l`arcobaleno sulla collina

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l`arcobaleno sulla collina
Silvana Crotti
L’ARCOBALENO
SULLA COLLINA
Edizioni
Helicon
Capitolo I
Los Angeles (USA) - 29 maggio 1963
L’uomo, seduto sulla poltroncina di velluto rosso, disse all’altro che gli stava di fronte, sulla poltrona girevole
dall’imponente schienale… (la scrivania col suo lucido
piano di mogano era come un fiume che li teneva separati
su due rive opposte)... disse dunque:
- Ben, se fai promesse ai morti, i morti non dimenticano! - Veramente la promessa, la feci, per primo, a te, Jonathan e tu eri vivo allora come lo sei adesso, seduto lì, in
carne e ossa, davanti a me. - Non giocare con le parole, Ben: sappiamo bene entrambi che la responsabilità di quel tristissimo affare fu
tua e della tua inspiegabile leggerezza: non si tradisce così
chi ti sta aiutando! - Ricorda quant’ero giovane! - L’età non scusa: malgrado quella ti avevano affidata la
vita di più uomini... e che uomini! - Ciò che tu chiami leggerezza da parte mia, apparentemente fu enorme, ma io dubito ancora che si possa chia-9-
mare con quel nome... - Il nome non importa. - D’accordo, quando non molto tempo fa venni da voi
su la montagna, rinnovai a te, a tua madre e a tutta la
famiglia la promessa che già avevo fatta anni addietro:
non sono state parole soltanto le mie, perché dopo ho
parlato, pregato e discusso con le persone, le più influenti
della nazione... - Prevenne un’interruzione del compagno:
- Quanto desiderate sta per essere concluso... - Continuò
in fretta sempre per impedire che l’altro intervenisse protestando: - Verrà fatta l’esumazione e la salma sarà qui
prima dell’estate. - A quel tempo mia madre sarà già morta! - Sai bene quanto addolori e preoccupi anche me la sua
malattia! Ma nessuno può prevedere quando e come si
risolverà! - Lei e noi sappiamo: tu no! E il tuo dolore non basta! - Che cosa volete d’altro? E tu... che cosa vuoi, tu, ancora da me? Perché sei venuto a cercarmi fino a qui? Proprio
ora che, come sai, sto per partire per Washington?! - Voglio... - Ribatté l’altro, poi si fermò e disse in tono
più alto e perentorio: - No, vogliamo lo scalpo! - Jonathan, ma che dici?! - L’uomo sulla grande poltrona
quasi rideva, aggiunse calmo: - Ti rendi conto dell’enormità che vai dicendo?! - Sei tu che non conosci più il senso vero delle nostre
parole! - Ribatté l’altro: - Ascolta! - E si chinò avanti sul
piano della scrivania socchiudendo un poco gli occhi,
che divennero due fessure luccicanti: - I nostri morti ti
seguono: sanno dove stai per andare e che il presidente
ti riceverà e sanno che il tuo viaggio continuerà fino a
Roma. - No, questo non può saperlo nessuno fra i vivi e fra i
morti, perché non ne sono al corrente neanch’io. Ti ha
detto forse qualcosa Justine? - Nello sguardo di Ben c’era
un sottinteso malizioso, ma il tono della sua voce era
conciliante e il suo atteggiamento non scevro di una bonomia affettuosa che può essere solo fra persone la cui
frequentazione è di lunga data.
- Affatto! - Rispose fieramente Jonathan. - Questa volta
non sono andato a parlare con lei, anche se l’avrei desiderato molto! - Allora? Stai bleffando! - Sai che non lo faccio mai. È stato un sogno: uno
dei miei soliti sogni colorati e veritieri... Theother mi ha
parlato! - Al diavolo i tuoi sogni! Il telefono squillò in quel momento e l’uomo si agitò su
la grande poltrona, schiacciò un bottone e disse seccato:
- Signorina, le avevo detto di non passarmi nessuna
telefonata per mezz’ora almeno! Una voce giovane di donna rispose dall’altro capo:
- Ma questa viene da Washington: è la segreteria del
Presidente! - L’uomo su la grande poltrona disse rassegnato:
- Me la passi! - Prese quindi il cornetto e lo tenne sull’o-
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recchio assentendo parecchie volte poi concluse: - Certo,
certo! Sono a vostra disposizione! Lei lo sa, caro John,
che sarò li fra due giorni. Organizzeremo tutto secondo
i desideri del Presidente. - Ascoltò ancora per un minuto
le parole che venivano da più di tremila chilometri di
distanza, salutò ossequioso e posò il ricevitore:
- Per la misera! - Disse al compagno che gli sedeva di
fronte ora più che mai serio e tranquillo: - Dimmi come
facevi a saperlo e a esserne così sicuro, Vecchia Puzzola
Fetente! Quello chiamato Jonathan non si scompose:
- Tu non vuoi credere ai miei sogni...! Poi ti meravigli:
la tua meraviglia è quella di un bambino sciocco. - E
aggiunse: - Andrai a Roma, vero? - Sì, è stato quasi un ordine: avrò un incontro col Presidente, poi dovrò proseguire il viaggio per l’Italia: mi
aspettano per la metà di giugno all’Ambasciata di Roma. - Farai quanto è nei desideri di mia madre? - Sai che qualcosa ho già fatto... ma niente scalpi! Sai
anche che non riesco ad accettare certe vostre folli fantasie! - Medita il vero senso nascosto delle parole: scalpo vuol
dire giustizia! - L’uomo sulla poltroncina rossa, pur parlando stava ora immobile e pareva una statua di legno annerita dal tempo: i suoi occhi, non più socchiusi, avevano
uno sguardo acuto, fiero come quello di un animale della
foresta. L’altro si alzò e si portò verso la grande vetrata
che guardava dal 20° piano Los Angeles, il suo porto
e tutta la città distesa sotto il caldo sole di maggio fino
all’oceano, un’unica linea azzurra, brillante all’orizzonte.
- È passato tanto tempo! - Bisbigliò con un sospiro.
- Per me no! - Ribatté l’altro: - Per me ieri è ancora
oggi! -
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Firenze (Italia) - 29 maggio 1963
Era una Çitroen “D.S.Pallas” familiare nera, dai grandi
parafanghi anteriori ad ala e su questi i fari, imponenti e
pretenziosi sembravano vivere di una vita propria mentre
scrutavano a piena luce l’asfalto della strada, reso più scuro dall’umidore viscido della guazza notturna. La parte
posteriore dell’auto, alquanto abbassata, accentuava, secondo le intenzioni del suo costruttore, la linea di pacata
opulenza della carrozzeria rendendo il tutto simile a una
signora francese del dopo - restaurazione, che ha ritrovato
sia il rispetto che gli agi dovuti alla sua nuova situazione
di “cittadina” sì, ma anche di buona borghese.
Il procedere lento ma sicuro del mezzo sulla strada in
salita, confermava questa sua aria di solidità e confort,
così ben realizzata dal sapiente “design”, se non fosse
stato per i ferri e le ganasce di un grosso portapacchi,
che alteravano la curva aerodinamica ed essenziale della capote, mentre alcune abrasioni sulla carrozzeria, in
parte mimetizzate da volgari rappezzi, denunciavano un
annoso vissuto di traversie e duro lavoro. L’auto superò,
con elegante disinvoltura, l’ultima curva e andò a inserirsi
maestosa e docile, fra le altre macchine del parcheggio:
non molte, in verità a quell’ora.
Giulio Esposito lasciò la guida, compiaciuto come sempre per la sua perfetta manovra e si fermò sulle salde
gambe, un poco arcuate, tendendo il busto per quanto
era lungo e largo, come per dominare il vuoto che gli
stava intorno.
Dopo di lui fu Mino a scendere. Senza voltarsi indietro
corse verso la balaustra che cinge piazzale Michelangelo.
- Principessa, - gridò alla sorella, che stava seguendolo:
- ecco: ti regalo Firenze! - A braccia aperte mostrava il
fantastico paesaggio che gli si apriva davanti.
Ponte Vecchio, il campanile di Giotto, S. Maria Novella erano lì, fra i veli della nebbia di quel primo mattino
di fine maggio, in docile, silenziosa attesa, come giusto
creati in quel momento da una magia per i loro occhi.
- Peccato non ci sia il sole! - Disse Maria.
- Non sei proprio mai contenta! - Ribatté il fratello.
- Non fraintendermi... - La voce della fanciulla aveva
uno scarno tono di scusa: - Mi sembra, anzi, un bellissimo sogno: ogni costruzione, mi è familiare, come se
l’avessi già vista... e invece è la prima volta! - Ora parlava
eccitata: - E gli Uffizi dove sono? Portatemi là, per favore,
e lasciate che li visiti mentre voi siete dai Manganelli...! Il padre, che dopo avere parcheggiato la Çitroen, si era
avvicinato, intervenne burbero:
- Macché Uffizi! Oggi è giornata di lavoro! Poi... tu sola
in una città che non conosci... figuriamoci! Firenze te la
guardi da qui col cannocchiale! - Quindi rivolto al figlio:
- È tardi: dalle un po’ di spiccioli. Mino, dopo aver allungato alcune monete di carta alla
ragazzina, le scompigliò la zazzeretta morbida:
- Bisogna accontentarsi, topo - biondo! Prendi una bibita e un giornale illustrato e ti fai cambiare delle monetine
per il cannocchiale... Si vede tutto, sai? Anche le persone
sul lungo Arno. - Maria, con mossa brusca, tirò indietro
la testa come se non gradisse di essere toccata dal fratello:
- Accontentarsi ... Non sapete dir altro! Mi avete portata
da Bologna a Firenze solo per farmi leggere un giornale! Giulio Esposito, senza dar segno di aver sentito, prese
il figlio per un braccio dicendo:
- Torniamo a mezzogiorno, noi. Chiudo la macchina
perché gli scippatori d’auto sono di casa qui... - Poi a Maria: - Dalle un occhio, bambina! E, se pioverà, va sotto il
tendone del chiosco delle bibite... Ma non pioverà! - Concluse, ed era già quasi al limite del piazzale.
Maria per un poco fissò i due uomini, che si allontanavano, irata, sgomenta perché conscia di una realtà che
non poteva cambiare, quindi si voltò verso il muretto e,
a labbra serrate e denti stretti, picchiò e ripicchiò coi piccoli pugni sul davanzale del muretto stesso mentre faceva
smorfie per non piangere.
- Li odio! - Diceva fra sé e sé: - Dio mio, fa che non li
odi tanto! Lo so: sono la figlia e la sorella di due camionisti, ma non può essere che io sia costretta a condurre
per sempre una vita simile! Non è vero che io sono una
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lagna, malata di vittimismo: sono loro invece che sono
davvero due mostri! La ragazzina piangeva senza ritegno ora, le braccia piegate sulla balaustra e la testa china su queste, mentre il
monologo silenzioso, che raccontava a se stessa, era di
stimolo per nuove lacrime e per un pianto sempre più accorato del quale erano causa, non solo la rabbia, il dispetto o l’auto - commiserazione, ma una pena più profonda
e di più vecchia data.
- Prima il garage hanno voluto, con un buco di appartamento dove viviamo in quattro come in prestito, poi i
camion nuovi e le macchine... Sono due grossi bambini
con i loro giocattoli... Non vedono altro! E a me che cosa
tocca? Frequentare a tutti i costi una scuola che detesto: o quella o niente! Passare ogni ora libera, comprese
le vacanze estive, a compilare fatture e bollette per loro
conto, chiusa in un bugigattolo che puzza di olio bruciato, benzina e ossido di carbonio... E se una volta, una
sola, per miracolo, mi portano fuori (perché il medico
dice che finirò tisica se non esco un poco da lì) è per
accompagnarmi in un parcheggio d’auto, farmi vedere
Firenze col cannocchiale e regalarmi una coca - cola e
un settimanale! Picchiò un ultimo pugno rabbioso sul muretto, prese
il fazzoletto dalla borsetta, si asciugò il viso e cercò di
ricomporsi.
- Bisogna che non m’arrenda! - Diceva smorzando l’ultimo singhiozzo: - Non meritano che io pianga tanto per
loro! Maria, da quando non era più una bambina, aveva preso
l’abitudine di dirsi frasi simili a conclusione dei suoi numerosissimi sfoghi disperati: solo facendo appello a una
ribellione cocciuta, covata in silenzio, poteva riprendersi e trovare il coraggio di tirare avanti senza ricorrere a
gesti plateali, infruttuosi sempre, e che sarebbero serviti
soltanto ad appesantire i controlli su ogni sua minima
iniziativa. Gli occhi erano asciutti ora, solo qualche sussulto le stringeva a intervalli dolorosamente la gola, ma
la mente non voleva ancora rinunciare a inseguire i suoi
tristi pensieri. Sempre loro c’erano: un padre - padrone,
un fratello autoritario e possessivo, che aveva la meglio su
di lei, perché di molti anni più vecchio, e una madre pavida e succube del marito e del figlio maschio. Risalendo
ai suoi più antichi ricordi, era sempre andata così. C’era
stata la storia degli abiti, per esempio, e di tutto il suo
abbigliamento. La fanciulla ricordava e sapeva per certo
che fin da quando era stata tolta dalle fasce avevano preso
a vestirla con indumenti usati del genitore e del fratello.
Olga, la madre, non faceva che riciclare tute, jeans e camicette sportive per una bimba che, con quell’identico
abbigliamento, come una divisa, aveva frequentato l’asilo
e tutte le cinque elementari. Anche per la cresima e la
comunione la veste bianca era stata presa a prestito dalla
figlia di una vicina di casa.
“Tutte le bambine vanno matte per questo genere di abiti: perché tu, che li hai, non sei contenta?! Ci scommetto
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che se ti comprassimo gonne di tutti i generi vorresti anche tu i calzoni come le altre!!” Questo era quanto le veniva sempre ripetuto fin dai suoi primi tentativi di protesta.
Si era allora negli anni del primo dopo - guerra quando
una ragazza in calzoni era invece ancora una novità e
dava motivo a volte addirittura di meraviglia e di sospetto. La moda, poi in fatto di abbigliamento femminile,
per un bisogno forse di rivalsa, dopo le angosce di quei
lunghi anni di paure e privazioni, si era sviluppata su linee
quanto mai fantasiose e ricche: abiti stretti alla cintura su
vitini di vespa, scollature che lasciavano intravedere i seni
pronunciati e abbondanti, gonne larghissime fruscianti
sui polpacci per permettere che si notassero le caviglie
snelle e le scarpette a punta coi tacchi a spillo: tutto quindi all’insegna della più esaltata femminilità.
Arrivata alle scuole medie, Maria, dovendo rinunciare
a tutto questo, aveva finito per concentrare ogni interesse, relativamente alla sua persona, sui capelli, che aveva
biondi, lunghissimi e morbidi: li teneva legati in un’unica trecciona, oppure a coda di cavallo, o raccolti in una
morbida crocchia, o sciolti a coprirle le spalle come un
manto dorato. Era un modo anche quello per affermare
la sua natura di donna ora in boccio e sentirsi svincolata
dal padre e dal fratello.
Un giorno, all’ora di pranzo, Giulio con Mino, rientrando dal garage, la sorpresero davanti alla specchiera
dell’ingresso tutta presa ad acconciarsi trecce e fronte con
una collanina di corallo, regalo della madrina. Giulio ri-
mase con la porta in mano a fissare il volto che di riflesso lo guardava dalla lastra illuminata, un viso quasi di
bambina ancora, levigato e dallo sguardo un po’ stupito
e candido come quello di una madonna del quattrocento.
L’uomo non afferrò il messaggio di grazia e bellezza che
poteva derivarne: raccolse, invece, soltanto quanto per
lui era sfrontatezza e provocazione. Sbatté la porta e disse
burbero:
- Non siamo di carnevale! Bastò questo perché Maria, che aveva ben notato l’espressione scontenta che accompagnava sia il gesto che le
parole, allargasse un poco bruscamente le braccia, tanto
da strappare l’esile filo di quel gingillo. Né seguì, nel silenzio teso, un ticchettio pungente di palline che cadevano sul piano di cristallo, rimbalzavano per terra per correre in tutte le direzioni sul pavimento lucido, ma questo
fu come se qualcuno avesse gettato una bomba sulla casa
o disonorato il Santo Sacramento. L’ira di Giulio esplose
violenta. L’uomo fece un balzo in avanti per afferrare la
figlia, che intanto aveva cercato riparo nella sua stanza:
la rincorse fin davanti alla porta chiusa che aprì con una
spallata gridando:
- Una ragazza a posto non ha grilli come questi per la
testa! Ora i capelli giù ... ora su ... e mai un giorno uguale
all’altro! Una ragazza a modo si lava e si pettina i capelli
e se li fa tagliare da un parrucchiere onesto! Chi credi
di essere? Sei la figlia e la sorella di due camionisti, che
lavorano e rischiano la pelle tutti i giorni sulle strade per
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mantenere te e tua madre all’onore del mondo, ma non
di più! Da sorda geremiade il rimprovero era salito a toni incontrollati: l’uomo era paonazzo. Olga non si era mossa
dall’ingresso: china a raccogliere i coralli, si era guardata bene dall’intervenire. Mino venne a pararsi davanti al
padre.
- Papà, calmati, ti prego, - disse: - ora ci penso io. Andiamo a mangiare, noi due. - insistette ancora: - prima di
sera sistemo tutto, vedrai! Maria rimase sul letto a singhiozzare mentre i suoi consumavano in silenzio il loro pasto.
Nel primo pomeriggio venne Mino nella sua stanza:
- Andiamo! - Disse.
Fece per prenderla per un braccio ma la ragazzina si
raggomitolò su se stessa per non farsi toccare. Lo seguì
tuttavia docile come un agnello portato all’altare e salì in
silenzio con lui sulla macchina che, dopo dieci minuti di
tragitto, andò a fermarsi davanti al negozio di un parrucchiere. “Lucio, parrucchiere per signora” diceva l’insegna
e Maria l’avrebbe avuta per sempre stampata nella memoria assieme al cartellone esposto sul vetro della porta con
il ritratto di una diva del cinema. Per tutta la vita avrebbe
ricordato il viso di quell’uomo, vicino al suo, quell’uomo
che lavorava di pettine e forbici sul suo capo come un
avvoltoio su la preda. Per tutta la vita avrebbe ricordato
lo stridio gelido dei tre tagli netti di quell’arnese infernale,
che avevano fatto scivolare per terra una cascata di fili
d’oro.
La moglie del parrucchiere non riuscì a trattenersi dal
fare “Oh!” e portarsi le mani al viso. Poi il fruscio delle due lame inesorabili che picchiettavano fra capello e
capello, pizzicavano ad una ad una le sue ciocche per
renderle pari e uniformi come un casco compatto intorno
alla sua piccola nuca.
Lo specchio rifletteva il viso di Lucio con la sua espressione beatamente compiaciuta e quello di Mino che la
fissava serio, corrucciato. Non un moto aveva avuto il
suo volto: sembrava di pietra. Maria lo vide scuotere la
testa a un certo punto e sbattere le palpebre come se si
svegliasse da un sogno, quindi fare una smorfia e tentare
infine un sorriso con le labbra tese. Era anche troppo
evidente lo sforzo che si imponeva per darsi un contegno,
per mascherare o mitigare l’atmosfera di tensione che si
percepiva, quasi a livello epidermico, fra quelle quattro
uniche persone nella stanza. Disse alla sorella:
- Ecco, sembri proprio un uccellino d’oro! Maria in quello stesso specchio fissava anche il suo di
volti, un volto nuovo, piccolo, smunto con due occhi spalancati per la disperazione. Sentendosi toccare dal fratello
ebbe un sussulto, come se si svegliasse anche lei, in quel
momento, da un sogno angoscioso: gridò un “No!!” straziante e, piangendo e singhiozzando, si lanciò fuori dal
negozio e prese a correre alla cieca per le strade affollate.
Un passante la bloccò e la tenne ferma alle grida di
Mino.
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