Maggio 2011 - Master in Giornalismo
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Maggio 2011 - Master in Giornalismo
DOSSIER CARCERE BOLLATE, VIAGGIO NELL’UTOPIA POSSIBILE DA PAGINA 8 A PAGINA 23 Maggio 2011 AnnoVIII Numero III labiulm. campusmultimedia.net Periodico del master in giornalismo dell’Università Iulm - Campus Multimedia In-formazione - Facoltà di Comunicazione, relazioni pubbliche e pubblicità Jules et Jim, 1962 regia di François Truffaut LA SCOMMESSA DELLA SERIETA’ Giovanni Puglisi a serietà si pratica, non si predica. É, infatti, molto difficile dare una definizione della serietà che non incorra nella ridondanza o nella banalità. Dire di una persona che è seria equivale a tratteggiare l'identikit di un soggetto affidabile e onesto, dire invece di una situazione che è seria vuol dire alzare la soglia d'attenzione e mettere tutti nelle condizioni di tenere sotto controllo ogni circostanza e ogni movimento che possa essere riconducibile a quella situazione. continua a pag.24 L MILANO 20-24 GIUGNO 2011, UNIVERSITA’ IULM Festival multimediale delle Università e delle Scuole di Cinema dell’Unione Europea Pagina 2 I SOMMARIO l giornale che avete in mano è un prodotto molto particolare. E’, insieme, la palestra degli allievi del Master di Giornalismo Iulm – Campus Multimedia, e il biglietto da visita di una Università dove si studia Comunicazione (la prima ad averlo proposto in Italia) e che sceglie di comunicare at- LAB Iulm Una scommessa e una vetrina traverso il lavoro formativo dei suoi studenti. Non era mai accaduto prima che la testata di una scuola di giornalismo prendesse il mare aperto e venisse distribuita insieme a un giornale “adulto” e prestigioso come Prima comunicazione. Per i trenta ragazzi del Master è un impegno forte, che li proietta immediatamente a contatto di un pubblico specializzato e attento, quale quello di Prima. Ma questa occasione senza precedenti è anche la prima vetrina in cui mettersi in mostra, da giornalisti, misurandosi con l’attualità, l’inchiesta, il costume, la cultura, i cambiamenti sociali e le trasformazioni di Milano, la città dove i ragazzi del master studiano e imparano il mestiere del giornalista. Per l’Università Iulm è una scommessa che confidiamo sarà ben riposta. E non è rituale il ringraziamento a Prima Comunicazione per un’ospitalità che, a sua volta, è un beneaugurante attestato di fiducia a chi comincia ad affacciarsi a una professione complessa e difficile. Ma anche entusiasmante. (i.b.) QUESTO NUMERO Diretto da Ivan Berni e Giovanni Puglisi (responsabile) In primo piano In redazione: Marco Cosenza, Nicola Marcatelli, Sara Mariani, Emilio Mariotti, Francesca Martelli, Manuela Messina, Carolina Saporiti, Marco Subert, Tommaso Tafi, Salvatore Todaro, Elisa Zanetti, Erika Crispo, Chiara Daffini, Valentina Evelli, Stefano Fiore, Anna Chiara Gaudenzi, Monica Giambersio, Marco Giorgetti, Linda Irico, Giuseppe Leo, Francesco Maesano, Marco Mugnaioli, Chiara Pagnoni, Giulia Pezzolesi, Francesco Piccinelli Casagrande, Francesco Priano, Roberta Rei, Marta Eleonora Rigoni, Ignazio Stagno, Roberto Tortora via Carlo Bo, 1 20143 - Milano 02/891412771 - [email protected] Registrazione: Tribunale di Milano n.477 del 20/09/2002 Stampa: Graficart snc - Biassono (Milano) Master in Giornalismo Campus Multimedia In-Formazione Direttore: Giovanni Puglisi Responsabile didattico: Angelo Agostini Caporedattore: Ivan Berni Responsabile laboratorio redazione digitale: Paolo Liguori Tutor: Silvia Gazzola Docenti: Angelo Agostini (Storia del giornalismo) Camilla Baresani (Scrittura creativa) Marco Capovilla (Fotogiornalismo) Toni Capuozzo (Approfondimento televisivo) Luca De Biase (Giornalismo web) Andrea Delogu (Gestione dell’impresa editoriale televisiva) Giuseppe Di Piazza (Giornalismo Periodico) Guido Formigoni (Storia contemporanea) Milena Gabanelli (Videogiornalismo d’inchiesta) Oscar Giannino (Giornalismo economico e finanziario) Enrico Maria Greco (Gestione dell’impresa editoriale) Bruno Luverà (Giornalismo e società) Caterina Malavenda (Diritto penale e Diritto del giornalismo) Matteo Marani (Giornalismo sportivo) Marco Marturano (Giornalismo e politica) Pierluigi Panza (Giornalismo culturale) Sandro Petrone (Giornalismo televisivo) Giampaolo Roidi (Giornalismo per la free press) Alessandra Scaglioni (Giornalismo radiofonico) Claudio Schirinzi (Giornalismo quotidiano) Gabriele Tacchini (Giornalismo d’agenzia) Vito Tartamella (Giornalismo scientifico) Fabio Ventura (Trattamento grafico dell’informazione) Vittorio Zambardino (Eretici digitali) Presidente: Giovanni Puglisi Vice Presidente: Gina Nieri Amministratore Delegato: Paolo Liguori Direttore generale: Marco Fanti Consiglieri: Gian Battista Canova, Mauro Crippa, Vincenzo Marzuillo, Vincenzo Prochilo, Paolo Proietti Dal 20 al 24 Giugno Milano è capitale del Cinema "giovane": l'Università IULM ospita il primo film happening riservato a 30 filmati in concorso, prodotti da studenti di tutta Europa. Tema dell'evento la "serietà", declinato tra workshop e conferenze multimediali. Dossier carcere. Un viaggio dentro le mura della Casa di Reclusione di Bollate. Un progetto sperimentale per scoprire che detenzione non è solo privazione della libertà, ma anche rieducazione, recupero sociale e un credito per una nuova chance. Fuga da Alcatraz 1979 EDITORIALI 3 3 Se libertà fa rima con serietà Lezioni di umanità in carcere SPECIALE IULM FILM HAPPENING “Siate seri come i bambini”, intervista a Gianni Canova 4 Un concorso per trenta 5 Cinque giorni di cinema e saper fare 6 Conferenze e Workshop 6-7 DOSSIER CARCERE Progetto Bollate 8 Lucia Castellano, l’utopia possibile 9 Il recinto delle libertà 10 Appunti da una chiacchierata in galera 11 Il lavoro dietro le sbarre 12 Ottantamila piante, una speranza 13 Il diritto ai sentimenti 14 “Noi volontari in galera per passione” 16 C.R. Bollate, la dura legge del gol 18 “Un gruppo formidabile”, parla il mister 19 Paese che vai, galera che trovi 20 Il carcere, la pena e la malafemmina 21 Giovani dentro, intervista a Don Gino Rigoldi 22 labiulm.campusmultimedia.net LabIulm www.iulm.it youtube.com/clipreporter twitter.com/labiulm www.campusmultimedia.net LAB Iulm EDITORIALI Pagina 3 Se libertà fa rima con serietà Ivan Berni arlare di cinema e parlare di carcere significa parlare di libertà. Da due punti di vista diversi, in qualche modo opposti, ma in fondo più legati di quanto suggerisca una prima, sommaria, riflessione. La libertà è intimamente legata al cinema. Libertà di espressione e libertà di fruizione. Non si esagera a sostenere che il cinema è stato una potente leva di libertà fin dal suo primissimo apparire. Il grande schermo ha mostrato al pubblico mondi lontani e passioni intime, sofferenza e gioia, rivolta e celebrazione, epopea e introspezione. Lo ha fatto in forza della sua capacità evocativa e di rappresentazione. Il cinema ha cambiato il modo di pensare e di mettersi in scena. Il cinema è stato, è vero, anche un potente strumento di consenso, ma altrettanto e di più, è P stato uno strumento di denuncia sociale, di presa di coscienza, di potente suggestione. In qualche caso di rivolta. La libertà del cinema è una delle più importanti cartine di tornasole dello stato di salute della democrazia di un paese. Le società autoritarie temono il cinema. Quando possono lo censurano. E spesso arrestano o esiliano i registi scomodi. Accade in Iran, in Cina. E’accaduto nei paesi dell’est, al tempo del blocco sovietico e della cortina di ferro. E’ accaduto nei regimi totalitari del Maghreb e del mondo arabo. La libertà del cinema e la produzione libera di audiovisivi, sono una condizione della democrazia matura. Sono un elemento di pienezza democratica. Anche per questo la prima edizione dello Iulm Happening Festival, che presentiamo in questo numero di Labiulm, è un evento importante. Per quattro giorni un ateneo milanese si offre come vetrina internazionale del cinema che si impara e si produce nelle scuole e nelle università europee. E per discuterne, prendendo spunto dal tema della serietà, che la Iulm ha voluto mettere al centro di questo appuntamento. La serietà ci porta immediata- mente dentro l’altro grande argomento di cui si occupa, in questo numero, la redazione di Labiulm. Lo scorso febbraio gli allievi del master in giornalismo Iulm hanno avuto la fortuna di conoscere, entrando in contatto diretto, l’esperienza straordinaria del carcere di Bollate. Senza forzare la sintesi, potremmo dire che il carcere di Bollate è il più libero d’Italia. Perciò è il più serio, come dimostrano i risultati ottenuti negli ultimi anni: fra i detenuti dimessi a fine pena il tasso di recidività è al 16%, contro il 70 per cento di media delle altre strutture carcerarie. A Bollate si lavora, si scrive e si stampa un giornale. Si gioca a calcio e si curano cavalli. Si coltivano fiori e piante rare, che si vendono al pubblico. Si allestiscono spettacoli teatrali, si realizzano costumi e si producono linee d’abbigliamento. Si organizzano anche servizi di catering per meeting, congressi e kermesse. Ma Bollate non è un grand hotel, o un villaggio vacanze. Bollate è un luogo di sofferenza, dove i bocconi di libertà offerti da una direzione illuminata e dal “regime attenuato” sono, per i detenuti, la promessa di un riscatto vero, di un reinserimento possibile. Sono l’avveramento di una Costituzione che 63 anni fa immaginava il carcere come occasione di recupero e di rieducazione sociale. A Bollate si annusa il profumo della libertà. Come al cinema. Le ali della Libertà, 1994 Lezioni di umanità in carcere Susanna Ripamonti* L ’idea è nata con molta timidezza: avere la pretesa di insegnare ai giornalisti come si fa informazione su un argomento complesso come il carcere, forse era troppo. E poi diciamolo, molti dei redattori di “carteBollate” erano stati bistrattati dai media proprio per i fatti che li avevano condotti in galera e dunque non avevano un rapporto del tutto sereno con la stampa. Però davvero non se ne può più di quei titoli che tirano in ballo di volta in volta personaggi noti alle cronache accusando: “X Y già libero, dopo soli 16 anni di carcere”, “In permesso premio l’assassino di Ipsilon Zeta” e via urlando allo scandalo. La nostra esigenza era quella di spiegare che 16 anni di galera non sono proprio una passeggiata e che non è libero chi esce in misura alternativa. Volevamo che fosse chiaro un concetto: il carcere deve produrre libertà, persone che una volta uscite siano in grado di riprogettare la propria vita nella legalità. Se non fa questo è solo una struttura dispendiosa, afflittiva e inutile. E’ nata così l’idea di un ciclo di seminari sulla rappresentazione mediatica del carcere, lezioni di giornalisti, magistrati, giuristi che spiegassero che cosa è la pena, cosa prevede la legge in materia di esecuzione penale e quali sono le ragioni e i risultati dell’applicazione di misure alternative al carcere. Il master di giornalismo dello IULM è stato il primo ad accettare la nostra proposta e questo ci ha dato la spinta per consolidare il progetto, estendendolo alle altre scuole di giornalismo ed infine proporlo all’Ordine, che ha deciso di farlo proprio, come Carcere di Bollate, studenti e detenuti a confronto corso di aggiornamento per giornalisti professionisti. Lavorare con voi ragazzi dello IULM è stata una bella esperienza specialmente perché, una volta tanto, siamo riusciti a confrontarci con gente che non la pensa come noi e che non ha la nostra visione del carcere. Ricordo i dubbi, lo scetticismo e anche la spigolosità di alcuni di voi. Ad esempio il ragazzo che diceva: “Se uno ammazza mio fratello io sono contento di sapere che se ne sta chiuso 22 ore su 24 in una cella”. Ma poi accettava di ragionarci sopra e di prendere in considerazione i dati che gli fornivamo. Oppure la ragazza che durante l’incontro a Bollate diceva con un tono mite e gentile cose che mettevano in discussione la stessa ragion d’essere di un carcere come quello: “Io non ci credo al vostro cambiamento, cosa vuol dire? Fatemi capire in cosa siete cambiati”. Questa discussione sincera e irriverente è stata veramente utile anche per noi. Il giorno dopo l’incontro con gli studenti, quella trentina di detenuti che aveva passato con loro un ‘intera giornata era felice, come quando senti di aver fatto un’esperienza importante ed erano frastornati come dopo gli esami di maturità. E dell’intensità di quelle ore passate insieme, qualche settimana dopo, hanno fatto le spese i giornalisti professionisti che avevano seguito il seminario organizzato per loro, stesso programma e stessa visita conclusiva in carcere. Ma lì, a fine giornata, la discussione si è infittita. “Voi siete stati molto attenti a evitare domande che ci mettessero in difficoltà, ma forse siete rimasti troppo in superficie…” – ha detto uno dei nostri redattori. E un altro a ruota: “Si ad esempio i ragazzi dello Iulm erano molto più curiosi, magari insolenti, ma si capiva che volevano un confronto vero, sincero.” Adesso il nostro lavoro continua, con l’Ordine dei giornalisti della Lombardia stiamo preparando un breve codice deontologico che definisca le modalità con cui la stampa deve parlare di carcere, un po’ come si è fatto per i minori, con la carta di Treviso. Abbiamo chiesto anche che le norme sul carcere e sull’esecuzione penale siano parte del programma d’esame per l’ammissione all’Albo dei giornalisti. E tutto questo è anche merito vostro. *Direttrice del periodico carte Bollate Pagina 4 IULMnews LAB Iulm Dal 20 al 24 Giugno, una rassegna competitiva di trenta filmati prodotti da studenti di tutta Europa. Workshop e conferenze sulla multimedialità. E serate ricche di proiezioni e musica: il primo Iulm Film Happening, che ha per tema la serietà, sarà una vera festa del cinema. Ce lo racconta l’ideatore dell’evento Gianni Canova, preside della facoltà di Comunicazione, relazioni pubbliche e pubblicità della Iulm Siate seri come i bambini Stefano Fiore Linda Irico C om’è nata l’idea di creare lo Iulm Film Happening? «È nata dall’urgenza di provare a svecchiare un po’ l’università italiana. La IULM si fonda da sempre sull’idea che sapere e saper fare debbano essere fortemente connessi, una cosa più facile a dirsi che a farsi. Da questa volontà di provare a sperimentare circuiti virtuosi di relazione tra il sapere e il saper fare nasce quest’idea dello IULM FILM HAPPENING, una nuova forma di interrelazione tra l’accademia e il mondo che sta fuori». Perché chiamarlo Happening e non Festival? «Non volevamo usare festival perché è una parola abusata. Nei festival si chiamano a raccolta fruitori passivi mentre qui vogliamo che ci siano dei player, delle persone attive che si mettano in gioco e interagiscano». Qual è il tema dell’evento? «Giocando su una delle aree di eccellenza di questa università, che è l’universo della filmologia accademica e non solo, abbiamo provato a partire con questa prima edizione dando un tema come quello della serietà: molto fuori moda ma per questo sufficientemente provocatorio per essere interessante, soprattutto dal punto di vista epocale. In un paese che fa della spensieratezza e dell’irresponsabilità un marchio, un paese dove si confonde serio e serioso, la mia convinzione è invece che se voi non state ancora bruciando questo paese è perché avete avuto dei genitori e dei nonni seri che hanno costruito un futuro». Nel manifesto che ha scritto cita Nietzsche: “si diventa veramente adulti solo quando si affrontano le cose della vita con la medesima serietà che mettevamo da bambini nei nostri giochi”. Dobbiamo tornare bambini per diventare seri? «Per quanto sembri strano è vero, dovremmo imparare la serietà dai bambini: io ho una figlia di cinque anni, e non è mai così seria come quando gioca. Credo sia ora di dire basta a questa finta spensieratezza e tornare ad essere un po’ seri, che non vuol dire noiosi. La serietà troppo spesso viene sentita come un disva- portage giornalistico, scrittura creativa, animazione multimediale, videoludica. Tutti con docenti di altissima qualità e di altissimo livello. Ci saranno conferenze sul tema e la sera sarà il momento più ludico, con djset e proiezioni di spot e film. Proiettiamo pellicole non comuni, con la speranza che ci sia molta gente interessata a vederle». Tra i tanti eventi che scandiranno il Festival, ce n’è uno che le sta particolar- Dovremmo tutti imparare dai bambini: mia figlia di cinque anni non è mai così seria come quando gioca lore, ne vogliamo riscoprire i lati positivi». Come si svolge il Festival? «Il festival ha due grosse componenti. Da un lato un concorso aperto a studenti iscritti o neo-laureati in università di cinema e comunicazione dell’unione europea, dall’altro workshop ispirati al tema della serietà in varie categorie: regia, recitazione, re- mente a cuore? «Il workshop videoludico tenuto da Matteo Bittanti, un dottorato di questa università, classico caso di fuga di cervelli. Dirige con me una collana videoludica in cui sono già stati pubblicati una decina di volumi, saggi accademici sull’universo dei videogiochi. È considerato un’autorità mondiale nel campo dei videogio- chi, ha poco più di trent’anni e ora insegna a Standford in California, dov’è consulente per colossi come Sony e Nintendo. Viene qui a fare questo workshop accompagnato da altri due ragazzi giovanissimi di Milano, i “Santa Ragione”, che sono un fenomeno molto cool anche se poco accademico». La formula del festival è sicuramente votata alla modernità. Perché scegliere di utilizzare il web solo per eleggere i cinque migliori candidati e non il vincitore? «Non tutto può essere deciso dal popolo, almeno in Italia. In questo paese se qualcuno proponesse un referendum per abolire le facoltà di filosofia perché non servono a nulla, ci sarebbe un grosso rischio che questo referendum passasse. Mentre in Germania, se succedesse la stessa cosa, i contadini tedeschi tirerebbero fuori i forconi dai granai per darli addosso a chi ha proposto il referendum». Cos’è per lei questa manifestazione? «Iulm film happening è una chance di visibilità per i giovani. Ritengo sia sempre più LAB Iulm IULMnews Pagina 5 LA SERIETÀ SECONDO... “ In questi tempi l'unico modo di mostrarsi uomo di spirito è essere seri. La serietà come solo umorismo accettabile 1974 “ Si corregge il sentimentalismo non diventando cinici ma diventando seri “ Scrittore, sceneggiatore e giornalista CESARE PAVESE “ 1952 Scrittore, poeta e traduttore OSCAR WILDE Larry Gopnik (interpretato da Michael Stuhlbarg) in una scena di “A serious man”, film del 2009 a metà tra la commedia e il dramma girato dai fratelli Coen. Il film parla di un professore di fisica, uomo “serio”e di poche pretese, la cui anonima vita viene sconvolta da una serie di guai familiari doveroso moltiplicare le opportunità di rappresentazione per i giovani. Anche perché siamo in una fase in cui è in atto finalmente un rinnovamento vero, per esempio nel cinema italiano. Dove ci sono molte pellicole di giovani registi che si stanno affermando con un successo clamoroso. Da “Benvenuti al Sud” a Checco Zalone, passando dai film di Fausto Brizzi a quello di Antonio Albanese». L’industria cinematografica italiana è finalmente uscita dalla crisi? «Lasciando fuori il cinepanettone i film italiani arrivano a sfiorare i 200 milioni di euro, che è una cifra da capogiro. Era dagli anni ’60 che non succedeva una cosa del genere. Il cinema italiano rischia di superare quest’anno il 50% della quota di mercato di tutta la filiera cinematografica di questo paese, laddove negli ultimi 10 anni la quota di mercato del cinema italiano era tra il 10 e il 12% nel migliore dei casi. In un anno passiamo dal 10 al 50%, una percentuale che potrebbe essere addirittura maggiore in base a come andrà il box office nel mese di maggio. Il cinema italiano sta andando molto bene, e i giovani registi nostrani sono un’ondata di rinnovamento per il sistema. Anche le istituzioni accademiche devono svolgere un ruolo fondamentale in questo cambiamento, dialogando con quello che accade fuori dai centri d’informazione». Cosa risponderebbe al ministro Giulio Tremonti quando dice che che “con la cultura non si mangia”? «Detta così è una cosa che mi Scrittore, poeta e drammaturgo tagli alla cultura. Detto questo rispondo provocatoriamente e dico che questa è una sfida, e che noi l’accettiamo: possiamo fare da soli, le nuove tecnologie ce lo consentono. Coloro che disprezzano la cultura in questo modo sono il vecchio, il passato e i responsabili dello sfascio attuale del Paese». È ancora possibile creare prodotti di qualità nonostante i tagli? «Loro vogliono tagliare, che lo facciano. Ma sono il pas- Non tutto può essere deciso dal popolo. In Italia un referendum per abolire le facoltà di filosofia rischierebbe di passare fa solo ridere, perché è di una grettezza culturale incredibile. Da un lato come cittadino mi viene da esprimere tutto il mio sdegno per chi non ha capito niente: un ministro della cultura in Italia è l’equivalente del ministro del petrolio in Texas. Se non si capisce questo si rovina un paese e il suo futuro. Mi batterò sempre al fianco di chiunque si schieri contro i “ Bisogna essere seri almeno riguardo a qualcosa, se si vuole avere divertimento nella vita 1895 sato. Bisogna che la nuova generazione si tiri su le maniche e faccia vedere che qui c’è una capacità di esprimere talento che è la stessa che ha creato il made in italy, quello che ci dà tuttora il benessere. Io sono uno dei tre, quattro milioni di italiani che “mangia di cultura”. Quello che possiamo fare noi in quanto Libera Università Privata, che per fortuna non fa dipendere le proprie sorti dai tagli ma dagli studenti che ogni anno ci scelgono, è cercare di fare al meglio il nostro lavoro e offrire ai nostri giovani la massima possibilità di essere apprezzati per quello che valgono». Checco Zalone ha battuto al botteghino un colossal pluripremiato come Avatar. Il futuro del cinema italiano è nella commedia? «Noi italiani siamo congenitamente legati alla forma commedia ancora prima del cinema, nel senso che il tragico ci è totalmente alieno. Gli italiani hanno mangiato pane e commedia e mentre uscivano i grandi capolavori del neorealismo andavano a vedere Pane Amore e Fantasia. Gli italiani sono votati al comico, che ci piaccia o no. L’ha capito bene il nostro Presidente del Consiglio, che ha fatto della barzelletta uno strumento di comunicazione. Ritengo che sia un limite grave non riuscire a produrre altre forme narrative che non siano le commedie, ma bisogna prendere atto che la cultura italiana è refrattaria a tutti i generi della modernità di massa». “ ENNIO FLAIANO IL CONCORSO La parte competitiva dello Iulm Film Happening riguarda studenti e neolaureati dei ventisette paesi dell’Unione Europea che potranno sbizzarrirsi nella produzione di documentari, videoclip, servizi televisivi: ogni tipo di lavoro audiovisivo concorrerà per il primo premio di 5.000 euro. Una giuria appositamente costituita sceglierà i trenta migliori prodotti inviati, che potranno essere votati dal 18 al 23 giugno sul sito www.filmhappening.iulm.it. Dopo la votazione popolare i cinque film più votati online saranno sottoposti al giudizio della commissione dei professori di cinema, televisione e new media delle Università italiane. Questa assemblea il 23 e 24 giugno terrà alla università Iulm un convegno sulle tendenze europee della ricerca audiovisiva e gli autori dei trenta filmati finalisti verrano invitati a Milano per presentare il loro lavoro e discuterne assieme agli altri partecipanti. Pagina 6 IULMnews LAB Iulm 20-24 giugno 2011 Chiara Daffini Roberta Rei L a Libera Università di Lingue e Comunicazione IULM organizza il primo IULM FILM HAPPENING, il festival multimediale delle Università e delle Scuole di Cinema dell’Unione Europea. La manifestazione, che si terrà dal 20 al 24 giugno 2011 presso l’università IULM di Milano, ha l’intento di promuovere e valorizzare gli scambi e le conoscenze tra le università e le scuole di cinema dei paesi comunitari. Durante questa rassegna di eventi si terranno alcuni workshop a numero chiuso, tenuti da professionisti del cinema, della televisione, della scrittura, del teatro e dell’animazione, tutti incentrati sul tema portante della serietà. I laboratori si svolgeranno nel corso delle quattro giornate e consentiranno ai partecipanti di mettersi alla prova nello svolgimento pratico di discipline che ancora troppo spesso vengono insegnate solo a livello teorico. Sarà dunque un modo per tastare in maniera concreta le dimensioni professionali legate al mondo della narrativa e dell’audiovisivo, ma anche una dimostrazione del fatto che pure la cultura più squisitamente umanistica possa avere un profilo tecnico e un valore economico. MODALITA’ ISCRIZIONE WORKSHOP Per iscriversi ad uno degli workshop previsti nell’ambito dello Iulm Film Happening 2011 è necessario compilare il modulo allegato e inviarlo, insieme all’informativa sulla privacy, via e-mail all’indirizzo [email protected]. Tutti gli workshop sono a numero chiuso. Non saranno accettate, pertanto, ulteriori iscrizioni rispetto al numero di partecipanti stabilito per ciascun workshop. Ogni candidato potrà iscriversi ad un solo workshop tra quelli programmati. È possibile scaricare il modulo di iscrizione dal sito: www.iulm.it Czech Dream (esk sen) E’ un documentario del 2004 realizzato da due giovani registi, Vít Klusák e Filip Remunda. Il documentario riprende lo sviluppo di un'enorme beffa, realizzata dai due registi, culminata, dopo una massiccia campagna promozionale, nell'apertura di un falso ipermercato, chiamato appunto esk sen (sogno ceco). Veri pubblicitari idearono inoltre slogan come "non venite" o "non comprate". Alla fine di tutto ciò ben 3000 persone accorsero il giorno della falsa inaugurazione, accorgendosi della beffa solo dopo essersi resi conto che, quella che da lontano appariva la facciata di un immenso ipermercato, non era in realtà altro che una tela dipinta. LE CONFERENZE U BITTANTI, CERAMI, GIANNINO, PUGLISI n ciclo di conferenze accompagnerà l’intera rasse- dibattiti su espressioni culturali per reinterpretare e scongna dello IULM FILM HAPPENING: quattro gli fessare la proprietà transitiva tra “serietà e gravità”, conincontri durante i quali si dibatterà sul tema della cetti ritenuti comunemente inscindibili. Incontri che, serietà con una “visione ad ampio raggio”. Perattraverso il confronto e l’analisi con gli spetché la serietà, intesa come fermezza, impegno, tatori, hanno l’obiettivo di smantellare il falso responsabilità, non deve prescindere da elesillogismo per cui ciò che “è serio” è necessamenti di sorriso. Una provocazione che armoriamente “controllato”, “contenuto”. Giacomo nizza concetti apparentemente opposti, e che Poretti, componente del noto trio comico filtra l’essenza della serietà con elementi di al“Aldo, Giovanni e Giacomo”, presenterà “A legria, animazione e vivacità. Singole confeSerious Man”, film dei fratelli Coen divertenrenze con relatori che rappresentano appieno tissimo e allo stesso tempo tragico. Un ractale connubio di diversità: Giovanni Puglisi, conto della vita chiaro ma anche riflessivo e rettore dell’Università IULM e presidente profondo. La parola “serious” riassume in della Commissione italiana dell’Unesco, Matqualche modo anche il significato di dedizione teo Bittanti, professore di Game Studies e Vie attenzione. Ma c’è da considerare che la giusual Studies presso il California College of the sta ironia può aiutare ad eludere e aggirare Arts di San Francisco e Oakland in California, Giacomo Poretti presenterà il anche gli stereotipi che accompagnano spesso Oscar Giannino, eclettico giornalista ed econo-22 giugno “A serious man” la nostra società, considerata frivola e leggera. mista e Vincenzo Cerami, scrittore, drammaturgo e sce- Animando di sarcasmo anche i temi più profondi senza neggiatore ( sua la sceneggiatura del premio Oscar del scadere nella superficialità. 1998 “La vita è bella”). Videoludica, educazione, cinema, Imparando a ridere, ma con serietà. LAB Iulm IULMnews Pagina 7 Serietà vo’ cercando Sette corsi-laboratorio durante i quali imparare insieme a professionisti affermati come realizzare un progetto nel campo che avrai scelto. I prodotti realizzati, che avranno come tema la serietà, verranno mostrati pubblicamente durante lo IULM Film Happening A cura di Matteo Bittanti e Santa Ragione A cura di Andrea Caccia Il progetto di workshop prevede la realizzazione di prototipi di gioco che illustrino, o comunque impieghino, meccanismi di dissonanza cognitiva, superstizione e profezia, effetto Ben Franklin e allegoria della caverna. Dopo l’introduzione, il corso si svolgerà in due fasi: Design/Prototipazione cartacea, Prototipazione digitale. MATTEO BITTANTI è professore di Visual Studies presso il California College of the Arts di San Francisco e Oakland in California. Scrive regolarmente per WIRED, Rolling Stone, Duellanti, Link, Saturno-il Supplemento del Fatto Quotidiano. Insieme a Gianni Canova, dirige la collana Ludologica.Videogame d’Autore dal 2003. www.mattscape.com SANTA RAGIONE sono Nicolò Tedeschi e Pietro Righi Riva che nel 2010 hanno fondato questa azienda che si dedica al design e allo sviluppo di giochi e videogiochi indipendenti, come Fotonica (2011), premiato dalla critica mondiale. www.santaragione.com Partecipanti: 30 Costo: 250 Da Stanislavskij all’Actor’s Studio: il workshop si propone di introdurre i partecipanti alla pratica del palcoscenico, offrendo la possibilità di lavorare come registi o attori. Il workshop di 4 ore al giorno per 5 giorni affronta le seguenti discipline: -lineamenti di pratica registica, -scrivere per il teatro: fondamenti di drammaturgia, -il lavoro dell’attore: corpo e voce al servizio di una comunicazione efficace. VALENTINA GARAVAGLIA è una professoressa di Teatro moderno e contemporaneo presso la Libera Università di lingue e comunicazione IULM di Milano, dove si dedica allo studio dei codici della messinscena teatrale e della formazione dell’attore. Costo: 250 Il workshop è rivolto a studenti e appassionati di cinema già in possesso dei fondamentali di regia, riprese e montaggio. I partecipanti entreranno in contatto con le dinamiche di realizzazione del prodotto cinematografico, affrontando le principali questioni che devono essere considerate quando si decide di realizzare un film. MARCO CHIARINI, diplomato in scenografia all’Accademia di Belle Arti di Urbino e in regia al Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma, esordisce nel 2009 con il lungometraggio L’uomo Fiammifero , con il quale entra in nomination ai David di Donatello 2010 come miglior regista esordiente. Gira numerosi corti e documentari e si interessa alla didattica dell’audiovisivo per scuole di ogni ordine e grado. Costo: 300 Costo: 250 Gratuità: 2 A cura di Antonio Scurati “Fare sul serio con le parole sembra che oggi significhi solo narrare piccole storie, basate o sulla messa in finzione della vita privata di chi racconta o su un minuzioso realismo preso in prestito dalla cronaca”. Il laboratorio interrogherà e sfiderà questa ideologia dominante e sarà articolato in lezioni teoriche, sessioni di scrittura collettiva, lettura e revisione dei testi creati in aula, saggio finale con lettura pubblica delle prove più convincenti. I candidati devono presentare, unitamente alla domanda di ammissione, una breve narrazione (non più di 10.000 battute, spazi inclusi) nella quale raccontano la loro storia. ANTONIO SCURATI è scrittore e saggista, docente e ricercatore in cinema e televisione all’Università IULM di Milano, coordina il Centro studi sui linguaggi della guerra e della violenza ed è editorialista di “La Stampa” e collaboratore di “Sette”. Nel 2005 uno dei suoi romanzi, Il Sopravvissuto, ha vinto la XLIII edizione del Premio Campiello. Partecipanti: 20 Costo: 250 Gratuità: 2 a cura di Massimo Cellario Il workshop affronta lo sviluppo di formati e contenuti per media digitali, con particolare riferimento a strategie e tecnologie per la produzione, distribuzione e condivisione di rappresentazioni narrative e interattive in rete. I progetti si articoleranno in rappresentazioni digitali alternative di cui verranno esplorate le dinamiche di diffusione sociale/virale, in relazione alla percezione di serietà associata alle rappresentazioni Gratuità: 3 A cura di Marco Chiarini Partecipanti: 15 Partecipanti: 20 Gratuità: 3 A cura di Valentina Garavaglia Partecipanti: 20 Il percorso si articola in quattro giornate e mezza – suddivise tra teoria e pratica – nelle quali i partecipanti si confronteranno con le diverse fasi di realizzazione di un film documentario: la nascita dell’idea e la scrittura, la pre-produzione e la fotografia, le riprese, il montaggio e la postproduzione. ANDREA CACCIA si dedica al documentario poetico e all’insegnamento del linguaggio visivo. I suoi film hanno ricevuto riconoscimenti e partecipato a numerosi festival, tra cui la Mostra del Cinema di Venezia, il Festival Internazionale di Locarno, il Rotterdam International Film Festival. Gratuità: 2 stesse in fase di design. MASSIMO CELLARIO è docente e ricercatore universitario nel settore Media, Multimedia e Comunicazione Digitale; dal ‘98 svolge attività accademica e professionale di collaborazione, coordinamento e consulenza in progetti italiani e internazionali. Partecipanti: 15 Costo: 300 Gratuità: 2 a cura di Toni Capuozzo Attraverso lo strumento del reportage e della videoinchiesta, i partecipanti verranno spinti a trovare esempi di “serietà” nella vita di tutti i giorni. Girando per le strade di Milano armati di videocamera, potranno cogliere la realtà che si cela dietro una patina di superficialità e dietro la velocità della metropoli lombarda. TONI CAPUOZZO è uno dei più importanti giornalisti d’approfondimento italiani. Dagli anni ‘90 lavora per il gruppo Mediaset, arrivando fino alla qualifica di vicedirettore del TG5. Tra i suoi libri, Il Giorno dopo la Guerra (Feltrinelli, 1996) e Adios (Mondadori, 2007). Partecipanti: 20 Costo: 250 Gratuità: 2 Pagina 8 DOSSIER CARCERE LAB Iulm Qui la rieducazione avviene attraverso il rispetto della legge. Viaggio nell’unico carcere italiano in cui la Costituzione viene applicata Carolina Saporiti I l carcere è un posto dove si esercita la giustizia, non il potere” dicono Lucia Castellano, direttrice del carcere di Bollate e Donatella Stasio, giornalista de “Il sole 24 ore”, nel libro “Diritti e castighi”. Il carcere, infatti, non deve annullare il detenuto in quanto delinquente, ma deve essere un luogo dignitoso dove si produce educazione, lavoro e anche cultura. Infatti, in base all’articolo 27 della Costituzione, la pena non può consistere in trattamenti contro il senso di umanità e deve tendere alla rieducazione del condannato. A Bollate la Costituzione è rispettata. Non si può dire lo stesso delle altre carceri: la rieducazione e il rispetto della dignità nella maggior parte delle carceri rimane solo sulla carta e si cade nel paradosso di carceri fuorilegge, che hanno anche un secondo grave difetto: non funzionano. Il carcere che fun- I detenuti in Italia sono 67mila. Duecentootto gli istituti di reclusione presenti sul territorio. Ma la capienza massima prevista sarebbe di 45mila. Più di 20 mila oltre il consentito ziona è invece quello che si organizza per produrre libertà. A toglierla ci pensano già le mura invalicabili. Bollate è una casa di reclusione situata nella periferia di Milano e di recente costruzione. Dal giorno della sua Progetto Bollate apertura, nel 2001, l’amministrazione ha deciso di puntare sul trattamento. I detenuti di Bollate non passano le giornate in cella, ma secondo le norme della legge Gozzini e il Regolamento del 2000, dopo la colazione e la doccia, le celle vengono aperte e quei pochi detenuti che non lavorano, non vanno a scuola o non escono in permesso, possono comunque girare liberamente per i piani del loro reparto dove c’è una sala “svago” con un tavolo da pingpong e un biliardino. I detenuti in Italia sono più di 67mila, suddivisi in 208 istituti, ma la capienza regolamentare prevedrebbe 45.000 carcerati, non di più. A Bollate vivono 1040 detenuti, ma solo 750 hanno una condanna definitiva, gli altri sono “di passaggio”. Non c’è sovraffollamento: caso pressocché unico in Italia il limite di capienza è rispettato. Gli ospiti hanno commesso diversi reati e sono tutti detenuti “comuni”, qualcuno sconta anche l’ergastolo, non ci sono però i carcerati cosiddetti a “elevato indice di sorveglianza” (che complessivamente in Italia sono 9.300). Tra i “comuni” si contano anche i “protetti”: stupra- tori, pedofili, pentiti, poliziotti finiti in galera e transessuali. L’amministrazione penitenziaria li protegge con l’isolamento in reparti separati per evitare maltrattamenti da parte degli altri detenuti. A Bollate i protetti trascorrono il loro primo anno nel reparto a loro dedicato dove seguono un percorso terapeutico, poi vengono trasferiti negli altri reparti, quelli dei “comuni”. La differenza tra Bollate e le altre carceri è che qui nessuno osa fare qualcosa contro gli ex-protetti perché il rischio che si corre è troppo alto, si può essere cacciati. A Bollate, si diceva, i detenuti hanno la possibilità di lavorare e la maggioranza di loro lo fa, altri vanno a scuola, c’è chi studia per ottenere il diploma, chi la laurea. Le scommesse e gli investimenti di Bollate danno i loro frutti: la recidiva di chi ha scontato la pena chiuso in cella 20 ore al giorno è molto più alta di quella dei detenuti che hanno avuto la possibilità di lavorare o studiare. La media italiana di recidiva sfiora il 70%, a Bollate scende al 18%. Non solo, la relazione parlamentare sul lavoro in carcere del 2001 dice che “La diminuzione di un solo punto percentuale della recidiva corrisponde a un rispar- mio per la collettività di circa 51 milioni di euro l’anno”. Anche il rapporto con la Polizia penitenziaria è migliore che da altre parti, ma sono serviti anni per arrivare a una pacifica convivenza e in qualche caso anche a uno scambio tra per- La recidiva di chi ha scontato la pena chiuso in cella venti ore al giorno è statisticamente molto più alta di quella dei detenuti che hanno avuto la possibilità di lavorare o studiare sone. Altrove i poliziotti di cui i carcerati conoscono il nome, e che perdipiù accettano il catering della cooperativa carceraria per la festa annuale della polizia penitenziaria, sarebbero definiti gli “accamosciati”, ovvero poliziotti che si sono LAB Iulm DOSSIER CARCERE Pagina 9 Delitto e Castigo: la vita dietro le sbarre I Monica Giambersio l funzionamento delle carceri in Italia è regolato dalla legge 354/1975 e dal D.P.R. 230/2000 (Regolamento sull'ordinamento penitenziario). Queste norme non solo contengono una classificazione delle varie tipologie di regime detentivo, ma disciplinano in maniera sistematica ogni aspetto della vita in prigione. Quella carceraria, infatti, è una realtà complessa, che prevede una differenziazione dell'intervento punitivo in base ai reati commessi in modo da porre sul piatto della bilancia, da una parte, l'aspetto afflittivo della pena, dall'altro quello rieducativo. Se le case circondariali sono riservate ai detenuti in attesa di giudizio, le carceri di massima sicurezza, invece, ospitano i condannati per reati di criminalità organizzata, mafia, terrorismo, che sono sottoposti al regime del carcere duro previsto dall'art. 41 bis. Questa tipologia di detenuti è soggetta a misure di restrizione più rigide come la riduzione del numero dei colloqui (che avvengono attraverso un pannello divisorio per impedire il contatto fisico), la limitazione delle attività comuni, l'esclusione dall'attività lavorativa e dalla frequentazione di scuole, biblioteche o attività di culto, e la riduzione delle “ore d'aria”. I tossicodipendenti e i detenuti non pericolosi socialmente, infine, scontano la loro pena all'interno di istituti a custodia attenuata. In questi luoghi di detenzione, dove spesso si armessi al servizio dei detenuti, rinunciando a ruolo e dignità. Altrove ma non a Bollate. Antonino Giacco, vicecomandante e colonna portante di Bollate spiega: “Stare qui significa intendere la detenzione e la sorveglianza in modo più proficuo. Ma non ci siamo inventati niente di nuovo: il regolamento del 2000 ha esteso la custodia attenuata ai detenuti di media sicurezza. Noi applichiamo solo il regolamento. Eppure…”. Eppure Bollate è considerato ancora un esperimento. Anche a Bollate però non tutto funziona correttamente: l’acqua calda c’è, ma non per tutti; le pareti delle docce sono verdi a causa della muffa e ogni tanto filtra l’acqua piovana dal soffitto. Pur essendo un carcere di recente costruzione, avrebbe già bisogno di sistemazioni perché non è stato costruito con cura. Ogni governo che sale al potere parla di chiudere e costruire nuove carceri, ma l’edilizia penitenziaria è lenta, i costi negli anni lievitano e i buoni propositi svaniscono perché i soldi per il sistema penitenziario non ci sono mai. riva dopo aver sperimentato il carcere tradizionale, viene data ai reclusi la possibilità di riabilitarsi attraverso una vasta gamma di attività, in modo da favorire il loro futuro reinserimento nella società. Ma come scorre la vita all'interno di un carcere? Il primo impatto con la realtà carceraria avviene presso l'ufficio matricola, dove vengono scattate foto, prese le impronte digitali e annotati i dati anagrafici della persona. Una volta fatto ciò viene effettuata una perquisizione durante la quale vengono sequestrati tutti gli effetti personali come orologi, cinture ed eventuali oggetti di valore. Il denaro, invece, viene registrato su un conto corrente dove verranno addebitate tutte le future spese del detenuto e dove verrà accreditato il compenso poveniente dall' attività lavorativa. Dopo essere stata “immatrico- IL PERSONAGGIO lata” e sottoposta a un controllo medico che ne accerti la compatilità con il carcere, la persona entra a far parte di una rigida routine. La giornata inizia alle 7 e 30 con il controllo numerico dei presenti e la colazione consegnata dai “portavitto”, lavoratori dell'amministrazione addetti alla consegna dei pasti. Subito dopo la colazione viene effettuata la raccolta delle “domandine”, richieste, scritte alla direzione su appositi moduli, necessarie per ottenere colloqui con il direttore, con gli educatori, con gli psicologi o con il cappellano. Attorno alle 8 e 30, invece, i detenuti, dopo aver provveduto autonomamente alla pulizia delle loro celle, in parte si dedicano a vari tipi di attività (scolastiche, sportive, ricreative), in parte escono per i “passeggi”, intervalli di un'ora di tempo in cui è concesso restare all'aria aperta. Il resto del tempo, in media 20 ore, viene trascorso in cella. Ma l'aspetto più difficile da gestire della vita in carcere, oltre alla privazione della libertà personale, è sicuramente quello dei rapporti con i familiari. Il regolamento, infatti, prevede che chi sta scontando una pena detentiva possa avere, con familiari, conviventi o altre persone, solo sei colloqui al mese, della durata di un'ora l'uno, che in alcuni casi possono essere utilizzati in un'unica visita. Oltre a questo, una rigida burocrazia impone a coloro che entrano in carcere, per far visita ai detenuti, di essere muniti di un documento di identità e di uno stato di famiglia che attesti il grado di parentela con la persona reclusa. Anche per quanto riguarda l'utilizzo del telefono le regole non sono meno rigide. Neanche l’unica telefonata concessa durante la settimana, può essere fatta senza l'autorizzazione del direttore del carcere per i condannati, dell'autorità giudiziaria per i detenuti in attesa di giudizio di primo grado, del giudice di sorveglianza per gli appellanti e i ricorrenti. A ciò si aggiunge il divieto di prolungare la conversazione per più di 10 minuti e l'obbligo di rendere nota la persona con cui si sta parlando. Delle piccole agevolazioni vengono concesse ai detenuti nel caso abbiano figli d’età inferiore ai 10 anni. In questo caso si può richiedere un aumento del numero delle visite e delle telefonate. Lucia Castellano, l’utopia possibile Caparbia, tenace, determinata. Sono questi i tre aggettivi che meglio si addicono a Lucia Castellano, laureata in giurisprudenza, avvocato, attualmente direttrice della Seconda Casa di reclusione di Milano, il carcere di Bollate. E sono proprio queste le qualità che le hanno permesso di portare avanti una carriera, ormai ventennale, cominciata in età giovanissima. E’ del 1991 infatti il suo primo incarico all’istituto carcerario Marassi di Genova, prima in qualità di vice e successivamente di direttrice. Poi a Eboli, nel centro per la custodia attenuata di tossicodipendenti dove sperimenta una forma di carcere-comunità per il recupero dei detenuti in collaborazione con i servizi territoriali. E poi ancora Secondigliano, Vallo della Lucania, Alghero, Tempio Pausania, fino ad approdare nel 2002 alla direzione del carcere di Bollate. “Quando sono arrivata sapevo di avere davanti a me un compito particolare perché questa è una Casa di reclusione che ha una vocazione trattamentale di orientamento, per detenuti con bassa pericolosità sociale. Quindi parliamo di un compito principalmente di recupero, di sostegno al recupero”. Uno degli obiettivi principali di Bollate è infatti il miglioramento della qualità della vita, sia per chi ci lavora sia per chi vi è detenuto. Un lavoro da ammirare, quello della Castellano, anche alla luce del suo essere donna. Infatti nel settore penitenziario, così come in tanti altri, le donne arrivano fino ad un certo punto di carriera, ma non ai livelli più alti. Eppure è stato forse proprio il suo essere donna, la capacità di avere un rapporto più empatico sia con i subordinati che con l’utenza, che le ha permesso di raggiungere gli obiettivi che si era prefissata. Un istituto penitenziario pensato come se si trattasse di una grande azienda che ha per fine ultimo il reinserimento sociale e la rieducazione dei detenuti attraverso il lavoro e le molteplici attività extracarcerarie svolte in un clima di collaborazione e serenità generale. Una vita dedicata ai detenuti, al loro recupero, alla loro rieducazione. Un lavoro, anzi, una vera e propria missione che Lucia Castellano porta avanti da anni con esperienza, orgoglio e passione. Erika Crispo Pagina 10 DOSSIER CARCERE LAB Iulm Il recinto delle libertà Tra regole e divieti si snoda il percorso della "rieducazione" un processo interiore per tornare a sentirsi parte di una comunità Marco Giorgetti del mio almanacco delle scienze criminologiche, di iorgio mangia la pizza, fronte allo sguardo attento di seduto proprio accanto quest’uomo; scommetto che a me. Solo da qualche sta cercando di capire che cosa istante ho dato un nome alla penso, in fondo, della sua consensazione che sto provando, dizione; e mi sento quasi nudo, mentre lo guardo e mi sembra percependo che indovina senza impossibile che io stia man- dubbio ogni mio pensiero. giando con un assassino. “As- In definitiva Giorgio si aspetta sassino” è il nome di Giorgio anche da parte mia quel che per chiunque viva fuori di qui, spera gli sia concesso dalla soper chi vive da “innocente” cietà intera, e cioè una fiducia fuori dalle mura del carcere di rinnovata, una fiducia che perBollate. E la sensazione che sino lui è incapace di accordare provo è un profondo imba- a se stesso: potrebbe infatti razzo. Si tratta di un disagio ri- uscire dal carcere già da qualflesso, scaturito da un che mese, beneficiando del faconsolidato senso dell’assurdo: moso articolo 21, per svolgere perché in realtà trovo inconce- lavori all’esterno, ma si rifiuta pibile pranzare con un omi- di valersi di questa opportucida; ma qui, ora, prevale nità. Si potrebbe sospettare che l’imbarazzo generato dalla mia Giorgio abbia in fondo paura incapacità di scorgere Giorgio, di se stesso, della sua libertà; il suo sguardo, la sua umanità, ma a domanda esplicita sull’aral di là del marchio che ha im- gomento risponde con sicupresso sulla sua vita quel gesto rezza disarmante, e tutti inconsulto, commesso chissà riceviamo la limpida sensaquando e chissà come. Parlo zione che la libertà che gli è con Giorgio e mi scopro in stata sottratta non possa che escontraddizione sergli pian con me stesso, Quale imperativo piano restituita, perché sono velui potrebbe mai giacché nuto in carcere stesso si diper compren- essere rispettato chiara incapace dere il controda parte di chi di riprendersela senso di una le sue non fosse con pena afflittiva e forze. La chiaghettizzante, e in possesso della rezza di vedute invece mi rila commopropria libertà? evente trovo a subire i sincerità miei stessi prePiù ancora, che che Giorgio giudizi – bensu senso avrebbe manifesta c h é questo punto inconsciamente ordinare alcunché mi lasciano – a causa del a chi non potesse senza parole, e vizio di divimi ammoniimpegnarsi con scono circa la dere l’umanità in buoni e cat- la propria libertà? necessità del tivi. mio sforzo di In fondo nutro anch’io il so- accettarlo, di tornare a fargli spetto che chiunque abbia sba- spazio, poiché lui – a diffegliato una volta, sia in qualche renza di tutti noi “innocenti” – modo destinato a ricadere, o al- non può e non vuole imporsi. meno più incline all’errore. E’ difficile spiegare quel che Riaffiorano nella mia mente provo nello stringere la mano a parole da laboratorio crimino- Giorgio, al termine della nostra logico, concetti noti sui quali visita al carcere di Bollate: per ho riflettuto a lungo nel corso la prima volta sento che lo dei miei studi giuridici: perico- sforzo di comprensione di una losità sociale, spinta crimino- condizione generalmente pergena, recidiva; ripenso persino, cepita come “diversa” è di per quasi per rassicurarmi, alle co- sé capace di smascherare l’inlonne di statistiche che ho ganno della diversità, gli orscorso in questi giorni, e che il- pelli della segregazione e del lustrano la rarità della recidiva pregiudizio. tra i detenuti del carcere di Attraverso questo percorso inBollate. Eppure mi vergogno G Pausa Pizza durante la nostra visita al carcere di Bollate teriore ho forse compreso qualcosa in più delle dinamiche della cosiddetta rieducazione che si svolge all’interno del carcere di Bollate. Questa sorta di processo riabilitativo si gioca tutto sull’equilibrio incerto tra libertà e divieto, tra emancipazione e obbedienza. I detenuti, ad esempio, lavorano liberamente in un call center allestito all’interno del carcere: passano giornate intere al terminale, rispondono alle chiamate degli utenti, stanno in contatto con tutto il mondo; tuttavia non possono introdurre nel call center chiavette USB o altri supporti, potenzialmente idonei al trasferimento di materiale informatico all’interno della casa di reclusione. Altri detenuti si occupano dello Sportello Giuridico: accolgono richieste dei propri compagni e le inoltrano alla direzione del carcere o all’autorità giudiziaria, ma coloro che non si occupano di questo servizio non possono assolutamente compilare domande di contenuto giuridico, né fare fotocopie all’interno della stanza dedicata a questo ufficio. Una detenuta mi fa anche notare che di solito, in carcere, non si possono indossare cinture, stringhe alle scarpe o altri oggetti potenzialmente utilizzabili per nei pressi delle finestre, scruscopi autoletando il cielo sivi; qui a Bol- Giorgio si aspetta attraverso le late, invece, anche da parte sbarre. Finita la detenuti opesi volmia quel che sigaretta rosi manegtano all’interno g i a n o spera gli sia del corridoio e addirittura cedepositano il concesso dalla mozzicone soie e zappe per in società intera, appositi raccola cura delle serre. Nelle e cioè una fiducia glitori, spesso stesse celle di strapieni, il cui rinnovata, utilizzo è gendetenzione si possono tenere una fiducia tilmente propiccole bommosso da altri che persino lui cartelli, sparsi bole di gas per preparare qualè incapace qua e là per le che spuntino pareti: “Per predi accordare servare il decaldo, ma il divieto di introa se stesso c o r o durre mobilio dell’istituto, i non incluso nelle suppellettili detenuti sono pregati di non del carcere campeggia, sempre gettare i mozziconi di sigaretta rispettato, sui muri dei corri- nel corridoio, utilizzando gli doi. Altri cartelli invitano a non appositi contenitori”. fumare all’interno degli am- Ammetto che mi stupisce tanta bienti chiusi, se non in prossi- cordialità nell’impartire ordini mità delle finestre, e mi e nello stabilire divieti all’indicolpisce il tono della prescri- rizzo di persone, paradossalzione: “I detenuti sono pre- mente, “private della libertà”. gati…”, e non il più comune Quale imperativo potrebbe mai “E’ vietato…”, a sottolineare la essere rispettato da parte di chi ragionevolezza della richiesta, non fosse in possesso della per la convivenza all’interno propria libertà? Più ancora, che del carcere tra fumatori e non senso avrebbe ordinare alcunfumatori. E infatti piccole folle ché a chi non potesse impedi tabagisti, incalliti nel vizio gnarsi con la propria libertà? dalla detenzione, si accalcano E’ evidente che all’interno del LAB Iulm DOSSIER CARCERE Pagina 11 Appunti da una chiacchierata in galera Marco Subert U n cubo di cemento accanto all’autostrada. Di un tono di grigio abbastanza chiaro da staccarsi dall’ uniformità anonima e plumbea della periferia. Come fosse la copia in negativo di uno dei tanti capannoni industriali che ci si lascia di fianco. Un’increspatura anomala nella scenografia di palazzi che costeggiano l’autostrada dei laghi. Per questo si nota il carcere di Bollate, perché intorno c’è un muro troppo alto per essere una cinta ordinaria. Un muro altissimo e punteggiato dalle torrette di guardia. Il mio rapporto più stretto con la galera era sempre stato soltanto questo: passarci accanto. Il cancello che ti si chiude alle spalle è ben altra cosa. I primi sguardi che si incrociano all’ingresso sono quelli dei parenti dei detenuti. Curiosi della nostra comitiva ci osservano nello stanzone squallido dove si consegnano i documenti per l’identificazione. Alcuni arrivano su macchine grosse e potenti coi vetri scuri. Scendono e hanno la coda di cavallo unticcia e la catena d’oro. Altri hanno facce che raccontano storie di miserabile emarginazione. Vestiti con tute lise comprate al mercato rionale aspettano di entrare. Poi c’è un bambino, giocherellone come qualunque altro, iscritto alla prima elementare. Allegro come ogni suo coetaneo quando gli fai bigiare la scuola per andare a trovare i parenti. Mi pianta due occhioni iperattivi addosso, sembra non percepire nulla di anomalo. Andare a trovare il papà in galera per lui è la norma. Devo abbassare lo sguardo. Sono a disagio. Entriamo nella sala dove si svolgerà l’incontro, un ambiente grande e disadorno che affaccia su un cortiletto asfittico. Poco dopo arrivano i detenuti, ci sediamo. Da una parte loro, dall’altra noi. Siamo impigliati nei nostri ruoli, c’è diffidenza. Si parla a turno, domande e risposte. Alla discussione partecipano anche due agenti di polizia penitenziaria, due ragazze. Sono le chiacchiere tra queste e i detenuti a decollare per prime. Si vedono tutti i giorni - da carcere di Bollate l’intero processo rieducativo si gioca sulla scommessa della libertà, sicché ogni chance di autonomia – impensabile in altri istituti carcerari – contiene in sé il rischio della violazione e perciò del fallimento; ma allo stesso modo ogni divieto presenta non solo l’occasione di essere rispettato, ma anche l’opportunità di essere compreso ed accolto come regola di convivenza, come norma costruttiva, e non solo come restrizione delle facoltà. Non è un caso, del resto, se nel locale in cui i detenuti stendono i panni la biancheria è ordinatamente disposta su fili e scaffali separati. Da un lato ci sono le scarpe per lo sport, dall’altro gli indumenti intimi, in un altro posto ancora il vestiario; sulle pareti spiccano alcuni cartelli: “scarpe”, “biancheria”, “vestiti”; non sono ordini impartiti dalla direzione del carcere, ma segnali affissi dagli stessi detenuti, che si sono dati un ordine per vivere meglio. Chiunque aderisca al minimo di armonia descritta da quei cartelli s’inserisce nella piccola società del carcere di Bollate, una comunità che prova a riabilitarsi, raccogliendo la sfida della libertà. chissà quanti anni e chissà per quanti ancora – ma non si sono mai parlati prima. E’evidente. Si punzecchiano, scherzano. Abbozzano guizzi di confidenza. Mi ricorda il clima che si crea al liceo con il professore che ti porta in gita. Quando calano le difese e ci si dimentica dei ruoli. Ma non dura tanto. C’è un punto oltre il quale non si va. Non siamo al liceo, non siamo in gita. Basta un niente perché i sorrisi si spengano e l’espressione degli Nel carcere di Bollate si incontrano persone talmente simili e vicine a te da indurti a pensare che non sia tanto difficile attraversare il confine tra la libertà e la galera agenti torni distante e fredda. Le guardie, i criminali. E’ una questione di ruoli, appunto. Finito l’incontro istituzionale, il dibattito con i moderatori e le alzate di mano, la situazione si sblocca. Ci si alza, ci si mescola e la voglia di comunicare e conoscersi vince. Ci sparpagliamo in grup- E’ straniante parlare a lungo con una persona trovarcisi bene, starsi simpatici - e poi scoprire che è un assassino e che la sua vita scorre tra mura di cemento puscoli e la curiosità per quest’altro mondo – nascosto dietro un muro – concima l’incontenibile bisogno di raccontarsi dei detenuti. Le bocche di tutti si aprono insieme. Un coro di storie, sarebbe bello ascoltarle tutte e riferirle una a una. Giro da un gruppetto all’altro. Di solito c’è un detenuto e tre o quattro di noi ad ascoltare. Rubo frammenti di discorsi normali. “Come faccio a fidarmi se mia figlia va a una festa? Come faccio a sapere chi incontrerà?” “Io lavoro giù al vivaio.” “Dopo, quando passiamo dalla redazione ti faccio vedere…”. Sono le stesse cose che si ascoltano per strada, al mercato, in metropolitana. Le stesse chiacchiere cordiali di chi si sta conoscendo. E anche le facce sono le stesse. Niente anomalie Lombrosiane. Arriva la pizza, la fanno alcuni di loro che lavorano per una cooperativa che si occupa di catering. Ci sediamo a mangiare. La pizza è ottima e il pranzo ciarliero come ogni uscita con gli amici. Tutto sembra dannatamente uguale a fuori. Tutto tranne il motivo per cui queste persone vivono inscritte in un muro di cemento. Ci sono vite normali che sono deragliate in un attimo. Ci sono storie tanto complicate da non lasciare spazio a un epilogo diverso. Ci sono uomini che mi somigliano al punto di farmi pensare che il confine tra la libertà e la galera non sia così difficile da attraversare. La curiosità seda la diffidenza, domando a un ragazzo perché è dentro. Non si scompone, mi sorride. “Indovina?” Ha lo sguardo pieno e gentile. Resto in silenzio. “Omicidio” mi dice lui. “Sei l’ultima persona con cui vorrei litigare fuori di qui” Rispondo. “Ti assicuro che i miei interlocutori erano molto meno affabili di te.” Ridiamo. Sono le ultime parole della giornata: è ora di andare. E’ straniante parlare a lungo con una persona – trovarcisi bene, starsi simpatici – e poi scoprire che è un assassino. Ho la testa ingolfata di stimoli. Mi viene in mente la strofa di una canzone di De André: “La città vecchia” che dice “se tu penserai, se giudicherai da buon borghese, li condannerai a cinquemila anni più le spese, ma se cercherai se li capirai fino in fondo, se non sono gigli son pur sempre figli vittime di questo mondo.” Il cancello si chiude dietro di me, sono fuori. Per la prima volta capisco che cos’è la libertà. Pagina 12 DOSSIER CARCERE Il lavoro dietro le sbar Call center, sartoria, catering e falegnameria: così i detenuti si reinseriscono nella società V LAB Iulm Valentina Evelli i ricordate lo spot televisivo in cui Claudio Bisio, alla ricerca di un ristorante, chiamava un call center per sapere come raggiungerlo? Trasferite il call center in questione (anche se il numero “utile” non è lo stesso di Bisio) dietro le sbarre di Bollate e troverete una sessantina di detenuti pronti a rispondere alle vostre richieste. Parte da qui, da un capannone all’interno delle mura carcerarie una tra le numerose realtà professionali che si possono trovare a Bollate. Uomini costretti per anni dietro le sbarre che con un semplice click indirizzano e consigliano chi, da ogni parte dello stivale, chiede indicazione a un operatore telefonico. La Sst, una società che gestisce call center (Telecom Italia Mobile, con il 1254, e Tre) e prodotti commerciali informativi, da alcuni anni ha infatti spostato una delle sedi operative all’interno del carcere di Bollate. La ragione sta in una convenienza di legge. Le aziende che organizzano attività produttive per tutte le persone considerate “svantaggiate” ( detenuti, tossicodipen- Il lavoro è un elemento imprescindibile per il reinserimento sociale dei detenuti. Imparare un mestiere che sia spendibile anche all’esterno è un aiuto professionale e psicologico fondamentale denti e alcolisti), grazie alla legge Smuraglia (legge n.123/2000), possono beneficiare sia di consistenti sgravi fiscali che contributivi. Da un lato l’impresa ottiene un credito fiscale mensile pari a 516,46 euro per ogni lavoratore assunto, mentre per le cooperative sociali che assumono detenuti viene ridotta l’aliquota prevista per l’assicurazione obbligatoria. Minimi anche i costi di gestione: i capannoni in cui lavorano i detenuti sono strutture date in comodato d’uso dall’amministrazione carceraria che non comportano per l’azienda costi aggiuntivi. Grazie a queste agevolazioni si crea un circolo virtuoso e in carcere entra lavoro “vero”. Da un lato i vantaggi fiscali per le ditte, dall’altro la possibilità per i carcerati di completare il lungo processo di recupero. «Il lavoro è un elemento imprescindibile sia nel percorso di rieducazione che in quello per il reinserimento sociale dei detenuti»; commenta così l’importanza del fenomeno Simona Gallo, educatrice del carcere: «Imparare un lavoro che sia spendibile anche all’esterno è un aiuto psicologico e professionale fondamentale per chi è costretto a vivere quotidiana mente la realtà carceraria». I detenuti possono così essere reinseriti nel circuito lavorativo, rispondendo alle esigenze professionali del mercato. Seguendo le prescrizioni dei contratti nazionali, i carcerati percepiscono uno stipendio pari a quello di chi lavora all’esterno (tra i 1000 e i 2000 euro). Un reddito fisso che garantisce sia l’ indipendenza economica che un supporto per le famiglie. «Rispetto a chi lavora fuori mi sento agevolato: in carcere non abbiamo spese da sostenere, così, buona parte di quello che guadagno lo posso dare a mia moglie» - sottolinea sorridendo Marco, un detenuto che lavora nel call Per ogni lavoro disponibile viene pubblicato un bando in cui si specificano le caratteristiche necessarie. Ogni detenuto presenta la sua domanda ma sarà l’azienda a selezionare i propri dipendenti center da sei mesi. Due le aziende che fino ad oggi hanno creduto nel “progetto Bollate”- oltre alla SST, anche la Bee2 (un’azienda che produce composizioni floreali) ha permesso a duecento persone di ottenere un lavoro stabile. Sono invece otto le cooperative sociali che offrono servizi di ogni genere: catering, giardinaggio, falegnameria, sartoria, spettacoli teatrali e produzione di pellame. Grazie all’articolo 21 dell’ordinamento penitenziario alcuni carcerati possono uscire dalla struttura per svolgere la propria professione anche all’esterno. Lo stipendio? Circa seicento euro mensili. Non bi- sogna dimenticare infine tutti i detenuti che lavorano alle dipendenze dell’amministrazione carceraria: chi si occupa delle pulizie, della spesa e della cucina. Per loro la retribuzione non supera i 150 euro mensili. Una realtà lavorativa, quella di Bollate, che nelle sue diverse forme coinvolge oltre il 60% della popolazione carceraria, in cui le donne restano ancora in forte minoranza. Come avviene la selezione del personale? «Per ogni lavoro disponibile viene pubblicato un bando in cui si specificano le caratteristiche necessarie - spiega la dottoressa Gallo ogni detenuto può presentare la sua domanda all’ufficio corsi e sarà poi l’azienda stessa a selezionare i dipendenti». Un esempio, quello di Bollate, tra i più lungimiranti nel panorama penitenziario italiano. Ricorda Simona Gallo: «Il nostro auspicio è poter aumentare ulteriormente la presenza di aziende esterne nella nostra struttura. Sappiamo quanto è importante il lavoro per i detenuti. Poter svolgere una professione aiuta a non andare in depressione e a sentirsi di nuovo parte della società». La realtà professionale maturata nel corso degli anni nel carcere di Bollate è stata raggiunta grazie a un percorso che mira al reinserimento e al recupero del detenuto considerandolo parte integrante della società. I NUMERI 60% la percentuale di detenuti che svolgono un’attività nel carcere 516,46 il credito d’imposta mensile per ogni detenuto assunto dall’azienda 200 i detenuti che lavorano per aziende esterne 8 le cooperative sociali che operano all’interno del carcere LAB Iulm DOSSIER CARCERE L’INTERVISTA Pagina 13 SUSANNA MAGISTRETTI La sfida di Cascina Bollate 80mila piante, una speranza Francesco Priano U n luogo dove si prepara il rientro dei detenuti nell’alveo della legalità, formando al lavoro persone che, altrimenti, all’interno del carcere butterebbero via il loro tempo e la loro intelligenza nel nulla». Così Susanna Magistretti definisce Cascina Bollate, la cooperativa sociale che gestisce le aree verdi della Casa di Reclusione di Bollate, di cui è responsabile assieme a Massimo Iacopetti. Cascina Bollate ha in gestione due serre e un terreno di circa 10.000 mq dove, grazie al lavoro dei detenuti, vengono coltivate piante difficili da reperire sul mercato, fra cui erbacee, graminacee e rose antiche. I prodotti di Cascina Bollate sono disponibili nel negozio situato all’interno del carcere, ma al quale si può accedere liberamente, e sul sito www.cascinabollate.org. 2000 anno in cui è entrata in vigore la legge 193 “Smuraglia” 2 le aziende esterne che hanno una sede nel carcere di Bollate 1000-2000 lo stipendio dei detenuti che lavorano per aziende esterne 600 lo stipendio mensile dei dipendenti delle cooperative Dottoressa Magistretti, qual è l’obiettivo di Cascina Bollate? «Cascina Bollate è un progetto di formazione al lavoro su due piani: quello concreto, in cui si impara il mestiere di giardiniere professionale, e quello che, con un termine un po’ abusato, possiamo definire di addestramento all’etica del lavoro» «Nell’ultimo anno abbiamo fatturato circa 150.000 euro: una cifra che è in costante crescita rispetto agli anni passati ed è addirittura triplicata rispetto al 2007, l’anno di start up» Qual è la retribuzione che ricevono i detenuti? «Ogni nuovo inserimento avviene tramite una borsa di lavoro di 6 mesi (una sorta di stage retribuito, n.d.r.), a cui segue quasi sempre la conferma. A questo punto i detenuti firmano un contratto a tempo pieno, che prevede uno stipendio di primo ingresso ridotto, per poi raggiungere la retribuzione piena di circa 1.000 euro mensili, “ Nella cascina insegnamo una professione a persone che altrimenti butterebbero via la loro intelligenza “ rre terrazzi o nei giardini di abitazioni private, al di fuori del carcere. In questo modo si avvicinano ancor di più alla realtà lavorativa che affronteranno una volta scontata la pena: da un punto di vista retributivo, tuttavia, rimangono identici agli altri detenuti che lavorano per la cooperativa dentro il carcere, ed eventuali premi di produzione vengono equamente divisi» La Cascina gestisce anche un negozio all’interno del carcere, cui il pubblico può accedere liberamente. Ha mai avuto sentore di ritrosie da parte dei milanesi nel rivolgersi al negozio, magari dovute al disagio di entrare negli spazi del carcere? «Assolutamente no.Anzi, in una parte consistente della città ho riscontrato un interesse benevolo, un apprezzamento sincero verso il nostro modo di lavorare: quello che facciamo è percepito come un modo per portare avanti una politica di sicurezza vera, non securitaria, come purtroppo sembra piacere a molti» Quanto differiscono le vostre dinamiche quotidiane da quelle di un qualsiasi ambiente lavorativo? «Noi lavoriamo nell’ottica del ‘come se’: ci comportiamo come se ci trovassimo in un ambiente di lavoro qualunque, dove si vive nel rispetto dei ruoli e delle gerarchie; nella capacità di rispettare le opinioni altrui e di gestire il conflitto come un’occasione di arricchimento» Quante persone lavorano oggi per la Cascina? «Nella cooperativa lavoriamo in 6. Si tratta di un numero appena sufficiente per le attività che portiamo avanti, fra cui la cura delle oltre 80.000 piante, ma che ci è imposto dal nostro bilancio: Cascina Bollate è un soggetto che deve sempre essere capace di stare sul mercato, alimentandosi tramite la vendita delle piante che coltiviamo» Avete ottenuto riscontri soddisfacenti da un punto di vista economico? cere diverso» Il Comune di Bollate vi ha mai appoggiato, ad esempio attribuendovi la gestione di spazi del verde pubblico? «Questo è un tasto dolente. Ci sono stati tentativi in questo senso, ma non hanno portato a nulla. Sembrerebbe una soluzione logica, invece questo non accade: bisognerebbe domandarsi il perché» La cooperativa tenta di simulare le dinamiche di un ambiente di lavoro qualsiasi, eppure svolge la sua attività dentro a un carcere. Quali sono le difficoltà oggettive nella conduzione della Cascina? «Innanzitutto si lavora con persone che vivono una situazione di grande difficoltà e disagio. Per quanto Bollate sia un carcere ‘modello’, la vita in reclusione pone problematiche quali la convivenza forzata con gli altri, e questo si riflette sul lavoro che portiamo avanti. Si tratta di gestire quella che, scherzosamente, chiamo la ‘Sindrome dell’asilo Mariuccia’: bisogna attenuare le gelosie e rivalità che l’ambiente di lavoro pone e amplifica, incentivando il lavoro di gruppo, la comprensione delle regole e il loro rispetto. Ci sono poi difficoltà oggettive, dovute al fatto che si lavora con i detenuti: se un cliente richiede un intervento tempestivo per un guasto all’impianto d’irrigazione non possiamo intervenire, perché servono almeno due giorni per ottenere un permesso d’uscita» Per quanto riguarda la sicurezza ci sono mai stati problemi? «Da questo punto di vista le difficoltà sono pressoché nulle, perché i detenuti si sono quasi sempre comportati correttamente: chi sgarra, d’altra parte, perde immediatamente la possibilità di lavorare con noi» come previsto dal contratto delle cooperative sociali: una retribuzione dignitosa per giardinieri che si stanno ancora formando» La loro partecipazione si limita alla cura delle piante negli spazi del carcere, oppure collaborano anche a interventi al di fuori della struttura detentiva? «Grazie all’articolo 21 dell’ordinamento penitenziario alcuni detenuti possono sfruttare l’opportunità del lavoro esterno, riuscendo così a collaborare agli interventi che facciamo sui I vostri clienti sono quindi motivati dalla possibilità di contribuire al progetto? «C’è la sensazione di dare un valore aggiunto all’atto di acquisto, che però non è sovrapponibile alla beneficenza: il nostro prodotto costa tanto quanto i prodotti che si trovano fuori dal carcere, quindi i clienti non fanno un’opera di bene; se scelgono di venire da noi è perché altrove non trovano le piante che la Cascina offre, e a questo si aggiunge il piacere di condividere un progetto civile, toccando con mano la possibilità di un car- Fra le persone che hanno lavorato con voi c’è qualcuno che, terminata la pena, continua a lavorare come giardiniere professionista? «I detenuti che collaborano o hanno collaborato con noi sono sottoposti a pene piuttosto lunghe, per cui è troppo presto per valutare il successo del reinserimento. Tuttavia devo dire che, delle due persone che hanno concluso la pena, una lavora oggi come giardiniere con buonissimo successo. E un’altra persona che uscirà fra poco continuerà a lavorare con noi: rientrerà in carcere, ma questa volta da uomo libero». Pagina 14 DOSSIER CARCERE A Bollate sono stati creati spazi d’incontro per le famiglie. Una relazione serena con i propri cari è fondamentale per la crescita. La buona qualità dei rapporti garantirà agli individui di vivere esperienze affettive gratificanti LAB Iulm Il diritto ai senti Elisa Zanetti U n raggio di sole entra dalla finestra e illumina i bei ricci castani di una bambina, intenta a disegnare con delle matite colorate. Seduta con le gambe penzoloni su una sedia di legno chiaro ancora troppo alta per lei, la bimba alza e abbassa ripetutamente lo sguardo dal foglio e con meticolosità prosegue il suo disegno. Davanti a lei, su un morbido tappeto bianco a righe blu, il padre e il fratellino giocano con alcuni pupazzi di peluche. È domenica mattina e nella stanza si diffonde l’aroma del caffè che la madre sta preparando. Grida e risate di bambini intenti a rincorrersi su un prato arrivano dall’esterno. Un piccolo soggiorno con cucina e una ludoteca sono a disposizione dei detenuti con figli piccoli. I bambini possono in questo modo incontrare i genitori in un luogo accogliente e non traumatizzante Nello stesso momento, in un’altra città, una donna finisce di truccarsi davanti allo specchio della propria camera, chiama i suoi due figli ed esce. Sale in macchina, accende il motore e guida fino a casa della madre, le affida i bambini e riparte. Raggiunge un’austera struttura cubiforme in cemento, parcheggia l’auto, entra, aspetta. Dopo essere stata sottoposta ad alcuni controlli viene fatta accomodare in una stanza fredda e spoglia, prende posto davanti a un lungo tavolo e ancora una volta attende. È nervosa e guarda insistentemente l’orologio, sa che quei minuti di attesa saranno minuti persi. Finalmente, dall’altra parte della stanza, una porta si apre, suo marito arriva e si siede di fronte a lei, fra i due un tavolo largo quanto basta per consentire loro di tenersi a mala pena per mano. L’uomo sorride alla moglie e le chiede dei figli, lei risponde che ha preferito non portare con sé i bambini: il piccolo la volta scorsa ha avuto gli incubi. Quelle descritte possono sembrare due scene di vita familiare diversissime fra loro: la prima una domenica qualsiasi di una famiglia qualsiasi; la seconda la mattinata di una donna costretta a dividersi tra figli e marito a causa di un avvenimento traumatico. Eppure non è così: entrambe si svolgono all’interno di un penitenziario; entrambe costringono qualcuno a convivere con l’assenza di un membro della sua famiglia; entrambe non rappresentano momenti appartenenti alla quotidianità. A farle apparire così differenti fra loro è però il luogo in cui si svolgono: la prima potrebbe avvenire nel carcere di Bollate, la seconda in una qualsivoglia sala per colloqui di un penitenziario italiano. Una detenzione è sempre un avvenimento traumatico, ma lo è ancora di più quando coinvolge l’equilibrio di nuclei familiari con figli minorenni. Bambini e ragazzi hanno diritto di mantenere, per quanto possibile, relazioni stabili con i loro genitori, anche quando questi si trovano in stato d’arresto. I legami affettivi sono infatti necessari allo sviluppo emotivo e sociale: rispondono a un bisogno primario e su di essi si basa la capacità di mettere in atto, nel corso della vita futura, esperienze affettive sane e gratificanti. Ciò che il carcere di Bollate cerca di fare è tutelare i rapporti familiari, provando ad offrire un po’ di normalità alle famiglie dei detenuti e ai figli dei carcerati che, pur essendo innocenti, pagano a loro volta le colpe dei propri genitori, essendo privati di quella che viene comunemente definita una “famiglia normale”. A Bollate l’attenzione nei confronti dei più piccoli ha portato alla nascita di una ludoteca, ge- All’interno della stanza dell’affettività non sono ammessi agenti di polizia penitenziaria, il controllo dei detenuti avviene tramite videocamere per garantire maggiore intimità agli ospiti stita in collaborazione con i volontari di Telefono Azzurro, e, più recentemente, di una “stanza dell’affettività”. Entrambi questi spazi sono stati pensati per evitare ai bambini il trauma dell’ambiente carcerario e favorire un rapporto più sereno con i genitori reclusi. Entrando nella ludoteca si ha l’impressione di essere trasportati nella foresta di una favola: montagne, ruscelli, alberi animati e animali protagonisti delle fiabe adornano le pareti di una stanza piena di giochi, libri e dotata di diversi tavoli per svolgere attività ricreative. La stanza dell’affettività, invece, rappresenta un luogo più intimo, organizzato come il soggiorno di una vera casa e pensato per incontri di un solo detenuto con i suoi familiari. Al suo interno c’è un grande e accogliente divano blu sul quale gli ospiti si possono sedere per chiacchierare o guardare un film, una libreria con volumi illustrati e pupazzi di ogni tipo. Sulla parete alle spalle del divano campeggia un grande sole stilizzato, che con i suoi raggi divide in segmenti colorati la parete: giallo, azzurro, blu e verde acqua sono le tinte scelte per decorare i muri. Proprio di fronte al sofà ci sono un lavandino e una piccola piastra, dove è possibile cucinare, mentre al centro della stanza si trova un tavolo in legno, dove sedersi a mangiare insieme. La finestra dà sull’area verde comune e tutto LAB Iulm DOSSIER CARCERE Pagina 15 “Costretti a ricomporre un vaso andato in pezzi per colpa nostra” Chiara Pagnoni C menti all’interno della stanza è a misura di bambino. Per garantire maggiore intimità alle famiglie gli agenti non restano all’interno, ma monitorano ciò che accade attraverso alcune telecamere. Le visite che si svolgono in questa stanza rappresentano incontri straordinari e fanno parte di un progetto dedicato a detenuti che vivono situazioni familiari delicate. Qui i reclusi possono incontrare i propri figli in un ambiente caldo e accogliente e, forse, addirittura assaporare il piacere di un momento di normale vita domestica. Operatori di riferimento garantiscono inoltre assistenza ai detenuti che dovessero sentire l’esigenza di avere una forma di supporto nel relazionarsi con i propri bambini. Nella difesa della dignità dei carcerati, la creazione di una stanza dell’affettività rappresenta sicuramente un grande traguardo, ma non certo quello definitivo: il prossimo passo è infatti trasformare quella che attualmente rappresenta una misura straordinaria in un trattamento garantito al maggior numero possibile di detenuti, perché l’affettività è un diritto di tutti, non solo di pochi. ammino a testa bassa, senza guardarmi attorno. Percorro i lunghi corridoi del carcere di Bollate. Un vento gelido mi sfiora il viso. Alzo gli occhi di scatto. Non penso a nient'altro, se non al fatto che mi trovo in una “prigione”. Il mio sguardo incrocia una carrellata di finestre aperte. Le tende bianche si muovono lentamente, senza una direzione precisa. Mi avvicino ad una di queste e mi ritrovo delle sbarre in ferro davanti agli occhi. E' questo l'istante in cui mi domando come diavolo ci si deve sentire a dovere trascorrere anni ed anni della propria vita in carcere. Senza potere affacciarsi ad una finestra. Senza vedere il mondo che cambia. Senza sentire il profumo e gli odori della vita. Senza ascoltare i pianti e le gioie di chi ami e ti ama. Mi rendo conto che nessuno può rispondere a questa domanda se non loro: i detenuti. Ho iniziato a lasciarmi andare, a parlare con loro senza alcun timore. E' come se i carcerati avessero colto in me un cambiamento, la fine della paura, la stessa che mi accerchiava fino a pochi minuti prima. I loro volti, la loro presenza e le loro emozioni hanno così smesso improvvisamente di angosciarmi. Ho sentito tante storie in queste ore, vicende che hanno lasciato un segno indelebile dentro di me. Racconti di vita, di solitudine e speranza. «Vivere qui non è semplice, ma molto meglio che in altre carceri. Qui non vivi la vita reale, quella vera, dove ti svegli la notte con tuo figlio che piange o la mattina con tua moglie vicino». Mi confida Giulio, un detenuto di Bollate. «Tutti possono sbagliare e questo è il prezzo da pagare per un pesante ed ingiustificabile errore. All'inizio ti sembra di impazzire, pensi di non farcela. Poi molto lentamente subentra lo spirito di adattamento che l'uomo ha da sempre. Non ti abituerai mai a stare in una prigione, ma tenti di andare avanti con la speranza, un giorno, di uscire da qui». Una vita in carcere è già una dura pena da scontare. Sei costretto a ricomporre un vaso che è andato in frantumi pezzo per pezzo. Devi trovare la forza dentro di te per capire ed elaborare il tuo errore. Lo stesso errore che sembra a tutti ingiustificabile. Perdono è la parola d'ordine di tutti questi detenuti che si trovano a Bollate. Chiedono continuamente scusa a mogli e mariti che devono imparare a vivere una nuova vita lontano da loro. «Ho una moglie e quattro figli a casa. Quando sono entrato in carcere, con la consapevo- Queste parole, quando le senti pronunciare, lasciano il segno. Capisci che è possibile sbagliare. La pena peggiore da scontare? Vedere i tuoi cari soffrire per un tuo errore. L'essere rinchiuso in una cella passa così in secondo piano. «Se un amore ti delude, ti “Non voglio più spezza il cuore, cosa fai? tenere una Smetti di credere nell'amore? Decidi di non amare più nesfinestra aperta suno e di vivere la tua vita da per ricordarmi solo, senza sperare un giorno trovarne uno nuovo? Decidi che la vita vera di di non perdonarlo perché ti ha non è dietro fatto soffrire?» mi domanda il più giovane tra i dele sbarre” Marco, tenuti. Perdono, Se poche ore prima pensavo che la parola 'cambiamento' speranza non rientrasse nel vocabolario e cambiamento carcerario, adesso sono coper spezzare stretta a ricredermi. Penso che le persone possano cambiare le catene lentamente, migliorarsi e dei pregiudizi smussare i propri angoli. Credo che valga la pena perdi chi sta fuori donare, affinché loro, i carcelezza che ci sarei rimasto per rati, possano non commettere molto tempo, il mio primo pen- più gli stessi errori. siero è andato ai miei figli. Ero «Se hai qualcuno a casa che ti convinto che non avrebbero aspetta, da un certo punto di più voluto vedere loro padre, il vista è molto più facile vivere qui. Cerchi di rimboccarti le maniche e lavorare su te stesso per uscire dal carcere un uomo migliore. Se, invece, non hai nessuno che ami ti senti solo e molto probabilmente non ti scatta quel meccanismo che ti spinge a rialzarti, a ricominciare una nuova vita» ribadisce Marco. Ieri, oggi e domani La vita offre loro una se1963 conda chance: “carcerato”. Avevo conside- non tutti la sanno cogliere e rato il fatto che mia moglie sfruttare. Non tutti riusciranno avrebbe potuto rifarsi una vita, a fare il grande passo e ad estrovare un nuovo compagno e sere consapevoli di avere comcrescere i miei figli con lui» af- messo un grave errore a cui è ferma Matteo, in carcere da possibile rimediare. Pochi ce dieci anni. «Invece no, non è la faranno, se non a cambiare, andata così. I miei figli e mia a tentare di essere uomini e moglie non li ho persi, anzi, mi donne migliori. stanno vicino come possono. Il Per tutti coloro che ci riusciPreside della loro scuola si è ranno ci dovrà essere una complimentato per gli ottimi nuova vita fuori dal carcere, risultati scolastici. Mia mo- sicuramente più difficile e glie? Mi manca, è difficile non piena di pregiudizi. poterla stringere ed abbrac- «La vita fuori di qui sarà una ciare quando vorrei. E' una lunga corsa ad ostacoli. Mi sofferenza vederla e non starle immagino già cosa pensevicino. La peggiore punizione ranno tutti di me. Sono pronto per quello che ho fatto è que- a combattere i pregiudizi che sta: non potergli stare accanto. mi aspettano, ma vale la pena Non potrò più recuperare gli affrontarli per ricominciare a anni persi. Cerco solamente di vivere» afferma Davide a tre sfruttare al meglio i pochi mo- mesi dalla scarcerazione. menti in cui mi è permesso ve- «Non voglio più dover tenere derli. Ed è sempre così poco il una finestra aperta per ricortempo che mi viene concesso. darmi che fuori di qui c'è la vita vera». Non mi basta mai». Pagina 16 DOSSIER CARCERE LABIulm Riccardo Muti suona all’auditorium di Bollate-Progetto musica Freedom Sound Sportello giuridico, ufficio stampa, freedom sound, asom e la scuderia e il Circolo FIlatelico. A Bollate i volontari danno vita ad attività che permettono ai detenuti di “evadere legalmente” Roberta Rei N elle carceri italiane c’è un esercito silente che ogni giorno decide di dedicare il proprio tempo, per dirla con Marlene Lombardo, responsabile dell’ufficio stampa di Bollate,«a qualcosa di veramente utile”. È l’esercito dei volontari che operano come ponte di contatto tra i detenuti e la società. Quella società che spesso “condanna” anche quando si è pagato il proprio debito con la giustizia. E che fanno i conti con quella mentalità indifferente, che troppe volte scava dei solchi per poi colmarli di pregiudizi. Nel carcere gli spazi sono difficilmente definibili. Stretti sono i muri che delineano le celle, luoghi tristi, sovraffollati, mentre labili e dispersivi sono i confini dell’aggregazione, del dialogo, dell’accoglienza. E’ in questi “non luoghi” che i volontari aiutano i detenuti a scoprire modi e tempi per ripensare la propria vita, insegnando loro un mestiere, un’arte, dando loro una speranza. Un lavoro di educazione e solidarietà che potremmo definire “speciale”, perchè diretto ad aiutare coloro che secondo gran parte dell’opinione pubblica andrebbero invece “rinchiusi e dimenticati”. In generale sono oltre novemila i volontari e gli operatori nelle strutture carcerarie italiane. L’Ordinamento penitenziario prevede all’articolo 17 la “partecipazione della comunità esterna” al trattamento rieducativo, mentre l’articolo 78 si riferisce ai cosiddetti “assistenti volontari”, singole persone o appartenenti ai gruppi dediti esclusivamente al volontariato in carcere e più propensi ad un intervento individualizzato e più orientato al sostegno morale e materiale dei detenuti. Nel carcere di Bollate, uomini “Noi, in galera per passione regaliamo sogni” e donne forniscono un aiuto prezioso affichè la pena assuma un valore costruttivo oltre che rieducativo. «Al nostro sportello giuridico assistiamo il detenuto nelle parti più burocratiche e soprattutto nelle parti creative, dando proprio avvio a istanze e assicurandoci dopo che arrivino in Si tratta di donne e uomini che mettono a disposizione se stessi per una crescita della collettività, che non può espellere come un corpo estraneo chi ha infranto le regole di convivenza tra esseri umani. La pena deve avere valore costruttivo e rieducativo tribunale» afferma Franco Moro Visconti, responsabile dello sportello giuridico di Bollate. Visconti è un avvocato, che nove anni fa, «ad un convegno sulla figura di Mario Cuminetti, teologo e saggista e uno dei primi ad aver esplorato la possibilità di entrare in carcere con progetti culturali» ha sentito un «richiamo improvviso, un qualcosa difficile da spiegare» e così ha deciso di fare il volontario in carcere. E oggi lavora tenacemente insieme a detenuti che offrono essi stessi la propria opera di volontariato, perchè serve loro consulenza. «Ma va sottolineato che noi siamo degli intermediari- precisa- e se c’è un difensore di fiducia facciamo da tramite cercando di attivare un canale di comunicazione in più, laddove non c’è o non è sufficiente. Poi forniamo consulenza giuridica anche se, soprattutto i detenuti di lungo corso, hanno una conoscenza precisa del codice e delle norme». Una scelta difficile. E la convinzione che questa sia la strada da percorrere anche se con estrema difficoltà: «Un’esperienza amara, che è solo uno degli esempi di mostruosità a cui si può arrivare applicando la legge, -confessaè stata quella di un detenuto straniero al quale era scaduto il permesso di soggiorno e che è stato espulso nonostante avesse tutta la famiglia qui in Italia. Un uomo che si trova in una situazione equiparabile all’esilio, in una terra dove è nato ma che non conosce. Una corsa sul filo finita con l’amara constatazione che, da un punto di vista strettamente formale, i motivi di espulsione c’erano. Eppure si è disintegrata una vita e un rapporto familiare». Al rapporto “reato-pena” corrisponde spesso una tragica frattura tra l’individio e la collettività, e l’azione di un uffi- LABIulm DOSSIER CARCERE Pagina 17 Volontari, la carica dei novemila Secondo una ricerca del 2009 curata da Renato Frisanco, della “Fondazione Feo-Fivol” (fondazione europa occupazione e volontariato) e da Marco Giovannini per conto della “Conferenza nazionale volontariato giustizia” sono oltre 9.000 i volontari e gli operatori nelle strutture carcerarie italiane. Sono sempre più numerosi (+10%) e hanno un’età media abbastanza alta (al nord è nella fascia d’età dai 46 ai 65 anni, mentre al sud l’età è più bassa). In aumento le donne. Assistenti o volontari “puri”: attualmente ci sono due possibilità per operare in carcere come volontari, facendo riferimento principalmente a due articoli dell’Ordinamento penitenziario, l’articolo 17 e l’articolo 78. Secondo la ricerca citata, la quota più cospicua degli operatori (l’85,5%) è ammessa nelle strutture detentive attraverso l’applicazione dell’art. 17 che prevede la “partecipazione della comunità esterna” al trattamento rieducativo. Si tratta di 7.869 persone, presenti in media con 32 unità per istituto (10 in meno rispetto al precedente monitoraggio che però era annuale e su un numero più ridotto di unità esaminate) e per lo più appartenenti al mondo della cooperazione sociale e dell’associazionismo di promozione sociale. Di questa quota il 64,4% è costituito da volontari che nel mese di maggio erano presenti nelle strutture per realizzare attività o progetti della durata superiore alle due settimane. I volontari autorizzati in base all’art. 78 sono 1.334, con una presenza media di 9 unità per struttura (erano 7 nel 2005); sono i cosiddetti “assistenti volontari”, singole persone o appartenenti ai gruppi dediti esclusivamente al volontariato in carcere e più propensi ad un intervento individualizzato e più orientato al sostegno morale e materiale dei detenuti. La loro presenza si registra nel 81,8% degli istituti. (f.m.) Fra i pezzi uno strano Gronchi rosa Francobolli in cella Ha preso il via nel 2008 il progetto “Intramur”, che nel carcere di Bollate significa passione per i francobolli. Sante Merlini è il detenuto che ha dato vita a questo singolare circolo filatelico che amplia la sua collezione grazie alle lettere che più di duecento collezionisti e appassionati hanno inviato all’indirizzo del carcere rispondendo all’appello partito dalla prigione. Tra i mittenti anche un misterioso “Principe A.” che dalla Sicilia scriveva su carta intestata munita di sigillo nobiliare. Nel novembre del 2010 è stata organizzata una mostra con i circa duecento pezzi pervenuti dai donatori. Con alcuni di loro nel tempo si è instaurato un rapporto epistolare di amicizia e alcuni di essi si sono recati nel penitenziario per una visita. Tra i pezzi inviati dai sostenitori dell’iniziativa i più interessanti sono stati fino ad ora la serie delle poste sul mito Ferrari e un Gronchi rosa, rivelatosi però contraffatto. (f.m.) cio stampa efficace può essere preziosa, «sono contenta di far sapere a quanta più gente possibile che la recidiva qui a Bollate è del 16% rispetto al 70% delle altre carceri» dice diretta Marlene Lombardo. «Rendere noto come i progetti educativi possono abbattere la recidivacontinua-può aiutare a farci capire che le carceri così come sono oggi, servono a poco. Bollate non è un caso strano, è solo un carcere che applica la costituzione». Il “progetto Bollate” è un progetto educativo che ha il sapore della libertà, dove tutti i volontari camminano verso un obiettivo comune, all’unisono. E per aiutare i detenuti ad “evadere liberamente” si sceglie di aiutarli anche con la musica: «Con ‘Freedom sound’- spiega Gianfranco Brambati, uno dei volontari che lavora al progetto- offriamo loro la possibilità di avvicinarsi alla musica, coinvolgendo anche artisti e insegnanti esterni. Dopotutto, Louis Armstrong ha imparato a suonare la tromba in carcere!». L’INTERVISTA CLAUDIO VILLA “Il nostro salto oltre il muro della pena” Francesco Maesano C laudio Villa, cinquantotto anni, trenta passati a cavallo. Tecnico federale di equitazione ma anche fotografo, commerciante, ora a Bollate dove da cinque anni ha coniugato la sua passione per l’etologia al servizio del benessere dei cavalli, con l’esperienza del volontariato in un carcere con l’ASOM, Associazione Salto Oltre il Muro. A lui abbiamo chiesto il perché della presenza di animali den- “ tro una prigione. «Perché per interagire con un cavallo occorre mettersi in discussione. La relazione con l’animale ha una funzione terapeutica fortissima. Bisogna mostrarsi autorevoli, rassicuranti e non coercitivi. Il cavallo non giudica, vede solo se riesci a porti nel modo giusto con lui o meno. Qui abbiamo l’unico esempio in Italia di detenuti e animali che godono reciprocamente del beneficio di stare insieme». Quanti cavalli accudite nella Per interagire con un cavallo occorre mettersi in discussione. La relazione con l’animale ha una forte funzione terapeutica. Bisogna mostrarsi autorevoli, rassicuranti e non coercitivi. Il cavallo non giudica ” vostra scuderia? «A Bollate vengono accuditi undici esemplari. I primi arrivati erano il frutto di donazioni da parte di privati. Più in là sono stati trasferiti qui due esemplari sequestrati in un campo nomadi, e altri due provenienti da Catania che venivano sfruttati nel circuito delle corse clandestine organizzate dalle mafie». Quanti siete e quanto tempo passate ogni giorno con i cavalli? «Io ormai qui a Bollate svolgo un’attività a tempo pieno che mi occupa otto-nove ore al giorno. Oltre a me nella scuderia lavorano due o tre detenuti in pianta stabile, che vengono retribuiti per questo dall’amministrazione penitenziaria, più quattro o cinque volontari che partecipano ai corsi per uomo di scuderia, il groom in gergo tecnico. Abbiamo già completato sei corsi formando una sessantina di carcerati. Per ora tutte le spese sono coperte dal carcere stesso ma le possibilità per produrre un qualche reddito ci sarebbero». E come pensa sia possibile rendere redditizia questa esperienza non solo dal punto di vista del recupero dei detenuti ma anche da uno strettamente economico? «Si potrebbe pensare di ampliare le scuderie, magari nella zona della polizia penitenziaria, fuori dal muro di cinta del carcere, istituendo un vero e proprio maneggio ad uso dei poliziotti e magari dei visitatori. Penso soprattutto ai bambini in visita. Oppure si potrebbe puntare sulla cura del cavallo, lavorando alla creazione di una pensione che si occupi degli esemplari da competizione che si sono ritirati o del recupero degli animali maltrattati». Pagina 18 DOSSIER CARCERE LAB Iulm La dura legge Nel 2003 nasce il progetto calcio Bollate e nel 2005 la squadra si iscrive, prima in Italia, ad un campionato FIGC. Grazie al lavoro di Lucia Castellano e di mister Prenna oggi la 2°Casa di Reclusione dà ai detenuti la possibilità di fare sport e godere di una piccola evasione Marco Mugnaioli Roberto Tortora G reco, Gatti, Crisiglione, Testa e Lemachi, tutti nomi che probabilmente non troverete mai nella lista dei cinquanta candidati al Pallone d’oro. Ma anche loro, come le stelle del football mondiale, vivono di imprese sul rettangolo verde, quelle della 2°Casa di Reclusione Bollate, la squadra di calcio nata nel 2003 e che, attualmente, milita nel girone N di Terza Categoria. Un team particolare quello dei detenuti del carcere sito alle porte di Milano, il primo in Italia a disputare un campionato federale. Un progetto nato grazie alla sensibilità di Lucia Castellano, la direttrice del carcere, e all’intraprendenza di Nazzareno Prenna, insegnante di educazione fisica al C.T.P. di Limbiate (scuola di formazione primaria) e divenuto allenatore della squadra. Tutto è cominciato 8 anni fa con un torneo tra detenuti e, oggi, ci sono ben 450 giocatori, divisi in 15 squadre, che si affrontano in un vero e proprio campionato interno. I più forti vengono selezionati per la 2°Casa di Reclusione, che rappresenta a tutti gli effetti la Nazionale del carcere, con Prenna nelle vesti di Prandelli. Nel primo campionato di Terza Categoria, grazie ad una deroga della federazione, i detenuti disputavano tutte le partite dentro le mura del carcere. Oggi invece, dopo le lamentele degli avversari, è concesso ai giocatori di usufruire dell'articolo 21 per varcare i confini del peniten- ziario nelle partite in trasferta, dove la squadra viene scortata da quindici agenti della Polizia Penitenziaria. Una grande responsabilità per squadra e tecnico, ben consapevoli di non potersi permettere alcuno sgarro. Un onere, dunque, che ha però portato all’onore di conquistare nel 2006 la Coppa Disciplina, in un anno trionfale, che ha regalato alla squadra anche la promozione in Seconda Categoria dopo la vittoria dei playoff. Sempre più ambiziosi, nella stagione suc- Nei primi anni le trasferte venivano giocate dagli agenti della Polizia Penitenziaria. Oggi i giudici permettono le gare fuori casa cessiva l’obiettivo è un’ulteriore promozione, ma, a sorpresa, la situazione precipita. La bufera di calciopoli non c’entra nulla, le intercettazioni telefoniche neanche, figuriamoci Luciano Moggi. A far sprofondare la formazione di Mimma Buccoliero (vicedirettrice del carcere e presidente della società) è stato, ironia della sorte, l’indulto. I migliori se ne sono andati, non perchè ceduti nel calciomercato, ma semplicemente “rilasciati”. Aperte le celle, i ragazzi di Prenna hanno infilato una serie di risultati negativi, con la conseguente retrocessione alla fine del campionato. La lunga crisi è finita con l’arrivo dei “nuovi acquisti”, che hanno rinforzato la squadra e l’hanno riportata, nel 2008, a lottare per le posizioni di vertice e per un nuovo salto di categoria. Quest’anno la stagione si è conclusa con un brillante e inaspettato secondo posto, alle spalle della capolista Nuova San Romano, che vale il diritto di giocare i playoff in casa. Stagione impreziosita dalla doppia vittoria nel derby con la formazione degli agenti del carcere di Bollate, le Fiamme Sportive. Giocando a calcio o partecipando alle attività che costituiscono la vita dei reparti insieme alla polizia penitenziaria, i reclusi sviluppano una grande unità d’intenti e di obiettivi. In campo il rapporto quotidiano all’interno del carcere, costruito giorno dopo giorno con tanta volontà, prende forma; un modo sano per rompere i rigidi schemi della mentalità carceraria. Il progetto, per i carcerati, non si limita al periodo detentivo, ma offre loro una possibilità di reinserimento nella società civile: l’Ardor Bollate, infatti, l'altra squadra che rappresenta il comune lombardo, accetta all'interno del proprio organico i detenuti meritevoli e permette loro di continuare a giocare nel campionato regionale di Seconda Categoria. Esempi in tal caso sono Giovanni Mari, entrato in squadra lo scorso settembre, ed Alessandro Ungaretti. La speranza, ovviamente, è che questo numero aumenti progressivamente. Lo sport educa al rispetto delle regole, è una lezione di vita e aiuta il recupero sociale. A Bollate, queste, non sono solo parole. del LA CLASSIFICA Nuova San Romano G.S. 2° Casa di Reclusione U.S. Seguro A.S.D. Villapizzone C.D.A.A.S. Virtus Cornaredo G.S. Gescal Boys U.S. G.S. Virtus Sedriano A.S.D. Masseroni Marchese A.S. srl Viscontini U.S. Muggiano G.S. Real Bovisa A.S.D. Giosport Pol. Lions Milano F.C. Fornari Sport A.C. Fiamme Sportive Bollate A.S.D. pt 73 62 61 58 58 50 43 43 42 34 25 24 15 5 3 LAB Iulm DOSSIER CARCERE L’ I N T E R V I S TA Pagina 19 NAZZARENO PRENNA, ALLENATORE Noi, un gruppo formidabile N gol T R O F E O D E L L A L E G A L I TA’ Il 23 maggio i ragazzi della C.R Bollate calcheranno il campo di S.Siro per la terza edizione del Trofeo della Legalità. A partire dalle 18.30 la scala del calcio ospiterà infatti un quadrangolare al quale, oltre alla squadra di mister Prenna, parteciperanno una squadra della polizia penitenziaria, una di magistrati e una della polizia di stato. Il torneo, ormai un appuntamento fisso, ha lo scopo di promuovere il tema della legalità e sfata il tabù secondo il quale tra detenuti, agenti e magistrati esistono barriere di pregiudizi e rancori. Sugli spalti saranno presenti, oltre ad amici e parenti dei detenuti, anche 400 bambini della scuola media di Limbiate. azzareno Prenna, marchigiano di Tolentino, ha 54 anni ed è professore di educazione fisica del Centro Territoriale Permanente di Limbiate, una scuola media statale dove educa i ragazzi ai valori autentici dello sport. L’identikit perfetto dell’uomo di cui Lucia Castellano, direttrice del penitenziario di Bollate, aveva bisogno per sviluppare una politica sportiva all’interno delle mura carcerarie. Nazzareno, come è cominciata la sua storia con il carcere di Bollate? «Insegnavo nella scuola media interna del carcere e, all’inizio, non esisteva una squadra di calcio. Nei detenuti, però, si avvertiva l’esigenza di praticare lo sport popolare per eccellenza, il calcio ovviamente, così abbiamo cominciato nel 2003 organizzando dei tornei interni. Nel 2004 abbiamo partecipato al campionato UISP (Unione Italiana Sport per Tutti, ndr) e, nel 2005, i primi in Italia, abbiamo iscritto la squadra al campionato federale di Terza Categoria». Quali sono state le difficoltà maggiori nel dover gestire un gruppo di detenuti? «Difficile è stato gestire un gruppo che, nella vita quotidiana, è abituato ad autogestirsi. Con il tempo, però, si è creato un gruppo forte e le difficoltà maggiori sono solo nel fare la formazione. Già, per- “ Vedere un detenuto che grazie al calcio può abbracciare moglie e figlia che non vede mai è un’emozione difficile da descrivere ” ché in casa tutti possono giocare, mentre in trasferta dobbiamo chiedere dei permessi e sono i giudici a decidere chi può uscire e chi no. Spesso, quindi, mi sono ritrovato con gli uomini contati in trasferta». I detenuti possono giocare le partite fuori casa? «All’inizio la Figc ci concesse di giocare tutte le partite in casa, infatti finimmo secondi e vincemmo i playoff. In se- guito, la Polizia penitenziaria si unì a noi, offrendosi di giocare le partite in trasferta. Ora, invece, possono uscire anche i reclusi. Io chiedo i permessi, il giudice valuta e autorizza chi può usufruire dell’articolo 21. In pratica, fa le convocazioni, ma poi la formazione spetta a me. In trasferta andiamo con un pullman della Polizia Penitenziaria che ci scorta». Quali sono le regole da rispettare in questi casi? «Quando usciamo dobbiamo avere un comportamento esemplare, dentro e fuori dal campo, anche se i ragazzi ci mettono la giusta dose di agonismo. Sul rettangolo verde un’espulsione per loro non vale solo una squalifica, ma anche l’impossibilità di uscire la volta seguente dal carcere e, quindi, poter abbracciare i familiari, che vengono a vedere le partite. Vedere un detenuto abbracciare la figlia che non aveva mai visto è un’emozione difficile da descrivere». Qual è l’episodio che, in questi anni, l’ha segnata di più nella tua esperienza da allenatore? «Una volta la nonna di uno dei miei giocatori prese un aereo da Catania solo per venire a vedere il nipote giocare. Dopo la partita è subito ritornata in Sicilia e, di lì a poco, è venuta a mancare. Mi emoziono ancora oggi a raccontarlo e rappresenta, per me, un atto d’amore e di umanità straordinario». (r.t.) Libero di scappare, sulla fascia I l mister è fenomenale, ormai è diventato uno di noi, grazie a lui il clima in allenamento è fantastico e le giornate trascorrono sul campo di calcio invece che al braccio”. Risponde così, tutto d’un fiato e con un sorriso, Francesco Valentini, esterno destro della 2° Casa Reclusione Bollate, quando gli chiediamo di riassumere cosa significhi per lui giocare in questa squadra. “Sono in prigione da più di tre anni e ne devo fare ancora quattro, ma da quando sono arrivato a Bollate le giornate mi volano senza che me ne accorga. Francesco, classe ’88, è uno dei ‘nuovi acquisti’ ed è il più giovane della formazione di mister Prenna, ma pur essendo in squadra solo da due stagioni, già dimostra grande attaccamento per il proprio allenatore: “è il Josè Mourinho del carcere, abbiamo fatto questa grande stagione solo grazie a lui, adesso vogliamo regalargli la promozione in seconda categoria”. “Giocare in questa squadra – prosegue Francesco – rende la vita del carcere un po’ meno ‘da carcere’. Andare in trasferta accompagnati dalla polizia penitenziaria ha fatto si che gli agenti siano diventati i nostri primi tifosi e ciò ha disteso i rapporti con loro anche durante la settimana.” Il progetto calcio Bollate è quindi un gran successo a detta di tutti, giocatori e dirigenti, e i risultati lo confermano. Il secondo posto in classifica conquistato lo scorso 7 maggio è stato celebrato dai detenuti con una grande festa in mezzo al campo suggellata dal tradizionale gavettone celebrativo per il mister. Il gruppo è unito e vincente, il progetto continua.(m.m) Pagina 20 DOSSIER CARCERE LAB Iulm Il mondo in cella Viaggio tra le carceri del pianeta: 2,3 milioni di detenuti negli Usa, 65.000 in Spagna, aumento esponenziale anche in Inghilterra. E in Svezia esiste un penitenziario con 5 guardie disarmate Giuseppe Leo P aese che vai, prigione che trovi. Secondo l’ultima rilevazione del Ministero di Grazia e Giustizia, le carceri italiane ospitano ad oggi 67600 detenuti: oltre 22 mila presenze in più rispetto alla capienza massima degli istituti di carcerazione (207). Qualcosa è stato fatto per sgonfiare l’emergenza del sovrannumero dei detenuti, ma la legge 191/2010, entrata in vigore lo scorso 16 dicembre, e che ha portato all’esecuzione presso il domicilio delle pene detentive non superiori ai 12 mesi, si è rivelata un palliativo (1788 i beneficiari nei primi 4 mesi). Ci si potrà consolare pensando che il nostro non è l’unico Paese a dover combattere contro l’eccessiva popolosità delle proprie carceri. In Spagna, in tal senso, i problemi non mancano. Dal 1995 al 2006, la popolazione carceraria iberica si è ingrossata in maniera esponenziale (da 45198 a 64215). La Spagna, tra l’altro, si era fatta promotrice nel 1992 del primo caso europeo di carcere misto, quello di Valencia, dove uomini e donne condividevano i luoghi comuni della prigionia. Il sistema spagnolo, come stabilito dall’art.100 del Regolamento Penitenziario, si compone di 3 gradi di trattamento a cui corrispondono alregimi: chiuso, trettanti ordinario e aperto. Una Giunta di Trattamento, formata dal direttore e vicedirettore del carcere, coadiuvati da varie categorie di esperti, valuta una serie di parametri (tra cui durata, rilevanza e intensità della condotta criminale) in base ai La piaga del sovraffollamento affligge da anni le carceri italiane, ma anche molti altri paesi europei e gli Stati Uniti non se la passano meglio. E intanto in Svezia le prigioni diventano “aperte” ed ecologiche quali stabilire il regime a cui destinare il soggetto. “Alcuni detenuti sono considerati immondizia che viene allontanata per non sentirne il cattivo odore”, ha dichiarato Guerricaechevarrìa, il regista del thriller carcerario “Cella 211”, che nel 2010 metteva a nudo le criticità dell’assetto penitenziario spagnolo. In Inghilterra e Galles la popolazione dietro le sbarre ha toccato in maggio la cifra record di 85.201 persone, circa il doppio rispetto al 1992. Ma a monopolizzare l’attenzione, soprattutto dall’insediamento del nuovo premier Cameron, è stata la necessità di dotarsi di un efficace metodo di rieducazione, esigenza che ha visto nel neo ministro degli Interni, Clarke, uno dei suoi più convinti assertori. Clarke ha fatto leva su associazioni e settore privato per avviare processi di riabilitazione, e chiesto la sostituzione delle condanne a periodi brevi di detenzione con percorsi alternativi di correzione. Non va meglio negli Stati Uniti, che con i 2,3 milioni di detenuti censiti nel 2009 mettono sul piatto circa il 25% della popolazione carceraria mondiale (lo rivela una ricerca di Oxford Analytica), stimata oggi in circa 9 milioni. Numeri considerevoli, se si pensa che gli States ospitano poco meno del 5 % della popolazione mondiale. Il sistema sanzionatorio più severo del globo (si finisce al fresco anche per falsificazione di assegni bancari e consumo di droghe leggere) porta in carcere, considerando la sola popolazione adulta, 1 americano su 100. Particolare di non secondaria importanza: molte carceri Usa sono gestite da privati, il che porta dritto all’ipotesi di un grosso business nella gestione delle carceri a stelle e strisce, tanto grosso da influenzare la stessa legislazione. Alla fatiscenza strutturale, poi, si accosta la piaga dei detenuti immigrati clandestini, privati della possibilità di ricorrere persino a medici o avvocati. Anche in Francia si è assistito a un notevole aumento, ma un detenuto costa allo Stato solo 71 euro in media al giorno, dato confortante se si pensa ai 113 euro giornalieri che l’Italia è costretta a sborsare. Passando alla Germania (circa 78000 detenuti nel 2009), il tasso di affollamento delle carceri tedesche è inferiore al 90%. Tradotto: più posti letto che detenuti. Inoltre, è dello scorso 9 marzo la storica sentenza della Corte Costituzionale tedesca che obbliga le autorità penitenziarie del Paese al rilascio del detenuto che non fruisca di condizioni consone al rispetto dei diritti umani fondamentali. Si tratta di una de- I numeri del circuito carcerario italiano DETENUTI I dati raccolti provengono dal dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e sono aggiornati al 31 marzo 2011. I numeri rispondono a semplici domande, quanti sono i detenuti in Italia? Quante sono le donne e di cui 2969 donne. stranieri? Quante persone usufruiscono In Italia la capienza regolamentare gli delle misure alternative al carcere? Quanti dei 208 carceri sarebbe di 45.320 suicidi avvengono tra le mura delle prigioni in rapporto al numero di suicidi che si ridetenuti. L’unica regione senza scontrano ogni anno in Italia? Vi è un rapproblemi porto tra suicidi e sovraffollamento del è il Trentino Alto Adige luogo di reclusione? Questo è senz’altro uno dei punti più interessanti: nel 2010 il carcere dove sono avvenuti più suicidi è stato quello di Siracusa con 4 vittime. L’istituto ha 309 posti, i detenuti sono 515, il tasso di sovraffollamento è del 166%. La frequenza dei suicidi durante l’anno è stata di 1 ogni di cui 23579 uomini e 1255 donne. 128 detenuti presenti. L’Italia, secondo uno studio dell’Istituto Demografico Francese, è Il 21% sono marocchini, uno dei paesi europei dove vi è maggior il 14,5% rumeni, scarto tra suicidi fuori dal carcere e suicidi di il 12,7% tunisini, detenuti. Nel nostro Paese commette suicidio 1 persona su 20.000 abitanti, mentre in l’11,6% albanesi carcere decide di togliersi la vita 1 persona e il 5% nigeriani ogni 194 detenuti. 67,600 STRANIERI 24,834 SUICIDI 66 nel solo 2010. Nello stesso anno, 1134 detenuti hanno tentato di suicidarsi. 19 persone si sono tolte la vita in carcere nei primi quattro mesi del 2011. In media si suicida un detenuto su 194 MISURE ALTERNATIVE 16,642 sono le persone che usufruiscono delle misure alternative alla detenzione di cui: 8842 in affidamento in prova, 873 in semilibertà, 6927 in detenzione domiciliare LAB Iulm DOSSIER CARCERE Pagina 21 Stranieri reclusi record: quasi 25.000 Manuela Messina D elle 67.600 persone detenute oggi nelle carceri italiane, 24.834 sono straniere. Circa il 35 per cento. Di questi, inoltre, più della metà sono in attesa di condanna definitiva. Alcune leggi, come la Bossi- Fini sull’immigrazione del 2002, hanno contribuito a incrementare il numero di detenuti immigrati, ma di recente la Corte di Giustizia europea ha bocciato la norma che prevede in Italia il reato di clandestinità. I processi di chi è stato condannato, quindi, dovrebbero essere riaperti. Gli “alfieri” della sicurezza storcono il naso. L’instabilità politica del Maghreb e il conflitto in Libia annuncerebbero l’arrivo di uno “tsunami umano” sulle coste di Lampedusa e della Sicilia, ingigantendo il problema dell’immigrazione irregolare con inevitabili ricadute per il sistema penitenziario. Fino a oggi, per gli immigrati clandestini e gli irregolari, dopo un periodo di reclusione, era prevista l'espulsione. Forse. “Dopo il carcere hai due possibilità”, spiega Anna Viola, assistente di rete del carcere di cisione giudiziaria che ha rovesciato la giurisprudenza precedente, anteponendo il valore costituzionale della dignità umana al principio della certezza della pena. A portare a quella che può essere una rivoluzione rispetto al passato, tanto più se applicata al rigido sistema penitenziario teutonico (organizzato su base federale), è stato il caso limite di un detenuto costretto alla carcerazione, 23 ore su 24 per 151 giorni, in una cella di 8 metri quadri, da condividere con un’altra persona, e un bagno non separato da muri divisori. Per un’Europa dalle carceri soffocanti c’è n’è un’altra che da tempo abbina il rigore al rispetto del detenuto. Esemplare il caso norvegese, dove l’esperimento del “carcere aperto” è in corso da più di un decennio. Ad esempio, nell’isola di Bastøy dal 2000 ha sede la prima prigione umana ed ecologica del globo. Ai detenuti è offerta la possibilità di vivere una vita quasi normale. Bandite le auto, sull'isola i detenuti si spostano in bici, la terra viene lavorata con i cavalli e i rifiuti sono riutilizzati come concimi. Un tale sistema di organizzazione finisce per pesare molto meno sulle tasche del contribuente rispetto a un qualsiasi carcere di massima sicurezza. Il cibo è prodotto quasi interamente da detenuti e con la vendita delle pecore e dei vitelli, il penitenziario è quasi autosufficiente. Sull'isola restano solo 5 guardie carcerarie, che, incredibile ma vero, non hanno neanche una pistola! Bollate. “Se il Cie, centro di identificazione ed espulsione, è vuoto, fuori dal carcere c’è una macchina della polizia che accompagna il detenuto straniero nel centro, dove viene identificato ed espulso. Se è pieno invece, gli viene dato un foglio di VIA ed entro 5 giorni deve lasciare il Paese”. Il risultato è che la maggior parte resta in Italia in stato di clandestinità, con maggiori probabilità di commettere reati e quindi di rientrare in carcere. Oggi sono circa 20 mila i detenuti in sovrannumero rispetto alla capacità degli istituti di detenzione. E gli assistenti sociali, gli educatori e gli psicologi non bastano più. Inoltre la mancanza di spazi di movimento, di intimità, di igiene influisce sulla vita del detenuto creando una situazione di estremo disagio ed esasperazione. Condizioni simili si accentuano nel caso di detenuti immigrati, per i quali si aggiungono i problemi legati alla lingua e all’adattamento. Nel carcere di Bollate non ci sono particolari problemi di sovraffollamento. Le celle sono spaziose e il numero dei detenuti non è superiore a quello consentito. Gli immigrati non sono isolati dal resto dei detenuti, in ogni reparto c'è una stanza di preghiera anche per i musulmani e si rispetta il rito del Ramadan. “Per i detenuti islamici”, racconta Anna Viola, “stiamo organizzando un corso sull'Islam in collaborazione con l'Università Cattolica di Milano”. Non mancano i corsi di alfabetizzazione, soprattutto per i rom e i sinti, e ci sono anche attività specifiche per gli stranieri. Come il “Gruppo migranti”, nato nel 2008 dopo l'inaugurazione a Lampedusa dell'opera di Mimmo Paladino dal nome “Porta di Lampedusa – Porta d'Europa” dedicato ai migranti. “Non credo ci siano esperienze simili negli altri istituti di pena in Italia”, ammette Anna Viola. “A Bollate si cerca di assolvere alla funzione rieducativa del carcere e non si fanno distinguo. Stranieri, italiani, tutti devono stare sullo stesso piano”. Ma quello di Bollate, si sa, è un carcere modello. Le detenute sono meno del 5%:percentuale inferiore alla media Ue Il carcere, la pena e la malafemmina Chiara Daffini I l crimine è maschio? Evidentemente sì. E non solo da un punto di vista lessicale, visto che la percentuale di donne sul totale dei detenuti in Italia raggiunge appena il 4,4% nel primo trimestre del 2011. Il trend è di poco inferiore alla media europea e dimezzato rispetto a quella statunitense: nei 27 Paesi dell’UE, infatti, la quota media di popolazione carceraria femminile è pari a circa il 5% del totale(dal 2,9% della Polonia al 7,8% della Spagna), mentre negli Stati Uniti la percentuale sale all’8,8%. Oltre la metà delle detenute nel nostro Paese è ospitata nelle carceri di Lombardia, Lazio e Campania, un quarto in quelle venete, toscane, pugliesi e piemontesi, con una media di circa 100 donne per ogni regione. In più del 60% dei casi si tratta di detenute italiane. Tra i reati ascritti alla popolazione femminile più della metà sono contro il patrimonio (27% dei casi), sanzionati dalla legge sulle droghe (20%) o contro la persona (17%). Alcune tipologie di reato sono invece più specificatamente riconoscibili alle detenute straniere: quelli sanzionati dalla legge sugli stranieri, sulla prostituzione o sull’ordine pubblico. I crimini “nostrani”, invece, sono per lo più ricondotti alla legge sulle armi, contro la personalità dello Stato o contro la Pubblica Amministrazione. Ma come vivono le donne in carcere? Una ricerca commissionata dall’Unione Europea e condotta per due anni in Italia, Fran- cia, Spagna, Gran Bretagna, Germania e Ungheria ha evidenziato che i problemi delle donne in carcere o delle ex-detenute sono più o meno gli stessi in tutta Europa. L’esiguo numero di detenute nel continente, porta i governi a trascurare questa categoria sociale nell’elaborazione di politiche specifiche. La condizione sociale delle donne detenute è caratterizzata da molteplici svantaggi: status economico e scolarizzazione bassi, ambiente familiare problematico, spesso dipendenza da sostanze stupefacenti e figli avuti in età precoce. Questo porta inevitabilmente a un alto rischio di emarginazione sociale, specialmente in assenza di adeguate strategie rieducative e assistenziali durante e dopo la carcerazione. In Italia, come nel resto d’Europa, la difficoltà principale sta paradossalmente nell’esiguo numero di detenute e nella loro dispersione in tante piccole sezioni ospitate all’interno di carceri maschili (63) e in pochi istituti esclusivamente femminili (solo 5). Inoltre, il 40% della popolazione femminile detenuta è composto da donne in attesa di giudizio e condannate a pene brevi, il che contribuisce alla loro esclusione dalle attività carcerarie: in mancanza di un’offerta sufficiente, infatti, si preferisce dare la precedenza a soggetti che possano garantire continuità nei percorsi rieducativi. Le condizioni si aggravano poi se di mezzo ci sono bambini. Fin dal 1975 la legge italiana ha previsto uno specifico riferimento per le detenute con figli. In particolare, si prevede che le carcerate con bambini di età inferiore ai 3 anni possano tenere presso di sé i figli, per la cui cura e assistenza ogni prigione con componenti femminili dovrebbe dotarsi di appositi asili-nido. Sono poi incoraggiate, qualora non ci sia il rischio di recidiva e il reato commesso non sia grave, misure alternative al carcere, come gli arresti domiciliari speciali per donne con figli sotto i 10 anni. Alla fine del 2010 le madri detenute in istituto coi figli erano 42, mentre 4 le carcerate in dolce attesa. Assenza di fondi per l’assistenza socio-sanitaria e scarsità di figure professionali coinvolte ad oggi costituiscono i problemi maggiori. Pagina 22 DOSSIER CARCERE LAB Iulm Giovani dent In Italia i minori in carcere sono cinquecento. A Milano, Don Rigoldi insieme alla sua “Comunità Nuova”, da 37 anni, si prende cura dei 60 del Beccaria, in una realtà, quella del carcere minorile, che fino a 40 anni fa era gestita da enti religiosi Ignazio Stagno N on rispondo mai a domande che non mi vengono poste». Don Gino Rigoldi descrive così il suo ruolo di cappellano fra le mura del carcere Minorile Beccaria di Milano. Aspetta che i ragazzi cerchino il contatto umano. Non forza mai i tempi della relazione sociale. «Cogliere il momento giusto, spiega- attendere che un ragazzo si apra per chiedere aiuto è fondamentale». Don Gino è un uomo pragmatico. Non ama molto farsi abbracciare dai suoi ragazzi del Beccaria; lavora dal giorno alla sera solo per inserirli fuori dal carcere in quel contesto dal quale si sono fatti momentaneamente espellere. Don Rigoldi da 37 anni vive fra il Beccaria e la sua “Comunità nuova”, dove concentra sui soggetti più bisognosi programmi di recupero più efficaci. «Il carcere per un minore deve sempre essere evitato, e i giudici nei casi di reati piccoli o futili cercano di evitare la reclusione- continua Don Gino. «La soluzione più seguita è quella dell’affidamento in comunità o la messa in prova». Don Rigoldi ogni giorno ha un’agenda fitta di impegni, riuscire ad avere un appuntamento con lui non è cosa facile. Eppure nonostante sia così attivo Don Gino non ama stare davanti alle videocamere o ai microfoni. Lui preferisce stare con i suoi ragazzi per i quali è un punto di riferimento inamovibile. «Il cappellano dentro il carcere è una figura che gode di massimo rispetto. In 37 anni che lavoro qui-afferma- non ho mai ricevuto né un insulto ne un’ offesa». Don Rigoldi ormai per i ragazzi del carcere rappresenta molto più di un cappellano. E’l’orecchio che li ascolta, la voce che può guidarli verso una strada migliore. Fra sbarre, cortili e ore d’aria tante storie hanno preso vita, e sono rimaste negli occhi nella mente di chi le ha vissute in prima persona. «Ricordo la rivolta del 1988 -raccontaquando la ressa, la protesta e l’incendio di due settori si risolsero in una partita 20 contro 20 con me e il pm a fare da arbitri». Non solo passato, ma anche molto presente dietro quel portone che separa l’adolescenza dalla libertà. Oggi il contesto sociale e lavorativo è completamente mutato e inserire nel lavoro i ragazzi che hanno finito di scontare la pena è molto più difficile. «Trent’anni fa, pur avendo meno mezzi e strutture poco organizzate, i ragazzi detenuti avevano voglia di fare, voglia di costruire qualcosa -spiega il cappellano. Bisognava essere svegli e tonici perché dietro le sbarre c’erano personalità molto forti. Una volta usciti trovavano un lavoro e spesso le “ problema dell’occupazione Don Gino non chiude mai occhio. E’ sempre in un’ affannosa ricerca di contatti, relazioni, amicizie nel mondo imprenditoriale per convincere ” “ Un ragazzo albanese, uscito dal carcere, con i miei consigli, è tornato nel suo paese e ha aperto un’azienda agricola Ricordo quella rivolta dell’88, che alla fine fu risolta con una partita a calcio 20 contro 20, ed io e il magistrato a fare da arbitri loro vite ricominciavano da zero. Adesso tutto è diverso. Il mercato del lavoro è saturo e senza un titolo di studio bisogna accontentarsi. Fare il giardiniere o l’operaio edile non crea molte prospettive per il futuro e i ragazzi abbandonano il lavoro dopo pochi mesi ritornando nella criminalità». Sul più qualificati». Il quadro non è comunque roseo. La recidiva nei minorili in Italia è del 70 per cento. Al Beccaria siamo al 40. Una buona soglia ma ancora elevata. Tante sono le sto- Don Gino Rigoldi le aziende a fidarsi dei ragazzi. Giovani che possono sì aver sbagliato, ma che più di altri meritano un'altra opportunità. «Conosco tantissime persone del tessuto economico cittadino -afferma Don Gino. Questo fa un po’ la mia fortuna . Ho più contatti del servizio sociale interno al carcere. Stiamo cercando comunque di dare ai ragazzi profili professionali ” rie con un finale triste. Storie di ragazzi che fuori dal carcere ritrovano famiglie disintegrate. Famiglie che hanno uno sfratto da un casa popolare pendente sulla testa. La disperazione la fa da padrona e per trovare risorse in maniera veloce e tempestiva, si torna a delinquere. A Quarto Oggiaro questa realtà è una costante. Dalle parole di Don Gino il quartiere milanese sembra essere un serbatoio inesauribile di ospiti per il Beccaria. «Rispetto a tre anni fa il numero di ragazzi italiani e soprattutto di residenti milanesi entrati al Beccaria è aumentato. Adesso la maggioranza di giovani reclusi è italiana. E’ un dato che fa pensare, il disagio sociale e i problemi di alcune zone della città non vengono risolti, anzi: con gli sfratti delle famiglie dei reclusi si incoraggia nuova delinquenza e nuova rabbia». Ma Don Gino è ottimista, abituato a guardare lontano trovando il lato positivo in ognuno dei suoi ragazzi. Così si fa coraggio ricordando qualche storia che, per una volta, è finita bene. «Non sempre la realtà è come appare. Un ragazzo col quale anni fai ebbi difficoltà ad entrare in contattospiega Don Rigoldi-, pian piano cominciò ad aprirsi, esprimendo i suoi bisogni affettivi e riuscii a recuperarlo. Oggi è un imprenditore con moglie figli. Oppure mi viene in mente la storia di un ragazzo albanese che, una volta fuori dal carcere, seguendo i miei consigli, è tornato nel suo paese dove ha messo su una piccola azienda agricola e ha LAB Iulm DOSSIER CARCERE Pagina 23 In calo i minorenni immigrati reclusi Ragazzi in carcere uno su due è italiano ro ritrovato il senso dell’onestà. Voglio che altre storie possano avere un lieto fine». E Don Gino chiede mezzi e uomini. «Sono necessari volontari, operatori, psicologi in quantità e con professionalità. Al Beccaria siamo 5 educatori. Un po’ pochi per 60 persone. E’ necessario fare di più nella formazione del personale. Anche i poliziotti penitenziari devono essere messi in condizione di frequentare corsi adeguati per prepararli ad interagire con i ragazzi. Tutto questo sino ad adesso non avviene». Don Rigoldi adesso deve lasciarci, perché un altro appuntamento lo attende. Qualcuno ha bisogno del suo aiuto, una famiglia di un detenuto rischia di perder casa. Per molti è l’ultima mano a cui aggrapparsi, ma Don Gino nella sua comunità non è solo. Diversi volontari con la sua stessa passione per le zone disagiate della vita credono che possa esserci una seconda opportunità per molti ragazzi. Perchè come scrive Fossati in Panama:”Un comandante, per quanto giovane, dovrebbe stare in mare…”. Ma solo dopo aver imparato le istruzioni dell’ammiraglio, in questo caso, di un cappellano come Don Gino. Francesco Piccinelli Q uanti sono i minorenni dietro le sbarre, nel nostro Paese? Le statistiche del Ministero della Giustizia aggiornate al 16 settembre 2010 parlano di 500 ragazzi, a fronte di una capienza di 514 unità. Tuttavia, la popol a z i o n e carceraria minorile passa mediamente poco tempo dietro le sbarre. Il turn-over è molto rapido, per cui è impossibile (ed anche poco sensato) cercare di ricostruire una fotografia precisa di quanti minori siano in carcere. Di sicuro, però, il Ministero della Giustizia parla di una continua diminuzione della popolazione carceraria dalla metà degli anni '90 ad oggi. Purtroppo gli uffici di Via Arenula non danno un quadro complessivo sul contesto sociale da cui provengono i ragazzi. Non si CARCERI Acireale Airola Bari Bologna Caltanissetta Catania Catanzaro Firenze Milano Nisida-Napoli Palermo Potenza Quartocciu-Cagliari Roma Torino Treviso TOTALE PRESENZE 21 39 29 23 8 53 22 21 55 63 32 13 13 57 33 18 500 Fonte: Ministero della Giustizia, Dipartimento Giustizia Minorile. IPM di Lecce e L’Aquila non attivi, dati a 16/09/2010 conoscono i quartieri di provenienza di questi minori, se non attraverso i racconti fatti da chi opera all’interno del carcere. Ciononostante le statistiche mettono comunque in evidenza come i giovani detenuti provengano certamente da situazioni di particolare disagio e miseria. Secondo i dati del Ministero, la maggior parte dei minori denunciati dalle procure si sarebbe macchiata di reati contro il patrimonio (furto o rapina), oppure di “violazione della legge sugli stupefacenti, vale a dire spaccio. Se è vero che le denunce non portano automaticamente alla condanna, è comunque accertato che i minori vanno molto spesso in carcere per aver commesso esattamente quei reati. Le statistiche del Ministero stimano in 162 i ragazzi dietro le sbarre per rapina e in 293 i minori in carcere per reati contro il patrimonio. Sono solo 80 quelli condannati per aver commesso reati contro la persona (aggressioni ecc.), mentre 87 sono i ragazzi in galera per aver violato la legge sugli stupefacenti, quindi, per spaccio. Come detto, i ragazzi sono in maggioranza italiani. Negli Istituti penitenziari minorili del nostro Paese, solo il 35% dei detenuti è di origine straniera (per lo più si parla di ragazzi romeni e dall’est europeo); invece, per quanto riguarda l'età, il gruppo più numeroso è composto da giovani adulti, cioè da maggiorenni, entrati in carcere da minori, e da ragazzi tra i 15 e i 17 anni, quasi esclusivamente maschi: solo un detenuto su dieci è una ragazza. Storia del Minorile in Italia In Italia il tribunale per i minorenni nasce nel 1934. Da questo momento in poi c'è un organo giudiziario specializzato, composto da due giudici più un "benemerito dell'assistenza sociale". Fino ad allora, il tribunale che giudicava i minori era era quello ordinario e chi aveva meno di 21 anni finiva nelle carceri comuni, nonostante il codice Zanardelli prevedesse alcuni sconti di pena.. Dal 1934, il fulcro del sistema penitenziario minorile diventa il riformatorio. I riformatori, in Italia, nascono a partire dal diciassettesimo secolo, su iniziativa privata. Il primo riformatorio, infatti, viene fondato a Firenze, nel 1650 dal sacerdote Ippolito Francini Lo Stato viene coinvolto in prima persona solo a partire dagli anni ‘70, quando istituzioni private, come l’Associazione Nazionale Cesare Beccaria, responsabile del riformatorio di Milano e di una casa per ragazzi difficili ad Arese, vengono definitivamente sciolte e sostituite dall’Amministrazione Penitenziaria. Nel 1988 entra in vigore il Codice di procedura penale minorile, che separa definitivamente il sistema penitenziario minorile da quello ordinario, aprendo ulteriormente la strada al ruolo rieducativo dell’istituziona penitenziaria minorile. Giulia Pezzolesi Pagina 24 IULM NEWS LAB Iulm Viviamo in un’epoca in cui la leggerezza è molto gettonata. Forse troppo La serietà si pratica, non si predica segue dalla prima Nel primo caso la serietà è rivelatrice di positività, nel secondo, invece, mette in risalto una negatività potenziale o già quasi in atto. Nel linguaggio della comunicazione di massa corrente la serietà è diventata qualcosa di cui occuparsi poco o nulla: la sua evocazione equivale, infatti, in ogni caso ad una messa in mora. La nostra società appare sempre più refrattaria ad occuparsi sia delle situazioni meritevoli di particolari attenzioni, giacchè risultanti da contesti poco virtuosi, sia delle persone serie, perché spesso intese come persone noiose o, peggio, tristi. Viviamo un'epoca in cui la leggerezza è molto gettonata e la comicità - specie se accompagnata da allusioni o doppi sensi - risulta molto diffusa. La serietà è entrata nel cono d'ombra della noia, trascinando in questo prisma retorico sia un'accezione che l'altra. É insopportabile, infatti, in questa visione superficiale della vita, sia ogni situazione che richieda impegno e sacrificio, sia ogni persona che imponga rispetto e attenzione per la sua visione responsabile delle relazioni o delle situazioni che deve affrontare. La scelta della serietà è, dunque, una visione esistenziale, che non si può studiare sui libri, ma neppure insegnare a scuola: richiede, però, una "didattica esemplare", una didattica cioè che nasce dalle dinamiche della vita, attraverso l'esemplarità dei comportamenti, dei ragionamenti, delle direttrici di azione. Nella mia vita ho conosciuto molte persone serie (anche se forse in numero decisamente inferiore a quello delle persone poco serie!) e ho attraversato molte situazioni serie, difficili: in entrambi i casi ho imparato molto. Ho imparato come reagire con pari dignità - almeno spero nell'interazione con questi personaggi, immagazzinando nella mia coscienza personale e professionale il più possibile della loro ricchezza di vita e di pensiero: in questi casi sono stato più attento a ricevere, di quanto non sia stato in grado di dare. La mia esperienza di vita e' stata comunque arricchita moltissimo dalla interazione con questi personaggi: nell'università, come nelle attività culturali e professionali, che hanno attraversato, nel corso dei lunghi anni della mia attività lavorativa, la mia vita di relazione. Ho attraversato, parallelamente, situazioni molto "serie", ovvero gravi e difficili: in questi casi ho sempre cercato di tenere alta e luminosa la fiaccola della ragione e fermissimo il timone dell'onesta' intellettuale e materiale. Ho incontrato personaggi e situazioni che non avrei mai voluto incontrare, ma alla fine di siffatte espe- rienze "serie", che ho dovuto affrontare, ne sono uscito più ricco moralmente e più forte anche professionalmente. I mezzi di comunicazione di massa, il cinema in particolare, hanno sempre avuto molta attenzione verso entrambe le accezioni della serietà: in entrambi i casi però, sovente, la versione cinematografica ha privilegiato le esigenze dell'efficacia della rappresentazione rispetto alla coerenza del messaggio, soprattutto quando ha utilizzato espedienti retorici come l'antitesi della comicità per dipanare, con l'ironia, situazioni diversamente inestricabili. Parlarne è, comunque, davvero difficile: ecco perché abbiamo scelto la via della rassegna filmica, affidandoci alla creatività dei più giovani per il piacere estetico dei più....maturi! Giovanni Puglisi