pdf - Rivista Italiana di Filosofia del Linguaggio

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pdf - Rivista Italiana di Filosofia del Linguaggio
RIFL / SFL (2014): 70-80
DOI 10.4396/19SFL2014
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La lettura deleuziana di Peirce. Fra presunte distorsioni e nuove
interpretazioni: per una teoria delle immagini
Federico Montanari
Università di Modena-Reggio Emilia
[email protected]
Abstract The aim of this paper is to propose an analysis of Peirce interpretation
made by Deleuze, specifically in his two books on cinema. Even if this represents a
very well known case, apparently it seems more interesting for Deleuze or film
studies scholars than to peircean ones. Sometimes, albeit with some exceptions, such
reading has been viewed with suspicion, like a "continental post-structuralist
misreading". On the contrary, the hypothesis presented here stresses how Deleuze
carried out this interpretation in the same philosophical perspective of some previous
works (philosophical readings of classics such as Spinoza, Kant and Bergson): but
with the purpose of building up a theory of image classification. There is no
distorsion of Peirce thought, but a translation and radical reintepretation. And also
with the general scope of finding a new path and a dinamical dimension within the
field of semiotic studies.
Keywords: Image
structuralism.
classification, Phaneroscopy, Semiotics,
Deleuze, Post-
0. Introduzione
Sin dall'uscita dei libri di Gilles Deleuze, L'immagine-movimento e L'immaginetempo, nei primi anni '80, si è creato da subito un forte dibattito e una grande
attenzione verso questi due lavori di Deleuze sul cinema. Queste opere sono state
dapprima guardate con sospetto, sia dai filosofi che dai filmologi (cfr. DOSSE 2007),
poi successivamente accolte con entusiasmo1 talvolta anche attraverso un loro
successivo uso, in certi casi stereotipato e un po’ superficiale. Il nodo centrale e cuore
pulsante dei due libri consiste in una teoria della classificazione delle immagini.
Come è noto, nello sviluppare questa classificazione, Deleuze è ripartito, e in
maniera eterodossa, proprio dalla classificazione dei segni di Peirce, incrociandola ed
ibridandola con le tesi di Bergson. Deleuze afferma inoltre di vedere in Peirce non
solo l’inventore della semiotica moderna, ma anche, nella sua classificazione dei
segni, l’inventore di una vera e propria “tavola degli elementi” quasi come quella di
Mendeleev. Talvolta gli studiosi di Peirce hanno visto in questa lettura una sorta di
1
Cfr., su questo punto, l’approfondimento all’interno del lavoro di DOSSE (2007: 474-477).
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"mislettura french style" della filosofia peirceiana2, una specie di provocazione o
peggio, una sorta di presa in giro. Anche se va ricordato, in modo più serio, che vi è
tutta una tradizione di rilettura francese3 di Peirce: da Lacan, a Derrida, fino,
chiaramente, all’interprete e principale studioso di Peirce in Francia, Deledalle, che
riprenderemo qui di seguito. Ad ogni modo, tranne alcuni casi, più sul lato
dell’interesse per una teoria delle immagini, i semiotici seguaci di Peirce hanno,
salvo appunto alcune eccezioni, perlomeno "sorvolato" o ignorato questa proposta di
Deleuze. Nostro obiettivo è allora quello di andare a segnalare alcuni punti specifici
del lavoro deleuziano su Peirce. Anche se esso è piuttosto conosciuto, e alcuni
studiosi, sia di semiotica che di cinema, potrebbero di nuovo storcere il naso, dato
che si tratta di uno dei luoghi noti e praticati della filosofia contemporanea. Tuttavia
quello che vorremmo proporre qui è un approccio di tipo “filologico-critico” sul
lavoro peirceiano di Deleuze: un lavoro semiotico sulle fonti.
Si tratta di mostrare come Deleuze abbia "operato" con, e su, Peirce. Forzandolo,
certo, facendone ruotare e riorganizzandone alcune idee. Crediamo che tuttavia,
innanzi tutto, il metodo che Deleuze utilizza per lo studio di Peirce sia un metodo
rigoroso ed esplicitato, in buona parte, in lavori precedenti dello stesso Deleuze. Un
metodo simile a quello utilizzato per l’analisi del pensiero di altri filosofi a lui certo
più prossimi e cari (da Spinoza a Leibniz, allo stesso Bergson, a Foucault), così come
a quelli che Deleuze considerava come “avversari” (Kant, ad esempio) – ed è
interessante vedere come Peirce e Deleuze riconoscano “alleati” (il monismo, Duns
Scoto, Spinoza, Leibniz) ed “antagonisti” filosofici (Kant, appunto, Hegel) comuni –.
Per Deleuze, si tratta di fare di questi pensatori l’oggetto di una vera e propria
sperimentazione. Non tanto di "decostruire", ma di provocarne distorsioni creative:
prolungamenti, spinte e connessioni, cercando, tuttavia, come diceva con una battuta
lo stesso Deleuze, "di non fare rivoltare nella tomba" i filosofi e gli scrittori oggetto
del suo lavoro4.
Nel caso di Peirce la scommessa è: alla classificazione dei segni può corrispondere
una classificazione e una teoria generale delle immagini? E, se sì, di quale
2
Cfr., più in generale, riguardo alle letture "francesi" di Peirce, la valutazione, piuttosto critica, di Eco
(1994, cap. II) nei confronti della interpretazione di Peirce proposta da Derrida, in De la
grammatologie: laddove Eco insiste sul fatto che l’idea di semiosi illimitata di Peirce non possa essere
confusa con il concetto di deriva decostruzionista. Tuttavia Eco riconosce a Derrida il fatto di aver
colto in Peirce alcune questioni centrali, come quella della non linearità del processo di costruzione
dei significati; e soprattutto, e si tratta di un punto per noi interessante che riprenderemo di seguito,
quella relativa ad un confronto critico con la fenomenologia husserliana: a proposito della critica
dell’idea di una rivelazione della presenza del senso, e della sua base trascendentale. Mentre Eco
sostiene che il punto di incompatibilità con la visione derridiana è quello del concetto di abito, habit,
peirceiano, disposizione sociale e condivisa in grado, per Eco, di "controllare" la semiosi illimitata.
3
Sulla discussione relativa alla lettura di Derrida si veda Eco (cit.) nella nota precedente. Quanto alla
lettura di Peirce intrapresa da Lacan, si veda, per un interessante percorso interpretativo fra semiotica
e psicanalisi, BALAT (1991); MULLER (2014). Sia Balat che Muller insistono, seppure con accenti
diversi, su un punto importante, che sembra mettere in parte in discussione la visione prevalente in
semiotica, della lettura peirceiana: oltre ad una semiotica relativa alla dimensione cognitiva è
necessario considerare quella di un inconscio pre-linguistico e, soprattutto, la dimensione affettiva;
dimensione che, secondo anche altri studiosi (cfr., ad es., SALAS 2009), va vista come ruotante
attorno al concetto peirceiano di “musement”; sfida e “argomento negletto” per gli interpreti di Peirce,
in quanto momento produttivo, quasi-intuizione – pur tenendo conto dell’anti-intuizionismo
peirceiano – forma di contemplazione, e, sottolinea Salas, citando Peirce, “vacancy”, “reverie”;
possibile fonte per lo stesso meccanismo dell’inferenza abduttiva.
4
Si tratta di una battuta contenuta nelle interviste all’interno de L’Abecedaire, raccolta audiovisiva ora
reperibile online e su DVD, di interviste tematiche a cura di Claire Parnet, 1988-1989.
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classificazione, e di quali tipi di immagini si tratta? Infine, questa lettura deleuziana
cosa aggiunge alla visione della filosofia di Peirce, ed essa può forse voler dire
spingere Peirce “oltre”? Nell’attualità: ad esempio, verso uno studio dei media?
1. Lo sguardo e lo stile deleuziano
In cosa consiste, innanzi tutto, lo “stile di lavoro” ed il metodo di Deleuze? E
soprattutto, grazie a questo stile di lavoro, quale Peirce sembra emergere? Poiché,
vogliamo ripeterlo, riteniamo non trattarsi di semplice prestito o uso strumentale, o
pretestuoso, di frammenti del pensiero di Peirce. E ciò emerge proprio dal metodo di
lavoro di Deleuze, che sembra fare emergere parti del pensiero di Peirce, o meglio,
un percorso meno consueto. Alcuni studiosi, come Duffy (DUFFY 2006), insistono
sul fatto che Deleuze, in particolare nel suo lavoro su Spinoza (DELEUZE 1969),
riprendendo le ricerche di altri studiosi spinozisti come Gueroult, proponga quello
che può essere definito come metodo “struttural-genetico” in storia della filosofia.
Vale a dire, la ricerca non tanto, o non solo, di filiazioni e correnti, ma di connessioni
e pattern, configurazioni, di ordine strutturale. Secondo questo approccio (per
Deleuze concepito ben prima dello strutturalismo, come sottolinea ancora Duffy) vi è
un “ordine di ragioni” di tipo struttural-genetico, che sta al di sotto dei diversi
momenti o scuole nella storia del pensiero filosofico, e che li congiunge in linee di
connessione. Si tratta di ragioni di tipo “legale”, vale a dire di diritto: ricerca di
questi nuclei struttural-genetici o meglio, per riprendere un termine peirceiano, di
diagrammi problematico-concettuali, che si ritrovano e riemergono, acquisendo
nuovi caratteri, nel corso della storia della filosofia. Ad esempio è il caso, per quanto
riguarda la lettura di Spinoza proposta de Deleuze, del concetto di espressione legato
a quello di immanenza5. Idea connessa alla sua più ampia idea di reinterpretazione di
un’altra linea genetica nella storia della filosofia.
Dunque, per venire alla lettura deleuziana di Peirce, qual è il “problema” che pone
Deleuze e che rende possibile il suo incontro con Peirce? Già, poiché vi è, ci pare,
una precondizione di questo incontro: proprio la visione problematica della filosofia
e dell’invenzione concettuale. Per Deleuze, come forse per Peirce, gli incontri, si
fanno con, e fra, i concetti, e con e fra “personaggi filosofico-concettuali”. E questi
incontri avvengono attorno a dei problemi. Ed è grazie all’attività del porre problemi
che nuovi concetti vengono prodotti. Scrive a tale proposito Duffy (2006: 8):
In What is philosophy?, Deleuze claims that philosophy is the discipline that
involves ‘creating concepts’. The manner by means of which concepts are
created is determined by the encounters between the concepts belonging to
philosophies of the past which generate the problems of which the new concepts
are the solution. The concepts of philosophies of the past, to which Deleuze
refers, are determined in relation to the history of philosophy and include, for
example, the Scotist concept of Univocity, the Spinozist concept of Substance
as immanent cause, and the Nietzschean concept of the eternal return. It is by
means of the encounters between these concepts (of the past) that, one the one
5
Cfr., DELEUZE 1969. Su questo punto relativo al rinnovato concetto di “espressionismo
immanente” in Deleuze, ci permettiamo di rinviare, oltre che a Duffy (cit.), a MONTANARI (1997;
2012). Inoltre, per un approfondimento del legame fra pensiero semiotico peirceiano e filosofia di
Deleuze, cfr. PAOLUCCI (2010). Paolucci insiste proprio su un punto che anche qui ci pare
fondamentale, anche se lo proponiamo in un percorso in parte diverso e parallelo: la visione di un
Peirce che supera l’idea logico-inferenzialista.
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hand, new concepts are created, and that, on the other hand, the problem onto
which each of these concepts (of the past) is grafted, is generated.
Anche se la concezione del fallibilismo che, come è noto, sta alla base della
epistemologia peirciana (cfr., ad es., PRONI 1990: 185-186), sembra diversa
dall’idea “problematicista” di Deleuze, entrambe convergono, ci pare, su una
pragmatica comune: appunto quella del porre delle questioni, porre problemi. Si dirà
che questo è un atteggiamento tipico di tutta la storia del pensiero, perlomeno
occidentale. No. O meglio, si tratta piuttosto di un vero e proprio stile o
atteggiamento filosofico, che, certo, incrocia lo scetticismo metodologico, con l’idea
di dubbio radicale, anche se per entrambi i filosofi la rottura avviene proprio anche in
opposizione al razionalismo cartesiano. Tuttavia per Deleuze, in particolare, così
come per Peirce, l’atteggiamento, specifico e non generico, è: quel dato problema
con chi mi fa incontrare? Con quali “personaggi filosofico-concettuali”6? Come
posso delineare la natura e la forma di questo incontro? E cosa produce questo
incontro?
Se la filosofia, per Deleuze e Guattari, (DELEUZE, GUATTARI 1991) è l’attività
dell'inventare e trasformare concetti, ecco che i concetti vengono forgiati a partire da
problemi, e questa attività produce, ed è al tempo stesso prodotto, di incontri.
Deleuze incontra, e fa incontrare, Peirce e Bergson: su una problematica; e in una
situazione. Innanzi tutto il momento, la situazione, è quella in cui Deleuze lavora, a
cavallo nei primi anni ’80, alla preparazione dei suoi corsi sul cinema (cfr. DOSSE
2010: 466 ss). Il problema di Deleuze, in quegli anni, è, dicevamo, quello della
natura delle immagini. Attraverso la sua cinefilia, che incrocia la ripresa del lavoro
sulla filosofia di Bergson, Deleuze è alla ricerca, da un lato, di una
teoria/classificazione delle immagini che gli consenta di analizzare il cinema e la
storia del cinema, e dall’altro è interessato alla natura, alla composizione materiale di
queste stesse immagini: come si rapportano le immagini con la materia; o meglio, di
quale materia sono fatte le immagini. Il problema che si pone, dunque, è duplice; e
proprio questo approccio fa sì che Deleuze si ritrovi alla ricerca di una semiotica
“non linguistica”, come del resto egli afferma esplicitamente all’interno dei suoi due
libri sul cinema (DELEUZE 1985: 342-343). Vale a dire di un campo di
investigazione generale, non direttamente condizionato da quella che considera la
tradizione della linguistica verbale europea (anche se più volte lo stesso Deleuze ne
sottolinea l’importanza e le filiazioni: pensiamo al suo noto saggio sullo
strutturalismo, o alla sua interpretazione, radicale ed eretica, condotta assieme a
Guattari, del pensiero di Hjelmslev7). Questa visione della semiotica in Deleuze è
6
Ricordiamo che l’idea di “personaggio filosofico” è proposta, come noto, proprio da Deleuze e
Guattari nel loro ultimo libro (1991: cap. 3). Personaggi filosofici non sono tanto i filosofi ma delle
figure concettuali, simili a funzioni attanziali, che svolgono un ruolo guida e di “tipo”, o di “motivo”
per un dato piano di immanenza, o epoca filosofica, indicandone i percorsi e i possibili ostacoli o
pericoli per quella filosofia. E sono figure spesso trans storiche, che però si ritrovano in diverse
epoche con caratteri rinnovati. Pensiamo ad esempio a “l’Amico”, o “lo Straniero”, o ancora “il
Rivale” o “il Giovane” o “il Folle” o “l’Idiota”, che si ritrova, con caratteri diversi, da Platone a
Cartesio, sino a Dostojevski; si tratta, per Deleuze e Guattari, di “intercessori” o “semi di pensiero”,
più che di personaggi sociali concreti.
7
Cfr. i noti capitoli di Mille Plateaux dedicati a questa elaborazione critica (DELEUZE, GUATTARI
1980); DELEUZE (1973). Cfr., per una valutazione su questo punto, di analisi critica dello
strutturalismo e poi di reinvenzione di Hjelmslev, DOSSE (2010: 268 ss); FABBRI 1997, 1998;
BONDÍ 2011; CAPUTO 2015; MONTANARI 1997, 2012, 2015; PAOLUCCI 2010.
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una pronuncia a favore di una “materialità” della dimensione del senso,
dell’importanza di una materia intelligibile: semiotica ma pre-linguistica.
Affermerà allora a questo proposito Deleuze:
Le cinéma n’est pas langue, universelle ou primitive, ni même langage. Il met à
jour une matière intelligibile, qui est comme un présupposé, une condition, un
corrélat nécessaire (...) Ce serait que Hjelmslev appelle ‘matière’ nonlinguistiquement formée, tandis que la langue opère par forme et substance. Ou
plutôt c’est le signifiable premier, antérieur à toute signifiance (...). On
comprend dès lors l’ambiguïté qui parcourt la sémiotique et la sémiologie: la
sémiologie, d’inspiration linguistique, tend à fermer sur soi le ‘signifiant’ et à
couper le langage des images et des signes qui en constituent la matière
première. On appelle sémiotique au contraire la discipline qui ne considère le
langare que par rapport à cette matière spécifique, images et signes. (DELEUZE
1985: 342).
2. Le condizioni di un buon incontro
L’incontro con Peirce, da parte di Deleuze avviene a partire da queste condizioni.
Esso accade nel quarto capitolo del primo dei suoi libri sul cinema, dopo che Deleuze
ha discusso le tesi sul movimento di Bergson, ha provato a formulare una prima
possibile definizione di cosa è immagine a partire da queste tesi: immagine non solo
come insieme di ciò che appare, ma di qualcosa che non è distinto dalla materia, o
sua rappresentazione, che ne è parte intrinseca: esposizione e al tempo stesso
espressione di questo mondo; ma anche costituzione, nelle sue variazioni, di piani
infiniti di questa materia. Vi è per Deleuze, a partire da Bergson, ma anche dalla
“grammatica”, dalle componenti di base delle immagini nel cinema, una identità fra
immagine e movimento (DELEUZE 1983: 77, tr. it.): è ciò che pone come possibilità
di divenire e trasformazione della materia del mondo. Certo, il cinema si costruisce, a
partire dalla sua storia “psicomeccanica”, vale a dire dai suoi meccanismi, dai
dispositivi di queste immagini (quadri, piani, raccordi, spazi ecc.). Ma quello che
pare contare per Deleuze come punto di partenza è questo: l’immagine come piano
delle possibilità del movimento della materia del mondo.
Cosa cerca e cosa trova allora Deleuze in Peirce? In realtà sembra esserci qualcosa in
più della ricerca di un sistema di categorie o di una classificazione dei segni, come
anticipato sopra. C’è, appunto, un’ipotesi forte di interpretazione e traduzione del
pensiero peirciano. Seguiamo Deleuze:
La forza di Peirce quando inventò la semiotica, fu di concepire i segni a partire
dalle immagini e dalle loro combinazioni e non in funzione delle loro
determinazioni linguistiche. (DELEUZE 1983: 89, tr. it.).
Intanto vi è questa idea di una teoria delle immagini che si collega ad una particolare
lettura dell’opera di Peirce.
Ma allora, quale Peirce incontra Deleuze? Soprattutto il Peirce presentato da
Deledalle (DELEDALLE 1979; PEIRCE 1978), con il quale Deleuze concorda su un
punto e su un'ipotesi di base, per quanto controversa e non condivisa da tutti gli
studiosi di Peirce: il nodo centrale del pensiero peirciano non sta, lo abbiamo
anticipato, tanto nella dimensione logica e inferenziale, né in quella della prima fase
del pensiero di Peirce legata alla, seppure parziale, ripresa delle categorie kantiane,
ma nella fase squisitamente semiotica, che secondo entrambi gli studiosi starebbe
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nell’invenzione di una sua propria fenomenologia, ben diversa da quella europea,
seppure quasi contemporanea ad essa: la faneroscopia. A differenza di altri interpreti
di Peirce che hanno visto nella faneroscopia un punto terminale del percorso di
Peirce, Deleuze (anche attraverso Deledalle) insiste su un punto “filologico”. Egli
ritrova in una delle fonti europee del pensiero di Peirce, vale a dire in Maine de
Biran, una teoria legata al concetto di immanenza (immanentismo che peraltro sta al
centro di tutto il pensiero di Deleuze). In Maine de Biran vi è una teoria del
sentimento e al tempo stesso della forza dell’abitudine, contro il dualismo cartesiano
e contro l’idea di trascendentale kantiano, in favore di una teoria della causa
immanente; una teoria del sentimento e del movimento spontaneo dell’essere in
quanto principio immanentista; e si trova qui un concetto di “affezione” che secondo
sia Deledalle che Deleuze avrebbe fornito a Peirce la base della sua concezione di
“primità”: firstness innanzi tutto come affezione, oltre che come momento di
percezione di una “qualità”.
Dicevamo che, secondo la nostra ipotesi, Deleuze legge Peirce attraverso gli studi e
l’antologia di Deledalle. Non a caso, rispetto alla presentazione sia delle antologie
italiane (cfr. BONFANTINI, et al. 1980) ma anche degli stessi Collected Papers,
Deledalle propone nell’antologia da lui curata Ecrits sur le signe (PEIRCE 1978)
proprio i testi – Deledalle lo rivendica esplicitamente nell’introduzione – successivi
agli anni ’80 dell’800, tratti dai Collected Papers. Si tratta dei testi “pienamente”
semiotici e dedicati alla definizione di faneroscopia: con le “categories in Detail” del
concetto di “Firstness”, di “Feeling”, di “Transition to Secondness”; le definizioni di
Thirdness; fino al ben noto testo A Guess at the Riddle. Tuttavia, sfogliando
l’antologia curata da Deledalle, è proprio interessante notare come essa si apra con le
lettere, in particolare le importanti e note lettere a Lady Welby, che sono molto tarde,
dei primi del ‘900, e in cui Peirce descrive e rispiega le categorie di primità,
secondità e terzità. In una di esse si insiste, riguardo alla categoria di secondità,
proprio sull’importanza dell’idea di “sforzo”, di esperienza dello “sforzo” che
instaurerebbe questa categoria (PEIRCE 1978: 24); quasi in contrasto, specie nella
sua concezione di “azione e forza che agisce su un’altra”, con “l’impressione di
tranquillità che promana e che sarebbe una idea della Primità”; o della “Legge” tipica
della Terzità.
E c’è un punto in una di queste lettere (da Collected Papers, 8.332, in PEIRCE 1978,
ib.: 30) che deve aver colpito Deleuze. Certo, dice Peirce, “ogni concetto è un segno,
beninteso”, ma noi “possiamo prendere un segno in un senso più largo in modo che il
suo interpretante non sia un pensiero ma un’azione o una esperienza”. Tuttavia,
prosegue Peirce, siamo nelle condizioni di uno zoologo che deve comprendere il
significato di “pesce” e “fare dei pesci una delle grandi classi dei vertebrati”. E più
avanti, continua Peirce: “in sé un segno è un’apparenza” se si tratta di un qualisegno,
ma può diventare un evento individuale (si trasforma in un sinsegno) o un tipo
generale (legisegno). Questa capacità trasformativa di entità che sono anche
immagini nel e del mondo, crediamo che sia uno degli elementi che hanno più
interessato Deleuze.
Seguono poi, nell’antologia di Deledalle, alle lettere, altri testi tardi, ma appunto per
questo pienamente semiotici, come un Syllabus del 1903 e il testo The Phaneron
dedicato alle categorie semiotiche, e di Logic viewed as Semiotics tratto da alcune
conferenze. Deledalle segnala che è “verso il 1904 che Peirce sostituirà faneroscopia
a fenomenologia” (1979: 16); quasi per rimarcare anche una rottura con la tradizione
hegeliano-kantiana, che poi arriverà sino alla fenomenologia europea con Husserl. E
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segue poi il testo A guess at the Riddle, precedente, del 1890, con una esplicita
definizione delle categorie semiotiche.
Deledalle, dicevamo, rimarca una differenza rispetto ad altri modi di presentare il
pensiero peirciano. E proprio anche da qui emergono i punti essenziali dell’incontro
di Deleuze e Peirce. Secondo Deleuze, a partire da Peirce si potrebbe cogliere l’idea
che i segni siano, certo, catalogabili in un sistema, ma siano degli “esistenti”:
figure/immagini attive del mondo (e non solo di un linguaggio o); legate ad una
concezione (a partire, si diceva, da Maine de Biran che fa parte della tradizione del
pensiero immanentista) (cfr. CICCARELLI 2008), di un pensiero dell’immanenza. Si
tratta della concezione di un mondo visto come universo del sensibile, con l’idea di
una affettività come parte della firstness, nel pensiero e nella percezione. Tuttavia,
secondo l'interpretazione che sembra emergere da Deledalle, per come viene ripresa
da Deleuze, questa affettività (che è anche percezione di qualità), diversamente
all'interpretazione prevalente che viene data di Peirce, in cui si insiste di più sulla
dimensione logica, sembra essere fondamentale proprio in quanto parte di questo
universo sensibile; e momento di invenzione del senso. La percezione è facoltà di
distinguere impressioni, sia per Peirce che per Maine de Biran, ma anche sentimenti
come momenti ricettivi. Questo porta Deleuze, nel suo primo libro sul cinema
(DELEUZE 1983) a ricollegare Peirce a Bergson, come anticipavamo, e a
considerare Peirce «come il filosofo che si è spinto il più lontano possibile nella
classificazione delle immagini [...]» (ivi: 89). Aggiunge Deleuze, in questo luogo
noto del suo primo libro sul cinema, ma assai significativo:
Noi non sappiamo ancora il rapporto che Peirce propone fra il segno e
l’immagine. E’ certo che l’immagine produce dei segni. Per quanto ci concerne,
un segno sembra essere un’immagine particolare che rappresenta un tipo di
immagine, tanto dal punto di vista della sua composizione, quanto dal punto di
vista della sua genesi o della sua formazione (o addirittura estinzione) . (ib.:
89).
Ci pare interessante notare in questa definizione di Deleuze tre elementi. Il primo,
questa “sospensione” del sapere nei confronti di Peirce, questa apertura congetturale
e quasi misteriosa nei confronti di una sua possibile definizione. In realtà, subito
dopo Deleuze spiega la mossa che gli servirà, via via, per introdurre e servirsi delle
categorie e classificazioni dei segni di Peirce, anzi di reinventarne alcuni egli stesso.
In secondo luogo, troviamo la circolarità, o meglio “autoproduttività” contenuta in
questa definizione; e infine il fatto che essa si ricalchi sulla definizione di segno
proposta da Peirce. Vi sono come due serie – ed è questo il meccanismo tipico, sua
cifra, proposta da Deleuze – non totalmente coincidenti e per questo produttive: in
questo caso, segni e immagini. Cosa succederà? Andranno a coincidere o daranno
vita a qualcosa di nuovo?
Ad esempio, aggiunge Deleuze, la firstness va vista come possibile: mostrare,
appunto, un possibile senza attualizzarlo; dunque, vi possono essere in questo caso
due stati di mondo disgiunti.
3. Ritorno alla materia visiva
E qui subito Deleuze ritorna al cinema, con Peirce e riprende il suo famoso esempio
del primo piano su di un viso. Avremo la costruzione di speciali relazioni, che via via
assumono una loro esistenza espressiva autonoma (è il caso di componenti come
ombre, spazi, bianchi, pensiamo agli occhi, o lo sfondo scuro o dati colori): è il caso
di Buñuel, o di quello, ben noto, studiato da Deleuze del volto in Dreyer di Giovanna
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d’Arco (si veda l'immagine in fondo al presente saggio). Poi, da questa primità si
stacca una secondità o immagine/azione. In questo caso cosa fa Deleuze? Riprende la
classificazione di Peirce, la confronta con una serie di immagini, ne ricava un nuovo
schema, ne rileva passaggi ulteriori e sotto-aree delle immagini stesse. Fino alla sua
ipotesi di una possibile sequenza ricombinabile S-A-S, vale a dire, in una sequenza
cinematografica: Situazione 1 - Azione - Nuova Situazione provocata dall’azione la
quale tuttavia può essere, essa stessa, in certi casi e certi tipi di film, provocata da
una percezione di una qualità o momento o affezione, da una primità.
Pensiamo al caso di un film western. Deleuze, da questa sequenza ricava quasi un
modello narrativo, che tuttavia vale anche sul piano percettivo e affettivo. Pensiamo,
appunto, e l’esempio è proprio quello proposto da Deleuze, ad un film di John Ford.
in cui si ha, a partire da una situazione iniziale, lo sbocco e risoluzione in una nuova
situazione.
Quello che però ci pare importante, e che vale la pena ricordare, non è solo o tanto il
fatto che Deleuze fa “delirare” la classificazione dei segni di Peirce, nel senso di
produrne di nuovi tipi, ma l’idea di pensare a una teoria dell’emanazione di segni da
immagini che diventano poi azioni; e che, a loro volta, possono trasformarsi in
abitudini o tornare ad essere nuove affezioni o qualità. E tutto questo per Deleuze
tocca la “materia cinematica”, fino a, lo ricordiamo, ipotizzarne sviluppi sorprendenti
(e ben prima della loro realizzazione, dato che ci collochiamo, con queste opere, nei
primi anni '80), e che sembrano già fare riferimento al mondo delle immagini digitali
e numeriche; con forze e figure nuove che si renderanno totalmente indipendenti dai
supporti. Nuove stirpi di immagini-segni, afferma Deleuze, destinate a circolare in
modo autonomo in questo mondo; forse anche al di fuori degli schermi, come sta
peraltro iniziando ad accadere oggi, con le attuali tecnologie digitali, in grado di
produrre temporalità e forme testuali impreviste.
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Deleuze(1983:90)
La famosa immagine commentata da Deleuze (1983: 90) a proposito di primo piano
del volto e dell’idea di firstness, come immagine-affezione, tratta da La Passione di
Giovanna d’Arco di Dreyer.
Bibliografia
BALAT, Michel (1991) Des fondements sémiotiques de la psychanalyse, Méridiens
Klincksieck, Paris
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