Italo Svevo - Collegio San Giuseppe

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Italo Svevo - Collegio San Giuseppe
Italo Svevo
Aron Ettore Schmitz (Trieste, 19
dicembre 1861 – Motta di Livenza, 13
settembre 1928
Nasce a Trieste da una benestante
famiglia ebraica, il padre Franz
Schmitz era un commerciante
tedesco, la madre era italiana;
entrambi sono di origine israelita.
Con lo pseudonimo che assumerà
intende conciliare le due
componenti della sua origine.
Trieste, porto dell’impero austriaco, è allora
punto di incontro privilegiato tra etnie e culture
diverse.
Dopo i primi studi è inviato dal padre in
collegio in Germania.
Rientra a Trieste nel 1878 e frequenta
studi di indirizzo commerciale.
Nel 1880, dopo il fallimento dell’azienda
paterna, si impiega presso una banca,
dove lavorerà per vent’anni.
E’ però interessato alla letteratura: legge i
classici e i moderni, si interessa alle teorie
evoluzionistiche e inizia a scrivere per un
giornale di orientamento irredentista, passando
poi alla stesura di testi letterari.
Nel 1892 muore il padre. Svevo pubblica Una
vita.
Dopo la morte della madre nel 1895 sposerà la
lontana cugina Livia Veneziani.
Nel 1897 nasce la figlia. Svevo lavora in banca e
collabora con il quotidiano Il Piccolo. Si avvicina al
marxismo.
Nel 1898 pubblica il secondo romanzo, Senilità, che
passa, come il primo, completamente inosservato alla
critica.
Svevo decide quindi di rinunciare alle
ambizioni letterarie ed entra
nell’azienda del suocero.
Nel 1905 conosce lo scrittore
irlandese James Joyce.
Alcuni anni dopo, quando il cognato
entra in cura da uno psicologo, entra
in contatto con le idee di Sigmund
Freud.
Allo scoppio della guerra rimane a Trieste e
riprende a scrivere.
Dopo la fine del conflitto pubblica la traduzione
de L’interpretazione dei sogni di Freud e lavora a
La coscienza di Zeno, che pubblicherà nel 1923.
Svevo muore nel 1928 in un incidente d’auto.
Pluralismo linguistico:
Dialetto triestino
Lingua tedesca
Lingua italiana
Lingua francese
Lingua inglese
Riprende la suddivisione di Shopenhauer tra lottatori e contemplatori,
preferendo però parlare di sani e malati.
Coloro che seguono ciò che la
“volontà di vivere” richiede loro,
perfettamente integrati nell’ordine naturale.
Si sottraggono alla vita, non
riescono a godere i beni che
essa offre loro, risultano deboli
e infelici.
I sani CREDONO DI VIVERE, ma non vivono veramente, sono forti e vincenti
solo in apparenza, esauriscono più rapidamente la loro energia.
I malati si sottraggono al logoramento dell’esistenza, ma si adattano prima e
meglio ai cambiamenti.
Ispirandosi alle teorie di Darwin, ma ribaltandole, Svevo ritiene che
non sia il forte ad adattarsi all’ambiente, ma il debole.
Questo tipo di disadattato, di inetto sarà il protagonista dei
romanzi: in Una vita sarà ancora presentato come lo sconfitto, ma
assumerà ne La coscienza di Zeno il significato positivo della
propria condizione.
Una vita
• Inizialmente intitolato Un inetto, fu pubblicato nel
1892 a spese dell’autore.
• Narratore esterno, apparentemente il romanzo
ha struttura da narrazione verista.
• Elemento centrale però non è l’osservazione
della realtà sociale ma la coscienza, il conflitto
interno alla psiche del protagonista (il punto di
vista prevalente coincide con quello di Alfonso)
Alfonso si figurava che il malessere generale che provava dipendesse dal
bisogno che aveva il suo organismo di stancarsi, di esaurirsi. Si era anche
fatto di quest’organismo una concezione plastica che riformava ad ogni
novella sensazione. Alla sera, dopo una giornata passata in mezzo alle
cifre o correndo per la banca oppure con la penna sulla carta e il pensiero
altrove, immaginava che nel suo corpo si movesse una materia
abbondante attraverso a vasi molli incapaci di resistere o di regolare. Se
poteva, faceva allora delle grandi passeggiate e il malessere scompariva.
(…) Se si metteva a studiare, deposto il libro, si sentiva la mente stanca,
una strana sensazione alla fronte come se il volume di dentro avesse
voluto ingrossare, allargare il contenente. Si sentiva calmo precisamente
come se si fosse stancato correndo; vedeva lucidamente e i sogni o erano
voluti o mancavano. Ben presto anche il tempo dedicato alle passeggiate
venne assorbito dallo studio; occorreva meno tempo per calmarsi con lo
studio che con le corse. Una sola ora passata su qualche difficile opera
critica lo quietava per un’intiera giornata. Inoltre, in poco tempo, gli era
venuta l’ambizione e lo studio era divenuto il mezzo a soddisfarla. Le
cieche obbedienze a Sanneo, le sgridate che giornalmente gli toccava
sopportare, lo avvilivano; lo studio era una reazione a
quest’avvilimento. Dinanzi ad un libro pensato faceva sogni da
megalomane, e non per la natura del suo cervello, ma in seguito alle
circostanze; si trovava ad un estremo, si sognava nell’altro.
Ora, ora appena comprendeva perché, dopo raggiunto lo scopo cui aveva
mirato da sì lungo tempo, anziché felice si sentisse inquieto e disgustato.
Non era così ch’egli avrebbe voluto ottenere la ricchezza, anche
rassegnandosi a riceverla da Annetta. Si rammentava di aver sperato di
raggiungere il medesimo scopo per tutt’altra via. Annetta avrebbe
dovuto dichiarargli serenamente ch’ella lo amava e che riconosceva di
non saper porre il proprio destino in migliori mani che nelle sue! Molto
tempo prima aveva riconosciuto ch’era inammissibile che il suo sogno si
realizzasse ed era proceduto oltre trascinato dalla sensualità, non da altri
scopi. Annetta era la più colpevole fra i due perché le scuse ch’egli aveva
trovate per sé, per lei non sussistevano. Ella aveva agito per sensualità e
per vanità, dal principio sino alla fine. (…) Così egli s’era ritrovato con
un sentimento che aveva finito coll’essere simile a quello di Annetta:
cessava quando cessava il desiderio. Eppure più di qualunque altro
dubbio lo turbava la compassione che gli destava Annetta. Ella era stata
colpita proprio nella parte più importante della sua vita, nella sua
superbia, e prima o poi ne avrebbe sofferto orribilmente.
Senilità (1898)
Dal punto di vista sociale Emilio è un intellettuale piccolo borghese
(soprattutto in virtù di un romanzo scritto negli anni della
giovinezza). Dal punto di vista psicologico, invece, egli è un "inetto",
un uomo che mente a se stesso pur di non scoprirsi misero e finito. Il
protagonista sveviano si difende dal mondo che lo circonda
riparandosi entro le mura del nido domestico e sotto le ali protettrici
di Amalia, una sorella che è, nel contempo, figura materna. Da vile e
incapace qual è, Emilio sogna l’uscita dal nido e il godimento dei
piaceri della vita e, quando finalmente nella sua esistenza appare
Angiolina, in lei vede incarnati i simboli della pienezza vitale e della
stessa salute fisica.
Tuttavia, sarà proprio nel rapporto con Angiolina -per Emilio sostanziale
rapporto con la realtà- che emergerà l'inettitudine e l'immaturità del
protagonista.
“La sua famiglia? Una sola sorella non ingombrante né fisicamente né
moralmente, piccola e pallida, di qualche anno più giovane di lui, ma più
vecchia per carattere o forse per destino. Dei due, era lui l’egoista, il
giovane; ella viveva per lui come una madre dimentica di se stessa, ma ciò
non impediva a lui di parlarne come di un altro destino importante legato
al suo e che pesava sul suo, e così, sentendosi le spalle gravate di tanta
responsabilità, egli traversava la vita cauto, lasciando da parte tutti i
pericoli ma anche il godimento, la felicità.”
“A trentacinque anni si ritrovava nell’anima la brama
insoddisfatta di piaceri e di amore, e già l’amarezza di
non averne goduto, e nel cervello una grande paura di se
stesso e della debolezza del proprio carattere, invero
piuttosto sospettata che saputa per esperienza.”
La carriera di Emilio Brentani si componeva di due occupazioni e due scopi ben
distinti. Da un impieguccio di poca importanza presso una società di assicurazioni,
egli traeva giusto il denaro di cui la famigliuola abbisognava. L’altra carriera era
letteraria e, all’infuori di una riputazioncella, – soddisfazione di vanità più che
d’ambizione – non gli rendeva nulla, ma lo affaticava ancor meno. Da molti anni,
dopo di aver pubblicato un romanzo lodatissimo dalla stampa cittadina, egli non
aveva fatto nulla, per inerzia non per sfiducia.
Per la chiarissima coscienza ch’egli aveva della nullità
della propria opera, egli non si gloriava del passato,
però, come nella vita così anche nell’arte, egli credeva
di trovarsi ancora sempre nel periodo di preparazione,
riguardandosi nel suo più segreto interno come una
potente macchina geniale in costruzione, non ancora in
attività. Viveva sempre in un’aspettativa non paziente,
di qualche cosa che doveva venirgli dal cervello, l’arte,
di qualche cosa che doveva venirgli di fuori, la fortuna,
il successo, come se l’età delle belle energie per lui non
fosse tramontata.
Angiolina, una bionda dagli occhi azzurri
grandi, alta e forte, ma snella e flessuosa, il
volto illuminato dalla vita, un color giallo di
ambra soffuso di rosa da una bella salute,
camminava accanto a lui, la testa china da un
lato come piegata dal peso del tanto oro che la
fasciava, guardando il suolo ch’ella ad ogni
passo toccava con l’elegante ombrellino come
se avesse voluto farne scaturire un commento
alle parole che udiva.
Egli s’era avvicinato a lei con l’idea di trovare un’avventura facile e breve, di
quelle che egli aveva sentito descrivere tanto spesso e che a lui non erano
toccate mai o mai degne di essere ricordate. Questa s’era annunziata proprio
facile e breve.
Lungamente la sua avventura lo lasciò squilibrato, malcontento. Erano passati
per la sua vita l’amore e il dolore e, privato di questi elementi, si trovava ora col
sentimento di colui cui è stata amputata una parte importante del corpo. Il
vuoto però finì coll’essere colmato. Rinacque in lui l’affetto alla tranquillità, alla
sicurezza, e la cura di se stesso gli tolse ogni altro desiderio.
Anni dopo egli s’incantò ad ammirare quel
periodo della sua vita, il più importante, il più
luminoso. Ne visse come un vecchio del ricordo
della gioventù. Nella sua mente di letterato
ozioso, Angiolina subì una metamorfosi strana.
Conservò inalterata la sua bellezza, ma acquistò
anche tutte le qualità d’Amalia che morì in lei
una seconda volta. Divenne triste,
sconsolantemente inerte, ed ebbe l’occhio
limpido ed intellettuale. Egli la vide dinanzi a sé
come su un altare, la personificazione del
pensiero e del dolore e l’amò sempre, se amore è
ammirazione e desiderio. Ella rappresentava
tutto quello di nobile ch’egli in quel periodo
avesse pensato od osservato.