Passeggiare (per) la città. Esplorazione e osservazione

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Passeggiare (per) la città. Esplorazione e osservazione
Mirco Bologna
Passeggiare (per) la città.
Esplorazione e osservazione di Trieste tra Svevo e Saba
Finora in 4 simili viaggi non fissai nulla mentre
prima nei tanti miei lenti movimenti fra il Corso e la
Barriera Vecchia osservai tante e tante cose. (Svevo
2004, 743)
1. In un recente articolo, dal titolo L’immaginario triestino in Saba. Le promenades dai colli
al mare (Bologna 2011) ho cercato di fare luce sulle relazioni tra Saba e la sua città e sull’eredità di
Trieste nella cultura e nella poesia sabiane, allo scopo di definire precisamente l’immagine triestina
quale emerge dalla lettura del Canzoniere. In particolare, ho avanzato una proposta di
interpretazione dei modi di osservazione della città che – a quanto mi risulta – è originale all’interno
della letteratura critica su Saba, e che vorrei provare a estendere alla narrativa sveviana.
Attraverso l’analisi di una serie di componimenti del Canzoniere dedicati a Trieste ho
individuato uno dei leitmotive dell’esplorazione della città nel procedimento della passeggiata, o
promenade appunto, intendendo il termine al modo degli antichi Greci, presso i quali il movimento
fisico era allo stesso tempo una forma di pensiero, fungendo da base allo sviluppo delle idee: i
dialoghi platonici sono un ottimo esempio della pratica di insegnare (e imparare) camminando 1, ed
è noto che anche gli allievi di Aristotele “passeggiavano” nel peripatos per ricevere gli
insegnamenti del maestro. Sopravvissuta fino all’Ottocento come rituale essenzialmente mondano
da celebrare lungo i boulevards cittadini, la passeggiata divenne un vero e proprio genere letterario
con Rousseau, che di fatto la trasformò nuovamente da pratica sociale in pratica meditativa, per
dirla con Alain Montandon, “un luogo e un tempo privilegiati dell’oblio di sé, della distrazione e del
ritorno a sé, […] un movimento di ascesi, di purificazione e di trasgressione rispetto al pensiero
abituale” (Montandon 2006, 95). È quanto avviene sia nelle Confessions sia nelle Rêveries du
promeneur solitaire, dove la passeggiata, fatta per lo più in campagna, ha poco a che vedere con il
mondo esterno, è piuttosto l’occasione di una riflessione che i legami sociali possono soltanto
disturbare2. Dopo la rivoluzione del 1789 nascono altre forme di promenade che hanno luogo in
città, e che soddisfano la curiosità per la nuova entità urbana, cui la letteratura – da Baudelaire in
avanti – comincia a interessarsi. Il promeneur diviene flâneur, uno che gironzola senza meta e che
va a zonzo per dare libero corso ai propri pensieri e perché non ha niente di meglio da fare; è un
perdigiorno che cammina e osserva passando inosservato, e registra le novità dello scenario
cittadino con una predilezione per le innovazioni della modernità (come in Palazzeschi 3) e per le
1
Molti fra i dialoghi platonici hanno un incipit pressoché fisso: Socrate incontra casualmente, per la strada o sulla
piazza di Atene, un compagno con il quale intraprende una conversazione filosofica che segue il ritmo della
passeggiata.
2
In tal senso, assume le forme della passeggiata anche il celebre vagabondare petrarchesco nel sonetto XXXV dei
RVF, dove la ricerca dei «più deserti campi» dovrebbe servire (ma invano, poiché «di fuor si legge com’io dentro
avampi») a tenere l’amore dell’io al riparo dal «manifesto accorger de le genti».
3
Si legga il testo de La passeggiata, in cui il movimento del flâneur, delimitato da formule stereotipe che ne
annunciano l’inizio e la fine, è scandito da una lunga sequenza di nomi di luoghi e strade con i numeri civici, di prodotti
e slogan pubblicitari e di negozi, elencati con uno stile quasi futuristico; come in Baudelaire, la città si è svuotata di
senso perché troppo piena di oggetti e vittima di un effetto di saturazione (Palazzeschi 2002, 295-98).
1
classi inferiori, che meglio ne rappresentano l’abiezione 4. Un esempio abbastanza recente, ed extraletterario, ma molto calzante, in questo senso, è la canzone di Bob Dylan Mr Tambourine Man
(1965), viaggio onirico – e costellato di incontri allucinati – di un flâneur senza meta che dichiara
esplicitamente “there is no place i’m going to” (“non vado da nessuna parte”) e “I have no one to
meet” (“non devo incontrare nessuno”).
Tornando a Saba, il motivo dell’esplorazione del paesaggio triestino è particolarmente
evidente nel trittico di poesie costituito da Trieste, Verso casa e Città vecchia, che costituiva il
punto di partenza della mia analisi, dove la descrizione – talvolta metaforica – della città suggerisce
l’idea di una Trieste che deve essere guardata, anzi compresa e catturata, come dietro a una
macchina da presa, in ciascun suo aspetto, con l’apporto di uno sguardo totalizzante e
onnicomprensivo; in Verso casa (vv. 13-14) si legge: “tutta esplorammo, fino al più remoto / suo
cantuccio, la più strana città”. Il processo di scoperta e di ‘osservazione’ avviene precisamente
attraverso la passeggiata: Trieste è il resoconto di un percorso che conduce l’io lirico sino al
cantuccio al culmine dell’erta, mentre Verso casa e Città vecchia sviluppano il tema del ritorno da
quel percorso, presupponendo perciò un precedente itinerario di ‘andata’ svolto nei luoghi cittadini.
Il procedimento non è però limitato a questo trittico. Ecco un elenco dei passi più significativi:
Solitario il sentier della collina / salivo […]. // Giunto alla vetta, scorsi […] / Trieste
con le chiese e la marina (Da un colle);
Ho attraversata tutta la città. / Poi ho salita un’erta […]. / Da quest’erta ogni chiesa,
ogni sua via / scopro […] (Trieste);
…abbastanza / vagabondammo per giungere a sera […] (Verso casa);
Spesso, per ritornare alla mia casa / prendo un’oscura via di città vecchia (Città
vecchia);
seduto del ritorno a mezza via, / in faccia ai monti annuvolati e al faro (Dopo la
tristezza);
Chi la passeggia [Via del Monte] in queste ultime sere / d’estate […] (Tre vie);
che strazio la lunga erta sassosa / della collina (La malinconia amorosa);
C’è un fanciullo che incontro nelle mie / passeggiate […] // un indistinto ancor
bisogno / di esplorare più addentro che la brulla / collina, e il porto, e lunghe vie remote
(Il fanciullo appassionato);
Quando fino ad un colle o lungo il mare / noi pure usciamo nelle belle sere / a
passeggiare (Dopo una passeggiata);
Giungemmo dove si ritrova il mare, / con spiagge solitarie, onde turchine. / Dai due
arsenali, da tante officine, / da Trieste che amiamo attraversare // tutta al ritorno,
sempre più lontani […] (Più soli);
[…] ancor m’aggiro / io per il porto (Nuovi versi alla Lina 1);
Meglio ch’io faccia come altrove, e vada / cercando intorno a me nella contrada
(Dopo la giovinezza);
Di buon mattino la città attraversi, / variopinta città dove sei nato; / e ti rechi alla
spiaggia […] (Fanciulli al bagno);
[…] per vie o piazze io vada / della città (Il dolore);
Su e giù lungo il Canale / abbiamo fatto un giorno / la passeggiata insieme (La fanciulla e la
gazza);
4
Per l’applicazione degli schemi della promenade alla poesia di Baudelaire l’ovvio rimando è a Benjamin 1962 (in
particolare il capitolo Baudelaire a Parigi, alle pp. 85-154), e 1986; ancora su Baudelaire si veda il ben documentato
Joxe 1967.
2
Ai colli uscivo la sera o al rotondo / lido del mare […] (Autobiografia 7).5
Proviamo a individuare le principali peculiarità della passeggiata in Saba. C’è, innanzitutto,
il suo ritmo pendolare, di andata e ritorno, che permette al passeggiatore di moltiplicare i punti di
vista e di essere sempre al centro della visione. Al movimento si accompagnano l’osservazione, la
ricerca: muoversi nella città è un modo per appropriarsene, e per questo quello di Saba è un
percorso orientato all’esplorazione di Trieste e di ogni suo angolo (i verbi scoprire ed esplorare
sono significativamente frequenti).
È presente in secondo luogo una indubbia componente voyeuristica: l’io lirico è un
osservatore la cui vita sembra consumarsi tutta nelle promenades, per lo più solitarie, che lo portano
dal mare alla collina (o viceversa); percorre la città in lungo e in largo per allontanarsi dalla folla e
godere della propria solitudine, ma anche perché così facendo si dispiega davanti a lui tutta la
varietà dell’esistere, da fermare nella sua immobilità e riunificare sotto il proprio sguardo. Si
potrebbe dire di Saba ciò che Starobinski (1982, 178) ha scritto di Rousseau: “la funzione della
fantasticheria consiste […] nel riassorbire la molteplicità e la discontinuità dell’esperienza vissuta,
inventando un discorso unificante in seno al quale tutto verrebbe a compensarsi”. L’occhio è
catturato dall’eterogeneità e dal frammento; lo sguardo si disperde, si fa panoramico e cede al
desiderio di investigazione della realtà, di cui raccoglie le ‘briciole’ sparse per ridurle a un quadro
unitario.
Infine, la passeggiata è limitata nel tempo e nello spazio. Nel tempo, perché Saba non
trascorre giornate intere nelle vie di Trieste, ma sceglie momenti determinati, in particolare la sera,
quando la folla è meno numerosa e l’operazione di appropriazione della città risulta più facile. Nello
spazio, perché le promenades racchiudono quasi sempre la città entro i limiti (reali e ideali) del
mare – o al suo posto il porto, il molo, gli arsenali – e della collina, ingenerando una visione
dall’alto che pone l’io in una posizione privilegiata, il centro verso cui convergono gli oggetti e i
luoghi osservati, il punto di fuga della prospettiva che li unifica. Come scrivevo nella conclusione
del mio articolo, “proprio nella descrizione di un movimento pendolare di andata e ritorno tra mare
e collina, e nell’insistita ricerca di un punto di osservazione superiore, si trova il vero significato
della promenade lungo le strade triestine. La passeggiata […] è lo strumento scelto da Saba per
tentare di osservare e comprendere Trieste attraverso il possesso da esercitare sui suoi luoghi; […]
di riappropriarsi della città e di farla ancora più sua, cingendola idealmente entro le proprie braccia
e i confini della propria poesia” (Bologna 2011, 75).
2. Veniamo finalmente a Svevo. L’ampia presenza di Trieste nei tre romanzi sveviani è un
elemento ormai accertato e più volte rilevato dalla critica. Come ha scritto Marino Biondi (1990,
67), Trieste è una “città dell’anima, testimone e complice dei personaggi, ambiente-scenario della
vicenda e del destino che le è sotteso, assurge ess[a] stess[a] a personaggio, a deuteragonista muto e
presente, compresente alle azioni, ai gesti, agli stati d’animo delle creature sveviane”6. Le pagine di
Una vita, Senilità e La coscienza di Zeno offrono puntuali riscontri tra i procedimenti di costruzione
e rappresentazione dei personaggi e i metodi di definizione del contesto geografico urbano nel quale
essi agiscono; i personaggi stessi, i fatti e le vicende che li coinvolgono, sono sempre collocati entro
spazi precisi e identificabili, a cui l’autore attribuisce chiari significati simbolici: il Tergesteo è il
cuore pulsante dell’economia della città, il Passeggio di Sant’Andrea e il Giardino Pubblico i luoghi
dell’amore, il Corso (cioè Corso Italia) il teatro delle esibizioni mondane, e così via.
Mi pare tuttavia che, come in Saba, anche in Svevo un momento particolare della
raffigurazione di Trieste sia costituito dalle passeggiate che i protagonisti dei romanzi compiono
lungo le strade della città e della sua periferia. Alfonso, Emilio e Zeno – individualmente, o
5
Cito tutti i testi da Saba 1988 (sono miei tutti i grassetti, qui e nelle citazioni che seguono).
Il testo riproduce la relazione presentata dallo stesso Biondi al congresso internazionale Littérature de frontière et
médiations culturelles. La culture trivénète du 20e siècle entre la région et l’Europe, Grenoble, Université Stendhal –
Institut Culturel Italien, 17-18-19 maggio 1990.
6
3
accompagnati dai personaggi che si muovono intorno a loro – percorrono la propria città in ogni
direzione, salendo alle colline di Servola e Opicina o scendendo fino al mare; siano esse intraprese
per seguire timidamente “qualche gentile figura di donna” (come fa il protagonista di Una vita), per
abbracciare dall’alto il panorama triestino o per rincorrere un angolo di pace, queste promenades
sono uno strumento di riflessione privilegiato, forse l’unico momento in cui l’inetto sveviano si
trova solo con se stesso, disposto a fare i conti – quasi mai positivamente – con la propria malattia e
i propri fallimenti. Mi concentrerò proprio sui tre romanzi, sia perché essi offrono preziose
indicazioni nei termini di un puntuale riconoscimento dei luoghi triestini in cui si svolgono gli
eventi narrati, sia perché qui l’ambiente cittadino è essenziale – con alcune importanti differenze
che cercherò di illustrare – alla definizione e all’evoluzione della figura dell’inetto.
Nel primo romanzo, Una vita, che Svevo pubblica a proprie spese nel 1892 (ma con data
1893), alla base del disadattamento del protagonista c’è l’opposizione tra la città e la campagna, che
l’autore pone in primo piano in due momenti chiave della vicenda: all’inizio, nella lettera che
Alfonso Nitti scrive alla madre, e nel cap. XV, al momento del suo ritorno al villaggio natale dopo
l’amore con Annetta. In entrambi i casi ciò che viene condannato di Trieste è la sua aria grigia e
irrespirabile, ma è evidente che questo grigiore atmosferico nasconde per Alfonso un grigiore più
profondo, che gli impedisce di vivere e accresce la sua incapacità di fronte a chi – come Macario –
si è invece perfettamente identificato con le logiche cittadine:
Qui respirano certa aria densa, affumicata, che, al mio arrivo, ho veduto poggiare sulla
città, greve, in forma di un enorme cono, come sul nostro stagno il vapore d’inverno, il
quale però si sa che cosa sia; è più puro. Gli altri che stanno qui sono tutti o quasi tutti
lieti e tranquilli perché non sanno che altrove si possa vivere tanto meglio. (Svevo 1985,
11-12)
Si fece allo sportello. La città con le sue bianche case alla riva in largo semicerchio
abbracciava il mare e sembrava che tale forma le fosse stata data da un’onda enorme che
l’avesse respinta al centro. Era grigia e triste, una nube sempre più densa sul capo
sembrava da essa prodotta perché a lei unita dalle sue nebbie, l’unica traccia della sua
vitalità. Era là dentro, in quell’alveare, che la gente si affaticava per l’oro, e Alfonso, che
là aveva conosciuto la vita e che credeva che così non fosse che là, respirò liberandosi
con la fuga da quella cappa di nebbia. (257)
Del resto, ben prima di questa fuga di Alfonso si dice esplicitamente che “era venuto in città
apportandovi un grande disprezzo per i suoi abitatori” (Svevo 1985, 78)7. È inoltre un dato di fatto –
come ha sottolineato Elvio Guagnini (1994, 169-70) – che dopo la lettera incipitaria i tre capitoli
successivi hanno lo scopo di approfondire i motivi della diversità di Alfonso, misurandola sul
rapporto con gli ambienti in cui egli trascorre le sue giornate: quello triste dell’ufficio, dove le sue
ambizioni di scrittore lo fanno sentire una specie di ‘sognatore’; quello infimo-borghese della
famiglia Lanucci, nel borgo vecchio, con cui rifiuta in ogni modo di confondersi; quello medioborghese dei Maller, nella parte nuova della città, del quale invece non si sente all’altezza (tale
senso di inferiorità si concretizza nella distanza che separa le due abitazioni, e che ogni volta
Alfonso deve coprire camminando)8. Insieme con i turbamenti suscitati dall’amore per Annetta, è
proprio questa incurabile insofferenza – quasi una sorta di claustrofobia – nei confronti dei luoghi
della vita sociale e professionale a spingere Alfonso a rinchiudersi nella biblioteca civica o a
7
Si leggano anche l’inizio del cap. XVII: «L’arrivo in città fu triste. Mentre fuori fioccava la neve bianca e allegra,
dal mare soffiava lo scirocco e in città piovigginava monotonamente. Alfonso ebbe il triste sentimento che quel tempo
non avesse più a cessare. Non erano nubi distinte su quel cielo, ma fino all’orizzonte un solo strato grigio sucido»
(Svevo 1985, 317), e la fine dell’VIII: «La città, quando al ritorno la vide, gli parve triste. Sentiva un grande malessere,
una stanchezza come se molto tempo prima avesse fatto tanta via e che poi non lo si fosse lasciato riposare mai più»
(109). Parlando di Una vita, Eugenio Montale l’avevo definito «un saggio su un disastroso caso d’inurbamento»
(Omaggio a Italo Svevo, in Svevo, Montale 1976, 73).
8
Si veda a riguardo anche Fiorentini 1994, 295-98.
4
passeggiare per le strade della città; ciò che colpisce è che le sue sono promenades senza meta,
flâneries intraprese talvolta per puro piacere voyeuristico, talvolta per rimanere solo con i propri
pensieri, ciò che però finisce per radicalizzare il suo senso di estraneità, la sua inettitudine:
In tale stato [il desiderio del possesso femminile] non poteva dedicarsi che ad una sola
occupazione, quella di seguire per lunghi tratti di via qualche gentile figura di donna
ammirandola timido e vergognoso. […] Una sera, correndo, si trovò dietro ad una donna
che passando lo aveva guardato. […] Ella attraversò il Corso e imboccò via Cavana […]
– Alla peggio andrò in biblioteca, – pensò Alfonso per dare alla sua passeggiata una
meta sicura. […] Lentamente ella salì l’erta della via dei SS. Martiri lungo il Tribunale
mentre appoggiato ad un paracarro egli si contentava di seguirla con l’occhio. Poi,
quando ella aveva quasi terminata l’erta, egli si avanzò sino al Tribunale. (Svevo 1985,
79)
Non era più quel dolore che poco prima lo aveva cacciato per le vie della città. (174)
Attraversò la piazza, assente in mezzo al frastuono delle venditrici di frutta e
d’erbaggi. (321)
Aveva gironzolato a lungo per le vie, la sera appresso giunse molto tardi a casa.
(373)
Accade però qualche volta che le passeggiate di Alfonso abbiano una destinazione, e
precisamente siano dirette verso le alture che cingono la città: Opicina a nord e Servola a sud-est.
Ecco allora che, come in Saba, lo scenario cittadino si dispiega alla vista dell’osservatore dall’alto,
compreso tra i limiti spaziali della collina e del mare:
Si propose da prima di seguire una compagnia di soldati che uscivano all’esercizio. Il
suono del loro passo pesante e misurato sul selciato lo infastidì. Salì la via Stadion quasi
di corsa per allontanarsi da essi che seguivano la stessa via. Voleva giungere
all’altipiano. La fatica per quel primo giorno sarebbe stata bastante. […] Desiderava il
verde del colle che giaceva alla sua destra, non il paesaggio sconsolante dell’altipiano.
[…] Lo riprese il desiderio di correre, l’ambizione di giungere lontano. […] Varcò un
altro viale ed un altro boschetto sempre salendo senza meta. […] Un lembo della città
era visibile. Una ventina di case ammucchiate, poi altre singole sparse sul colle
dirimpetto. In fondo un pezzo di mare azzurro con barche immobili. Il cielo chiaro
senza nubi fino all’orizzonte, il verde della campagna, quelle case gettate là a caso gli
ricordavano un’oleografia in cui i colori erano stati eguagliati dalla macchina […].
(Svevo 1985, 93-95)
Faceva ogni mattina una passeggiata di più ore e solitamente verso l’altipiano
perché gli occorreva la fatica della salita. Col suo passo misurato […] percorreva tutta
la lunga strada d’Opicina spaziosa e comoda, la quale, lunghissima, con debole salita, in
un solo giro, enorme semicerchio intorno alla città, lo portava sino all’altipiano. […] Di
là vedeva anche la città con le sue case bianche, il mare abitualmente tanto calmo di
mattina […]. Il verde dei promontori a sinistra della città e il colore del mare
contrastavano singolarmente con i sassi grigi dell’altipiano. […] Nelle strade del
villaggio a quell’ora cominciava il formicolio e da lontano si vedevano accennate tutte le
esteriorità dell’attività e dei destini umani in quelle poche figure che si movevano per le
stradicciuole del piccolo luogo. (97-98)
Macario rimase assente per tutto il mese di marzo e Alfonso fece le sue passeggiate
alla mattina con Gustavo il quale era mattiniero, unica buona abitudine a cui si fosse
riusciti a costringerlo. Erano passeggiate brevi a un colle situato circa mezz’ora di
cammino lontano dalla città. Giuntivi, Alfonso cercava l’ombra e si sedeva. (196)
5
Quest’ultima notazione rappresenta uno stringente punto di contatto con la poesia triestina di
Saba: l’ombra che Alfonso cerca al culmine dell’ascesa, e presso la quale trova quiete, è la stessa
del muricciolo dei primi versi di Trieste, il “cantuccio in cui solo / siedo” (vv. 6-7), al termine del
quale termina anche la città. Ma, come abbiamo detto a proposito dell’io lirico sabiano, anche per
l’io narrativo di Una vita le promenades verso la collina servono soprattutto a guadagnare un punto
di osservazione superiore dal quale misurare l’estensione della città e, al tempo stesso, la lontananza
– in senso sociale oltre che geografico – da essa; è un modo di prendere le distanze aprendosi uno
spazio dell’unicità di fronte agli altri (della trasparenza del sé a se stesso, per dirla ancora con
Montandon [2006, 94]).
3. In Senilità (1898) Trieste è soprattutto lo sfondo dell’amore tra Emilio e Angiolina; si
potrebbe dire anzi che l’intera città è misurata sulla passione del protagonista, sugli appuntamenti
che i due si danno e sugli spostamenti cui sono costretti per celarsi alla vista degli altri amanti. È
significativo che il loro primo incontro avvenga proprio per le strade della città: l’ombrellino di
Angiolina cade, impigliandosi nel vestito di lei all’altezza della vita, ed Emilio immediatamente ne
approfitta “con l’idea di trovare un’avventura facile e breve, di quelle che egli aveva sentito
descrivere tanto spesso e che a lui non erano toccate mai o mai degne di essere ricordate” (Svevo
1985, 417). Del resto, Angiolina è una donna di strada – la sua condotta è al limite della
prostituzione – e che cerca la strada per esibirsi al desiderio degli uomini e alle loro occhiate avide:
Angiolina seria? Anche prima dell’entrata in scena del Merighi ella doveva aver
cominciato a far le sue esperienze sui maschi. Già da giovinetta la si vedeva trottare per le
vie di città vecchia in compagnia di ragazzi – le piacevano gl’imberbi, – ad ore non
permesse. Il Merighi capitò in tempo per portarla in città nuova che, dopo di lui, restò il
campo della sua attività. (503)
Anche Emilio, come prima di lui Alfonso, passeggia per le vie di Trieste. Tuttavia, lo fa in
modi e con scopi differenti a seconda delle circostanze. Nella prima parte del libro le sue sono
passeggiate romantiche fatte in compagnia dell’innamorata, lungo l’Adriatico o verso Opicina; il
loro ritmo è lento e pacato, il loro tragitto lineare e privo di interruzioni, sono promenades con cui
Emilio cerca di allontanare se stesso e il proprio amore dagli sguardi indiscreti e dal “formicaio”
della folla (477), e che ancora una volta contribuiscono a racchiudere lo spazio cittadino entro i
limiti ideali del mare e della collina:
Ad onta dell’oscurità, la riconobbe subito alla svolta del Campo Marzio. […] La
condusse verso il mare, lontano dal viale ove si movevano ancora alcuni passanti, e, alla
spiaggia, si sentirono ben soli. […] là, fuori, nel mare, c’era uno scintillìo iridescente
che pareva il sole fosse passato da poco e tutto brillasse ancora della luce ricevuta. Alle
due parti, invece, l’azzurro dei promontorii lontani era offuscato dalla notte più tetra.
Tutto era enorme, sconfinato e in tutte quelle cose l’unico moto era il colore del mare.
(425-26)
[…] ella venne per essere per qualche ora tutta sua; là, a Sant’Andrea, a quell’ora, non
v’erano dei passanti che gliene rubassero l’attenzione. […] Ci misero circa un’ora ad
arrivare all’Arsenale […], l’Arsenale che giaceva sulla riva, tutta una città, in quell’ora,
morta. (453-54)
Si trovavano sempre all’aperto. Amarono in tutte le vie suburbane di Trieste. Dopo i
primi appuntamenti, abbandonarono Sant’Andrea ch’era troppo frequentato e per
qualche tempo preferirono la strada nuova d’Opicina fiancheggiata da ippocastani
folti, larga, solitaria, una salita lenta quasi insensibile. Si fermavano a un pezzo di
muricciolo [e si ricordino il “muricciolo” e il “cantuccio” di Saba] che divenne la meta
delle loro passeggiate soltanto perché la prima volta vi si erano assisi. Si baciavano
lungamente, la città ai loro piedi, muta, morta, come il mare, di lassù niente altro che una
grande estensione di colore misterioso, indistinto: e nell’immobilità e nel silenzio, città,
6
mare e colli apparivano di un solo pezzo, la stessa materia foggiata e colorita così da
qualche artista bizzarro, divisa, tagliata da linee segnate da punti gialli, i fanali delle vie.
(430-31)
Poi preferirono i boschetti del colle al Cacciatore; sentivano sempre più il bisogno di
segregarsi. Sedevano accanto a qualche albero e mangiavano, bevevano e si baciavano.
(431)
In un secondo momento, però, quando il rapporto comincia a incrinarsi e l’amore di Emilio
si trasforma in gelosia per i tradimenti della donna, anche le passeggiate cambiano radicalmente. Se
prima camminava a fianco di Angiolina, ora le sue promenades sono solitarie, e hanno un ritmo non
più placido e rilassato ma frenetico; sono diventate quasi corse, anzi veri e propri pedinamenti
furtivi: Emilio, più che percorrere, perlustra e ‘fruga’ le strade della città, gli angoli bui del borgo
vecchio, i quartieri dove l’amata nasconde le sue storie illecite. Trieste vive e si innerva degli
spostamenti di Angiolina, illuminandosi ovunque il protagonista avverta la sua presenza, sola o con
altri uomini; anche la sintassi si fa più nervosa, scattante, quasi dovesse seguire i continui
inseguimenti del protagonista:
Che cosa gli restava da fare per quella sera? Si diresse verso casa per coricarsi. Ma,
giunto al Chiozza, si fermò a guardare verso la stazione, la parte della città ove Angiolina
faceva all’amore con l’ombrellaio. (488-89)
Ricordò ch’era probabile che Angiolina rincasasse dalla parte di via Romagna. Col
suo passo rapido egli avrebbe ancora potuto raggiungerla. […] si mise a correre. […] Se
essi rincasavano da quella parte, non sarebbe stato più sicuro, per ritrovarli, di salire alla
via Fabio Severo dalla parte del Giardino Pubblico e discenderne andando loro incontro
per via di Romagna? La corsa non gli faceva paura e avrebbe impreso quel giro enorme;
ma in quella gli parve di veder passare dinanzi al caffè Fabris, Angiolina accompagnata
da Giulia e da un uomo che doveva essere l’ombrellaio. […] Giunto sotto all’erta di via di
Romagna non vide più le tre persone che dovevano averla già passata. Camminò più
presto colto da un dubbio che l’affannò quanto la salita. E se non fosse stata Angiolina?
(490-91)
Si avviò verso il Corso. Era possibile che Angiolina passasse di là per andare al lavoro
dai Deluigi. (501)
Sembra di rivedere qui gli spostamenti di Giorgio, ne L’assassinio di via Belpoggio (1890):
sono molto simili l’andatura irregolare, il procedere spezzato, i frequenti cambi di direzione, benché
lì il protagonista sia oggetto, e non soggetto, dell’inseguimento.
Ci sono infine circostanze in cui la passeggiata, fatta rigorosamente da solo, è necessaria
affinché Emilio analizzi se stesso e rifletta sul proprio fallimento: il testo lo dice esplicitamente,
mettendo in relazione movimento e pensiero. Come abbiamo anticipato, questi sono i momenti in
cui l’inetto sveviano è disposto – poco importa se consciamente o inconsciamente – a fare i conti
con la propria ‘malattia’:
Quando si separarono, egli volle ancora analizzare le proprie impressioni e
camminò solo, senza direzione. Un lampo d’energia rese il suo pensiero rapido e
intenso. S’era imposto un problema e subito lo risolse. Avrebbe fatto bene di lasciarla
immediatamente e non più rivederla. Non poteva più ingannarsi sulla natura dei suoi
sentimenti, perché il dolore che poco prima aveva provato era troppo caratteristico con
quella vergogna per lei e per se stesso! (450-51)
[Camminò] per l’antica abitudine di ripiegarsi su sé stesso e analizzarsi […]. Alla
riva, dopo di aver guardato l’orologio, si fermò. Qui il tempo appariva peggiore che non
in città. Al sibilare del vento si univa imponente il clamore del mare, un urlo enorme
composto dall’unione di varie voci più piccole. […] Ad Emilio parve che il tramestio si
7
confacesse al suo dolore. Vi attingeva ancora maggiore calma. […] egli vedeva
l’impassibilità del destino. (613-14)
4. Rispetto a questo ‘sdoppiamento’ delle modalità e dei significati della passeggiata, che è
possibile rilevare in Senilità, nell’ultimo romanzo le cose si complicano ulteriormente. Infatti, se è
possibile raggruppare i capitoli della Coscienza secondo i tre principali nuclei tematici del libro (la
malattia di Zeno: Il fumo, La morte di mio padre, Psico-analisi; i suoi rapporti con le donne: La
storia del mio matrimonio, La moglie e l’amante; gli affari/il denaro: Storia di un’associazione
commerciale), ad essi corrispondono anche tre diversi generi di passeggiata, riconducibili però a un
medesimo schema di comportamento da parte del protagonista.
Ancora una volta il movimento appare come uno dei tratti essenziali del personaggio: come
Alfonso Nitti, anche Zeno Cosini preferisce la strada agli ambienti chiusi – in primo luogo quello
domestico – come se soltanto all’aria aperta fosse libero di vivere e affrontare i propri ‘fantasmi’.
Cominciamo dall’amore. Le passeggiate romantiche sono quelle con l’amante, Carla,
preferibilmente al Giardino pubblico o lungo il corso:
Percorremmo a piedi la Corsia Stadion, traversammo il Giardino Pubblico. Era
una parte della città ch’io non vedevo mai. (Svevo 1987, 179)
Precisamente agli albori di quella primavera, dovetti accettare di andar a
passeggiare con Carla al Giardino Pubblico. (253)
Io con lei raggiunsi soltanto ma varie volte il Giardino Pubblico, quella pietra miliare
dei miei trascorsi […] (255)
– Ebbene – proposi – camminiamo così, tenendoci per mano, traverso tutta la
città. In questa posizione insolita, per farci meglio osservare, passiamo la Corsia Stadion
eppoi i volti di Chiozza e giù giù traverso il Corso fino a Sant’Andrea per ritornare alla
camera nostra per tutt’altra parte, perché tutta la città ci veda. (268)
È significativo che nel romanzo non ci sia traccia di passeggiate con la moglie, nemmeno
nel periodo del fidanzamento; se infatti la vita coniugale rimane confinata dentro casa, dove l’inetto
subisce le imposizioni altrui, è agito (ed è sempre nell’abitazione dei Malfenti che si svolge il
curioso teatrino del corteggiamento di Ada, Alberta e Augusta), lo spazio delle avventure adulterine
non può che essere quello aperto delle promenades lungo le vie triestine, in cui Zeno può agire e
prendere l’iniziativa. Lo stesso accade con Guido, prima rivale in amore di Zeno, quindi suo
cognato e socio in affari; proprio nel corso di una passeggiata in sua compagnia il protagonista trova
quasi la forza di sfogare in un gesto finale l’odio e la gelosia nei suoi confronti:
Finito il suo gelato, Guido sentì il bisogno di una boccata d’aria fresca e m’indusse ad
accompagnarlo ad una passeggiata verso la periferia della città. […] Arrivammo sotto la
via Belvedere. Guido disse che un po’ di salita ci avrebbe fatto bene. […] Lassù […] egli
si sdraiò sul muricciuolo che arginava la via da quella sottostante. Gli pareva di fare un
atto di coraggio esponendosi ad una caduta di una diecina di metri. Sentii dapprima il
solito ribrezzo al vederlo esposto a tanto pericolo, ma poi ricordai il sistema da me
escogitato quella sera stessa, in uno slancio di improvvisazione, per liberarmi da
quell’affanno e mi misi ad augurare ferventemente ch’egli cadesse. […] Debbo
confessare ch’io in quel momento m’accinsi veramente ad uccidere Guido! Ero in
piedi accanto a lui ch’era sdraiato sul basso muricciuolo ed esaminai freddamente come
avrei dovuto afferrarlo per essere sicuro del fatto mio. Poi scopersi che non avevo
neppur bisogno di afferrarlo. Egli giaceva sulle proprie braccia incrociate dietro la
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testa, e sarebbe bastata una buona spinta improvvisa per metterlo senza rimedio
fuori d’equilibrio. (146-47)9
Infine Zeno, al pari dei suoi due predecessori, passeggia da solo. È possibile ritrovare nella
Coscienza le peculiarità delle passeggiate solitarie dei romanzi precedenti: i limiti estremi del mare
e della collina, lo sguardo voyeuristico (che si esercita di preferenza sul corpo femminile), ma
soprattutto lo stretto legame tra movimento e pensiero; è proprio grazie a questo legame che,
nell’ultimo capitolo, il protagonista prende coscienza della propria ‘salute’ al confronto della
malattia altrui:
Corsi subito in cerca di Giovanni. […] Alte vecchie case che offuscavano una via
tanto vicina alla riva del mare poco frequentata all’ora del tramonto, e dove potei
procedere rapido. […] Poi, giunto in via Cavana, dovetti rallentare per la folla che
ostruiva la stretta via. […] Nell’affollata via Cavana avevo dunque pensato più
drittamente che nel mio studio solitario. (98-99)
[…] preferivo da qualche tempo il Giardino Pubblico quale meta delle mie
passeggiate. (185)
Avevo tutto il tempo per arrivare all’appuntamento e attraversai lentamente la città
guardando le donne (303)
Il mio passo si fece più rapido. Mi beavo di sentirlo tanto leggero. Scendendo dalla
collina di Servola s’affrettò fin quasi alla corsa. Giunto al passaggio di Sant’Andrea, sul
piano, si rallentò di nuovo, ma avevo sempre il senso di una grande felicità. L’aria mi
portava. (398: Zeno sta tornando dal funerale di Guido)
Cammino per le vie della nostra misera città, sentendo di essere un privilegiato
che non va alla guerra e che trova ogni giorno quello che gli occorre per mangiare. (429)
5. La passeggiata è insomma un modo per fare esperienza della propria solitudine, per
rifugiarsi in se stesso e proteggersi da un mondo esterno – quello dell’amore, del lavoro, delle
regole sociali – che lancia costantemente sguardi di biasimo e di disapprovazione; questo sollievo,
questa rottura del tempo quotidiano sono destinati a finire, perché ogni passeggiata, pur consistendo
in un’uscita da casa e da sé, presuppone sempre un ritorno, una limitazione nel tempo. Una
testimonianza di quanto questo gesto sia utile per Svevo si trova in una composizione in inglese che
lo stesso autore stese per esercitarsi nella lingua che stava studiando, e in cui descrisse
l’amico/insegnante Joyce, indicando proprio nella propensione alle promenades uno dei tratti più
eccezionali della sua personalità. Eccone un breve estratto (mia la traduzione)
When I see him walking on the street I always think that he is enjoying a leisure, a full
leisure. Nobody is awaiting him and he does not want to reach an aim or to meet
anybody. No! He walks in order to be left to himself. He does not walk for health. He
walks because he is not stopped by anything. […] Perhaps he may see less than it is
supposed from his appearance but he looks like a being who moves in order to see.
(Marani 2003, 77)
Quando lo vedo passeggiare per strada penso sempre che si diverta, che provi un pieno
godimento. Nessuno lo aspetta e lui non vuole raggiungere alcuno scopo né incontrare
nessuno. No! Passeggia per essere lasciato a se stesso. Non passeggia per salubrità.
Passeggia perché niente lo ferma. […] Forse riesce a vedere meno di quanto l’apparenza
lasci supporre, ma osserva come chi si muove con lo scopo di vedere.
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Al termine di una seconda passeggiata con Guido, Zeno tornerà a riflettere sul suo desiderio di un tempo: «Senza
esserci accordati sulla direzione della nostra passeggiata, avevamo finito come l’altra volta sull’erta di via Belvedere.
Trovato il muricciuolo su cui s’era steso quella notte, Guido vi salì e vi si coricò proprio come l’altra volta. […] Io […]
ricordai che in quel luogo l’avevo voluto uccidere, e confrontando i miei sentimenti di allora con quelli di adesso,
ammiravo una volta di più l’incomparabile originalità della vita» (Svevo 1987, 336).
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