LETTURE TEOLOGICHE

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LETTURE TEOLOGICHE
LETTURE TEOLOGICHE
I Classici della Spiritualità Cristiana: “Il castello interiore di Santa Teresa”
Vicariato di Roma, Sala della Conciliazione, 30 gennaio 2014
Intervento di padre di P. ANTONIO MARIA SICARI ocd
Istituto Teologico PP. Carmelitani Scalzi di Brescia
Prima di iniziare, desidero soffermarmi con voi, davanti a Teresa, in un breve sosta di
ammirazione, citando alcuni autorevoli giudizi che sono stati dati su di Lei:
– Charles de Foucauld (che dal giorno della conversione in poi non smise mai di leggere e
rileggere le opere della Santa carmelitana) diceva: «Santa Teresa è uno di quegli autori che
diventano come il pane quotidiano»1. E agli amici spiegava: «Non si può mai leggere troppo S.
Teresa, o rileggerla troppo: vi si trova un insieme senza confronti di esempi, di virtù e una
dottrina perfettamente sicura: che spirito apostolico! Come quella di Dio, la sua carità si
estendeva a tutti gli uomini. Come veniva portata, dall’Amore di Gesù, all’amore delle
anime!»2.
– M. de Unamuno commentava con fierezza: «Altri popoli ci hanno lasciato soprattutto
istituzioni, libri; noi abbiamo lasciato anime. Santa Teresa vale per qualsiasi istituzione, per
qualsiasi “Critica della ragion pura”»3.
– E. Cioran si diceva convinto che “La mistica spagnola è un momento divino della storia
degli uomini”4.
I
INTRODUZIONE SUL CARISMA DI SANTA TERESA D’AVILA
Il valore plenario della preghiera*
“Ciò che caratterizza Santa Teresa d’Avila e il suo insegnamento è questo: per la prima volta,
nella storia della spiritualità cristiana, la preghiera viene assunta a valore unificatore di tutta
la vita spirituale… La concezione teresiana della preghiera fa sì che questa venga assunta
come valore plenario…”.
Così scriveva autorevolmente, nel 1964, il carmelitano p. Anastasio Ballestrero5 (allora
Superiore Generale dell’Ordine e, più tardi, Cardinale di Torino), mostrando come Teresa aveva
1
Lettera del 10 ottobre 1915
Lettera del 28 aprile 1916.
3
Del sentimento trágico de la vida, in Obras Complétas, Escelicer, Madrid 1968, vol, VII p. 298.
4
Lacrime e Santi, Adelfi, Milano 1990, p. 14.
*
Per questo primo paragrafo cfr. A. M. SICARI, La contemplazione ecclesiale di S. Teresa d’Avila, in Atti
del IX Simposio della Facoltà di Teologia: (A cura di Laurent Touze, La contemplazione cristiana:
esperienza e dottrina LEV,.Pontificia Università della Santa Croce Roma, 10-11 marzo 2005, Città del
Vaticano, 2007, 127-149).
5
Cfr. Rivista di Vita Spirituale, 1964, p. 26. Le opere di santa Teresa sono citate di solito con le sigle: V
(Libro de la Vida); C (Camino de perfección); CE (Camino, red. Esc.); M (Las Moradas); F (Las
Fundaciones); REL (Las Relaciones); PAD (Conceptos del amor de Dios); E (Exclamaciones del alma a
Dios).
2
1
interpretato e vissuto il comandamento centrale della sua Regola, di “pregare notte e giorno,
senza interruzione”.
A) LA PREGHIERA DELLA VIDA
C’è un modo molto semplice per capire subito l’origine dell’esperienza teresiana e del suo
magistero, e per intuire in un solo istante il dono che Santa Teresa di Gesù ha ricevuto per la
Chiesa: quale sia stato, cioè, il suo personalissimo “carisma”. Basta per questo leggere le prime
tre righe del Prologo della sua Autobiografia: «…Me han mandado para que escriba el modo
de oraciòn y las mercedes que el Señor me ha hecho». Fu accingendosi a “obbedire” ai
confessori (che le ingiungevano di dar conto del suo modo di pregare e delle grazie ricevute
nell’orazione) che Teresa ebbe piena consapevolezza di ciò che aveva maturato negli anni, con
lungo travaglio. Comprese cioè che, per raccontare la storia della sua preghiera, doveva
necessariamente raccontare la storia della sua vita: la sua preghiera aveva, infatti, le stesse
ragioni e le stesse dimensioni della vita. Per spiegare come pregava a cinquant’anni6, e le grazie
di cui Dio la ricolmava nell’orazione, lei doveva dunque raccontare tutte le vicende della sua
esistenza, già a partire da quando aveva gustato i primi grandi fervori dell’infanzia e aveva poi
malauguratamente lasciato che si smorzassero.
La preghiera è una vita e la vita è una preghiera: questa era ormai la persuasione di Teresa. La
nostra storia profonda è fatta di tutte le parole che Dio ci ha rivolto fin dal primo istante della
nostra esistenza (ancora nel seno di nostra madre) e poi in tutti gli incontri e negli avvenimenti
della vita, e poi nelle grazie innumerevoli che Egli ci ha concesso. Ed è fatta anche di tutte le
risposte che Gli abbiamo dato: di tutte le parole che Gli abbiamo rivolto, di tutte quelle che
abbiamo trascurato di dirGli, e perfino di quelle che non abbiamo nemmeno saputo pronunciare.
Ma è una storia che tende irresistibilmente a lasciare la Parola a quel Dio che ci inabita e che
vuole coinvolgerci nel suo amoroso dialogo intra-trinitario.
Alcuni studiosi vorrebbero assegnare alla Vida di Teresa «la data di nascita dell’intimità
moderna», cioè: l’inizio di quella particolare letteratura  che diventerà sempre più imponente 
nella quale il soggetto “parla di sé”, delle sue vicende personali e intime, dettagliatamente,
senza temere di sviscerarle ed esporle agli occhi dei lettori. Forse si può anche acconsentire a
questo giudizio, purché resti indiscutibile che l’intimità teresiana è di un genere tutto
particolare: non è l’intimità di un io che si contempla e si espone agli occhi altrui, ma una
«intimità abitata da Dio», e l’io non cerca di mostrarsi, ma di mostrarLo. Per questo la Vida
che ella ci ha lasciato non è la autobiografia di Teresa, ma è la Vita di Dio in lei.
Vale perciò, anche per il racconto della sua Vida, quell’invocazione con cui lei si rivolgeva al
suo Signore chiamandolo «¡O Vida de mi vida!» (7M 2,6)7 .
B) IL CAMINO DE PERFECCIÓN: “PENDANT COMUNITARIO” DELLA VIDA
Teresa scrisse il Cammino di perfezione per le monache del suo primo piccolo monastero, per
ripagarle del fatto che era impossibilitata a mettere nelle loro mani il Libro de la Vida dal quale
avrebbero potuto imparare “cosas de oración”. Ma quel libro era finito sotto esame
all’Inquisizione. Compose perciò, ancora per obbedienza al suo confessore, “otro librillo”: un
testo di formazione alla preghiera che si sviluppa come una lunga meditazione sul Padre nostro.
Ma chi conosceva Teresa disse subito che «nella dottrina di questo libro viveva la sua anima».
Non fa perciò meraviglia scoprire che, anche in esso, il suo personale carisma si sia affermato e
ulteriormente sviluppato nella stessa direzione. E, come nella Vida ella aveva spontaneamente
intuito che esistenza e preghiera coincidono, così ora comprende che bisogna far coincidere la
vita di preghiera e la vita comunitaria. Ancor più: possono coincidere perfino la vita di preghiera
e la stessa struttura del monastero, concepito come “cittadella orante” dove si può dire che
anche le mura e gli oggetti “contemplino”, e i compiti quotidiani sono tutti avvenimenti
6
Teresa scrive la prima redazione del Libro de la Vida nel 1562 e la seconda redazione nel 1565.
Celebre il grido con cui ella inizia la sua prima Esclamazione (preghiera a forma di soliloquio): «¡Oh
vida, vida, cómo puedes sustentarte estando ausente de tu Vida…!».
7
2
contemplativi. Secondo il primo progetto teresiano, nel suo monastero avrebbero dovuto vivere
tredici monache: dodici sorelle riunite attorno alla loro Priora, come “un piccolo collegio di
Cristo”. Dovevano vivere raccolte come in un cenacolo ed essere un Cenacolo vivente. Per
Teresa era l’intero monastero che doveva essere contemplativo, e lo era anche se in esso non
tutte le monache erano chiamate allo stesso modo: c’erano anime che rassomigliavano più a
delle Marte operose che a delle Marie contemplative. Teresa non rifiutava affatto, per il suo
monastero, l’appellativo di “casa di Santa Marta”, nella quale tutte servono generosamente il
Signore Gesù e lasciano a Lui decidere la modalità orante concessa a ciascuna (C 17,5-7). Nel
monastero teresiano l’abbraccio sponsale di Cristo è offerto anzitutto dalla stessa comunità che
trattiene la singola monaca nel suo grembo e finalizza contemplativamente la persona stessa e le
sue opere. In secondo luogo lo stesso abbraccio è manifestato dalla “clausura” (materialmente:
dalle grate e dalla cinta muraria) che delimita uno “spazio vitale” tutto offerto allo Sposo e alla
Sua presenza, al punto che si può dire che le porte del monastero sono presidiate da Maria e
Giuseppe, mentre «il Signore Gesù va a trovare le sue spose anche tra le pentole» ( F 5,8). Anche
dal punto di vista comunitario, dunque, la contemplazione viene ecclesializzata.
c) Il Castello interiore: l’essere umano come “preghiera”
Nel Castello, infine, Teresa – sul finire della sue vita e sempre per obbedienza – descriverà tutto
l’itinerario che conduce l’uomo dalla “periferia di se stesso” alle vette dell’unione sponsale con
Cristo e all’immersione nel seno amorevole della Trinità. Ma nel farlo Teresa non avrà di mira
soltanto le sue monache: abitando già lei stessa nelle “settime dimore”, coniugalmente unita allo
Sposo, ha scoperto che è questo il destino per cui ogni anima (cioè: ogni persona umana,
ognuna infinitamente bella e “degna”) è stata creata “a immagine di Dio”. Teresa mostra, con
anticipo di secoli, d’esser pienamente d’accordo con quanto afferma oggi a chiare lettere il
Catechismo della Chiesa Cattolica, risolvendo, una volta per tutte, antiche controversie: «Il
progresso spirituale tende all’unione sempre più intima con Cristo. Questa unione si chiama
“mistica” perché partecipa al mistero di Cristo mediante i sacramenti – i “santi misteri” – e, in
Lui, al mistero della SS. Trinità. Dio chiama tutti al mistero di questa intima unione con Lui,
anche se soltanto ad alcuni sono concesse grazie speciali o segni straordinari di questa vita
mistica, allo scopo di rendere manifesto il dono gratuito fatto a tutti»8.
Questo è detto per tutti i battezzati, ma è ancora più stupefacente notare che il magistero di
Teresa era già in sintonia con la più alta affermazione antropologica che il Concilio Vaticano II
ci avrebbe poi offerto:
“La ragione più alta della dignità umana consiste nella chiamata dell’uomo alla comunione con
Dio. L’uomo è invitato al colloquio con Dio, fin dalla sua origine: egli, infatti, non esiste, se
non perché – creato da Dio dalle viscere del Suo amore – da tale amore viene sempre
mantenuto nell’esistenza; e non vive pienamente secondo verità, se non riconosce liberamente
questo amore, e se non si affida al suo Creatore. Tuttavia molti nostri contemporanei non
percepiscono affatto o esplicitamente rigettano questo intimo e vitale legame con Dio”
(Gaudium et Spes, n. 19).
In questa straordinaria affermazione (che andrebbe letta attentamente nel latino in cui è stata
formulata), la Chiesa non ha temuto di usare le più alte formulazioni dell’esperienza mistica
contemplativa (“intima ac vitalis coniunctio cum Deo” – “vocatio ad communionem cum Deo”
– “invitatio ad colloquium cum Deo” – “Creatori suo se committere”) per identificare la
«eximia ratio» della dignità di ogni persona umana «inde ab ortu suo», riconoscendo
esplicitamente tale dignità anche all’ateo che la rinnega o la rigetta. E tutto viene motivato col
fatto che Dio ha creato a tale scopo ogni singola creatura umana, estraendola dal grembo del suo
8
Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 2014.
3
amore (“ex amore”) e mantenendola nell’esistenza continuamente estraendola dallo stesso
grembo amoroso (“ex amore”)9.
Questa visione onni-avvolgente dell’ideale contemplativo era già presente in Teresa d’Avila,
quando erigeva il suo splendido “Castello interiore”. E fu già a questo livello che ella sviluppò
una concezione profondamente ecclesiale della contemplazione, descrivendola come un dono
che occorreva offrire al mondo intero.
Nota: Contemplazione cristiana ed ecclesiale
Prima di procedere a una presentazione più accurata del Castello interiore dobbiamo però
sostare sul duro lavoro intrapreso da Teresa per comprendere e vivere la contemplazione in
maniera veramente cristiana ed ecclesiale.
Per contemplazione cristiana intendiamo una contemplazione nella quale domina (dall’inizio
alla fine), in maniera imprescindibile, la cara persona di Gesù Cristo. Teresa dovette lottare –
come sappiamo – con maestri spirituali che consideravano tale Umanità un ostacolo alla piena
immersione nel mondo della Divinità10. Queste sottolineature cristologiche (teologiche e
pedagogiche, assieme) erano già importantissime al tempo di Teresa, ma sono divenute ancor
più decisive ai nostri giorni11.
Seguì poi, in Teresa, la comprensione del fatto che l’Umanità gloriosa di Cristo continua sempre
a soffrire nella sua Chiesa ed ella si sentì straziare alle notizie della “passione” che sconvolgeva
la Chiesa del suo tempo: dapprima l’ondata di eresie e di scismi, poi le crudeli guerre di
religione12, e poi ancora la notizia dell’innumerevole perdita di anime che accadeva nel Nuovo
Mondo a causa delle guerre di conquista13. E fu l’Eucaristia – allora particolarmente aggredita
nei paesi protestanti – che le rivelò la profonda, misteriosa, angosciante verità: nella Chiesa era
ancora Cristo – Lui personalmente! – a soffrire14. Così la Chiesa con i suoi drammi e con le sue
necessità entrerà a pieno diritto dentro l’esperienza contemplativa che sarà finalizzata non a un
“vezzeggiamento dell’anima” ma un suo realistico e operoso prendersi cura dell’onore di Cristo
Sposo e di tutto ciò che a Lui appartiene: «Questo è il fine dell’orazione, figlie mie; a questo
serve il matrimonio spirituale, a far nascere sempre opere e opere» (7M 4,6).
II
NEL CASTELLO INTERIORE *
«Un giorno me ne stavo in compagnia di Colui che porto sempre vivo nell’anima… Siccome
ero tutta confusa di vedere una così eccelsa Maestà starsene in una creatura tanto vile come
l’anima mia, intesi dirmi così: “Non è vile, figliola, perché è fatta a mia immagine…”»15.
«Oggi mentre stavo supplicando il Signore a parlare [cioè: scrivere!] in vece mia, mi è venuta
l’idea di considerare la nostra anima come un Castello tutto di diamante o di cristallo molto
9
Non è certo senza significato che tale amplissima formulazione della Gaudium et Spes sia poi diventata
la prima citazione – come un accogliente atrio d’ingresso – del Catechismo della Chiesa cattolica.
10
«¡O Señor de mi alma y Bien mio, Jesucristo crucificado! Non me acuerdo vez de esta opinión che
tuve, que no me da pena, y me parece che hize una gran traición, aunque con ignorancia» (V 22,3). «¡Oh,
qué mal camino llevaba, Señor! Ya me parece iba sin camino...» (V 22,6). Cfr. anche 6 M 7,9.
11
Cfr. Lettera Orationis Formas, della Congregazione per la Dottrina della Fede, sulla preghiera
cristiana, Roma 1989.
12
C 1,2; C 1,3-5.
13
Cfr. F 1,7-8.
14
C 3, 8; 35,3-5.
*
Per un completo approfondimento cfr. A. M SICARI, Nel “Castello interiore” di santa Teresa d’Avila.
Introdotto da L’inaccessibile Castello. Da Franz Kafka a santa Teresa, Jaca book, Milano 2004, pp. 270.
15
REL 54, anno1575.
4
limpido, nel quale ci sono numerose Dimore, così come avviene in cielo. Infatti, l’anima del
giusto non è altro che un paradiso dove il Signore afferma di trovare le sue delizie. Infatti, come
pensate che debba essere la dimora dove si compiace di abitare un Dio così potente, così
saggio, così puro, così ricco di tutti i beni? Non trovo assolutamente nulla che sia paragonabile
alla grande bellezza e alla grande capacità di un’anima. E in realtà le nostre intelligenze, per
acute che siano, stentano davvero ad afferrarle, così come non possono arrivare a comprendere
Dio, visto che Egli stesso afferma di averci creati a sua immagine e somiglianza» (1M 1,1).
L’intelaiatura del testo è semplice e rassomiglia a una favola: un vecchio Castello con molte
dimore, ma disabitato, buio, freddo, col fossato e i camminamenti di ronda infestati da animali
repellenti, col portone aperto ma scardinato. Le finestre del castello sono oscurate, come coperte
di pece. Le stanze sono “nere e tenebrose”. E all’esterno giace un mendicante che non sa
nemmeno chi furono suo padre e sua madre e tanto meno sa di essere l’antico padrone del
Castello. Rassomiglia piuttosto a un sordomuto e a un paralitico, abituato a trattare con le bestie
e i rettili che girano nei dintorni. (Teresa riferisce la sua descrizione a quelle che chiama “anime
paralitiche”). Ma basta che l’anima si decida ad attraversare la soglia che, subito, il Castello
comincia a risvegliarsi e rianimarsi. Una luce (anche se all’inizio molte tenue) sembra venire
dalle stanze più centrali, e anche un suono che ha una certa vaga dolcezza si fa sentire. Poi pian
piano tutto si riscalda e s’illumina, a mano a mano che il mendicante s’inoltra nelle dimore e ne
prende possesso, scoprendone l’incredibile bellezza e magnificenza.
La porta d’ingresso è la preghiera, senza che niente possa impedirla per principio, nemmeno la
propria miseria o il proprio peccato.
Le Sette Dimore sono in pratica sette gradi di orazione: nelle prime tre l’anima sembra dover
fare tutto da sola; nella quarta dimora Dio comincia a diventare protagonista; nelle ultime tre
dimore Dio agisce direttamente e con forza legando sempre più l‘anima a sé con vincoli
sponsali.
L’esperienza spirituale che si sviluppa percorrendo le sette Dimore può essere così indicata:
1) La conoscenza di sé, per disporsi radicalmente alla “vita di Preghiera”;
2) La continua lotta e perseveranza per non rinunciare mai ad assimilare questa “vita di
orazione”;
3) Imparare la gratuità, per non impadronirsi dei doni di Dio; e non “auto-canonizzarsi”
4) Il raccoglimento e l’abbraccio: dal “raccogliersi verso Dio” al “lasciasi accogliere
da Dio”;
5) Il miracolo della “trasformazione in Cristo” (dalla degenerazione alla
trasfigurazione: simbolo del baco da seta che diventa farfalla);
6) Il fidanzamento spirituale: tempo in cui l’anima deve scegliere “un solo Sposo”.
7) Il matrimonio spirituale: con lo “scambio dotale” che riprende
coniugalmente
il lavoro già fatto nelle precedenti dimore ed ecclesializza totalmente l’anima.
Alcune annotazioni sono però necessarie per afferrare tutta la bella e complessa
architettura del Castello:
1) Santa Teresa sovrappone subito al suo Castello questa “epigrafe”: “En que trata de la
hermosura y dignidad de nuestras almas» (“Qui si tratta della bellezza e della dignità delle
nostre anime”). Ma alla fine semplifica radicalmente il suo simbolismo affermando che la sua
opera non tratta di nient’altro se non «de lo que El es y de lo que hace en las almas»: «Non
tratta di altro che di ciò che Lui (Dio) è e di ciò che Lui fa nelle anime».
5
2) Il simbolo del Castello subisce una sorta di “doppio avvolgimento”: all’inizio è l’uomo ad
essere il Castello-dimora di Dio (primo abbraccio avvolgente), ma poi sarà Dio a rivelarsi come
il Castello-dimora dell’uomo (secondo abbraccio infinitamente più avvolgente).
3) Il senso dell’infinità dignità dell’uomo include il senso della sua infinità povertà che cresce
quanto più crescono i doni con cui Dio la innalza a sé (Misericordia): ciò che è finito non può
impadronirsi dell’infinito, ma può lasciarsi scavare infinitamente in modo da disporsi ad
accoglierLo sempre di più.
4) Il percorso non è rigido: nessuna dimora viene mai abbandonata del tutto. Le prime dimore
sono necessarie anche al termine del cammino; le ultime e le più perfette sono “già donate” a
tutti (Incarnazione e Sacramenti); e perciò Dio può collocare l’anima dove vuole e quando vuole
5) Non è una storia a lieto fine (nel senso umano del termine) che vada dall’estrema miseria
dell’uomo alla sua divinizzazione, dato che, alla fine, essa esige un’assimilazione a Cristo
Crocifisso, “venduto come schiavo in tutto il mondo”, e quindi esige una solidarietà verso tutti i
perduti
Non dobbiamo dimenticare che proprio le Settime Dimore contengono la descrizione più
terribile della miseria umana. E proprio qui che la Santa esige che l’anima si faccia
personalmente carico della tragedia di chi è ancora mendicante ed estraneo a se stesso, non
dimenticando mai che fuori del Castello ci stanno uomini incatenati e torturati:
«Quelle anime sventurate stanno come in una prigione oscura, con le mani e i piedi
legati, impossibilitate a far alcunché di buono e di utile per acquistar merito, cieche e
mute. Con quanta ragione, dobbiamo averne compassione noi che un tempo ci trovammo
in questa stessa condizione. Il Signore può usare misericordia anche a loro. Sorelle mie,
preoccupiamoci di supplicarlo per questo, e non smettiamo mai. Pregare per quelli che
sono in peccato mortale è grandissima carità, molto maggiore che se vedessimo un
cristiano, con le mani legate dietro la schiena da una grossa catena, avvinto ad un palo,
morente di fame, non per mancanza di cibo, giacché ha vicino a sé vivande assai squisite,
ma per l’impossibilità di prenderle e portarle alla bocca – benché, invero, ne provi
grande nausea –, con la sensazione della morte ormai vicina, e non già una morte come
quella terrena, ma eterna. Non sarebbe una grande crudeltà restare a guardarlo e non
avvicinargli alla bocca di che mangiare? Che dire poi se per le vostre orazioni gli
venissero tolte le catene? Ve lo lascio considerare» (7M 1,3-4).
E Teresa spiegherà alle sue monache: è per questo che voi dovete andare fino in fondo al vostro
cammino, per poter riuscire a donare anche alle anime più perdute quel cibo che tutti
desiderano. Al vertice dell’esperienza mistica, Teresa mette anime-spose che non si
vezzeggiano, ma si dedicano ad “opere e opere”. Dio, quando dona le sue grazie più grandi, le
dona come un pane da distribuire a tutti quelli che ne hanno bisogno.
L’itinerario compiuto va dunque dal Castello interiore al Castello esteriore.
Questa formulazione è oggi gradita a molti, anche se sembra ad altri un po’ troppo facile e
scaltra.
Si tratta di comprenderne la forte nervatura teresiana e di trovare l’accordo nello stesso
insegnamento di Teresa. Possiamo anzitutto ricordare quel bel consiglio rivoltole da Gesù
stesso: «No trabajas tu de tenerMe encerrado en ti, sino de encerrar tu en Mi» - «Non
adoperarti a tenerMi chiuso in te, ma a chiudere te in Me».
La differenza evidente è proprio in questo: l’anima che si tiene Cristo chiuso nel cuore è l’anima
che rischia di vezzeggiare Cristo, sperando di essere vezzeggiata da Lui.
Teresa ha esplicitamente avvertito di questo pericolo proprio le anime giunte alle Settime
Dimore: «Sarà bene, sorelle, che vi dica il motivo per cui Dio fa quaggiù tante grazie…
affinché nessuna cada nel grave errore di pensare che sia soltanto per vezzeggiare le anime
(…). Questo è il fine dell’orazione, figliole mie, a questo tende il matrimonio spirituale, a
6
produrre opere e opere (…). Sapete voi che cosa significhi essere veramente spirituali? Vuol
dire essere gli schiavi di Dio, tali che – segnati col ferro della Croce – Egli vi possa vendere
come schiavi di tutto il mondo, come è stato per Lui» (7M 4,4.6.8).
Nella sua vicenda personale sappiamo come Teresa abbia toccato un primo vertice spirituale
quando le sembrò di non poter più resister al desiderio di “vedere Dio” che la faceva quasi
morire e la rendeva impaziente16. Tanto che, proprio al termine della sua Autobiografia,
confessava: «Mi conforta sentir battere l’orologio, perché mi sembra di avvicinarmi un tantino
di più al momento di vedere Dio, constatando che è trascorsa un’altra ora di vita» (V 40,20).
Ma dopo aver celebrato le sue “nozze con Cristo” dovette accettare – per così dire – lo
“scambio dotale”, quando Gesù le disse: «Da qui in poi ti curerai del mio onore come una vera
sposa. Il mio onore è il tuo e il tuo è il mio» - «De aquí adelante mirarás mi honra, sino como
verdadera esposa mía: mi honra es ya tuya y la tuya mía» (REL 35).
La conseguenza fu che Teresa “tornò a questa vita” con l’unica preoccupazione di amare Gesù
e di farlo amare nelle cose più elementari e quotidiane, ascoltando la sua esplicita richiesta:
“Pensa, figlia mia, che dopo terminata questa vita, non potresti più servirmi come ora: mangia
per me, dormi per me e tutto quello che fai sia per me, come se non lo vivessi tu, ma Io: questo è
ciò che diceva san Paolo» (REL 56).
E nelle sue ultime Relazioni di coscienza sottolineava esplicitamente:
«Ha tanta forza questa sottomissione al divino volere che non si desidera né la morte né la vita,
salvo per brevi istanti, quando si riaccende nell’anima l’ansia di vedere Dio. Allora la presenza
delle tre divine Persone le si manifesta subito con tanta forza che giova a rimuovere la pena di
tale privazione e a rinnovare il desiderio di vivere, se così vuole Dio, per servirlo di più. Se
potessi contribuire, con la mia intercessione, a farlo amare e lodare, foss’anche da un’anima
sola e per poco tempo, mi sembrerebbe ben più importante che essere già nella gloria» (REL
6,9).
NOTA*
L’insegnamento di Teresa contiene un insegnamento specifico per i Carmelitani, che può
essere espresso così: se è vero che “Tutti devono qualcosa al Carmelo” (come dicevano
Thomas Merton e Hans Urs von Balthasar), è altrettanto vero che “il Carmelo deve
qualcosa a tutti”.
Infatti, dal magistero dei suoi Santi Dottori (santa Teresa d’Avila, S. Giovanni della Croce,
santa Teresa di Lisieux) emerge chiaramente questa “logica inesorabile”:
– Nell’esperienza mistica, ciò che è più alto e profondo è anche ciò che è più comune e
universale.
– Il grido che il mistico rivolge a Dio è lo stesso grido di ogni creatura al suo Creatore (cfr. il
commento di S. Giovanni della Croce ai versi “¿Adonde Te asconsondiste?” e “¡Descubre tu
presencia!” nelle strofe I e XI del Cantico spiritual, e l’esperienza di Teresa di Lisieux “seduta
alla tavola dei peccatori e degli atei”17).
– Di conseguenza ancora, il punto di vista più alto offerto dalla mistica cristiana è anche quello
più adeguato per comprendere i problemi della Chiesa e dell’umanità, in una data epoca.
Su questa base, il riferimento ad altre opere e il paragone tra TERESA e KAFKA che vorrei
brevemente sviluppare non nascono da un vezzo letterario o da una curiosità artistica personale.
16
La Santa giunse fino a rimproverare Gesù che “la tratteneva in questa miserabile vita” (V 37,8).
Per la dottrina di san Giovanni della Croce e di Teresa di Lisieux, cfr. Il «divino cantico» di san
Giovanni della Croce, Jaca Book, Milano, 2011, pp. 487; La teologia di S. Teresa di Lisieux, Dottore
della Chiesa, Edizioni OCD-Jaca Book, Roma-Milano, 1997, pp. 460.
17
Ms C, 6r.
*
7
Mi è sembrato invece necessario per cogliere meglio il significato universale del magistero della
mistica teresiana.
III
ALCUNE ESEMPLIFICAZIONI CULTURALI
1) Già nella tradizione islamica conosce anche il racconto del sogno di Maometto che
viene trasportato in visione fino al Castello di Dio: il profeta gira intorno alle sue mura per sette
volte, ma – benché la soglia sia aperta – non osa entrare nell’intimità della casa di Dio.
2) In un florilegio di mistica islamica, pubblicato verso la fine del secolo XVI, si
legge:
«Disse un contemplativo: per ogni figlio di Adamo, Dio creò sette castelli, dentro i quali
abita Lui, e fuori dei quali Satana si aggira latrando come un cane. E Satana entra quando
l’uomo lascia che in uno dei castelli si apra una breccia. Occorre perciò che l’uomo si premuri
di sorvegliare e custodire con ogni cura i castelli, specialmente il primo, perché, fino a quando
i suoi bastioni sono intatti, non c’è da temere alcun danno. Il primo castello, costruito di
candida madreperla, è la mortificazione dell’anima sensitiva. Dentro di esso c’è un castello di
smeraldo che è la purezza e la sincerità d’intenzione. Dentro questo, c’è poi un castello di
brillante maiolica, che è l’adempimento dei precetti positivi e negativi dati da Dio. Dentro di
esso c’è un castello di pietra che è la gratitudine verso i benefici divini e la conformità alla
volontà di Dio. Dentro di esso c’è un castello di ferro che è l’abbandono nelle mani di Dio.
Dentro di questo c’è un castello d’argento, che è la fede mistica. E, infine, all’interno di questo
c’è un castello d’oro che è la contemplazione di Dio. Che Egli sia sempre onorato e
glorificato…»18. L’uso diverso del simbolismo diventa evidente se si considera che, nella
mistica islamica, i diversi castelli indicano diversi stadi di approssimazione dell’uomo a Dio, o
diverse “operazioni” dell’anima che si purifica per accostarsi all’Altissimo, mentre in Teresa il
protagonista di tutte le Dimore è Dio stesso che attrae a sé l’anima.
3) Nell’epoca moderna è interessante il piccolo poema di Pablo Neruda intitolato Il Castillo
maldito (“Il castello maledetto”), nel quale leggiamo questi versi così carichi di un dolore
impotente: «La mia vita è un gran Castello senza finestre senza porte”. Ed è un castello al quale
non si vuole che alcuno possa avvicinarsi:
“Alto de mi corazón en la explanada desierta / donde estoy crucificado como el dolor en un
verso... / Mi vida es un gran castillo sin ventanas y sin puertas / y para que tú no llegues por
esta senda, la tuerzo.»
5) In Italia un racconto significativo che si presta a una analisi antropologica e teologica simile a
quella del Castello di Kafka è la clinica dai Sette piani di Dino Buzzati19.
6) In Francia è interessante il testo su la stanza segreta che P. Valéry ci ha lasciato nei suoi
Diari:
«La mia vita era come una casa ed io la conoscevo nei minimi particolari e, tanto la conoscevo,
che quasi non la vedevo più: le sue forme regolari, i suoi passaggi, i suoi movimenti, mi
sembravano quelli del mio stesso corpo, del mio tempo. E io non concepivo altre dimore. La
mia anima era là ed era talmente abituale che in definitiva essa non era da nessuna parte. Un
giorno per caso ho toccato non so quale molla ed ecco si è aperta una porta segreta e sono
penetrato in strani e infiniti appartamenti. Ero sconvolto dalla mia scoperta; movendomi in
18
Cfr. M. ASIN-PALACIOS, El símil de los castillos y moradas en la mística islamica y en Teresa de Jesús,
in «Al-Andalus» 11 (1946), pp. 243-274.
19
In La boutique del Mistero, Mondadori, Milano 1968.
8
tutte quelle sconosciute e così misteriose camere della mia anima avvertivo che esse erano la
mia vera dimora, la dimora della mia anima»20.
E veniamo a Kafka che condivide con S. Teresa non solo l’intelaiatura di un intero romanzo
che porta lo stesso titolo (Il castello), ma anche altri due celebri simboli che sono fondamentali
per ambedue.
Kafka racconta, infatti, La metamorfosi di un uomo in insetto: la degenerazione fisica,
familiare e sociale di un essere umano che non può guarire per mancanza di casa” (di
“famiglia") e di speranza e S. Teresa racconta la metamorfosi di un verme da seta che diventa
bianca e angelica farfalla, alla maniera in cui ne parlò già Dante Alighieri21.
Inoltre Kafka vede la sua terra promessa in un matrimonio spasmodicamente desiderato, ma
che egli non può e non deve raggiungere perché è terra del Padre che gli fa sentire sacrilego
non solo ogni tentativo di realizzarlo, ma lo stesso sogno22.
Teresa invece vede la terra promessa in un matrimonio che il Padre celeste le ha riservato da
tutta l’eternità, con tenerezza infinita e che si compie (come vedremo alla fine) nella stanza più
intima delle Settime Dimore del Castello.
In tutti e tre i simboli Castello / Metamorfosi / Matrimonio) Teresa e Kafka si accostano allo
stesso centro che è Cristo: dall’ebreo Kafka Egli è solo intuito e desiderato, da Teresa Egli è
conosciuto e amato con passione.
Mi limito (senza poterli qui commentare) ad alcuni testi di Kafka che Teresa stessa
avrebbe potuto sottoscrivere.
20
P. VALERY, Cahiers, vol. XIX.
«O superbi cristian, miseri lassi / Che della vista della mente infermi, / Fidanza avete ne’ ritrosi passi,
// Non v’accorgete voi che noi siam vermi / Nati a formar l’angelica farfalla, / Che vola alla giustizia
senza schermi?» (Purg. X, 121-126). Ed è interessante osservare che nel suo Paradiso il poeta riprenderà,
in senso positivo, l’immagine del baco da seta, facendo dire a Carlo Martello d’Angiò – anima tutta
avvolta di luce – : «La mia letizia mi ti tien celato / che mi raggia d’intorno e mi nasconde / Quasi animal
di sua seta fasciato».
22
«Il matrimonio è sicuramente una garanzia della più intensa liberazione di sé e indipendenza. Io avrei
una famiglia, il massimo a cui a mio parere si possa arrivare, e anche il massimo a cui tu sei arrivato, sarei
un tuo pari, tutte le vergogne e le tirannie antiche ed eternamente nuove sarebbero mera storia. Sarebbe
però favoloso, e proprio in questo consiste l'elemento di dubbio. E troppo, non si può giungere a tanto. E
come se uno fosse prigioniero e non avesse più intenzione di fuggire, cosa forse possibile, ma soltanto, e a
dire il vero contemporaneamente, l'intenzione di trasformare la propria prigione in un castello. Se fugge,
però, non può più trasformarla, e se la trasforma non può fuggire. Se io voglio divenire autonomo, nel
particolare rapporto di infelicità che mi lega a te, debbo fare qualcosa che se possibile non abbia nessun
rapporto con te; il matrimonio è il massimo, e dà la più rispettabile autonomia, ma al contempo ha anche
un rapporto strettissimo con te. Voler andare al di là ha quindi qualcosa della follia, e ogni tentativo in tal
senso è punito con essa. In parte però è proprio questo stretto rapporto a rendere il matrimonio così
allettante ai miei occhi Me la immagino così bella, questa parità che si costituirebbe così tra noi e che tu
potresti comprendere come nessun altro, proprio perché io potrei essere un figlio libero, grato, innocente e
sincero, e tu un padre sereno, non tirannico, comprensivo, contento. Ma a tal fine si dovrebbe poter far sì
che non fosse accaduto tutto quel che è accaduto, ovvero che noi stessi fossimo cancellati. Così come
siamo, tuttavia, il matrimonio mi è precluso proprio dal fatto che è il terreno che più ti è proprio. Talvolta
immagino di poter aprire davanti a me la carta terrestre e di stendertici sopra Mi pare allora che per la mia
vita si possano prendere in considerazione solo quei territori che né copri col tuo corpo né sono comunque
alla tua portata. E data l'idea che mi son fatto della tua grandezza, questi territori non sono molti né molto
confortanti, e il matrimonio in particolare non ne fa parte» (Lettera al Padre, pp. 76-78).
21
9
Il diritto a fare una tale operazione ci viene da una testimonianza di O. Pollock, da cui sappiamo
che K. lesse alcuni testi di mistici fiamminghi e che glieli commentò con questo straordinario
giudizio: «Certi libri fanno l’effetto di una chiave per le sale sconosciute del proprio Castello».
Mi sembra, inoltre, significativo il giudizio di Camus che ha definito Il Castello di Kafka: “una
teologia tradotta in azione”: “L’avventura esistenziale di un’anima in cerca della propria
grazia”23.
Partiamo dunque dalla famosa Lettera al Padre in cui Kafka si dichiara attanagliato da questo
dilemma che non sa risolvere:
«È come se uno fosse prigioniero e volesse non soltanto fuggire, il che sarebbe forse possibile,
ma anche trasformare la sua prigione in Castello. Se fugge, però, non può più trasformarla e,
se la trasforma, non può fuggire…» (LP p. 77).
Molto significativo è anche il “timore sacro” che Kafka percepisce davanti al proprio bisogno di
coniugalità:
«L’Aut-Aut è troppo grande. O tu sei mia e allora va tutto bene, o invece ti perdo e allora non è
che vada male, ma allora non c’è più niente, allora non resta né gelosia, né dolore, né ansietà:
niente di niente. Ed è certamente qualcosa di sacrilego costruire a tal punto sopra una creatura
umana, e perciò, anche in questo caso, l’angoscia striscia intorno ai fondamenti. Ma non è
l’angoscia a tuo riguardo, bensì è l’angoscia che, in genere, si osi innalzare una siffatta
costruzione. È per questo che si mescola, a titolo di difesa, molto di divino nel tuo caro volto
terreno»24.
Sia per Teresa che per Kafka, il problema più radicale dell’uomo è quello della “preghiera”.
Per Teresa essa è la porta del Castello che bisogna decidersi ad attraversare: la capacità data
all’uomo – a qualunque uomo – di “mendicare” la grazia.
Anche Kafka arriverà a dire che “mendicare” è lo scopo dell’arte, ma anche quello della
scienza e, soprattutto, quello della preghiera (cfr. J 157).
S. Teresa diceva che le forze propulsive di tutto il cammino che ci conduce sempre più addentro
nel Castello sono, da una parte, l’umiltà e, dall’altra, la forza attraente di Dio che ci chiama a sé
(come suono, luce e calore) dalla dimora più intima del Castello dove Egli già abita.
Per Teresa la preghiera non è un soliloquio ma un dialogo con la persona viva di Cristo che
domina tutta la scena dell’anima: pregare non è soltanto guardare Cristo, o parlare con Cristo o
pensare a Lui. Pregare è “guardare Cristo che ti guarda”, “parlare a Cristo che ti parla”,
“pensare a Cristo che pensa a te”. Qualunque difficoltà, qualunque contrapposizione,
qualunque distanza tra l’uomo e Dio è già stata superata, dal congiungimento, in Gesù, della
natura umana e della natura divina. E quando Teresa parla di matrimonio spirituale, non parla di
un’idea, ma parla di un Gesù Cristo che l’abbraccia indissolubilmente (fin dalla sua
Incarnazione, fin dal Battesimo, fino al vertice dell’esperienza mistica) e sempre fa quella
richiesta che alla fine sarà formulata così: «Tutto quello che è mio è tuo, e tutto quello che è tuo
è mio!». Perfino l’ascesi teresiana ha un duplice movimento: ciò che nelle prime dimore del
Castello è lavoro dell’uomo per unirsi a Dio, nelle ultime dimore diventa cortesia e gioia
dell’uomo per manifestare l’unione accaduta. All’inizio l’uomo si prende cura di se stesso; alla
fine si prende cura di tutto ciò che è di Cristo, per il fatto che è di Cristo.
23
24
Il mito di Sisifo, , Milano 1947, p. 176.
Lettera a Milena del 5 settembre 1920.
10
Anche Kafka ha intuito la preghiera come invocazione, ma gliene mancava l’esperienza più
tipicamente cristiana (quella di un Dio che non solo risponde, ma si fa incontro all’uomo e fa
accadere il dialogo). E tuttavia Kafka non rinunciò mai a tentare quel dialogo che non sapeva
come condurre.
Ecco alcune delle sue espressioni più belle25 di Kafka che sembrano protendersi al
magistero di Teresa, nella forma di un’invocazione:
– «Non darsi via! Anche se non venisse nessuna salvezza, voglio però esserne degno ogni
momento» (Diari, 25.4.1912).
«Dov’è la tua mano? Ahimè nel buio non riesco a trovarla. Se stringessi già la tua mano, sono
certo che non mi respingeresti. Mi senti. Sei proprio in questa camera. Forse non sei nemmeno
qui. D’altra parte che cosa mai potrebbe attirarti verso il ghiaccio e le nebbie del nord, dove
non si dovrebbe nemmeno pensare che abiti qualcuno. Sei fuggito da questi luoghi. Ma per me è
questione di vita e di morte sapere se ci sei o non ci sei» (Frammenti, p. 285).
«Nel buio del vicolo, sotto gli alberi in una sera d’autunno. Io ti interrogo. Tu non mi rispondi.
Se tu mi rispondessi! Se le tue labbra si aprissero! Se il tuo occhio si aprisse e risuonasse la
parola a me destinata!» (Frammenti, p. 295).
«Chi cerca non trova, ma chi non cerca viene trovato» (Quaderni in ottavo, p. 112).
«Scrivere come forma di preghiera» (Frammenti, p. 350).
«La vita è smisuratamente grande e profonda, così come l’abisso di stelle sopra la nostra testa.
Vi si può gettare uno sguardo solo attraverso quell’apertura minuscola che è la nostra
esistenza personale. Perciò bisogna che questa apertura sia sempre pulita» (J ).
«L’uomo non può vivere senza una costante fiducia in qualcosa di indistruttibile dentro di lui»
(A 50).
«Mi sforzo di essere veramente colui che aspetta la grazia. Sono in attesa e osservo. Forse essa
verrà, forse non verrà. Forse questa attesa tranquilla e inquieta è già annunziatrice della
grazia o è la grazia stessa. Non lo so. Ma questo non mi tormenta. Ho stretto amicizia, intanto,
con la mia ignoranza» (J 223).
Tra tutti spicca questo testo lacerante che intuisce la doppia catena che avvince l’uomo (tra cielo
e terra), senza riuscire a vedere come si saldano le due catene nel dolce mistero
dell’Incarnazione:
«[L’uomo] è un cittadino libero e sicuro della terra, poiché è legato a una catena che è lunga
quanto basta per dargli libero accesso a tutti gli spazi della terra, però è di una lunghezza tale
per cui nulla può trascinarlo oltre i confini della terra. Ma al tempo stesso egli è anche un
cittadino libero e sicuro del cielo, poiché è legato anche a una catena celeste, regolata in modo
simile. Così, se vuole scendere sulla terra lo strozza il collare del cielo, se vuole salire in cielo
quello della terra. E ciò non ostante egli ha tutte le possibilità e lo sente, anzi si rifiuta di
ricondurre il tutto a un errore commesso all’inizio nell’incatenarlo (A 60).
25
Raccolte dai Diari (D), dagli Aforismi (A), dalle Lettere (L), dai Frammenti (F) e dai Dialoghi con
Kafka, riportati da G. Janouck (J).
11
Ma lo scioglimento di questa duplice catena, anzi il loro splendido raccordo, che rende liberante
il radicarsi nella terra e l’andare fino in cielo, che altro è se non il mistero del Dio fatto uomo?
M’impressiona moltissimo questo suo testo che potrebbe essere stato scritto da Teresa:
«L’umiltà dona a ciascuno, anche al disperato solitario, uno strettissimo contatto con gli altri
uomini, e lo dà subito, a patto, s’intende, che l’umiltà sia assoluta e continua. Essa può darlo,
perché è la vera lingua della preghiera, insieme adorazione e fortissimo legame» (A 106).
Nei Diari di Kafka si trova inoltre questa stranissima annotazione che porta la data del
24.10.1912:
«Martiri Ugandesi. Ribelli alla pedofilia del re: quasi un giorno su due trovo nei giornali una
notizia di questo genere formalmente destinata a me in persona».
Che significato poteva mai avere per un ebreo come Kafka il fatto che la Chiesa Cattolica
avesse beatificato dei giovani paggi africani che, dopo essersi convertiti, avevano scelto di
morire per difendere la loro purezza? Cerco di immaginare Kafka che legge qualche giornale del
tempo e trova il comunicato di una “beatificazione cattolica” avvenuta a Roma, che dovrebbe
risultargli completamente estranea, e tuttavia scrive: «Questa notizia è destinata a me in
persona».
Perfino in sanatorio, Kafka restò scosso a vedere un prete cattolico che assisteva
caritatevolmente un moribondo.
Penso ancora a Kafka – proprio lui! – che, al suo giovane amico invischiato in rapporti difficili
con i genitori, consigliava evangelicamente:
«Li ami. Lei deve risvegliare nei genitori ciò che in essi sta per morire. La dignità. Li tratti
come due “smarriti” (“pecorelle smarrite”)».
E non poteva dire queste parole, senza pensare a quella sua casa, dove immaginava sempre di
tornare come “un figlio prodigo”26.
Forse Kafka lo intuì e desiderò questo ritorno quando, tra tutti i suoi aforismi, annotò la
commovente osservazione sull’identità fonetica che c’è tra il verbo tedesco: sein e l’aggettivo
possessivo: Sein: «Essere = AppartenerGli» (A 46).
E non manca certo il Nome di Gesù.
Non si tratta di voler cristianizzare Kafka ad ogni costo, ma sappiamo che egli frequentò
volentieri il circolo di Franz Brentano e che lesse subito con foga, appena pubblicata, l’opera
Die Lehre Jesu (L’insegnamento di Gesù), stampata nel 1922.
E sembra che Franz abbia confidato al giovanissimo amico Gustav Janouck: «Cristo è un abisso
pieno di luce. Bisogna chiudere gli occhi per non precipitare...» (J 223).
Possediamo, anzi, un frammento cristologico che è stato conservato da Marthe Robert,
(traduttrice francese delle opere di Kafka), che dice di averlo visto in mano di Janouck e di
averlo copiato e tradotto, che suona così: «Vers la profondité, vers le port profond. Fils des
rois»: “Verso la profondità, verso il porto profondo, o Figlio dei Re!». Kafka l’avrebbe tracciato
su un foglietto, alla fine della sua vita, quando non era più capace di parlare.
Kafka lasciò anche scritto nei Diari:
«Alla morte dunque mi affiderei. Resto di una fede. Ritorno al Padre. Grande Riconciliazione».
E, in un suo bellissimo Aforisma, aveva annotato:
«Che c’è di più gioioso della fede in un Dio familiare?» (A 68).
Nessun’altra definizione descrive, meglio di questa, il volto del Dio di Teresa: UN DIO
FAMILIARE
26
Leggi il suo racconto intitolato Il Ritorno.
12
***
PER CONCLUDERE, ecco due citazioni particolarmente belle che possono lasciarci nel cuore la
vera immagine di Teresa:
“Stamattina, trovandomi in orazione, mi sembrò che Nostro Signore Gesù portasse la mia
anima davanti al Padre e gli dicesse: ‘Colei che mi hai donato, ecco io la do a Te. E mi parve
che il Padre mi stringese a Sé.” (REL 15).
“Rimasi in preghiera, nella quale l’anima mia gode di stare con la SS. Trinità. E mi sembrava
che la Persona del Padre mi avvicinasse a Sé e mi dicesse parole molto dolci. Tra l’altro mi
disse: Io ti ho dato mio Figlio, lo Spirito Santo e questa Santa Vergine. E tu che cosa puoi
darmi”
Per Teresa insomma Dio è il Padre ricco di ogni misericordia che “è sempre desideroso di
dare” (6M 4,12); “non vorrebbe far altro che dare”, “non si stanca mai di dare” (V 19,15).
Tanto che “se anche all’anima sembra di non aver più niente da desiderare, al nostro divino Re
resta ancora molto da dare” (PDA 6,1).
L’uomo collocato nella giusta posizione davanti a Dio Padre non è quello insaziabile per la sua
umana voracità, ma quello che Dio stesso rende insaziabile per poterlo saziare di Sé stesso.
E, dagli stessi mistici carmelitani, sappiamo che chiunque si lascia abbracciare con Dio trascina
con sé innumerevoli altri uomini.
Relazione per il
IV Ciclo di Letture Telogiche
su I classici della Spiritualità Cristiana:
«Il Castello interiore di S. Teresa di Gesù»
(Sala della Conciliazione
Piazza San Giovanni in Laterano
Roma, 30 gennaio 2014)
13