecchia l’esigenza dell’uomo arcaico di vedere nella morte qualcosa di non definitivo. Infatti, «l’uomo si è riconosciuto nella “vita” della Luna non soltanto perché la propria vita ha fine, come quella di tutti gli organismi, ma soprattutto perché la “Luna nuova” rende valide, con la sua sete di rigenerazione, le sue speranze di “rinascita”» (M. Eliade, Trattato di storia delle religioni, Bollati Boringhieri, Torino, 1976, p. 142). 6 Cf M. Mapelli, Il dolore che trasforma. Attraversare l’esperienza della perdita e del lutto, FrancoAngeli, Milano, 2013. 5 18