Maggio 2011 - Master in Giornalismo

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Maggio 2011 - Master in Giornalismo
DOSSIER CARCERE
BOLLATE, VIAGGIO
NELL’UTOPIA POSSIBILE
DA PAGINA 8 A PAGINA 23
Maggio 2011
AnnoVIII
Numero III
labiulm.
campusmultimedia.net
Periodico del master in giornalismo dell’Università Iulm - Campus Multimedia In-formazione - Facoltà di Comunicazione, relazioni pubbliche e pubblicità
Jules et Jim,
1962 regia
di François
Truffaut
LA SCOMMESSA
DELLA SERIETA’
Giovanni Puglisi
a serietà si pratica,
non si predica. É, infatti, molto difficile
dare una definizione della serietà che non incorra nella ridondanza o nella banalità.
Dire di una persona che è
seria equivale a tratteggiare
l'identikit di un soggetto affidabile e onesto, dire invece di
una situazione che è seria
vuol dire alzare la soglia d'attenzione e mettere tutti nelle
condizioni di tenere sotto
controllo ogni circostanza e
ogni movimento che possa
essere riconducibile a quella
situazione.
continua a pag.24
L
MILANO 20-24 GIUGNO 2011, UNIVERSITA’ IULM
Festival multimediale delle Università
e delle Scuole di Cinema dell’Unione Europea
Pagina 2
I
SOMMARIO
l giornale che avete in
mano è un prodotto molto
particolare. E’, insieme, la
palestra degli allievi del Master di Giornalismo Iulm –
Campus Multimedia, e il biglietto da visita di una Università
dove
si
studia
Comunicazione (la prima ad
averlo proposto in Italia) e
che sceglie di comunicare at-
LAB Iulm
Una scommessa e una vetrina
traverso il lavoro formativo
dei suoi studenti. Non era mai
accaduto prima che la testata
di una scuola di giornalismo
prendesse il mare aperto e venisse distribuita insieme a un
giornale “adulto” e prestigioso
come Prima comunicazione.
Per i trenta ragazzi del Master
è un impegno forte, che li proietta immediatamente a contatto
di
un
pubblico
specializzato e attento, quale
quello di Prima. Ma questa occasione senza precedenti è
anche la prima vetrina in cui
mettersi in mostra, da giornalisti, misurandosi con l’attualità, l’inchiesta, il costume, la
cultura, i cambiamenti sociali
e le trasformazioni di Milano,
la città dove i ragazzi del master studiano e imparano il
mestiere del giornalista. Per
l’Università Iulm è una scommessa che confidiamo sarà
ben riposta. E non è rituale il
ringraziamento a Prima Comunicazione per un’ospitalità
che, a sua volta, è un beneaugurante attestato di fiducia a
chi comincia ad affacciarsi a
una professione complessa e
difficile. Ma anche entusiasmante.
(i.b.)
QUESTO NUMERO
Diretto da Ivan Berni e
Giovanni Puglisi (responsabile)
In primo piano
In redazione:
Marco Cosenza, Nicola Marcatelli, Sara Mariani, Emilio
Mariotti, Francesca Martelli, Manuela Messina, Carolina
Saporiti, Marco Subert, Tommaso Tafi, Salvatore Todaro, Elisa
Zanetti, Erika Crispo, Chiara Daffini, Valentina Evelli, Stefano
Fiore, Anna Chiara Gaudenzi, Monica Giambersio, Marco
Giorgetti, Linda Irico, Giuseppe Leo, Francesco Maesano,
Marco Mugnaioli, Chiara Pagnoni, Giulia Pezzolesi, Francesco
Piccinelli Casagrande, Francesco Priano, Roberta Rei, Marta
Eleonora Rigoni, Ignazio Stagno, Roberto Tortora
via Carlo Bo, 1
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Master in Giornalismo Campus Multimedia In-Formazione
Direttore: Giovanni Puglisi
Responsabile didattico: Angelo Agostini
Caporedattore: Ivan Berni
Responsabile laboratorio redazione digitale: Paolo Liguori
Tutor: Silvia Gazzola
Docenti:
Angelo Agostini (Storia del giornalismo)
Camilla Baresani (Scrittura creativa)
Marco Capovilla (Fotogiornalismo)
Toni Capuozzo (Approfondimento televisivo)
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Andrea Delogu (Gestione dell’impresa editoriale televisiva)
Giuseppe Di Piazza (Giornalismo Periodico)
Guido Formigoni (Storia contemporanea)
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Enrico Maria Greco (Gestione dell’impresa editoriale)
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Marco Marturano (Giornalismo e politica)
Pierluigi Panza (Giornalismo culturale)
Sandro Petrone (Giornalismo televisivo)
Giampaolo Roidi (Giornalismo per la free press)
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Claudio Schirinzi (Giornalismo quotidiano)
Gabriele Tacchini (Giornalismo d’agenzia)
Vito Tartamella (Giornalismo scientifico)
Fabio Ventura (Trattamento grafico dell’informazione)
Vittorio Zambardino (Eretici digitali)
Presidente: Giovanni Puglisi
Vice Presidente: Gina Nieri
Amministratore Delegato: Paolo Liguori
Direttore generale: Marco Fanti
Consiglieri: Gian Battista Canova, Mauro Crippa,
Vincenzo Marzuillo, Vincenzo Prochilo, Paolo Proietti
Dal 20 al 24 Giugno Milano è capitale del
Cinema "giovane": l'Università IULM ospita
il primo film happening riservato a 30 filmati
in concorso, prodotti da studenti di tutta Europa. Tema dell'evento la "serietà", declinato
tra workshop e conferenze multimediali.
Dossier carcere. Un viaggio dentro le mura
della Casa di Reclusione di Bollate. Un progetto sperimentale per scoprire che detenzione non è solo privazione della libertà, ma
anche rieducazione, recupero sociale e un
credito per una nuova chance.
Fuga da Alcatraz
1979
EDITORIALI
3
3
Se libertà fa rima con serietà
Lezioni di umanità in carcere
SPECIALE IULM FILM HAPPENING
“Siate seri come i bambini”, intervista a Gianni Canova
4
Un concorso per trenta
5
Cinque giorni di cinema e saper fare
6
Conferenze e Workshop
6-7
DOSSIER CARCERE
Progetto Bollate
8
Lucia Castellano, l’utopia possibile
9
Il recinto delle libertà
10
Appunti da una chiacchierata in galera
11
Il lavoro dietro le sbarre
12
Ottantamila piante, una speranza
13
Il diritto ai sentimenti
14
“Noi volontari in galera per passione”
16
C.R. Bollate, la dura legge del gol
18
“Un gruppo formidabile”, parla il mister
19
Paese che vai, galera che trovi
20
Il carcere, la pena e la malafemmina
21
Giovani dentro, intervista a Don Gino Rigoldi
22
labiulm.campusmultimedia.net
LabIulm
www.iulm.it
youtube.com/clipreporter
twitter.com/labiulm
www.campusmultimedia.net
LAB Iulm
EDITORIALI
Pagina 3
Se libertà fa rima con serietà
Ivan Berni
arlare di cinema e parlare
di carcere significa parlare di libertà. Da due
punti di vista diversi, in qualche modo opposti, ma in fondo
più legati di quanto suggerisca
una prima, sommaria, riflessione. La libertà è intimamente
legata al cinema. Libertà di
espressione e libertà di fruizione. Non si esagera a sostenere che il cinema è stato una
potente leva di libertà fin dal
suo primissimo apparire. Il
grande schermo ha mostrato al
pubblico mondi lontani e passioni intime, sofferenza e gioia,
rivolta e celebrazione, epopea e
introspezione. Lo ha fatto in
forza della sua capacità evocativa e di rappresentazione. Il cinema ha cambiato il modo di
pensare e di mettersi in scena.
Il cinema è stato, è vero, anche
un potente strumento di consenso, ma altrettanto e di più, è
P
stato uno strumento di denuncia
sociale, di presa di coscienza, di
potente suggestione. In qualche
caso di rivolta. La libertà del
cinema è una delle più importanti cartine di tornasole dello
stato di salute della democrazia
di un paese. Le società autoritarie temono il cinema. Quando
possono lo censurano. E spesso
arrestano o esiliano i registi
scomodi. Accade in Iran, in
Cina. E’accaduto nei paesi
dell’est, al tempo del blocco sovietico e della cortina di ferro.
E’ accaduto nei regimi totalitari
del Maghreb e del mondo
arabo. La libertà del cinema e la
produzione libera di audiovisivi, sono una condizione della
democrazia matura. Sono un
elemento di pienezza democratica. Anche per questo la prima
edizione dello Iulm Happening
Festival, che presentiamo in
questo numero di Labiulm, è un
evento importante. Per quattro
giorni un ateneo milanese si
offre come vetrina internazionale del cinema che si impara e
si produce nelle scuole e nelle
università europee. E per discuterne, prendendo spunto dal
tema della serietà, che la Iulm
ha voluto mettere al centro di
questo appuntamento.
La serietà ci porta immediata-
mente dentro l’altro grande argomento di cui si occupa, in
questo numero, la redazione di
Labiulm. Lo scorso febbraio gli
allievi del master in giornalismo Iulm hanno avuto la fortuna di conoscere, entrando in
contatto diretto, l’esperienza
straordinaria del carcere di Bollate. Senza forzare la sintesi,
potremmo dire che il carcere di
Bollate è il più libero d’Italia.
Perciò è il più serio, come dimostrano i risultati ottenuti
negli ultimi anni: fra i detenuti
dimessi a fine pena il tasso di
recidività è al 16%, contro il 70
per cento di media delle altre
strutture carcerarie. A Bollate si
lavora, si scrive e si stampa un
giornale. Si gioca a calcio e si
curano cavalli. Si coltivano
fiori e piante rare, che si vendono al pubblico. Si allestiscono spettacoli teatrali, si
realizzano costumi e si producono linee d’abbigliamento. Si
organizzano anche servizi di
catering per meeting, congressi
e kermesse. Ma Bollate non è
un grand hotel, o un villaggio
vacanze. Bollate è un luogo di
sofferenza, dove i bocconi di libertà offerti da una direzione illuminata e dal “regime
attenuato” sono, per i detenuti,
la promessa di un riscatto vero,
di un reinserimento possibile.
Sono l’avveramento di una Costituzione che 63 anni fa immaginava il carcere come
occasione di recupero e di rieducazione sociale. A Bollate si
annusa il profumo della libertà.
Come al cinema.
Le ali della Libertà,
1994
Lezioni di umanità in carcere
Susanna Ripamonti*
L
’idea è nata con molta timidezza: avere la pretesa
di insegnare ai giornalisti
come si fa informazione su un
argomento complesso come il
carcere, forse era troppo. E poi
diciamolo, molti dei redattori di
“carteBollate” erano stati bistrattati dai media proprio per i
fatti che li avevano condotti in
galera e dunque non avevano
un rapporto del tutto sereno con
la stampa. Però davvero non se
ne può più di quei titoli che tirano in ballo di volta in volta
personaggi noti alle cronache
accusando: “X Y già libero,
dopo soli 16 anni di carcere”,
“In permesso premio l’assassino di Ipsilon Zeta” e via urlando allo scandalo. La nostra
esigenza era quella di spiegare
che 16 anni di galera non sono
proprio una passeggiata e che
non è libero chi esce in misura
alternativa. Volevamo che fosse
chiaro un concetto: il carcere
deve produrre libertà, persone
che una volta uscite siano in
grado di riprogettare la propria
vita nella legalità. Se non fa
questo è solo una struttura dispendiosa, afflittiva e inutile.
E’ nata così l’idea di un ciclo di
seminari sulla rappresentazione
mediatica del carcere, lezioni di
giornalisti, magistrati, giuristi
che spiegassero che cosa è la
pena, cosa prevede la legge in
materia di esecuzione penale e
quali sono le ragioni e i risultati
dell’applicazione di misure alternative al carcere. Il master di
giornalismo dello IULM è stato
il primo ad accettare la nostra
proposta e questo ci ha dato la
spinta per consolidare il progetto, estendendolo alle altre
scuole di giornalismo ed infine
proporlo all’Ordine, che ha deciso di farlo proprio, come
Carcere di Bollate,
studenti e detenuti
a confronto
corso di aggiornamento per
giornalisti professionisti.
Lavorare con voi ragazzi dello
IULM è stata una bella esperienza specialmente perché, una
volta tanto, siamo riusciti a confrontarci con gente che non la
pensa come noi e che non ha la
nostra visione del carcere. Ricordo i dubbi, lo scetticismo e
anche la spigolosità di alcuni di
voi. Ad esempio il ragazzo che
diceva: “Se uno ammazza mio
fratello io sono contento di sapere che se ne sta chiuso 22 ore
su 24 in una cella”. Ma poi accettava di ragionarci sopra e di
prendere in considerazione i
dati che gli fornivamo. Oppure
la ragazza che durante l’incontro a Bollate diceva con un tono
mite e gentile cose che mettevano in discussione la stessa ragion d’essere di un carcere
come quello: “Io non ci credo
al vostro cambiamento, cosa
vuol dire? Fatemi capire in cosa
siete cambiati”.
Questa discussione sincera e irriverente è stata veramente utile
anche per noi. Il giorno dopo
l’incontro con gli studenti,
quella trentina di detenuti che
aveva passato con loro un ‘intera giornata era felice, come
quando senti di aver fatto
un’esperienza importante ed
erano frastornati come dopo gli
esami di maturità. E dell’intensità di quelle ore passate insieme, qualche settimana dopo,
hanno fatto le spese i giornalisti
professionisti che avevano seguito il seminario organizzato
per loro, stesso programma e
stessa visita conclusiva in carcere. Ma lì, a fine giornata, la
discussione si è infittita. “Voi
siete stati molto attenti a evitare
domande che ci mettessero in
difficoltà, ma forse siete rimasti
troppo in superficie…” – ha
detto uno dei nostri redattori. E
un altro a ruota: “Si ad esempio
i ragazzi dello Iulm erano
molto più curiosi, magari insolenti, ma si capiva che volevano
un confronto vero, sincero.”
Adesso il nostro lavoro continua, con l’Ordine dei giornalisti
della Lombardia stiamo preparando un breve codice deontologico che definisca le modalità
con cui la stampa deve parlare
di carcere, un po’ come si è
fatto per i minori, con la carta
di Treviso. Abbiamo chiesto
anche che le norme sul carcere
e sull’esecuzione penale siano
parte del programma d’esame
per l’ammissione all’Albo dei
giornalisti. E tutto questo è
anche merito vostro.
*Direttrice del periodico
carte Bollate
Pagina 4
IULMnews
LAB Iulm
Dal 20 al 24 Giugno, una rassegna
competitiva di trenta filmati prodotti da
studenti di tutta Europa. Workshop
e conferenze sulla multimedialità.
E serate ricche di proiezioni e musica: il
primo Iulm Film Happening, che ha per
tema la serietà, sarà una vera festa del
cinema. Ce lo racconta l’ideatore
dell’evento Gianni Canova, preside della
facoltà di Comunicazione, relazioni
pubbliche e pubblicità della Iulm
Siate seri
come i bambini
Stefano Fiore
Linda Irico
C
om’è nata l’idea di
creare lo Iulm Film
Happening?
«È nata dall’urgenza di provare a svecchiare un po’ l’università italiana. La IULM si
fonda da sempre sull’idea che
sapere e saper fare debbano essere fortemente connessi, una
cosa più facile a dirsi che a
farsi. Da questa volontà di provare a sperimentare circuiti
virtuosi di relazione tra il sapere e il saper fare nasce quest’idea dello IULM FILM
HAPPENING, una nuova
forma di interrelazione tra l’accademia e il mondo che sta
fuori».
Perché chiamarlo Happening e non Festival?
«Non volevamo usare festival perché è una parola abusata. Nei festival si chiamano a
raccolta fruitori passivi mentre
qui vogliamo che ci siano dei
player, delle persone attive
che si mettano in gioco e interagiscano».
Qual è il tema dell’evento?
«Giocando su una delle aree
di eccellenza di questa università, che è l’universo della filmologia accademica e non
solo, abbiamo provato a partire
con questa prima edizione
dando un tema come quello
della serietà: molto fuori moda
ma per questo sufficientemente
provocatorio per essere interessante, soprattutto dal punto
di vista epocale. In un paese
che fa della spensieratezza e
dell’irresponsabilità un marchio, un paese dove si confonde serio e serioso, la mia
convinzione è invece che se
voi non state ancora bruciando
questo paese è perché avete
avuto dei genitori e dei nonni
seri che hanno costruito un
futuro».
Nel manifesto che ha scritto
cita Nietzsche: “si diventa veramente adulti solo quando
si affrontano le cose della
vita con la medesima serietà
che mettevamo da bambini
nei nostri giochi”. Dobbiamo
tornare bambini per diventare seri?
«Per quanto sembri strano è
vero, dovremmo imparare la
serietà dai bambini: io ho una
figlia di cinque anni, e non è
mai così seria come quando
gioca. Credo sia ora di dire
basta a questa finta spensieratezza e tornare ad essere un
po’ seri, che non vuol dire noiosi. La serietà troppo spesso
viene sentita come un disva-
portage giornalistico, scrittura
creativa, animazione multimediale, videoludica. Tutti con
docenti di altissima qualità e di
altissimo livello. Ci saranno
conferenze sul tema e la sera
sarà il momento più ludico,
con djset e proiezioni di spot e
film. Proiettiamo pellicole non
comuni, con la speranza che ci
sia molta gente interessata a
vederle».
Tra i tanti eventi che scandiranno il Festival, ce n’è
uno che le sta particolar-
Dovremmo tutti
imparare dai bambini:
mia figlia di cinque anni
non è mai così seria
come quando gioca
lore, ne vogliamo riscoprire i
lati positivi».
Come si svolge il Festival?
«Il festival ha due grosse
componenti. Da un lato un
concorso aperto a studenti
iscritti o neo-laureati in università di cinema e comunicazione dell’unione europea,
dall’altro workshop ispirati al
tema della serietà in varie categorie: regia, recitazione, re-
mente a cuore?
«Il workshop videoludico tenuto da Matteo Bittanti, un
dottorato di questa università,
classico caso di fuga di cervelli. Dirige con me una collana videoludica in cui sono
già stati pubblicati una decina
di volumi, saggi accademici
sull’universo dei videogiochi.
È considerato un’autorità mondiale nel campo dei videogio-
chi, ha poco più di trent’anni e
ora insegna a Standford in California, dov’è consulente per
colossi come Sony e Nintendo.
Viene qui a fare questo workshop accompagnato da altri
due ragazzi giovanissimi di
Milano, i “Santa Ragione”,
che sono un fenomeno molto
cool
anche
se
poco
accademico».
La formula del festival è sicuramente votata alla modernità. Perché scegliere di
utilizzare il web solo per eleggere i cinque migliori candidati e non il vincitore?
«Non tutto può essere deciso
dal popolo, almeno in Italia. In
questo paese se qualcuno proponesse un referendum per
abolire le facoltà di filosofia
perché non servono a nulla, ci
sarebbe un grosso rischio che
questo referendum passasse.
Mentre in Germania, se succedesse la stessa cosa, i contadini tedeschi tirerebbero fuori
i forconi dai granai per darli
addosso a chi ha proposto il referendum».
Cos’è per lei questa manifestazione?
«Iulm film happening è una
chance di visibilità per i giovani. Ritengo sia sempre più
LAB Iulm
IULMnews
Pagina 5
LA SERIETÀ SECONDO...
“
In questi tempi l'unico modo
di mostrarsi uomo di spirito
è essere seri. La serietà come
solo umorismo accettabile
1974
“
Si corregge il sentimentalismo
non diventando cinici
ma diventando seri
“
Scrittore, sceneggiatore e giornalista
CESARE PAVESE
“
1952
Scrittore, poeta e traduttore
OSCAR WILDE
Larry Gopnik (interpretato da Michael Stuhlbarg) in una scena di “A serious man”, film
del 2009 a metà tra la commedia
e il dramma girato dai fratelli Coen.
Il film parla di un professore di fisica, uomo
“serio”e di poche pretese, la cui anonima vita
viene sconvolta da una serie di guai familiari
doveroso moltiplicare le opportunità di rappresentazione
per i giovani. Anche perché
siamo in una fase in cui è in
atto finalmente un rinnovamento vero, per esempio nel
cinema italiano. Dove ci sono
molte pellicole di giovani registi che si stanno affermando
con un successo clamoroso. Da
“Benvenuti al Sud” a Checco
Zalone, passando dai film di
Fausto Brizzi a quello di Antonio Albanese».
L’industria cinematografica italiana è finalmente
uscita dalla crisi?
«Lasciando fuori il cinepanettone i film italiani arrivano
a sfiorare i 200 milioni di euro,
che è una cifra da capogiro.
Era dagli anni ’60 che non
succedeva una cosa del genere.
Il cinema italiano rischia di superare quest’anno il 50% della
quota di mercato di tutta la filiera cinematografica di questo
paese, laddove negli ultimi 10
anni la quota di mercato del cinema italiano era tra il 10 e il
12% nel migliore dei casi. In
un anno passiamo dal 10 al
50%, una percentuale che potrebbe essere addirittura maggiore in base a come andrà il
box office nel mese di maggio.
Il cinema italiano sta andando
molto bene, e i giovani registi
nostrani sono un’ondata di rinnovamento per il sistema.
Anche le istituzioni accademiche devono svolgere un ruolo
fondamentale in questo cambiamento, dialogando con
quello che accade fuori dai
centri d’informazione».
Cosa risponderebbe al ministro Giulio Tremonti
quando dice che che “con la
cultura non si mangia”?
«Detta così è una cosa che mi
Scrittore, poeta e drammaturgo
tagli alla cultura. Detto questo
rispondo provocatoriamente e
dico che questa è una sfida, e
che noi l’accettiamo: possiamo
fare da soli, le nuove tecnologie ce lo consentono. Coloro
che disprezzano la cultura in
questo modo sono il vecchio, il
passato e i responsabili dello
sfascio attuale del Paese».
È ancora possibile creare
prodotti
di
qualità
nonostante i tagli?
«Loro vogliono tagliare, che
lo facciano. Ma sono il pas-
Non tutto può essere
deciso dal popolo. In Italia
un referendum per abolire
le facoltà di filosofia
rischierebbe di passare
fa solo ridere, perché è di una
grettezza culturale incredibile.
Da un lato come cittadino mi
viene da esprimere tutto il mio
sdegno per chi non ha capito
niente: un ministro della cultura in Italia è l’equivalente del
ministro del petrolio in Texas.
Se non si capisce questo si rovina un paese e il suo futuro.
Mi batterò sempre al fianco di
chiunque si schieri contro i
“
Bisogna essere seri almeno
riguardo a qualcosa,
se si vuole avere
divertimento nella vita
1895
sato. Bisogna che la nuova generazione si tiri su le maniche
e faccia vedere che qui c’è una
capacità di esprimere talento
che è la stessa che ha creato il
made in italy, quello che ci dà
tuttora il benessere. Io sono
uno dei tre, quattro milioni di
italiani che “mangia di cultura”. Quello che possiamo
fare noi in quanto Libera Università Privata, che per fortuna
non fa dipendere le proprie
sorti dai tagli ma dagli studenti
che ogni anno ci scelgono, è
cercare di fare al meglio il nostro lavoro e offrire ai nostri
giovani la massima possibilità
di essere apprezzati per quello
che valgono».
Checco Zalone ha battuto
al botteghino un colossal pluripremiato come Avatar. Il
futuro del cinema italiano è
nella commedia?
«Noi italiani siamo congenitamente legati alla forma commedia ancora prima del
cinema, nel senso che il tragico
ci è totalmente alieno. Gli italiani hanno mangiato pane e
commedia e mentre uscivano i
grandi capolavori del neorealismo andavano a vedere Pane
Amore e Fantasia. Gli italiani
sono votati al comico, che ci
piaccia o no. L’ha capito bene
il nostro Presidente del Consiglio, che ha fatto della barzelletta uno strumento di
comunicazione. Ritengo che
sia un limite grave non riuscire
a produrre altre forme narrative che non siano le commedie, ma bisogna prendere atto
che la cultura italiana è refrattaria a tutti i generi della modernità di massa».
“
ENNIO FLAIANO
IL CONCORSO
La parte competitiva dello
Iulm Film Happening riguarda studenti e neolaureati
dei ventisette paesi dell’Unione Europea che potranno sbizzarrirsi nella
produzione di documentari,
videoclip, servizi televisivi:
ogni tipo di lavoro audiovisivo concorrerà per il primo
premio di 5.000 euro. Una
giuria appositamente costituita sceglierà i trenta migliori prodotti inviati, che
potranno
essere
votati
dal 18 al 23 giugno sul sito
www.filmhappening.iulm.it.
Dopo la votazione popolare i
cinque film più votati online
saranno sottoposti al giudizio
della commissione dei professori di cinema, televisione
e new media delle Università
italiane. Questa assemblea il
23 e 24 giugno terrà alla università Iulm un convegno
sulle tendenze europee della
ricerca audiovisiva e gli autori dei trenta filmati finalisti
verrano invitati a Milano per
presentare il loro lavoro e discuterne assieme agli altri
partecipanti.
Pagina 6
IULMnews
LAB Iulm
20-24
giugno
2011
Chiara Daffini
Roberta Rei
L
a Libera Università di
Lingue e Comunicazione
IULM organizza il
primo IULM FILM HAPPENING, il festival multimediale
delle Università e delle Scuole
di Cinema dell’Unione Europea. La manifestazione, che si
terrà dal 20 al 24 giugno 2011
presso l’università IULM di
Milano, ha l’intento di promuovere e valorizzare gli
scambi e le conoscenze tra le
università e le scuole di cinema
dei paesi comunitari.
Durante questa rassegna di
eventi si terranno alcuni workshop a numero chiuso, tenuti
da professionisti del cinema,
della televisione, della scrittura, del teatro e dell’animazione, tutti incentrati sul tema
portante della serietà.
I laboratori si svolgeranno nel
corso delle quattro giornate e
consentiranno ai partecipanti
di mettersi alla prova nello
svolgimento pratico di discipline che ancora troppo spesso
vengono insegnate solo a livello teorico.
Sarà dunque un modo per tastare in maniera concreta le dimensioni professionali legate
al mondo della narrativa e dell’audiovisivo, ma anche una
dimostrazione del fatto che
pure la cultura più squisitamente umanistica possa avere
un profilo tecnico e un valore
economico.
MODALITA’ ISCRIZIONE
WORKSHOP
Per iscriversi ad uno degli workshop previsti nell’ambito
dello Iulm Film Happening
2011 è necessario compilare il
modulo allegato e inviarlo, insieme all’informativa sulla privacy, via e-mail all’indirizzo
[email protected].
Tutti gli workshop sono a
numero chiuso. Non saranno
accettate, pertanto, ulteriori
iscrizioni rispetto al numero di
partecipanti stabilito per ciascun workshop. Ogni candidato potrà iscriversi ad un solo
workshop tra quelli programmati. È possibile scaricare il
modulo di iscrizione dal sito:
www.iulm.it
Czech Dream (esk sen)
E’ un documentario del 2004 realizzato da due giovani registi, Vít Klusák e Filip Remunda. Il documentario riprende lo sviluppo di un'enorme beffa, realizzata dai due registi, culminata, dopo una
massiccia campagna promozionale, nell'apertura di un falso ipermercato, chiamato appunto esk
sen (sogno ceco). Veri pubblicitari idearono inoltre slogan come "non venite" o "non comprate".
Alla fine di tutto ciò ben 3000 persone accorsero il giorno della falsa inaugurazione, accorgendosi
della beffa solo dopo essersi resi conto che, quella che da lontano appariva la facciata di un immenso ipermercato, non era in realtà altro che una tela dipinta.
LE CONFERENZE
U
BITTANTI, CERAMI, GIANNINO, PUGLISI
n ciclo di conferenze accompagnerà l’intera rasse- dibattiti su espressioni culturali per reinterpretare e scongna dello IULM FILM HAPPENING: quattro gli fessare la proprietà transitiva tra “serietà e gravità”, conincontri durante i quali si dibatterà sul tema della cetti ritenuti comunemente inscindibili. Incontri che,
serietà con una “visione ad ampio raggio”. Perattraverso il confronto e l’analisi con gli spetché la serietà, intesa come fermezza, impegno,
tatori, hanno l’obiettivo di smantellare il falso
responsabilità, non deve prescindere da elesillogismo per cui ciò che “è serio” è necessamenti di sorriso. Una provocazione che armoriamente “controllato”, “contenuto”. Giacomo
nizza concetti apparentemente opposti, e che
Poretti, componente del noto trio comico
filtra l’essenza della serietà con elementi di al“Aldo, Giovanni e Giacomo”, presenterà “A
legria, animazione e vivacità. Singole confeSerious Man”, film dei fratelli Coen divertenrenze con relatori che rappresentano appieno
tissimo e allo stesso tempo tragico. Un ractale connubio di diversità: Giovanni Puglisi,
conto della vita chiaro ma anche riflessivo e
rettore dell’Università IULM e presidente
profondo. La parola “serious” riassume in
della Commissione italiana dell’Unesco, Matqualche modo anche il significato di dedizione
teo Bittanti, professore di Game Studies e Vie attenzione. Ma c’è da considerare che la giusual Studies presso il California College of the
sta ironia può aiutare ad eludere e aggirare
Arts di San Francisco e Oakland in California, Giacomo Poretti presenterà il anche gli stereotipi che accompagnano spesso
Oscar Giannino, eclettico giornalista ed econo-22 giugno “A serious man” la nostra società, considerata frivola e leggera.
mista e Vincenzo Cerami, scrittore, drammaturgo e sce- Animando di sarcasmo anche i temi più profondi senza
neggiatore ( sua la sceneggiatura del premio Oscar del scadere nella superficialità.
1998 “La vita è bella”). Videoludica, educazione, cinema, Imparando a ridere, ma con serietà.
LAB Iulm
IULMnews
Pagina 7
Serietà
vo’ cercando
Sette corsi-laboratorio durante i quali imparare insieme a professionisti affermati come
realizzare un progetto nel campo che avrai scelto. I prodotti realizzati, che avranno
come tema la serietà, verranno mostrati pubblicamente durante lo IULM Film Happening
A cura di Matteo Bittanti e Santa Ragione
A cura di Andrea Caccia
Il progetto di workshop prevede la realizzazione di prototipi di gioco che illustrino, o comunque impieghino,
meccanismi di
dissonanza cognitiva, superstizione e profezia, effetto
Ben Franklin e allegoria della caverna. Dopo l’introduzione, il corso si svolgerà in due fasi: Design/Prototipazione cartacea, Prototipazione digitale.
MATTEO BITTANTI è professore di Visual Studies presso il California College of the
Arts di San Francisco e Oakland in California. Scrive regolarmente per WIRED, Rolling
Stone, Duellanti, Link, Saturno-il Supplemento del Fatto Quotidiano. Insieme a Gianni
Canova, dirige la collana Ludologica.Videogame d’Autore dal 2003. www.mattscape.com
SANTA RAGIONE sono Nicolò Tedeschi e Pietro Righi Riva che nel 2010 hanno fondato questa azienda che si dedica al design e allo sviluppo di giochi e videogiochi indipendenti, come Fotonica (2011), premiato dalla critica mondiale. www.santaragione.com
Partecipanti: 30
Costo: 250 
Da Stanislavskij all’Actor’s
Studio: il workshop si propone di introdurre i partecipanti alla pratica del
palcoscenico, offrendo la possibilità di lavorare come registi o
attori.
Il workshop di 4 ore al giorno per 5 giorni affronta le seguenti
discipline: -lineamenti di pratica registica, -scrivere per il teatro: fondamenti di drammaturgia, -il lavoro dell’attore: corpo e
voce al servizio di una comunicazione efficace.
VALENTINA GARAVAGLIA è una professoressa di Teatro moderno e contemporaneo presso la Libera Università di lingue e
comunicazione IULM di Milano, dove si dedica allo studio dei
codici della messinscena teatrale e della formazione dell’attore.
Costo: 250 
Il workshop è rivolto a studenti e appassionati di cinema già in possesso dei
fondamentali di regia, riprese
e montaggio.
I partecipanti entreranno in contatto con le dinamiche di
realizzazione del prodotto
cinematografico, affrontando le principali questioni che devono
essere considerate quando si decide di realizzare un film.
MARCO CHIARINI, diplomato in scenografia all’Accademia
di Belle Arti di Urbino e in regia al Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma, esordisce nel 2009 con il lungometraggio L’uomo Fiammifero , con il quale entra in nomination ai
David di
Donatello 2010 come miglior regista esordiente. Gira numerosi
corti e documentari e si interessa alla didattica dell’audiovisivo
per scuole di ogni ordine e grado.
Costo: 300
Costo: 250
Gratuità: 2
A cura di Antonio Scurati
“Fare sul serio con le parole sembra che oggi significhi solo narrare piccole storie, basate o sulla messa in finzione della vita privata di chi racconta o su un minuzioso realismo preso in prestito
dalla cronaca”. Il laboratorio interrogherà e sfiderà questa ideologia dominante e sarà articolato in lezioni teoriche, sessioni di
scrittura collettiva, lettura e revisione dei testi creati in aula, saggio finale con lettura pubblica delle prove più convincenti. I candidati devono presentare, unitamente alla domanda di ammissione, una breve narrazione (non più
di 10.000 battute, spazi inclusi) nella quale raccontano la loro storia.
ANTONIO SCURATI è scrittore e saggista, docente e ricercatore in cinema e televisione all’Università IULM di Milano, coordina il Centro studi sui linguaggi della guerra e della violenza ed è
editorialista di “La Stampa” e collaboratore di “Sette”. Nel 2005 uno dei suoi romanzi, Il Sopravvissuto, ha vinto la XLIII edizione del Premio Campiello.
Partecipanti: 20 Costo: 250 Gratuità: 2
a cura di Massimo Cellario
Il workshop affronta lo sviluppo di formati e contenuti per
media digitali, con particolare riferimento a strategie e tecnologie per la produzione, distribuzione e condivisione di rappresentazioni narrative e interattive in rete. I progetti si
articoleranno in rappresentazioni digitali alternative di cui verranno esplorate le dinamiche di diffusione sociale/virale, in relazione alla percezione di serietà associata alle rappresentazioni
Gratuità: 3
A cura di
Marco Chiarini
Partecipanti: 15
Partecipanti: 20
Gratuità: 3
A cura di
Valentina Garavaglia
Partecipanti: 20
Il percorso si articola in quattro giornate e mezza – suddivise tra teoria e
pratica – nelle quali i partecipanti si
confronteranno con le diverse fasi di
realizzazione di un film documentario: la nascita dell’idea e la scrittura,
la pre-produzione e la fotografia, le
riprese, il montaggio e la postproduzione.
ANDREA CACCIA si dedica al documentario poetico e all’insegnamento del linguaggio visivo. I suoi film hanno ricevuto riconoscimenti
e partecipato a numerosi festival, tra cui la Mostra del Cinema di Venezia, il Festival Internazionale di Locarno, il Rotterdam International
Film Festival.
Gratuità: 2
stesse in fase di design.
MASSIMO CELLARIO è docente e ricercatore universitario nel settore Media, Multimedia e Comunicazione Digitale; dal ‘98 svolge attività accademica e professionale di collaborazione, coordinamento e consulenza in progetti italiani e internazionali.
Partecipanti: 15
Costo: 300 
Gratuità: 2
a cura di Toni Capuozzo
Attraverso lo strumento del reportage e della videoinchiesta,
i partecipanti verranno spinti a trovare esempi di “serietà”
nella vita di tutti i giorni. Girando per le strade di Milano armati di videocamera, potranno cogliere la realtà che si cela
dietro una patina di superficialità e dietro la velocità della metropoli lombarda.
TONI CAPUOZZO è uno dei più importanti giornalisti d’approfondimento italiani. Dagli anni ‘90 lavora per il gruppo Mediaset, arrivando fino alla qualifica di vicedirettore del TG5. Tra i suoi libri, Il Giorno dopo la Guerra (Feltrinelli, 1996) e Adios
(Mondadori, 2007).
Partecipanti: 20 Costo: 250  Gratuità: 2
Pagina 8
DOSSIER CARCERE
LAB Iulm
Qui la
rieducazione
avviene
attraverso il
rispetto della
legge. Viaggio
nell’unico
carcere italiano
in cui la
Costituzione
viene applicata
Carolina Saporiti
I
l carcere è un posto dove si
esercita la giustizia, non il
potere” dicono Lucia Castellano, direttrice del carcere
di Bollate e Donatella Stasio,
giornalista de “Il sole 24 ore”,
nel libro “Diritti e castighi”. Il
carcere, infatti, non deve annullare il detenuto in quanto
delinquente, ma deve essere un
luogo dignitoso dove si produce educazione, lavoro e
anche cultura. Infatti, in base
all’articolo 27 della Costituzione, la pena non può consistere in trattamenti contro il
senso di umanità e deve tendere alla rieducazione del condannato.
A Bollate la
Costituzione è rispettata. Non
si può dire lo stesso delle altre
carceri: la rieducazione e il rispetto della dignità nella maggior parte delle carceri rimane
solo sulla carta e si cade nel
paradosso di carceri fuorilegge, che hanno anche un secondo grave difetto: non
funzionano. Il carcere che fun-
I detenuti in Italia
sono 67mila.
Duecentootto gli
istituti di
reclusione
presenti sul
territorio.
Ma la capienza
massima prevista
sarebbe
di 45mila. Più
di 20 mila oltre il
consentito
ziona è invece quello che si organizza per produrre libertà. A
toglierla ci pensano già le mura
invalicabili.
Bollate è una casa di reclusione situata nella periferia di
Milano e di recente costruzione. Dal giorno della sua
Progetto Bollate
apertura, nel 2001, l’amministrazione ha deciso di puntare
sul trattamento. I detenuti di
Bollate non passano le giornate
in cella, ma secondo le norme
della legge Gozzini e il Regolamento del 2000, dopo la colazione e la doccia, le celle
vengono aperte e quei pochi
detenuti che non
lavorano,
non
vanno a scuola o
non escono in
permesso, possono comunque
girare
liberamente per i piani
del loro reparto
dove c’è una sala
“svago” con un
tavolo da pingpong e un biliardino.
I detenuti in Italia
sono più di
67mila, suddivisi
in 208 istituti, ma la capienza
regolamentare prevedrebbe
45.000 carcerati, non di più. A
Bollate vivono 1040 detenuti,
ma solo 750 hanno una condanna definitiva, gli altri sono
“di passaggio”. Non c’è sovraffollamento: caso pressocché unico in Italia il limite di
capienza è rispettato. Gli ospiti
hanno commesso diversi reati
e sono tutti detenuti “comuni”,
qualcuno sconta anche l’ergastolo, non ci sono però i carcerati cosiddetti a “elevato indice
di sorveglianza” (che complessivamente in Italia sono
9.300). Tra i “comuni” si contano anche i “protetti”: stupra-
tori, pedofili, pentiti, poliziotti
finiti in galera e transessuali.
L’amministrazione penitenziaria li protegge con l’isolamento
in reparti separati per evitare
maltrattamenti da parte degli
altri detenuti. A Bollate i protetti trascorrono il loro primo
anno nel reparto a loro dedicato dove seguono un percorso
terapeutico, poi vengono trasferiti negli altri reparti, quelli
dei “comuni”. La differenza
tra Bollate e le altre carceri è
che qui nessuno osa fare qualcosa contro gli ex-protetti perché il rischio che si corre è
troppo alto, si può essere cacciati.
A Bollate, si diceva,
i detenuti hanno la
possibilità di lavorare e la maggioranza di loro lo fa,
altri vanno a scuola,
c’è chi studia per ottenere il diploma,
chi la laurea.
Le scommesse e gli
investimenti di Bollate danno i loro
frutti: la recidiva di
chi ha scontato la
pena chiuso in cella
20 ore al giorno è
molto più alta di
quella dei detenuti che hanno
avuto la possibilità di lavorare
o studiare. La media italiana di
recidiva sfiora il 70%, a Bollate scende al 18%. Non solo,
la relazione parlamentare sul
lavoro in carcere del 2001 dice
che “La diminuzione di un solo
punto percentuale della recidiva corrisponde a un rispar-
mio per la collettività di circa
51 milioni di euro l’anno”.
Anche il rapporto con la Polizia penitenziaria è migliore che
da altre parti, ma sono serviti
anni per arrivare a una pacifica
convivenza e in qualche caso
anche a uno scambio tra per-
La recidiva di chi
ha scontato la
pena chiuso in
cella venti ore
al giorno è
statisticamente
molto più alta di
quella dei
detenuti che
hanno avuto
la possibilità
di lavorare
o studiare
sone. Altrove i poliziotti di cui
i carcerati conoscono il nome,
e che perdipiù accettano il catering della cooperativa carceraria per la festa annuale della
polizia penitenziaria, sarebbero
definiti gli “accamosciati”, ovvero poliziotti che si sono
LAB Iulm
DOSSIER CARCERE
Pagina 9
Delitto e Castigo: la vita dietro le sbarre
I
Monica Giambersio
l funzionamento delle carceri in Italia è regolato dalla
legge 354/1975 e dal D.P.R.
230/2000 (Regolamento sull'ordinamento penitenziario).
Queste norme non solo contengono una classificazione delle
varie tipologie di regime detentivo, ma disciplinano in maniera sistematica ogni aspetto
della vita in prigione. Quella
carceraria, infatti, è una realtà
complessa, che prevede una
differenziazione dell'intervento
punitivo in base ai reati commessi in modo da porre sul
piatto della bilancia, da una
parte, l'aspetto afflittivo della
pena, dall'altro quello rieducativo.
Se le case circondariali sono riservate ai detenuti in attesa di
giudizio, le carceri di massima
sicurezza, invece, ospitano i
condannati per reati di criminalità organizzata, mafia, terrorismo, che sono sottoposti al
regime del carcere duro previsto dall'art. 41 bis. Questa tipologia di detenuti è soggetta a
misure di restrizione più rigide
come la riduzione del numero
dei colloqui (che avvengono
attraverso un pannello divisorio per impedire il contatto fisico), la limitazione delle
attività comuni, l'esclusione
dall'attività lavorativa e dalla
frequentazione di scuole, biblioteche o attività di culto, e
la riduzione delle “ore d'aria”.
I tossicodipendenti e i detenuti
non pericolosi socialmente, infine, scontano la loro pena all'interno di istituti a custodia
attenuata. In questi luoghi di
detenzione, dove spesso si armessi al servizio dei detenuti,
rinunciando a ruolo e dignità.
Altrove ma non a Bollate. Antonino Giacco, vicecomandante e colonna portante di
Bollate spiega: “Stare qui significa intendere la detenzione
e la sorveglianza in modo più
proficuo. Ma non ci siamo inventati niente di nuovo: il regolamento del 2000 ha esteso
la custodia attenuata ai detenuti di media sicurezza. Noi
applichiamo solo il regolamento. Eppure…”. Eppure
Bollate è considerato ancora
un esperimento.
Anche a Bollate però non tutto
funziona correttamente: l’acqua calda c’è, ma non per tutti;
le pareti delle docce sono verdi
a causa della muffa e ogni
tanto filtra l’acqua piovana dal
soffitto. Pur essendo un carcere
di recente costruzione, avrebbe
già bisogno di sistemazioni
perché non è stato costruito
con cura. Ogni governo che
sale al potere parla di chiudere
e costruire nuove carceri, ma
l’edilizia penitenziaria è lenta,
i costi negli anni lievitano e i
buoni propositi svaniscono
perché i soldi per il sistema penitenziario non ci sono mai.
riva dopo aver sperimentato il
carcere tradizionale, viene data
ai reclusi la possibilità di riabilitarsi attraverso una vasta
gamma di attività, in modo da
favorire il loro futuro reinserimento nella società.
Ma come scorre la vita all'interno di un carcere? Il primo
impatto con la realtà carceraria
avviene presso l'ufficio matricola, dove vengono scattate
foto, prese le impronte digitali
e annotati i dati anagrafici
della persona. Una volta fatto
ciò viene effettuata una perquisizione durante la quale vengono sequestrati tutti gli effetti
personali come orologi, cinture
ed eventuali oggetti di valore.
Il denaro, invece, viene registrato su un conto corrente
dove verranno addebitate tutte
le future spese del detenuto e
dove verrà accreditato il compenso poveniente dall' attività
lavorativa.
Dopo essere stata “immatrico-
IL PERSONAGGIO
lata” e sottoposta a un controllo medico che ne accerti la
compatilità con il carcere, la
persona entra a far parte di una
rigida routine.
La giornata inizia alle 7 e 30
con il controllo numerico dei
presenti e la colazione consegnata dai “portavitto”, lavoratori
dell'amministrazione
addetti alla consegna dei pasti.
Subito dopo la colazione viene
effettuata la raccolta delle “domandine”, richieste, scritte alla
direzione su appositi moduli,
necessarie per ottenere colloqui con il direttore, con gli
educatori, con gli psicologi o
con il cappellano. Attorno alle
8 e 30, invece, i detenuti, dopo
aver provveduto autonomamente alla pulizia delle loro
celle, in parte si dedicano a
vari tipi di attività (scolastiche,
sportive, ricreative), in parte
escono per i “passeggi”, intervalli di un'ora di tempo in cui
è concesso restare all'aria
aperta. Il resto del tempo, in
media 20 ore, viene trascorso
in cella.
Ma l'aspetto più difficile da gestire della vita in carcere, oltre
alla privazione della libertà
personale, è sicuramente
quello dei rapporti con i familiari. Il regolamento, infatti,
prevede che chi sta scontando
una pena detentiva possa
avere, con familiari, conviventi
o altre persone, solo sei colloqui al mese, della durata di
un'ora l'uno, che in alcuni casi
possono essere utilizzati in
un'unica visita. Oltre a questo,
una rigida burocrazia impone a
coloro che entrano in carcere,
per far visita ai detenuti, di essere muniti di un documento di
identità e di uno stato di famiglia che attesti il grado di parentela con la persona reclusa.
Anche per quanto riguarda
l'utilizzo del telefono le regole
non sono meno rigide. Neanche l’unica telefonata concessa
durante la settimana, può essere fatta senza l'autorizzazione del direttore del carcere
per i condannati, dell'autorità
giudiziaria per i detenuti in attesa di giudizio di primo grado,
del giudice di sorveglianza per
gli appellanti e i ricorrenti. A
ciò si aggiunge il divieto di
prolungare la conversazione
per più di 10 minuti e l'obbligo
di rendere nota la persona con
cui si sta parlando. Delle piccole agevolazioni vengono
concesse ai detenuti nel caso
abbiano figli d’età inferiore ai
10 anni. In questo caso si può
richiedere un aumento del numero delle visite e delle telefonate.
Lucia Castellano, l’utopia possibile
Caparbia, tenace, determinata. Sono questi i tre aggettivi
che meglio si addicono a Lucia Castellano, laureata in giurisprudenza, avvocato, attualmente direttrice della Seconda Casa di reclusione di Milano, il carcere di Bollate.
E sono proprio queste le qualità che le hanno permesso di
portare avanti una carriera, ormai ventennale, cominciata
in età giovanissima. E’ del 1991 infatti il suo primo incarico all’istituto carcerario
Marassi di Genova, prima in
qualità di vice e successivamente di direttrice. Poi a
Eboli, nel centro per la custodia attenuata di tossicodipendenti dove sperimenta una
forma di carcere-comunità
per il recupero dei detenuti in
collaborazione con i servizi
territoriali. E poi ancora Secondigliano, Vallo della Lucania, Alghero, Tempio
Pausania, fino ad approdare
nel 2002 alla direzione del
carcere di Bollate. “Quando
sono arrivata sapevo di avere
davanti a me un compito particolare perché questa è una
Casa di reclusione che ha una
vocazione trattamentale di orientamento, per detenuti con
bassa pericolosità sociale. Quindi parliamo di un compito
principalmente di recupero, di sostegno al recupero”.
Uno degli obiettivi principali di Bollate è infatti il miglioramento della qualità della vita, sia per chi ci lavora sia
per chi vi è detenuto. Un lavoro da ammirare, quello della
Castellano, anche alla luce del suo essere donna. Infatti
nel settore penitenziario, così come in tanti altri, le donne
arrivano fino ad un certo punto di carriera, ma non ai livelli
più alti. Eppure è stato forse proprio il suo essere donna,
la capacità di avere un rapporto più empatico sia con i
subordinati che con l’utenza,
che le ha permesso di raggiungere gli obiettivi che si
era prefissata.
Un istituto penitenziario pensato come se si trattasse di
una grande azienda che ha
per fine ultimo il reinserimento sociale e la rieducazione dei detenuti attraverso
il lavoro e le molteplici attività extracarcerarie svolte in
un clima di collaborazione e
serenità generale. Una vita
dedicata ai detenuti, al loro
recupero, alla loro rieducazione. Un lavoro, anzi, una
vera e propria missione che
Lucia Castellano porta avanti da anni con esperienza, orgoglio e passione.
Erika Crispo
Pagina 10
DOSSIER CARCERE
LAB Iulm
Il recinto delle libertà
Tra regole
e divieti si snoda
il percorso
della "rieducazione"
un processo interiore
per tornare a sentirsi
parte di una comunità
Marco Giorgetti
del mio almanacco delle
scienze criminologiche, di
iorgio mangia la pizza, fronte allo sguardo attento di
seduto proprio accanto quest’uomo; scommetto che
a me. Solo da qualche sta cercando di capire che cosa
istante ho dato un nome alla penso, in fondo, della sua consensazione che sto provando, dizione; e mi sento quasi nudo,
mentre lo guardo e mi sembra percependo che indovina senza
impossibile che io stia man- dubbio ogni mio pensiero.
giando con un assassino. “As- In definitiva Giorgio si aspetta
sassino” è il nome di Giorgio anche da parte mia quel che
per chiunque viva fuori di qui, spera gli sia concesso dalla soper chi vive da “innocente” cietà intera, e cioè una fiducia
fuori dalle mura del carcere di rinnovata, una fiducia che perBollate. E la sensazione che sino lui è incapace di accordare
provo è un profondo imba- a se stesso: potrebbe infatti
razzo. Si tratta di un disagio ri- uscire dal carcere già da qualflesso, scaturito da un che mese, beneficiando del faconsolidato senso dell’assurdo: moso articolo 21, per svolgere
perché in realtà trovo inconce- lavori all’esterno, ma si rifiuta
pibile pranzare con un omi- di valersi di questa opportucida; ma qui, ora, prevale nità. Si potrebbe sospettare che
l’imbarazzo generato dalla mia Giorgio abbia in fondo paura
incapacità di scorgere Giorgio, di se stesso, della sua libertà;
il suo sguardo, la sua umanità, ma a domanda esplicita sull’aral di là del marchio che ha im- gomento risponde con sicupresso sulla sua vita quel gesto rezza disarmante, e tutti
inconsulto, commesso chissà riceviamo la limpida sensaquando e chissà come. Parlo zione che la libertà che gli è
con Giorgio e mi scopro in stata sottratta non possa che escontraddizione
sergli
pian
con me stesso, Quale imperativo piano restituita,
perché sono velui
potrebbe mai giacché
nuto in carcere
stesso si diper compren- essere rispettato chiara incapace
dere il controda parte di chi di riprendersela
senso di una
le sue
non fosse con
pena afflittiva e
forze. La chiaghettizzante, e in possesso della rezza di vedute
invece mi rila commopropria libertà? evente
trovo a subire i
sincerità
miei stessi prePiù ancora, che che Giorgio
giudizi – bensu
senso avrebbe manifesta
c
h
é
questo punto
inconsciamente ordinare alcunché mi
lasciano
– a causa del a chi non potesse senza parole, e
vizio di divimi ammoniimpegnarsi con scono circa la
dere l’umanità
in buoni e cat- la propria libertà? necessità del
tivi.
mio sforzo di
In fondo nutro anch’io il so- accettarlo, di tornare a fargli
spetto che chiunque abbia sba- spazio, poiché lui – a diffegliato una volta, sia in qualche renza di tutti noi “innocenti” –
modo destinato a ricadere, o al- non può e non vuole imporsi.
meno più incline all’errore. E’ difficile spiegare quel che
Riaffiorano nella mia mente provo nello stringere la mano a
parole da laboratorio crimino- Giorgio, al termine della nostra
logico, concetti noti sui quali visita al carcere di Bollate: per
ho riflettuto a lungo nel corso la prima volta sento che lo
dei miei studi giuridici: perico- sforzo di comprensione di una
losità sociale, spinta crimino- condizione generalmente pergena, recidiva; ripenso persino, cepita come “diversa” è di per
quasi per rassicurarmi, alle co- sé capace di smascherare l’inlonne di statistiche che ho ganno della diversità, gli orscorso in questi giorni, e che il- pelli della segregazione e del
lustrano la rarità della recidiva pregiudizio.
tra i detenuti del carcere di Attraverso questo percorso inBollate. Eppure mi vergogno
G
Pausa Pizza durante la nostra
visita al carcere di Bollate
teriore ho forse compreso qualcosa in più delle dinamiche
della cosiddetta rieducazione
che si svolge all’interno del
carcere di Bollate. Questa sorta
di processo riabilitativo si
gioca tutto sull’equilibrio incerto tra libertà e divieto, tra
emancipazione e obbedienza. I
detenuti, ad esempio, lavorano
liberamente in un call center
allestito all’interno del carcere:
passano giornate intere al terminale, rispondono alle chiamate degli utenti, stanno in
contatto con tutto il mondo;
tuttavia non possono introdurre
nel call center chiavette USB o
altri supporti, potenzialmente
idonei al trasferimento di materiale informatico all’interno
della casa di reclusione. Altri
detenuti si occupano dello
Sportello Giuridico: accolgono
richieste dei propri compagni e
le inoltrano alla direzione del
carcere o all’autorità giudiziaria, ma coloro che non si occupano di questo servizio non
possono assolutamente compilare domande di contenuto giuridico, né fare fotocopie
all’interno della stanza dedicata a questo ufficio. Una detenuta mi fa anche notare che
di solito, in carcere, non si possono indossare cinture, stringhe alle scarpe o altri oggetti
potenzialmente utilizzabili per nei pressi delle finestre, scruscopi autoletando il cielo
sivi; qui a Bol- Giorgio si aspetta attraverso le
late,
invece,
anche da parte sbarre. Finita la
detenuti opesi volmia quel che sigaretta
rosi
manegtano all’interno
g i a n o
spera gli sia del corridoio e
addirittura cedepositano il
concesso
dalla mozzicone
soie e zappe per
in
società intera, appositi raccola cura delle
serre.
Nelle e cioè una fiducia glitori, spesso
stesse celle di
strapieni, il cui
rinnovata, utilizzo è gendetenzione si
possono tenere
una fiducia tilmente propiccole bommosso da altri
che persino lui cartelli, sparsi
bole di gas per
preparare qualè incapace qua e là per le
che spuntino
pareti: “Per predi accordare servare il decaldo, ma il divieto di introa se stesso c o r o
durre mobilio
dell’istituto, i
non incluso nelle suppellettili detenuti sono pregati di non
del carcere campeggia, sempre gettare i mozziconi di sigaretta
rispettato, sui muri dei corri- nel corridoio, utilizzando gli
doi. Altri cartelli invitano a non appositi contenitori”.
fumare all’interno degli am- Ammetto che mi stupisce tanta
bienti chiusi, se non in prossi- cordialità nell’impartire ordini
mità delle finestre, e mi e nello stabilire divieti all’indicolpisce il tono della prescri- rizzo di persone, paradossalzione: “I detenuti sono pre- mente, “private della libertà”.
gati…”, e non il più comune Quale imperativo potrebbe mai
“E’ vietato…”, a sottolineare la essere rispettato da parte di chi
ragionevolezza della richiesta, non fosse in possesso della
per la convivenza all’interno propria libertà? Più ancora, che
del carcere tra fumatori e non senso avrebbe ordinare alcunfumatori. E infatti piccole folle ché a chi non potesse impedi tabagisti, incalliti nel vizio gnarsi con la propria libertà?
dalla detenzione, si accalcano E’ evidente che all’interno del
LAB Iulm
DOSSIER CARCERE
Pagina 11
Appunti da una chiacchierata in galera
Marco Subert
U
n cubo di cemento accanto all’autostrada. Di un tono di grigio abbastanza chiaro da staccarsi dall’
uniformità anonima e plumbea della periferia. Come fosse la copia in negativo di
uno dei tanti capannoni industriali che ci
si lascia di fianco. Un’increspatura anomala nella scenografia di palazzi che costeggiano l’autostrada dei laghi. Per questo
si nota il carcere di Bollate, perché intorno
c’è un muro troppo alto per essere una
cinta ordinaria. Un muro altissimo e punteggiato dalle torrette di guardia. Il mio
rapporto più stretto con la galera era sempre stato soltanto questo: passarci accanto.
Il cancello che ti si chiude alle spalle è ben
altra cosa. I primi sguardi che si incrociano
all’ingresso sono quelli dei parenti dei detenuti. Curiosi della nostra comitiva ci osservano nello stanzone squallido dove si
consegnano i documenti per l’identificazione. Alcuni arrivano su macchine grosse
e potenti coi vetri scuri. Scendono e hanno
la coda di cavallo unticcia e la catena
d’oro. Altri hanno facce che raccontano
storie di miserabile emarginazione. Vestiti
con tute lise comprate al mercato rionale
aspettano di entrare. Poi c’è un bambino,
giocherellone come qualunque altro,
iscritto alla prima elementare. Allegro
come ogni suo coetaneo quando gli fai bigiare la scuola per andare a trovare i parenti. Mi pianta due occhioni iperattivi
addosso, sembra non percepire nulla di
anomalo. Andare a trovare il papà in galera
per lui è la norma. Devo abbassare lo
sguardo. Sono a disagio. Entriamo nella
sala dove si svolgerà l’incontro, un ambiente grande e disadorno che affaccia su
un cortiletto asfittico. Poco dopo arrivano
i detenuti, ci sediamo. Da una parte loro,
dall’altra noi. Siamo impigliati nei nostri
ruoli, c’è diffidenza. Si parla a turno, domande e risposte. Alla discussione partecipano anche due agenti di polizia
penitenziaria, due ragazze. Sono le chiacchiere tra queste e i detenuti a decollare
per prime. Si vedono tutti i giorni - da
carcere di Bollate l’intero processo rieducativo si gioca sulla
scommessa della libertà, sicché ogni chance di autonomia
– impensabile in altri istituti
carcerari – contiene in sé il rischio della violazione e perciò
del fallimento; ma allo stesso
modo ogni divieto presenta
non solo l’occasione di essere
rispettato, ma anche l’opportunità di essere compreso ed accolto
come
regola
di
convivenza, come norma costruttiva, e non solo come restrizione delle facoltà.
Non è un caso, del resto, se nel
locale in cui i detenuti stendono i panni la biancheria è ordinatamente disposta su fili e
scaffali separati. Da un lato ci
sono le scarpe per lo sport, dall’altro gli indumenti intimi, in
un altro posto ancora il vestiario; sulle pareti spiccano alcuni
cartelli: “scarpe”, “biancheria”, “vestiti”; non sono ordini
impartiti dalla direzione del
carcere, ma segnali affissi
dagli stessi detenuti, che si
sono dati un ordine per vivere
meglio. Chiunque aderisca al
minimo di armonia descritta da
quei cartelli s’inserisce nella
piccola società del carcere di
Bollate, una comunità che
prova a riabilitarsi, raccogliendo la sfida della libertà.
chissà quanti anni e chissà per quanti ancora – ma non si sono mai parlati prima.
E’evidente. Si punzecchiano, scherzano.
Abbozzano guizzi di confidenza. Mi ricorda il clima che si crea al liceo con il
professore che ti porta in gita. Quando calano le difese e ci si dimentica dei ruoli.
Ma non dura tanto. C’è un punto oltre il
quale non si va. Non siamo al liceo, non
siamo in gita. Basta un niente perché i sorrisi si spengano e l’espressione degli
Nel carcere di Bollate si
incontrano persone
talmente simili e vicine
a te da indurti a
pensare che non sia
tanto difficile
attraversare il confine
tra la libertà e la galera
agenti torni distante e fredda. Le guardie,
i criminali. E’ una questione di ruoli, appunto. Finito l’incontro istituzionale, il dibattito con i moderatori e le alzate di
mano, la situazione si sblocca. Ci si alza,
ci si mescola e la voglia di comunicare e
conoscersi vince. Ci sparpagliamo in grup-
E’ straniante parlare a
lungo con una persona trovarcisi bene, starsi
simpatici - e poi scoprire
che è un assassino e
che la sua vita scorre
tra mura di cemento
puscoli e la curiosità per quest’altro
mondo – nascosto dietro un muro – concima l’incontenibile bisogno di raccontarsi
dei detenuti. Le bocche di tutti si aprono
insieme. Un coro di storie, sarebbe bello
ascoltarle tutte e riferirle una a una. Giro
da un gruppetto all’altro. Di solito c’è un
detenuto e tre o quattro di noi ad ascoltare.
Rubo frammenti di discorsi normali.
“Come faccio a fidarmi se mia figlia va a
una festa? Come faccio a sapere chi incontrerà?” “Io lavoro giù al vivaio.” “Dopo,
quando passiamo dalla redazione ti faccio
vedere…”. Sono le stesse cose che si
ascoltano per strada, al mercato, in metropolitana. Le stesse chiacchiere cordiali di
chi si sta conoscendo. E anche le facce
sono le stesse. Niente anomalie Lombrosiane. Arriva la pizza, la fanno alcuni di
loro che lavorano per una cooperativa che
si occupa di catering. Ci sediamo a mangiare. La pizza è ottima e il pranzo ciarliero come ogni uscita con gli amici. Tutto
sembra dannatamente uguale a fuori. Tutto
tranne il motivo per cui queste persone vivono inscritte in un muro di cemento. Ci
sono vite normali che sono deragliate in
un attimo. Ci sono storie tanto complicate
da non lasciare spazio a un epilogo diverso. Ci sono uomini che mi somigliano
al punto di farmi pensare che il confine tra
la libertà e la galera non sia così difficile
da attraversare. La curiosità seda la diffidenza, domando a un ragazzo perché è
dentro. Non si scompone, mi sorride.
“Indovina?” Ha lo sguardo pieno e gentile.
Resto in silenzio.
“Omicidio” mi dice lui.
“Sei l’ultima persona con cui vorrei litigare fuori di qui” Rispondo.
“Ti assicuro che i miei interlocutori erano
molto meno affabili di te.”
Ridiamo. Sono le ultime parole della giornata: è ora di andare. E’ straniante parlare
a lungo con una persona – trovarcisi bene,
starsi simpatici – e poi scoprire che è un
assassino. Ho la testa ingolfata di stimoli.
Mi viene in mente la strofa di una canzone
di De André: “La città vecchia” che dice
“se tu penserai, se giudicherai da buon
borghese, li condannerai a cinquemila anni
più le spese, ma se cercherai se li capirai
fino in fondo, se non sono gigli son pur
sempre figli vittime di questo mondo.” Il
cancello si chiude dietro di me, sono fuori.
Per la prima volta capisco che cos’è la libertà.
Pagina 12
DOSSIER CARCERE
Il lavoro
dietro le sbar
Call center,
sartoria,
catering e
falegnameria:
così i
detenuti si
reinseriscono
nella società
V
LAB Iulm
Valentina Evelli
i ricordate lo spot televisivo in cui Claudio
Bisio, alla ricerca di un
ristorante, chiamava un call
center per sapere come raggiungerlo? Trasferite il call
center in questione (anche se il
numero “utile” non è lo stesso
di Bisio) dietro le sbarre di
Bollate e troverete una sessantina di detenuti pronti a rispondere alle vostre richieste. Parte
da qui, da un capannone all’interno delle mura carcerarie una
tra le numerose realtà professionali che si possono trovare
a Bollate. Uomini costretti per
anni dietro le sbarre che con un
semplice click indirizzano e
consigliano chi, da ogni parte
dello stivale, chiede indicazione a un operatore telefonico.
La Sst, una società che gestisce
call center (Telecom Italia Mobile, con il 1254, e Tre) e prodotti commerciali informativi,
da alcuni anni ha infatti spostato una delle sedi operative
all’interno del carcere di Bollate. La ragione sta in una convenienza di legge.
Le aziende che organizzano attività produttive per tutte le
persone considerate “svantaggiate” ( detenuti, tossicodipen-
Il lavoro è un
elemento
imprescindibile per
il reinserimento
sociale dei
detenuti. Imparare
un mestiere che sia
spendibile anche
all’esterno è un
aiuto professionale
e psicologico
fondamentale
denti e alcolisti), grazie alla
legge
Smuraglia
(legge
n.123/2000), possono beneficiare sia di consistenti sgravi
fiscali che contributivi. Da un
lato l’impresa ottiene un credito fiscale mensile pari a
516,46 euro per ogni lavoratore assunto, mentre per le cooperative sociali che assumono
detenuti viene ridotta l’aliquota prevista per l’assicurazione obbligatoria.
Minimi anche i costi di gestione: i capannoni in cui lavorano i detenuti sono strutture
date in comodato d’uso dall’amministrazione carceraria
che non comportano per
l’azienda costi aggiuntivi. Grazie a queste agevolazioni si
crea un circolo virtuoso e in
carcere entra lavoro “vero”. Da
un lato i vantaggi fiscali per le
ditte, dall’altro la possibilità
per i carcerati di completare il
lungo processo di recupero. «Il
lavoro è un elemento imprescindibile sia nel percorso di
rieducazione che in quello per
il reinserimento sociale dei detenuti»; commenta così l’importanza del fenomeno Simona
Gallo, educatrice del carcere:
«Imparare un lavoro che sia
spendibile anche all’esterno è
un aiuto psicologico e professionale fondamentale per chi è
costretto a vivere quotidiana
mente la realtà carceraria».
I detenuti possono così essere
reinseriti nel circuito lavorativo, rispondendo alle esigenze
professionali del mercato. Seguendo le prescrizioni dei contratti nazionali, i carcerati
percepiscono uno stipendio
pari a quello di chi lavora all’esterno (tra i 1000 e i 2000
euro). Un reddito fisso che garantisce sia l’ indipendenza
economica che un supporto per
le famiglie. «Rispetto a chi lavora fuori mi sento agevolato:
in carcere non abbiamo spese
da sostenere, così, buona parte
di quello che guadagno lo
posso dare a mia moglie» - sottolinea sorridendo Marco, un
detenuto che lavora nel call
Per ogni lavoro
disponibile viene
pubblicato un
bando in cui
si specificano
le caratteristiche
necessarie. Ogni
detenuto presenta
la sua domanda
ma sarà l’azienda
a selezionare
i propri dipendenti
center da sei mesi.
Due le aziende che fino ad
oggi hanno creduto nel “progetto Bollate”- oltre alla SST,
anche la Bee2 (un’azienda che
produce composizioni floreali)
ha permesso a duecento persone di ottenere un lavoro stabile. Sono invece otto le
cooperative sociali che offrono
servizi di ogni genere: catering, giardinaggio, falegnameria, sartoria, spettacoli teatrali
e produzione di pellame. Grazie all’articolo 21 dell’ordinamento penitenziario alcuni
carcerati possono uscire dalla
struttura per svolgere la propria professione anche all’esterno. Lo stipendio? Circa
seicento euro mensili. Non bi-
sogna dimenticare infine tutti i
detenuti che lavorano alle dipendenze
dell’amministrazione carceraria: chi si occupa
delle pulizie, della spesa e
della cucina. Per loro la retribuzione non supera i 150 euro
mensili.
Una realtà lavorativa, quella di
Bollate, che nelle sue diverse
forme coinvolge oltre il 60%
della popolazione carceraria, in
cui le donne restano ancora in
forte minoranza.
Come avviene la selezione del
personale? «Per ogni lavoro disponibile viene pubblicato un
bando in cui si specificano le
caratteristiche necessarie
- spiega la dottoressa Gallo ogni detenuto può presentare la
sua domanda all’ufficio corsi e
sarà poi l’azienda stessa a selezionare i dipendenti».
Un esempio, quello di Bollate,
tra i più lungimiranti nel panorama penitenziario italiano. Ricorda Simona Gallo: «Il nostro
auspicio è poter aumentare ulteriormente la presenza di
aziende esterne nella nostra
struttura. Sappiamo quanto è
importante il lavoro per i detenuti. Poter svolgere una professione aiuta a non andare in
depressione e a sentirsi di
nuovo parte della società».
La realtà professionale maturata nel corso degli anni nel
carcere di Bollate è stata raggiunta grazie a un percorso che
mira al reinserimento e al recupero del detenuto considerandolo parte integrante della
società.
I NUMERI
60%
la percentuale di
detenuti che
svolgono un’attività
nel carcere
516,46
il credito d’imposta mensile per
ogni detenuto assunto dall’azienda
200
i detenuti
che lavorano
per aziende
esterne
8
le cooperative
sociali che
operano all’interno
del carcere
LAB Iulm
DOSSIER CARCERE
L’INTERVISTA
Pagina 13
SUSANNA MAGISTRETTI
La sfida di Cascina Bollate
80mila piante, una speranza
Francesco Priano
U
n luogo dove si prepara il rientro dei detenuti nell’alveo della
legalità, formando al lavoro
persone che, altrimenti, all’interno del carcere butterebbero via il loro tempo e la
loro intelligenza nel nulla».
Così Susanna Magistretti definisce Cascina Bollate, la
cooperativa sociale che gestisce le aree verdi della Casa di
Reclusione di Bollate, di cui
è responsabile assieme a
Massimo Iacopetti.
Cascina Bollate ha in gestione due serre e un terreno
di circa 10.000 mq dove, grazie al lavoro dei detenuti,
vengono coltivate piante difficili da reperire sul mercato,
fra cui erbacee, graminacee e
rose antiche. I prodotti di Cascina Bollate sono disponibili nel negozio situato
all’interno del carcere, ma al
quale si può accedere liberamente, e sul sito www.cascinabollate.org.
2000
anno in cui è
entrata in vigore
la legge 193
“Smuraglia”
2
le aziende esterne
che hanno una
sede nel carcere
di Bollate
1000-2000
lo stipendio dei
detenuti che
lavorano per
aziende esterne
600
lo stipendio
mensile dei
dipendenti delle
cooperative
Dottoressa Magistretti,
qual è l’obiettivo di Cascina
Bollate?
«Cascina Bollate è un progetto di formazione al lavoro
su due piani: quello concreto,
in cui si impara il mestiere di
giardiniere professionale, e
quello che, con un termine un
po’ abusato, possiamo definire di addestramento all’etica del lavoro»
«Nell’ultimo anno abbiamo
fatturato circa 150.000 euro:
una cifra che è in costante crescita rispetto agli anni passati
ed è addirittura triplicata rispetto al 2007, l’anno di start
up»
Qual è la retribuzione che
ricevono i detenuti?
«Ogni nuovo inserimento avviene tramite una borsa di lavoro di 6 mesi (una sorta di
stage retribuito, n.d.r.), a cui
segue quasi sempre la conferma. A questo punto i detenuti firmano un contratto a
tempo pieno, che prevede uno
stipendio di primo ingresso ridotto, per poi raggiungere la
retribuzione piena di circa
1.000 euro mensili,
“
Nella cascina
insegnamo
una professione
a persone
che altrimenti
butterebbero via
la loro intelligenza
“
rre
terrazzi o nei giardini di abitazioni private, al di fuori del
carcere. In questo modo si avvicinano ancor di più alla realtà
lavorativa
che
affronteranno una volta scontata la pena: da un punto di
vista retributivo, tuttavia, rimangono identici agli altri detenuti che lavorano per la
cooperativa dentro il carcere,
ed eventuali premi di produzione vengono equamente divisi»
La Cascina gestisce anche
un negozio all’interno del
carcere, cui il pubblico può
accedere liberamente. Ha
mai avuto sentore di ritrosie
da parte dei milanesi nel rivolgersi al negozio, magari
dovute al disagio di entrare
negli spazi del carcere?
«Assolutamente no.Anzi, in
una parte consistente della città
ho riscontrato un interesse benevolo, un apprezzamento sincero verso il nostro modo di
lavorare: quello che facciamo
è percepito come un modo per
portare avanti una politica di
sicurezza vera, non securitaria,
come purtroppo sembra piacere a molti»
Quanto differiscono le vostre dinamiche quotidiane
da quelle di un qualsiasi
ambiente lavorativo?
«Noi lavoriamo nell’ottica
del ‘come se’: ci comportiamo come se ci trovassimo
in un ambiente di lavoro qualunque, dove si vive nel rispetto dei ruoli e delle
gerarchie; nella capacità di
rispettare le opinioni altrui e
di gestire il conflitto come
un’occasione di arricchimento»
Quante persone lavorano
oggi per la Cascina?
«Nella cooperativa lavoriamo in 6. Si tratta di un numero appena sufficiente per
le attività che portiamo
avanti, fra cui la cura delle
oltre 80.000 piante, ma che ci
è imposto dal nostro bilancio: Cascina Bollate è un
soggetto che deve sempre essere capace di stare sul mercato, alimentandosi tramite la
vendita delle piante che coltiviamo»
Avete ottenuto riscontri
soddisfacenti da un punto
di vista economico?
cere diverso»
Il Comune di Bollate vi ha
mai appoggiato, ad esempio
attribuendovi la gestione di
spazi del verde pubblico?
«Questo è un tasto dolente. Ci
sono stati tentativi in questo
senso, ma non hanno portato a
nulla. Sembrerebbe una soluzione logica, invece questo
non accade: bisognerebbe domandarsi il perché»
La cooperativa tenta di simulare le dinamiche di un
ambiente di lavoro qualsiasi,
eppure svolge la sua attività
dentro a un carcere. Quali
sono le difficoltà oggettive
nella conduzione della Cascina?
«Innanzitutto si lavora con persone che vivono una situazione
di grande difficoltà e disagio.
Per quanto Bollate sia un carcere ‘modello’, la vita in reclusione pone problematiche quali
la convivenza forzata con gli
altri, e questo si riflette sul lavoro che portiamo avanti. Si
tratta di gestire quella che,
scherzosamente, chiamo la
‘Sindrome dell’asilo Mariuccia’: bisogna attenuare le gelosie e rivalità che l’ambiente
di lavoro pone e amplifica, incentivando il lavoro di gruppo,
la comprensione delle regole e
il loro rispetto.
Ci sono poi difficoltà oggettive, dovute al fatto che si lavora con i detenuti: se un
cliente richiede un intervento
tempestivo per un guasto all’impianto d’irrigazione non
possiamo intervenire, perché
servono almeno due giorni per
ottenere un permesso d’uscita»
Per quanto riguarda la sicurezza ci sono mai stati problemi?
«Da questo punto di vista le
difficoltà sono pressoché nulle,
perché i detenuti si sono quasi
sempre comportati correttamente: chi sgarra, d’altra parte,
perde immediatamente la possibilità di lavorare con noi»
come previsto dal contratto
delle cooperative sociali: una
retribuzione dignitosa per giardinieri che si stanno ancora
formando»
La loro partecipazione si limita alla cura delle piante
negli spazi del carcere, oppure collaborano anche a interventi al di fuori della
struttura detentiva?
«Grazie all’articolo 21 dell’ordinamento penitenziario alcuni
detenuti possono sfruttare l’opportunità del lavoro esterno,
riuscendo così a collaborare
agli interventi che facciamo sui
I vostri clienti sono quindi
motivati dalla possibilità di
contribuire al progetto?
«C’è la sensazione di dare un
valore aggiunto all’atto di acquisto, che però non è sovrapponibile alla beneficenza: il
nostro prodotto costa tanto
quanto i prodotti che si trovano
fuori dal carcere, quindi i
clienti non fanno un’opera di
bene; se scelgono di venire da
noi è perché altrove non trovano le piante che la Cascina
offre, e a questo si aggiunge il
piacere di condividere un progetto civile, toccando con
mano la possibilità di un car-
Fra le persone che hanno lavorato con voi c’è qualcuno
che, terminata la pena, continua a lavorare come giardiniere professionista?
«I detenuti che collaborano o
hanno collaborato con noi sono
sottoposti a pene piuttosto lunghe, per cui è troppo presto per
valutare il successo del reinserimento. Tuttavia devo dire
che, delle due persone che
hanno concluso la pena, una
lavora oggi come giardiniere
con buonissimo successo. E
un’altra persona che uscirà fra
poco continuerà a lavorare con
noi: rientrerà in carcere, ma
questa volta da uomo libero».
Pagina 14
DOSSIER CARCERE
A Bollate
sono stati
creati spazi
d’incontro per
le famiglie.
Una relazione
serena con i
propri cari è
fondamentale
per la
crescita. La
buona qualità
dei rapporti
garantirà agli
individui di
vivere
esperienze
affettive
gratificanti
LAB Iulm
Il diritto
ai senti
Elisa Zanetti
U
n raggio di sole entra
dalla finestra e illumina
i bei ricci castani di una
bambina, intenta a disegnare
con delle matite colorate. Seduta con le gambe penzoloni
su una sedia di legno chiaro
ancora troppo alta per lei, la
bimba alza e abbassa ripetutamente lo sguardo dal foglio e
con meticolosità prosegue il
suo disegno. Davanti a lei, su
un morbido tappeto bianco a
righe blu, il padre e il fratellino
giocano con alcuni pupazzi di
peluche. È domenica mattina e
nella stanza si diffonde
l’aroma del caffè che la madre
sta preparando. Grida e risate
di bambini intenti a rincorrersi
su un prato arrivano dall’esterno.
Un piccolo
soggiorno con
cucina e una
ludoteca sono a
disposizione dei
detenuti con figli
piccoli. I bambini
possono
in questo modo
incontrare
i genitori in un
luogo accogliente
e non
traumatizzante
Nello stesso momento, in
un’altra città, una donna finisce di truccarsi davanti allo
specchio della propria camera,
chiama i suoi due figli ed esce.
Sale in macchina, accende il
motore e guida fino a casa
della madre, le affida i bambini
e riparte. Raggiunge un’austera struttura cubiforme in cemento, parcheggia l’auto,
entra, aspetta. Dopo essere
stata sottoposta ad alcuni controlli viene fatta accomodare in
una stanza fredda e spoglia,
prende posto davanti a un
lungo tavolo e ancora una volta
attende. È nervosa e guarda insistentemente l’orologio, sa
che quei minuti di attesa saranno minuti persi. Finalmente, dall’altra parte della
stanza, una porta si apre, suo
marito arriva e si siede di
fronte a lei, fra i due un tavolo
largo quanto basta per consentire loro di tenersi a mala pena
per mano. L’uomo sorride alla
moglie e le chiede dei figli, lei
risponde che ha preferito non
portare con sé i bambini: il piccolo la volta scorsa ha avuto
gli incubi.
Quelle descritte possono sembrare due scene di vita familiare diversissime fra loro: la
prima una domenica qualsiasi
di una famiglia qualsiasi; la seconda la mattinata di una
donna costretta a dividersi tra
figli e marito a causa di un avvenimento traumatico. Eppure
non è così: entrambe si svolgono all’interno di un penitenziario; entrambe costringono
qualcuno a convivere con l’assenza di un membro della sua
famiglia; entrambe non rappresentano momenti appartenenti
alla quotidianità. A farle apparire così differenti fra loro è
però il luogo in cui si svolgono: la prima potrebbe avvenire nel carcere di Bollate, la
seconda in una qualsivoglia
sala per colloqui di un penitenziario italiano.
Una detenzione è sempre un
avvenimento traumatico, ma lo
è ancora di più quando coinvolge l’equilibrio di nuclei familiari con figli minorenni.
Bambini e ragazzi hanno diritto di mantenere, per quanto
possibile, relazioni stabili con
i loro genitori, anche quando
questi si trovano in stato d’arresto. I legami affettivi sono
infatti necessari allo sviluppo
emotivo e sociale: rispondono
a un bisogno primario e su di
essi si basa la capacità di mettere in atto, nel corso della vita
futura, esperienze affettive
sane e gratificanti. Ciò che il
carcere di Bollate cerca di fare
è tutelare i rapporti familiari,
provando ad offrire un po’ di
normalità alle famiglie dei detenuti e ai figli dei carcerati
che, pur essendo innocenti, pagano a loro volta le colpe dei
propri genitori, essendo privati
di quella che viene comunemente definita una “famiglia
normale”.
A Bollate l’attenzione nei confronti dei più piccoli ha portato
alla nascita di una ludoteca, ge-
All’interno
della stanza
dell’affettività
non sono
ammessi agenti
di polizia
penitenziaria,
il controllo
dei detenuti
avviene tramite
videocamere
per garantire
maggiore intimità
agli ospiti
stita in collaborazione con i
volontari di Telefono Azzurro,
e, più recentemente, di una
“stanza dell’affettività”. Entrambi questi spazi sono stati
pensati per evitare ai bambini
il trauma dell’ambiente carcerario e favorire un rapporto più
sereno con i genitori reclusi.
Entrando nella ludoteca si ha
l’impressione di essere trasportati nella foresta di una favola:
montagne, ruscelli, alberi animati e animali protagonisti
delle fiabe adornano le pareti
di una stanza piena di giochi,
libri e dotata di diversi tavoli
per svolgere attività ricreative.
La stanza dell’affettività, invece, rappresenta un luogo più
intimo, organizzato come il
soggiorno di una vera casa e
pensato per incontri di un solo
detenuto con i suoi familiari.
Al suo interno c’è un grande e
accogliente divano blu sul
quale gli ospiti si possono sedere per chiacchierare o guardare un film, una libreria con
volumi illustrati e pupazzi di
ogni tipo. Sulla parete alle
spalle del divano campeggia
un grande sole stilizzato, che
con i suoi raggi divide in segmenti colorati la parete: giallo,
azzurro, blu e verde acqua
sono le tinte scelte per decorare i muri. Proprio di fronte al
sofà ci sono un lavandino e una
piccola piastra, dove è possibile cucinare, mentre al centro
della stanza si trova un tavolo
in legno, dove sedersi a mangiare insieme. La finestra dà
sull’area verde comune e tutto
LAB Iulm
DOSSIER CARCERE
Pagina 15
“Costretti a ricomporre un vaso
andato in pezzi per colpa nostra”
Chiara Pagnoni
C
menti
all’interno della stanza è a misura di bambino. Per garantire
maggiore intimità alle famiglie
gli agenti non restano all’interno, ma monitorano ciò che
accade attraverso alcune telecamere.
Le visite che si svolgono in
questa stanza rappresentano incontri straordinari e fanno
parte di un progetto dedicato a
detenuti che vivono situazioni
familiari delicate. Qui i reclusi
possono incontrare i propri
figli in un ambiente caldo e accogliente e, forse, addirittura
assaporare il piacere di un momento di normale vita domestica. Operatori di riferimento
garantiscono inoltre assistenza
ai detenuti che dovessero sentire l’esigenza di avere una
forma di supporto nel relazionarsi con i propri bambini.
Nella difesa della dignità dei
carcerati, la creazione di una
stanza dell’affettività rappresenta sicuramente un grande
traguardo, ma non certo quello
definitivo: il prossimo passo è
infatti trasformare quella che
attualmente rappresenta una
misura straordinaria in un trattamento garantito al maggior
numero possibile di detenuti,
perché l’affettività è un diritto
di tutti, non solo di pochi.
ammino a testa bassa,
senza guardarmi attorno. Percorro i lunghi
corridoi del carcere di Bollate.
Un vento gelido mi sfiora il
viso. Alzo gli occhi di scatto.
Non penso a nient'altro, se non
al fatto che mi trovo in una
“prigione”. Il mio sguardo incrocia una carrellata di finestre aperte. Le tende bianche si
muovono lentamente, senza
una direzione precisa. Mi avvicino ad una di queste e mi ritrovo delle sbarre in ferro
davanti agli occhi.
E' questo l'istante in cui mi domando come diavolo ci si deve
sentire a dovere trascorrere
anni ed anni della propria vita
in carcere. Senza potere affacciarsi ad una finestra. Senza
vedere il mondo che cambia.
Senza sentire il profumo e gli
odori della vita. Senza ascoltare i pianti e le gioie di chi
ami e ti ama. Mi rendo conto
che nessuno può rispondere a
questa domanda se non loro: i
detenuti.
Ho iniziato a lasciarmi andare,
a parlare con loro senza alcun
timore. E' come se i
carcerati
avessero
colto in me un cambiamento, la fine della
paura, la stessa che mi
accerchiava fino a
pochi minuti prima. I
loro volti, la loro presenza e le loro emozioni hanno così
smesso improvvisamente di angosciarmi.
Ho sentito tante storie
in queste ore, vicende
che hanno lasciato un
segno indelebile dentro
di me. Racconti di vita,
di solitudine e speranza.
«Vivere qui non è semplice, ma molto meglio
che in altre carceri.
Qui non vivi la vita
reale, quella vera, dove
ti svegli la notte con tuo figlio
che piange o la mattina con
tua moglie vicino». Mi confida
Giulio, un detenuto di Bollate.
«Tutti possono sbagliare e
questo è il prezzo da pagare
per un pesante ed ingiustificabile errore. All'inizio ti sembra
di impazzire, pensi di non farcela. Poi molto lentamente subentra
lo
spirito
di
adattamento che l'uomo ha da
sempre. Non ti abituerai mai a
stare in una prigione, ma tenti
di andare avanti con la speranza, un giorno, di uscire da
qui».
Una vita in carcere è già una
dura pena da scontare. Sei costretto a ricomporre un vaso
che è andato in frantumi pezzo
per pezzo. Devi trovare la
forza dentro di te per capire ed
elaborare il tuo errore. Lo
stesso errore che sembra a tutti
ingiustificabile. Perdono è la
parola d'ordine di tutti questi
detenuti che si trovano a Bollate. Chiedono continuamente
scusa a mogli e mariti che devono imparare a vivere una
nuova vita lontano da loro.
«Ho una moglie e quattro figli
a casa. Quando sono entrato
in carcere, con la consapevo-
Queste parole, quando le senti
pronunciare, lasciano il segno.
Capisci che è possibile sbagliare. La pena peggiore da
scontare? Vedere i tuoi cari
soffrire per un tuo errore. L'essere rinchiuso in una cella
passa così in secondo piano.
«Se un amore ti delude, ti
“Non voglio più spezza il cuore, cosa fai?
tenere una Smetti di credere nell'amore?
Decidi di non amare più nesfinestra aperta suno e di vivere la tua vita da
per ricordarmi solo, senza sperare un giorno
trovarne uno nuovo? Decidi
che la vita vera di
di non perdonarlo perché ti ha
non è dietro fatto soffrire?» mi domanda
il più giovane tra i dele sbarre” Marco,
tenuti.
Perdono, Se poche ore prima pensavo
che la parola 'cambiamento'
speranza non
rientrasse nel vocabolario
e cambiamento carcerario, adesso sono coper spezzare stretta a ricredermi. Penso che
le persone possano cambiare
le catene lentamente, migliorarsi e
dei pregiudizi smussare i propri angoli.
Credo che valga la pena perdi chi sta fuori donare, affinché loro, i carcelezza che ci sarei rimasto per rati, possano non commettere
molto tempo, il mio primo pen- più gli stessi errori.
siero è andato ai miei figli. Ero «Se hai qualcuno a casa che ti
convinto che non avrebbero aspetta, da un certo punto di
più voluto vedere loro padre, il vista è molto più facile vivere
qui. Cerchi di
rimboccarti le
maniche e lavorare su te
stesso
per
uscire dal carcere un uomo
migliore. Se,
invece,
non
hai nessuno
che ami ti senti
solo e molto
probabilmente
non ti scatta
quel meccanismo che ti
spinge a rialzarti, a ricominciare una
nuova vita» ribadisce Marco.
Ieri, oggi e domani La vita offre
loro una se1963
conda chance:
“carcerato”. Avevo conside- non tutti la sanno cogliere e
rato il fatto che mia moglie sfruttare. Non tutti riusciranno
avrebbe potuto rifarsi una vita, a fare il grande passo e ad estrovare un nuovo compagno e sere consapevoli di avere comcrescere i miei figli con lui» af- messo un grave errore a cui è
ferma Matteo, in carcere da possibile rimediare. Pochi ce
dieci anni. «Invece no, non è la faranno, se non a cambiare,
andata così. I miei figli e mia a tentare di essere uomini e
moglie non li ho persi, anzi, mi donne migliori.
stanno vicino come possono. Il Per tutti coloro che ci riusciPreside della loro scuola si è ranno ci dovrà essere una
complimentato per gli ottimi nuova vita fuori dal carcere,
risultati scolastici. Mia mo- sicuramente più difficile e
glie? Mi manca, è difficile non piena di pregiudizi.
poterla stringere ed abbrac- «La vita fuori di qui sarà una
ciare quando vorrei. E' una lunga corsa ad ostacoli. Mi
sofferenza vederla e non starle immagino già cosa pensevicino. La peggiore punizione ranno tutti di me. Sono pronto
per quello che ho fatto è que- a combattere i pregiudizi che
sta: non potergli stare accanto. mi aspettano, ma vale la pena
Non potrò più recuperare gli affrontarli per ricominciare a
anni persi. Cerco solamente di vivere» afferma Davide a tre
sfruttare al meglio i pochi mo- mesi dalla scarcerazione.
menti in cui mi è permesso ve- «Non voglio più dover tenere
derli. Ed è sempre così poco il una finestra aperta per ricortempo che mi viene concesso. darmi che fuori di qui c'è la
vita vera».
Non mi basta mai».
Pagina 16
DOSSIER CARCERE
LABIulm
Riccardo Muti suona all’auditorium
di Bollate-Progetto musica
Freedom Sound
Sportello giuridico, ufficio
stampa, freedom sound, asom
e la scuderia e il Circolo
FIlatelico. A Bollate i volontari
danno vita ad attività che
permettono ai detenuti
di “evadere legalmente”
Roberta Rei
N
elle carceri italiane c’è
un esercito silente che
ogni giorno decide di
dedicare il proprio tempo, per
dirla con Marlene Lombardo,
responsabile
dell’ufficio
stampa di Bollate,«a qualcosa
di veramente utile”. È l’esercito dei volontari che operano
come ponte di contatto tra i detenuti e la società. Quella società che spesso “condanna”
anche quando si è pagato il
proprio debito con la giustizia.
E che fanno i conti con quella
mentalità indifferente, che
troppe volte scava dei solchi
per poi colmarli di pregiudizi.
Nel carcere gli spazi sono difficilmente definibili. Stretti
sono i muri che delineano le
celle, luoghi tristi, sovraffollati, mentre labili e dispersivi
sono i confini dell’aggregazione, del dialogo, dell’accoglienza. E’ in questi “non
luoghi” che i volontari aiutano
i detenuti a scoprire modi e
tempi per ripensare la propria
vita, insegnando loro un mestiere, un’arte, dando loro una
speranza. Un lavoro di educazione e solidarietà che potremmo definire “speciale”,
perchè diretto ad aiutare coloro
che secondo gran parte dell’opinione pubblica andrebbero invece “rinchiusi e
dimenticati”. In generale sono
oltre novemila i volontari e gli
operatori nelle strutture carcerarie italiane. L’Ordinamento
penitenziario prevede all’articolo 17 la “partecipazione
della comunità esterna” al trattamento rieducativo, mentre
l’articolo 78 si riferisce ai cosiddetti “assistenti volontari”,
singole persone o appartenenti
ai gruppi dediti esclusivamente
al volontariato in carcere e più
propensi ad un intervento individualizzato e più orientato al
sostegno morale e materiale
dei detenuti.
Nel carcere di Bollate, uomini
“Noi, in galera
per passione
regaliamo sogni”
e donne forniscono un aiuto
prezioso affichè la pena assuma un valore costruttivo
oltre che rieducativo. «Al nostro sportello giuridico assistiamo il detenuto nelle parti
più burocratiche e soprattutto
nelle parti creative, dando proprio avvio a istanze e assicurandoci dopo che arrivino in
Si tratta di donne e
uomini che mettono
a disposizione
se stessi
per una crescita
della collettività,
che non può
espellere come
un corpo estraneo
chi ha infranto
le regole
di convivenza
tra esseri umani.
La pena deve avere
valore costruttivo
e rieducativo
tribunale» afferma Franco
Moro Visconti, responsabile
dello sportello giuridico di
Bollate. Visconti è un avvocato, che nove anni fa, «ad un
convegno sulla figura di
Mario Cuminetti, teologo e
saggista e uno dei primi ad
aver esplorato la possibilità di
entrare in carcere con progetti
culturali» ha sentito un «richiamo improvviso, un qualcosa difficile da spiegare» e
così ha deciso di fare il volontario in carcere. E oggi lavora
tenacemente insieme a detenuti che offrono essi stessi la
propria opera di volontariato,
perchè serve loro consulenza.
«Ma va sottolineato che noi
siamo degli intermediari- precisa- e se c’è un difensore di
fiducia facciamo da tramite
cercando di attivare un canale
di comunicazione in più, laddove non c’è o non è sufficiente.
Poi
forniamo
consulenza giuridica anche se,
soprattutto i detenuti di lungo
corso, hanno una conoscenza
precisa del codice e delle
norme». Una scelta difficile. E
la convinzione che questa sia
la strada da percorrere anche se
con
estrema
difficoltà:
«Un’esperienza amara, che è
solo uno degli esempi di mostruosità a cui si può arrivare
applicando la legge, -confessaè stata quella di un detenuto
straniero al quale era scaduto il
permesso di soggiorno e che è
stato espulso nonostante
avesse tutta la famiglia qui in
Italia. Un uomo che si trova in
una situazione equiparabile all’esilio, in una terra dove è
nato ma che non conosce. Una
corsa sul filo finita con l’amara
constatazione che, da un punto
di vista strettamente formale, i
motivi di espulsione c’erano.
Eppure si è disintegrata una
vita e un rapporto familiare».
Al rapporto “reato-pena” corrisponde spesso una tragica
frattura tra l’individio e la collettività, e l’azione di un uffi-
LABIulm
DOSSIER CARCERE
Pagina 17
Volontari, la carica dei novemila
Secondo una ricerca del 2009 curata da Renato Frisanco, della “Fondazione Feo-Fivol” (fondazione europa occupazione e volontariato) e da Marco Giovannini per conto della “Conferenza nazionale volontariato giustizia” sono oltre 9.000 i volontari e gli operatori nelle strutture carcerarie
italiane. Sono sempre più numerosi (+10%) e hanno un’età media abbastanza alta (al nord è nella
fascia d’età dai 46 ai 65 anni, mentre al sud l’età è più bassa). In aumento le donne.
Assistenti o volontari “puri”: attualmente ci sono due possibilità per operare in carcere come volontari, facendo riferimento principalmente a due articoli dell’Ordinamento penitenziario, l’articolo 17 e l’articolo 78. Secondo la ricerca citata, la quota più cospicua degli operatori (l’85,5%)
è ammessa nelle strutture detentive attraverso l’applicazione dell’art. 17 che prevede la “partecipazione della comunità esterna” al trattamento rieducativo. Si tratta di 7.869 persone, presenti in
media con 32 unità per istituto (10 in meno rispetto al precedente monitoraggio che però era annuale e su un numero più ridotto di unità esaminate) e per lo più appartenenti al mondo della cooperazione sociale e dell’associazionismo di promozione sociale. Di questa quota il 64,4% è
costituito da volontari che nel mese di maggio erano presenti nelle strutture per realizzare attività
o progetti della durata superiore alle due settimane. I volontari autorizzati in base all’art. 78 sono
1.334, con una presenza media di 9 unità per struttura (erano 7 nel 2005); sono i cosiddetti “assistenti volontari”, singole persone o appartenenti ai gruppi dediti esclusivamente al volontariato in
carcere e più propensi ad un intervento individualizzato e più orientato al sostegno morale e materiale dei detenuti. La loro presenza si registra nel 81,8% degli istituti. (f.m.)
Fra i pezzi uno strano Gronchi rosa
Francobolli in cella
Ha preso il via nel 2008 il
progetto “Intramur”, che nel
carcere di Bollate significa
passione per i francobolli.
Sante Merlini è il detenuto
che ha dato vita a questo singolare circolo filatelico che
amplia la sua collezione grazie alle lettere che più di duecento collezionisti e appassionati hanno inviato all’indirizzo del carcere
rispondendo all’appello partito dalla prigione.
Tra i mittenti anche un misterioso “Principe A.” che
dalla Sicilia scriveva su carta intestata munita di sigillo
nobiliare. Nel novembre del 2010 è stata organizzata
una mostra con i circa duecento pezzi pervenuti dai donatori. Con alcuni di loro nel tempo si è instaurato un
rapporto epistolare di amicizia e alcuni di essi si sono
recati nel penitenziario per una visita.
Tra i pezzi inviati dai sostenitori dell’iniziativa i più interessanti sono stati fino ad ora la serie delle poste sul
mito Ferrari e un Gronchi rosa, rivelatosi però contraffatto. (f.m.)
cio stampa efficace può essere
preziosa, «sono contenta di far
sapere a quanta più gente possibile che la recidiva qui a Bollate è del 16% rispetto al 70%
delle altre carceri» dice diretta
Marlene Lombardo. «Rendere
noto come i progetti educativi
possono abbattere la recidivacontinua-può aiutare a farci capire che le carceri così come
sono oggi, servono a poco.
Bollate non è un caso strano, è
solo un carcere che applica la
costituzione». Il “progetto Bollate” è un progetto educativo
che ha il sapore della libertà,
dove tutti i volontari camminano verso un obiettivo comune, all’unisono. E per
aiutare i detenuti ad “evadere
liberamente” si sceglie di aiutarli anche con la musica:
«Con ‘Freedom sound’- spiega
Gianfranco Brambati, uno dei
volontari che lavora al progetto- offriamo loro la possibilità di avvicinarsi alla musica,
coinvolgendo anche artisti e
insegnanti esterni.
Dopotutto, Louis Armstrong
ha imparato a suonare la
tromba in carcere!».
L’INTERVISTA
CLAUDIO VILLA
“Il nostro salto oltre il muro della pena”
Francesco Maesano
C
laudio Villa, cinquantotto anni, trenta passati
a cavallo. Tecnico federale di equitazione ma anche
fotografo, commerciante, ora a
Bollate dove da cinque anni ha
coniugato la sua passione per
l’etologia al servizio del benessere dei cavalli, con l’esperienza del volontariato in un
carcere con l’ASOM, Associazione Salto Oltre il Muro.
A lui abbiamo chiesto il perché
della presenza di animali den-
“
tro una prigione.
«Perché per interagire con un
cavallo occorre mettersi in discussione. La relazione con
l’animale ha una funzione terapeutica fortissima. Bisogna
mostrarsi autorevoli, rassicuranti e non coercitivi. Il cavallo
non giudica, vede solo se riesci a porti nel modo giusto con
lui o meno. Qui abbiamo
l’unico esempio in Italia di detenuti e animali che godono reciprocamente del beneficio di
stare insieme».
Quanti cavalli accudite nella
Per interagire con
un cavallo occorre mettersi
in discussione. La relazione
con l’animale ha una
forte funzione terapeutica.
Bisogna mostrarsi autorevoli,
rassicuranti e non coercitivi.
Il cavallo non giudica
”
vostra scuderia?
«A Bollate vengono accuditi
undici esemplari. I primi arrivati erano il frutto di donazioni
da parte di privati. Più in là
sono stati trasferiti qui due
esemplari sequestrati in un
campo nomadi, e altri due provenienti da Catania che venivano sfruttati nel circuito delle
corse clandestine organizzate
dalle mafie».
Quanti siete e quanto tempo
passate ogni giorno con i cavalli?
«Io ormai qui a Bollate svolgo
un’attività a tempo pieno che
mi occupa otto-nove ore al
giorno. Oltre a me nella scuderia lavorano due o tre detenuti
in pianta stabile, che vengono
retribuiti per questo dall’amministrazione penitenziaria,
più quattro o cinque volontari
che partecipano ai corsi per
uomo di scuderia, il groom in
gergo tecnico. Abbiamo già
completato sei corsi formando
una sessantina di carcerati.
Per ora tutte le spese sono coperte dal carcere stesso ma le
possibilità per produrre un
qualche reddito ci sarebbero».
E come pensa sia possibile
rendere redditizia questa esperienza non solo
dal punto di vista del recupero dei detenuti ma
anche da uno strettamente economico?
«Si potrebbe pensare di
ampliare le scuderie, magari nella zona della polizia penitenziaria, fuori dal
muro di cinta del carcere,
istituendo un vero e proprio maneggio ad uso dei
poliziotti e magari dei visitatori.
Penso soprattutto ai bambini in visita. Oppure si
potrebbe puntare sulla
cura del cavallo, lavorando alla creazione di
una pensione che si occupi degli esemplari da
competizione che si sono
ritirati o del recupero
degli animali maltrattati».
Pagina 18
DOSSIER CARCERE
LAB Iulm
La dura legge
Nel 2003 nasce il progetto calcio Bollate
e nel 2005 la squadra si iscrive, prima
in Italia, ad un campionato FIGC. Grazie
al lavoro di Lucia Castellano e di mister
Prenna oggi la 2°Casa di Reclusione dà
ai detenuti la possibilità di fare sport
e godere di una piccola evasione
Marco Mugnaioli
Roberto Tortora
G
reco, Gatti, Crisiglione, Testa e Lemachi, tutti nomi che
probabilmente non troverete
mai nella lista dei cinquanta
candidati al Pallone d’oro. Ma
anche loro, come le stelle del
football mondiale, vivono di
imprese sul rettangolo verde,
quelle della 2°Casa di Reclusione Bollate, la squadra di calcio nata nel 2003 e che,
attualmente, milita nel girone
N di Terza Categoria. Un team
particolare quello dei detenuti
del carcere sito alle porte di
Milano, il primo in Italia a disputare un campionato federale. Un progetto nato grazie
alla sensibilità di Lucia Castellano, la direttrice del carcere, e
all’intraprendenza di Nazzareno Prenna, insegnante di
educazione fisica al C.T.P. di
Limbiate (scuola di formazione primaria) e divenuto allenatore della squadra. Tutto è
cominciato 8 anni fa con un
torneo tra detenuti e, oggi, ci
sono ben 450 giocatori, divisi
in 15 squadre, che si affrontano
in un vero e proprio campionato interno. I più forti vengono selezionati per la 2°Casa
di Reclusione, che rappresenta
a tutti gli effetti la Nazionale
del carcere, con Prenna nelle
vesti di Prandelli. Nel primo
campionato di Terza Categoria,
grazie ad una deroga della federazione, i detenuti disputavano tutte le partite dentro le
mura del carcere. Oggi invece,
dopo le lamentele degli avversari, è concesso ai giocatori di
usufruire dell'articolo 21 per
varcare i confini del peniten-
ziario nelle partite in trasferta,
dove la squadra viene scortata
da quindici agenti della Polizia
Penitenziaria. Una grande responsabilità per squadra e tecnico, ben consapevoli di non
potersi permettere alcuno
sgarro. Un onere, dunque, che
ha però portato all’onore di
conquistare nel 2006 la Coppa
Disciplina, in un anno trionfale, che ha regalato alla squadra anche la promozione in
Seconda Categoria dopo la vittoria dei playoff. Sempre più
ambiziosi, nella stagione suc-
Nei primi anni
le trasferte
venivano giocate
dagli agenti
della Polizia
Penitenziaria.
Oggi i giudici
permettono
le gare fuori casa
cessiva l’obiettivo è un’ulteriore promozione, ma, a
sorpresa, la situazione precipita. La bufera di calciopoli
non c’entra nulla, le intercettazioni telefoniche neanche, figuriamoci Luciano Moggi. A
far sprofondare la formazione
di Mimma Buccoliero (vicedirettrice del carcere e presidente
della società) è stato, ironia
della sorte, l’indulto. I migliori
se ne sono andati, non perchè
ceduti nel calciomercato, ma
semplicemente “rilasciati”.
Aperte le celle, i ragazzi di
Prenna hanno infilato una serie
di risultati negativi, con la conseguente retrocessione alla fine
del campionato. La lunga crisi
è finita con l’arrivo dei “nuovi
acquisti”, che hanno rinforzato
la squadra e l’hanno riportata,
nel 2008, a lottare per le posizioni di vertice e per un nuovo
salto di categoria. Quest’anno
la stagione si è conclusa con un
brillante e inaspettato secondo
posto, alle spalle della capolista Nuova San Romano, che
vale il diritto di giocare i playoff in casa. Stagione impreziosita dalla doppia vittoria nel
derby con la formazione degli
agenti del carcere di Bollate, le
Fiamme Sportive. Giocando a
calcio o partecipando alle attività che costituiscono la vita
dei reparti insieme alla polizia
penitenziaria, i reclusi sviluppano una grande unità d’intenti
e di obiettivi. In campo il rapporto quotidiano all’interno del
carcere, costruito giorno dopo
giorno con tanta volontà,
prende forma; un modo sano
per rompere i rigidi schemi
della mentalità carceraria. Il
progetto, per i carcerati, non si
limita al periodo detentivo, ma
offre loro una possibilità di
reinserimento nella società civile: l’Ardor Bollate, infatti,
l'altra squadra che rappresenta
il comune lombardo, accetta
all'interno del proprio organico
i detenuti meritevoli e permette
loro di continuare a giocare nel
campionato regionale di Seconda Categoria. Esempi in tal
caso sono Giovanni Mari, entrato in squadra lo scorso settembre,
ed
Alessandro
Ungaretti. La speranza, ovviamente, è che questo numero
aumenti progressivamente. Lo
sport educa al rispetto delle regole, è una lezione di vita e
aiuta il recupero sociale. A
Bollate, queste, non sono solo
parole.
del
LA CLASSIFICA
Nuova San Romano G.S.
2° Casa di Reclusione
U.S. Seguro A.S.D.
Villapizzone C.D.A.A.S.
Virtus Cornaredo G.S.
Gescal Boys U.S.
G.S. Virtus Sedriano A.S.D.
Masseroni Marchese A.S. srl
Viscontini U.S.
Muggiano G.S.
Real Bovisa A.S.D.
Giosport Pol.
Lions Milano F.C.
Fornari Sport A.C.
Fiamme Sportive Bollate A.S.D.
pt
73
62
61
58
58
50
43
43
42
34
25
24
15
5
3
LAB Iulm
DOSSIER CARCERE
L’ I N T E R V I S TA
Pagina 19
NAZZARENO PRENNA, ALLENATORE
Noi, un gruppo formidabile
N
gol
T R O F E O D E L L A L E G A L I TA’
Il 23 maggio i ragazzi della C.R Bollate calcheranno il campo di S.Siro per la terza edizione
del Trofeo della Legalità. A partire dalle 18.30
la scala del calcio ospiterà infatti un quadrangolare al quale, oltre alla squadra di mister
Prenna, parteciperanno una squadra della polizia penitenziaria, una di magistrati e una della
polizia di stato. Il torneo, ormai un appuntamento fisso, ha lo scopo di promuovere il tema
della legalità e sfata il tabù secondo il quale tra
detenuti, agenti e magistrati esistono barriere di
pregiudizi e rancori.
Sugli spalti saranno presenti, oltre ad amici e
parenti dei detenuti, anche 400 bambini della
scuola media di Limbiate.
azzareno Prenna, marchigiano di Tolentino,
ha 54 anni ed è professore di educazione fisica del
Centro Territoriale Permanente di Limbiate, una scuola
media statale dove educa i ragazzi ai valori autentici dello
sport. L’identikit perfetto
dell’uomo di cui Lucia Castellano, direttrice del penitenziario di Bollate, aveva bisogno
per sviluppare una politica
sportiva all’interno delle mura
carcerarie.
Nazzareno, come è cominciata la sua storia con il carcere di Bollate?
«Insegnavo nella scuola
media interna del carcere e,
all’inizio, non esisteva una
squadra di calcio. Nei detenuti, però, si avvertiva l’esigenza di praticare lo sport
popolare per eccellenza, il calcio ovviamente, così abbiamo
cominciato nel 2003 organizzando dei tornei interni. Nel
2004 abbiamo partecipato al
campionato UISP (Unione
Italiana Sport per Tutti, ndr) e,
nel 2005, i primi in Italia, abbiamo iscritto la squadra al
campionato federale di Terza
Categoria».
Quali sono state le difficoltà maggiori nel dover gestire un gruppo di detenuti?
«Difficile è stato gestire un
gruppo che, nella vita quotidiana, è abituato ad autogestirsi. Con il tempo, però, si è
creato un gruppo forte e le difficoltà maggiori sono solo nel
fare la formazione. Già, per-
“
Vedere un detenuto
che grazie al calcio
può abbracciare
moglie e figlia
che non vede mai
è un’emozione
difficile da descrivere
”
ché in casa tutti possono giocare, mentre in trasferta dobbiamo chiedere dei permessi e
sono i giudici a decidere chi
può uscire e chi no. Spesso,
quindi, mi sono ritrovato con
gli uomini contati in trasferta».
I detenuti possono giocare le
partite fuori casa?
«All’inizio la Figc ci concesse
di giocare tutte le partite in
casa, infatti finimmo secondi e
vincemmo i playoff. In se-
guito, la Polizia penitenziaria
si unì a noi, offrendosi di giocare le partite in trasferta. Ora,
invece, possono uscire anche i
reclusi. Io chiedo i permessi, il
giudice valuta e autorizza chi
può usufruire dell’articolo 21.
In pratica, fa le convocazioni,
ma poi la formazione spetta a
me. In trasferta andiamo con
un pullman della Polizia Penitenziaria che ci scorta».
Quali sono le regole da rispettare in questi casi?
«Quando usciamo dobbiamo
avere un comportamento
esemplare, dentro e fuori dal
campo, anche se i ragazzi ci
mettono la giusta dose di agonismo. Sul rettangolo verde
un’espulsione per loro non
vale solo una squalifica, ma
anche l’impossibilità di uscire
la volta seguente dal carcere e,
quindi, poter abbracciare i familiari, che vengono a vedere
le partite. Vedere un detenuto
abbracciare la figlia che non
aveva mai visto è un’emozione
difficile da descrivere».
Qual è l’episodio che, in
questi anni, l’ha segnata di
più nella tua esperienza da
allenatore?
«Una volta la nonna di uno dei
miei giocatori prese un aereo
da Catania solo per venire a
vedere il nipote giocare. Dopo
la partita è subito ritornata in
Sicilia e, di lì a poco, è venuta
a mancare. Mi emoziono ancora oggi a raccontarlo e rappresenta, per me, un atto
d’amore e di umanità straordinario». (r.t.)
Libero di scappare, sulla fascia
I
l mister è fenomenale,
ormai è diventato uno
di noi, grazie a lui il
clima in allenamento è
fantastico e le giornate trascorrono sul campo di calcio invece che al braccio”.
Risponde così, tutto d’un fiato e con un sorriso,
Francesco Valentini, esterno destro della 2° Casa
Reclusione Bollate, quando gli chiediamo di
riassumere cosa significhi per lui giocare in questa squadra. “Sono in prigione da più di tre anni
e ne devo fare ancora quattro, ma da quando
sono arrivato a Bollate le giornate mi volano
senza che me ne accorga. Francesco, classe ’88,
è uno dei ‘nuovi acquisti’ ed è il più giovane
della formazione di mister Prenna, ma pur essendo in squadra solo da due stagioni, già dimostra grande attaccamento per il proprio
allenatore: “è il Josè Mourinho del carcere, abbiamo fatto questa grande stagione solo grazie
a lui, adesso vogliamo regalargli la promozione
in seconda categoria”. “Giocare in questa squadra – prosegue Francesco – rende la vita del carcere un po’ meno ‘da carcere’. Andare in
trasferta accompagnati dalla polizia penitenziaria ha fatto si che gli agenti siano diventati i nostri primi tifosi e ciò ha disteso i rapporti con
loro anche durante la settimana.”
Il progetto calcio Bollate è quindi un gran successo a detta di tutti, giocatori e dirigenti, e i risultati lo confermano. Il secondo posto in
classifica conquistato lo scorso 7 maggio è stato
celebrato dai detenuti con una grande festa in
mezzo al campo suggellata dal tradizionale gavettone celebrativo per il mister. Il gruppo è
unito e vincente, il progetto continua.(m.m)
Pagina 20
DOSSIER CARCERE
LAB Iulm
Il mondo in cella
Viaggio tra le carceri del pianeta: 2,3 milioni
di detenuti negli Usa, 65.000 in Spagna,
aumento esponenziale anche in Inghilterra.
E in Svezia esiste un penitenziario
con 5 guardie disarmate
Giuseppe Leo
P
aese che vai, prigione
che trovi. Secondo l’ultima rilevazione del Ministero di Grazia e Giustizia,
le carceri italiane ospitano ad
oggi 67600 detenuti: oltre 22
mila presenze in più rispetto
alla capienza massima degli
istituti di carcerazione (207).
Qualcosa è stato fatto per
sgonfiare l’emergenza del sovrannumero dei detenuti, ma
la legge 191/2010, entrata in
vigore lo scorso 16 dicembre,
e che ha portato all’esecuzione presso il domicilio delle
pene detentive non superiori
ai 12 mesi, si è rivelata un
palliativo (1788 i beneficiari
nei primi 4 mesi). Ci si potrà
consolare pensando che il nostro non è l’unico Paese a
dover combattere contro l’eccessiva popolosità delle proprie carceri.
In Spagna, in tal senso, i problemi non mancano. Dal 1995
al 2006, la popolazione carceraria iberica si è ingrossata in
maniera esponenziale (da
45198
a
64215).
La Spagna, tra l’altro, si era
fatta promotrice nel 1992 del
primo caso europeo di carcere
misto, quello di Valencia,
dove uomini e donne condividevano i luoghi comuni della
prigionia. Il sistema spagnolo,
come stabilito dall’art.100 del
Regolamento Penitenziario, si
compone di 3 gradi di trattamento a cui corrispondono alregimi:
chiuso,
trettanti
ordinario e aperto. Una Giunta
di Trattamento, formata dal direttore e vicedirettore del carcere, coadiuvati da varie
categorie di esperti, valuta una
serie di parametri (tra cui durata, rilevanza e intensità della
condotta criminale) in base ai
La piaga del
sovraffollamento
affligge da anni le
carceri italiane,
ma anche molti
altri paesi europei
e gli Stati Uniti
non se la passano
meglio. E intanto
in Svezia le
prigioni diventano
“aperte”
ed ecologiche
quali stabilire il regime a cui
destinare
il
soggetto.
“Alcuni detenuti sono considerati immondizia che viene allontanata per non sentirne il
cattivo odore”, ha dichiarato
Guerricaechevarrìa, il regista
del thriller carcerario “Cella
211”, che nel 2010 metteva a
nudo le criticità dell’assetto
penitenziario
spagnolo.
In Inghilterra e Galles la popolazione dietro le sbarre ha toccato in maggio la cifra record
di 85.201 persone, circa il doppio rispetto al 1992. Ma a
monopolizzare l’attenzione,
soprattutto dall’insediamento
del nuovo premier Cameron, è
stata la necessità di dotarsi di
un efficace metodo di rieducazione, esigenza che ha visto nel
neo ministro degli Interni,
Clarke, uno dei suoi più convinti assertori. Clarke ha fatto
leva su associazioni e settore
privato per avviare processi di
riabilitazione, e chiesto la sostituzione delle condanne a periodi brevi di detenzione con
percorsi alternativi di correzione. Non va meglio negli
Stati Uniti, che con i 2,3 milioni di detenuti censiti nel
2009 mettono sul piatto circa il
25% della popolazione carceraria mondiale (lo rivela una ricerca di Oxford Analytica),
stimata oggi in circa 9 milioni.
Numeri considerevoli, se si
pensa che gli States ospitano
poco meno del 5 % della popolazione mondiale. Il sistema
sanzionatorio più severo del
globo (si finisce al fresco
anche per falsificazione di assegni bancari e consumo di
droghe leggere) porta in carcere, considerando la sola popolazione adulta, 1 americano
su 100. Particolare di non secondaria importanza: molte
carceri Usa sono gestite da privati, il che porta dritto all’ipotesi di un grosso business nella
gestione delle carceri a stelle e
strisce, tanto grosso da influenzare la stessa legislazione.
Alla fatiscenza strutturale, poi,
si accosta la piaga dei detenuti
immigrati clandestini, privati
della possibilità di ricorrere
persino a medici o avvocati.
Anche in Francia si è assistito
a un notevole aumento, ma un
detenuto costa allo Stato solo
71 euro in media al giorno,
dato confortante se si pensa ai
113 euro giornalieri che l’Italia è costretta a sborsare.
Passando alla Germania (circa
78000 detenuti nel 2009), il
tasso di affollamento delle carceri tedesche è inferiore al
90%. Tradotto: più posti letto
che detenuti. Inoltre, è dello
scorso 9 marzo la storica sentenza della Corte Costituzionale tedesca che obbliga le
autorità penitenziarie del Paese
al rilascio del detenuto che non
fruisca di condizioni consone
al rispetto dei diritti umani fondamentali. Si tratta di una de-
I numeri del circuito carcerario italiano
DETENUTI
I dati raccolti provengono dal dipartimento
dell’amministrazione penitenziaria e sono
aggiornati al 31 marzo 2011. I numeri rispondono a semplici domande, quanti sono
i detenuti in Italia? Quante sono le donne e
di cui 2969 donne.
stranieri? Quante persone usufruiscono
In Italia la capienza regolamentare gli
delle misure alternative al carcere? Quanti
dei 208 carceri sarebbe di 45.320
suicidi avvengono tra le mura delle prigioni
in rapporto al numero di suicidi che si ridetenuti. L’unica regione senza
scontrano ogni anno in Italia? Vi è un rapproblemi
porto tra suicidi e sovraffollamento del
è il Trentino Alto Adige
luogo di reclusione? Questo è senz’altro uno
dei punti più interessanti: nel 2010 il carcere
dove sono avvenuti più suicidi è stato quello
di Siracusa con 4 vittime. L’istituto ha 309
posti, i detenuti sono 515, il tasso di sovraffollamento è del 166%. La frequenza
dei suicidi durante l’anno è stata di 1 ogni
di cui 23579 uomini e 1255 donne. 128 detenuti presenti. L’Italia, secondo uno
studio dell’Istituto Demografico Francese, è
Il 21% sono marocchini,
uno dei paesi europei dove vi è maggior
il 14,5% rumeni,
scarto tra suicidi fuori dal carcere e suicidi di
il 12,7% tunisini,
detenuti. Nel nostro Paese commette suicidio 1 persona su 20.000 abitanti, mentre in
l’11,6% albanesi
carcere decide di togliersi la vita 1 persona
e il 5% nigeriani
ogni 194 detenuti.
67,600
STRANIERI
24,834
SUICIDI
66
nel solo 2010. Nello stesso anno,
1134 detenuti hanno tentato
di suicidarsi. 19 persone si sono
tolte la vita in carcere nei primi
quattro mesi del 2011. In media
si suicida un detenuto su 194
MISURE ALTERNATIVE
16,642
sono le persone che usufruiscono
delle misure alternative
alla detenzione di cui:
8842 in affidamento in prova,
873 in semilibertà,
6927 in detenzione domiciliare
LAB Iulm
DOSSIER CARCERE
Pagina 21
Stranieri reclusi record: quasi 25.000
Manuela Messina
D
elle 67.600 persone detenute oggi nelle carceri
italiane, 24.834 sono
straniere. Circa il 35 per cento.
Di questi, inoltre, più della
metà sono in attesa di condanna definitiva. Alcune leggi,
come la Bossi- Fini sull’immigrazione del 2002, hanno contribuito a incrementare il
numero di detenuti immigrati,
ma di recente la Corte di Giustizia europea ha bocciato la
norma che prevede in Italia il
reato di clandestinità. I processi di chi è stato condannato,
quindi, dovrebbero essere riaperti. Gli “alfieri” della sicurezza storcono il naso.
L’instabilità politica del Maghreb e il conflitto in Libia annuncerebbero l’arrivo di uno
“tsunami umano” sulle coste di
Lampedusa e della Sicilia, ingigantendo il problema dell’immigrazione irregolare con
inevitabili ricadute per il sistema penitenziario. Fino a
oggi, per gli immigrati clandestini e gli irregolari, dopo un
periodo di reclusione, era prevista l'espulsione. Forse.
“Dopo il carcere hai due possibilità”, spiega Anna Viola, assistente di rete del carcere di
cisione giudiziaria che ha rovesciato la giurisprudenza precedente, anteponendo il valore
costituzionale della dignità
umana al principio della certezza della pena. A portare a
quella che può essere una rivoluzione rispetto al passato,
tanto più se applicata al rigido
sistema penitenziario teutonico
(organizzato su base federale),
è stato il caso limite di un detenuto costretto alla carcerazione, 23 ore su 24 per 151
giorni, in una cella di 8 metri
quadri, da condividere con
un’altra persona, e un bagno
non separato da muri divisori.
Per un’Europa dalle carceri
soffocanti c’è n’è un’altra che
da tempo abbina il rigore al rispetto del detenuto. Esemplare
il caso norvegese, dove l’esperimento del “carcere aperto” è
in corso da più di un decennio.
Ad esempio, nell’isola di Bastøy dal 2000 ha sede la prima
prigione umana ed ecologica
del globo. Ai detenuti è offerta
la possibilità di vivere una vita
quasi normale. Bandite le auto,
sull'isola i detenuti si spostano
in bici, la terra viene lavorata
con i cavalli e i rifiuti sono riutilizzati come concimi. Un tale
sistema di organizzazione finisce per pesare molto meno
sulle tasche del contribuente rispetto a un qualsiasi carcere di
massima sicurezza. Il cibo è
prodotto quasi interamente da
detenuti e con la vendita delle
pecore e dei vitelli, il penitenziario è quasi autosufficiente.
Sull'isola restano solo 5 guardie carcerarie, che, incredibile
ma vero, non hanno neanche
una pistola!
Bollate. “Se il Cie, centro di
identificazione ed espulsione,
è vuoto, fuori dal carcere c’è
una macchina della polizia che
accompagna il detenuto straniero nel centro, dove viene
identificato ed espulso. Se è
pieno invece, gli viene dato un
foglio di VIA ed entro 5 giorni
deve lasciare il Paese”. Il risultato è che la maggior parte
resta in Italia in stato di clandestinità, con maggiori probabilità di commettere reati e
quindi di rientrare in carcere.
Oggi sono circa 20 mila i detenuti in sovrannumero rispetto
alla capacità degli istituti di detenzione. E gli assistenti sociali, gli educatori e gli
psicologi non bastano più.
Inoltre la mancanza di spazi di
movimento, di intimità, di
igiene influisce sulla vita del
detenuto creando una situazione di estremo disagio ed
esasperazione. Condizioni simili si accentuano nel caso di
detenuti immigrati, per i quali
si aggiungono i problemi legati
alla lingua e all’adattamento.
Nel carcere di Bollate non ci
sono particolari problemi di
sovraffollamento. Le celle
sono spaziose e il numero dei
detenuti non è superiore a
quello consentito. Gli immigrati non sono isolati dal resto
dei detenuti, in ogni reparto c'è
una stanza di preghiera anche
per i musulmani e si rispetta il
rito del Ramadan. “Per i detenuti islamici”, racconta Anna
Viola, “stiamo organizzando
un corso sull'Islam in collaborazione con l'Università Cattolica di Milano”. Non mancano
i corsi di alfabetizzazione, soprattutto per i rom e i sinti, e ci
sono anche attività specifiche
per gli stranieri. Come il
“Gruppo migranti”, nato nel
2008 dopo l'inaugurazione a
Lampedusa dell'opera di
Mimmo Paladino dal nome
“Porta di Lampedusa – Porta
d'Europa” dedicato ai migranti.
“Non credo ci siano esperienze
simili negli altri istituti di pena
in Italia”, ammette Anna Viola.
“A Bollate si cerca di assolvere
alla funzione rieducativa del
carcere e non si fanno distinguo. Stranieri, italiani, tutti devono stare sullo stesso piano”.
Ma quello di Bollate, si sa, è
un carcere modello.
Le detenute sono meno del 5%:percentuale inferiore alla media Ue
Il carcere, la pena e la malafemmina
Chiara Daffini
I
l crimine è maschio? Evidentemente
sì. E non solo da un punto di vista lessicale, visto che la percentuale di
donne sul totale dei detenuti in Italia raggiunge appena il 4,4% nel primo trimestre
del 2011. Il trend è di poco inferiore alla
media europea e dimezzato rispetto a
quella statunitense: nei 27 Paesi dell’UE, infatti, la quota media di popolazione carceraria femminile è pari a
circa il 5% del totale(dal 2,9% della
Polonia al 7,8% della Spagna), mentre negli Stati Uniti la percentuale
sale all’8,8%. Oltre la metà delle detenute nel nostro Paese è ospitata
nelle carceri di Lombardia, Lazio e
Campania, un quarto in quelle venete, toscane, pugliesi e piemontesi,
con una media di circa 100 donne per
ogni regione. In più del 60% dei casi
si tratta di detenute italiane.
Tra i reati ascritti alla popolazione
femminile più della metà sono contro il patrimonio (27% dei casi), sanzionati dalla legge sulle droghe
(20%) o contro la persona (17%). Alcune tipologie di reato sono invece
più specificatamente riconoscibili
alle detenute straniere: quelli sanzionati dalla legge sugli stranieri, sulla
prostituzione o sull’ordine pubblico.
I crimini “nostrani”, invece, sono per
lo più ricondotti alla legge sulle armi,
contro la personalità dello Stato o contro
la Pubblica Amministrazione.
Ma come vivono le donne in carcere? Una
ricerca commissionata dall’Unione Europea e condotta per due anni in Italia, Fran-
cia, Spagna, Gran Bretagna, Germania e
Ungheria ha evidenziato che i problemi
delle donne in carcere o delle ex-detenute
sono più o meno gli stessi in tutta Europa.
L’esiguo numero di detenute nel continente, porta i governi a trascurare questa
categoria sociale nell’elaborazione di politiche specifiche. La condizione sociale
delle donne detenute è caratterizzata da
molteplici svantaggi: status economico e
scolarizzazione bassi, ambiente familiare
problematico, spesso dipendenza da sostanze stupefacenti e figli avuti in età precoce. Questo porta inevitabilmente a un
alto rischio di emarginazione sociale, specialmente in assenza di adeguate strategie
rieducative e assistenziali durante e dopo
la carcerazione.
In Italia, come nel resto d’Europa, la difficoltà principale sta paradossalmente nell’esiguo numero di detenute e nella loro
dispersione in tante piccole sezioni ospitate all’interno di carceri maschili (63) e
in pochi istituti esclusivamente femminili (solo 5). Inoltre, il 40% della
popolazione femminile detenuta è
composto da donne in attesa di giudizio e condannate a pene brevi, il
che contribuisce alla loro esclusione
dalle attività carcerarie: in mancanza
di un’offerta sufficiente, infatti, si
preferisce dare la precedenza a soggetti che possano garantire continuità nei percorsi rieducativi.
Le condizioni si aggravano poi se di
mezzo ci sono bambini. Fin dal 1975
la legge italiana ha previsto uno specifico riferimento per le detenute
con figli. In particolare, si prevede
che le carcerate con bambini di età
inferiore ai 3 anni possano tenere
presso di sé i figli, per la cui cura e
assistenza ogni prigione con componenti femminili dovrebbe dotarsi di
appositi asili-nido. Sono poi incoraggiate, qualora non ci sia il rischio
di recidiva e il reato commesso non
sia grave, misure alternative al carcere, come gli arresti domiciliari
speciali per donne con figli sotto i 10
anni. Alla fine del 2010 le madri detenute in istituto coi figli erano 42, mentre
4 le carcerate in dolce attesa. Assenza di
fondi per l’assistenza socio-sanitaria e
scarsità di figure professionali coinvolte
ad oggi costituiscono i problemi maggiori.
Pagina 22
DOSSIER CARCERE
LAB Iulm
Giovani
dent
In Italia i minori in carcere
sono cinquecento.
A Milano, Don Rigoldi insieme
alla sua “Comunità Nuova”,
da 37 anni, si prende cura
dei 60 del Beccaria, in una
realtà, quella del carcere
minorile, che fino a 40 anni fa
era gestita da enti religiosi
Ignazio Stagno
N
on rispondo mai a domande che non mi vengono poste». Don Gino
Rigoldi descrive così il suo
ruolo di cappellano fra le mura
del carcere Minorile Beccaria
di Milano. Aspetta che i ragazzi cerchino il contatto
umano. Non forza mai i tempi
della relazione sociale. «Cogliere il momento giusto, spiega- attendere che un ragazzo si apra per chiedere
aiuto è fondamentale». Don
Gino è un uomo pragmatico.
Non ama molto farsi abbracciare dai suoi ragazzi del Beccaria; lavora dal giorno alla
sera solo per inserirli fuori dal
carcere in quel contesto dal
quale si sono fatti momentaneamente espellere. Don Rigoldi da 37 anni vive fra il
Beccaria e la sua “Comunità
nuova”, dove concentra sui
soggetti più bisognosi programmi di recupero più efficaci. «Il carcere per un minore
deve sempre essere evitato, e i
giudici nei casi di reati piccoli
o futili cercano di evitare la reclusione- continua Don Gino.
«La soluzione più seguita è
quella dell’affidamento in comunità o la messa in prova».
Don Rigoldi ogni giorno ha
un’agenda fitta di impegni, riuscire ad avere un appuntamento con lui non è cosa
facile. Eppure nonostante sia
così attivo Don Gino non ama
stare davanti alle videocamere
o ai microfoni. Lui preferisce
stare con i suoi ragazzi per i
quali è un punto di riferimento
inamovibile. «Il cappellano
dentro il carcere è una figura
che gode di massimo rispetto.
In 37 anni che lavoro qui-afferma- non ho mai ricevuto né
un insulto ne un’ offesa». Don
Rigoldi ormai per i ragazzi del
carcere rappresenta molto più
di un cappellano. E’l’orecchio
che li ascolta, la voce che può
guidarli verso una strada migliore. Fra sbarre, cortili e ore
d’aria tante storie hanno preso
vita, e sono rimaste negli occhi
nella mente di chi le ha vissute
in prima persona. «Ricordo la
rivolta del 1988 -raccontaquando la ressa, la protesta e
l’incendio di due settori si risolsero in una partita 20 contro
20 con me e il pm a fare da arbitri». Non solo passato, ma
anche molto presente dietro
quel portone che separa l’adolescenza dalla libertà. Oggi il
contesto sociale e lavorativo è
completamente mutato e inserire nel lavoro i ragazzi che
hanno finito di scontare la pena
è molto più difficile. «Trent’anni fa, pur avendo meno
mezzi e strutture poco organizzate, i ragazzi detenuti avevano voglia di fare, voglia di
costruire qualcosa -spiega il
cappellano. Bisognava essere
svegli e tonici perché dietro le
sbarre c’erano personalità
molto forti. Una volta usciti
trovavano un lavoro e spesso le
“
problema dell’occupazione
Don Gino non chiude mai occhio. E’ sempre in un’ affannosa ricerca di contatti,
relazioni, amicizie nel mondo
imprenditoriale per convincere
”
“
Un ragazzo
albanese, uscito
dal carcere,
con i miei consigli,
è tornato nel suo
paese e ha aperto
un’azienda agricola
Ricordo quella
rivolta dell’88, che
alla fine fu risolta
con una partita a
calcio 20 contro 20,
ed io e il magistrato
a fare da arbitri
loro vite ricominciavano da
zero. Adesso tutto è diverso. Il
mercato del lavoro è saturo e
senza un titolo di studio bisogna accontentarsi. Fare il giardiniere o l’operaio edile non
crea molte prospettive per il
futuro e i ragazzi abbandonano
il lavoro dopo pochi mesi ritornando nella criminalità». Sul
più qualificati». Il quadro non
è comunque roseo. La recidiva
nei minorili in Italia è del 70
per cento. Al Beccaria siamo al
40. Una buona soglia ma ancora elevata. Tante sono le sto-
Don Gino Rigoldi
le aziende a fidarsi dei ragazzi.
Giovani che possono sì aver
sbagliato, ma che più di altri
meritano un'altra opportunità.
«Conosco tantissime persone
del tessuto economico cittadino -afferma Don Gino. Questo fa un po’ la mia fortuna .
Ho più contatti del servizio sociale interno al carcere. Stiamo
cercando comunque di dare ai
ragazzi profili professionali
”
rie con un finale triste. Storie
di ragazzi che fuori dal carcere
ritrovano famiglie disintegrate.
Famiglie che hanno uno sfratto
da un casa popolare pendente
sulla testa. La disperazione la
fa da padrona e per trovare risorse in maniera veloce e tempestiva, si torna a delinquere.
A Quarto Oggiaro questa realtà
è una costante. Dalle parole di
Don Gino il quartiere milanese
sembra essere un serbatoio inesauribile di ospiti per il Beccaria. «Rispetto a tre anni fa il
numero di ragazzi italiani e soprattutto di residenti milanesi
entrati al Beccaria è aumentato. Adesso la maggioranza di
giovani reclusi è italiana. E’ un
dato che fa pensare, il disagio
sociale e i problemi di alcune
zone della città non vengono
risolti, anzi: con gli sfratti delle
famiglie dei reclusi si incoraggia nuova delinquenza e nuova
rabbia». Ma Don Gino è ottimista, abituato a guardare lontano trovando il lato positivo in
ognuno dei suoi ragazzi. Così
si fa coraggio ricordando qualche storia che, per una volta, è
finita bene. «Non sempre la realtà è come appare. Un ragazzo
col quale anni fai ebbi difficoltà ad entrare in contattospiega Don Rigoldi-, pian
piano cominciò ad aprirsi,
esprimendo i suoi bisogni affettivi e riuscii a recuperarlo.
Oggi è un imprenditore con
moglie figli. Oppure mi viene
in mente la storia di un ragazzo
albanese che, una volta fuori
dal carcere, seguendo i miei
consigli, è tornato nel suo
paese dove ha messo su una
piccola azienda agricola e ha
LAB Iulm
DOSSIER CARCERE
Pagina 23
In calo i minorenni immigrati reclusi
Ragazzi in carcere
uno su due è italiano
ro
ritrovato il senso dell’onestà.
Voglio che altre storie possano
avere un lieto fine». E Don
Gino chiede mezzi e uomini.
«Sono necessari volontari,
operatori, psicologi in quantità
e con professionalità. Al Beccaria siamo 5 educatori. Un po’
pochi per 60 persone. E’ necessario fare di più nella formazione del personale. Anche i
poliziotti penitenziari devono
essere messi in condizione di
frequentare corsi adeguati per
prepararli ad interagire con i
ragazzi. Tutto questo sino ad
adesso non avviene». Don Rigoldi adesso deve lasciarci,
perché un altro appuntamento
lo attende. Qualcuno ha bisogno del suo aiuto, una famiglia
di un detenuto rischia di perder
casa. Per molti è l’ultima mano
a cui aggrapparsi, ma Don
Gino nella sua comunità non è
solo. Diversi volontari con la
sua stessa passione per le zone
disagiate della vita credono
che possa esserci una seconda
opportunità per molti ragazzi.
Perchè come scrive Fossati in
Panama:”Un comandante, per
quanto giovane, dovrebbe stare
in mare…”. Ma solo dopo aver
imparato le istruzioni dell’ammiraglio, in questo caso, di un
cappellano come Don Gino.
Francesco Piccinelli
Q
uanti sono i minorenni
dietro le sbarre, nel
nostro Paese?
Le statistiche del Ministero
della Giustizia aggiornate al
16 settembre 2010 parlano di
500 ragazzi, a
fronte di una
capienza
di
514 unità. Tuttavia, la popol a z i o n e
carceraria minorile passa
mediamente
poco tempo
dietro
le
sbarre.
Il turn-over è
molto rapido,
per cui è impossibile (ed
anche
poco
sensato) cercare di ricostruire
una
fotografia precisa di quanti minori siano in
carcere. Di sicuro, però, il
Ministero della Giustizia parla
di una continua diminuzione
della popolazione carceraria
dalla metà degli anni '90 ad
oggi. Purtroppo gli uffici di
Via Arenula non danno un
quadro complessivo sul contesto sociale da cui provengono i ragazzi. Non si
CARCERI
Acireale
Airola
Bari
Bologna
Caltanissetta
Catania
Catanzaro
Firenze
Milano
Nisida-Napoli
Palermo
Potenza
Quartocciu-Cagliari
Roma
Torino
Treviso
TOTALE
PRESENZE
21
39
29
23
8
53
22
21
55
63
32
13
13
57
33
18
500
Fonte: Ministero della Giustizia, Dipartimento Giustizia Minorile.
IPM di Lecce e L’Aquila non attivi, dati a 16/09/2010
conoscono i quartieri di provenienza di questi minori, se non
attraverso i racconti fatti da chi
opera all’interno del carcere.
Ciononostante le statistiche
mettono comunque in evidenza come i giovani detenuti
provengano certamente da situazioni di particolare disagio
e miseria. Secondo i dati del
Ministero, la maggior parte
dei minori denunciati dalle
procure si sarebbe macchiata
di reati contro il patrimonio
(furto o rapina), oppure di
“violazione della legge sugli
stupefacenti, vale a dire spaccio.
Se è vero che le denunce non
portano automaticamente alla
condanna, è comunque accertato che i minori vanno molto
spesso in carcere per aver commesso esattamente quei reati.
Le statistiche del Ministero stimano in 162 i ragazzi dietro le
sbarre per rapina e in 293 i minori in carcere per reati contro
il patrimonio.
Sono solo 80
quelli condannati
per aver commesso reati contro la persona
(aggressioni
ecc.), mentre 87
sono i ragazzi in
galera per aver
violato la legge
sugli
stupefacenti, quindi, per
spaccio. Come
detto, i ragazzi
sono in maggioranza
italiani.
Negli Istituti penitenziari minorili del nostro
Paese, solo il
35% dei detenuti
è di origine straniera (per lo
più si parla di ragazzi romeni e
dall’est europeo); invece, per
quanto riguarda l'età, il gruppo
più numeroso è composto da
giovani adulti, cioè da maggiorenni, entrati in carcere da minori, e da ragazzi tra i 15 e i 17
anni, quasi esclusivamente maschi: solo un detenuto su dieci
è una ragazza.
Storia del Minorile in Italia
In Italia il tribunale per i
minorenni nasce nel
1934. Da questo momento in poi c'è un organo
giudiziario
specializzato, composto
da due giudici più un
"benemerito dell'assistenza sociale". Fino ad
allora, il tribunale che
giudicava i minori era
era quello ordinario e
chi aveva meno di 21
anni finiva nelle carceri
comuni, nonostante il
codice Zanardelli prevedesse alcuni sconti di
pena.. Dal 1934, il fulcro del sistema penitenziario minorile diventa il
riformatorio. I riformatori, in Italia, nascono a
partire dal diciassettesimo secolo, su iniziativa privata. Il primo
riformatorio,
infatti,
viene fondato a Firenze,
nel 1650 dal sacerdote
Ippolito Francini Lo
Stato viene coinvolto in
prima persona solo a
partire dagli anni ‘70,
quando istituzioni private, come l’Associazione Nazionale Cesare
Beccaria, responsabile
del riformatorio di Milano e di una casa per ragazzi difficili ad Arese,
vengono
definitivamente sciolte e sostituite
dall’Amministrazione
Penitenziaria. Nel 1988
entra in vigore il Codice
di procedura penale minorile, che separa definitivamente il sistema
penitenziario minorile
da quello ordinario,
aprendo ulteriormente la
strada al ruolo rieducativo dell’istituziona penitenziaria minorile.
Giulia Pezzolesi
Pagina 24
IULM NEWS
LAB Iulm
Viviamo in un’epoca in cui la leggerezza è molto gettonata. Forse troppo
La serietà si pratica, non si predica
segue dalla prima
Nel primo caso la serietà è rivelatrice di positività, nel secondo, invece, mette in risalto
una negatività potenziale o già
quasi in atto.
Nel linguaggio della comunicazione di massa corrente la
serietà è diventata qualcosa di
cui occuparsi poco o nulla: la
sua evocazione equivale, infatti, in ogni caso ad una messa
in mora. La nostra società appare sempre più refrattaria ad
occuparsi sia delle situazioni
meritevoli di particolari attenzioni, giacchè risultanti da contesti poco virtuosi, sia delle
persone serie, perché spesso
intese come persone noiose o,
peggio, tristi.
Viviamo un'epoca in cui la leggerezza è molto gettonata e la
comicità - specie se accompagnata da allusioni o doppi sensi
- risulta molto diffusa. La serietà è entrata nel cono d'ombra della noia, trascinando in
questo prisma retorico sia
un'accezione che l'altra. É insopportabile, infatti, in questa
visione superficiale della vita,
sia ogni situazione che richieda
impegno e sacrificio, sia ogni
persona che imponga rispetto e
attenzione per
la sua visione
responsabile
delle relazioni o
delle situazioni
che deve affrontare.
La scelta della
serietà è, dunque, una visione
esistenziale, che
non si può studiare sui libri,
ma neppure insegnare
a
scuola: richiede, però, una "didattica esemplare", una didattica cioè che nasce dalle
dinamiche della vita, attraverso
l'esemplarità dei comportamenti, dei ragionamenti, delle
direttrici di azione.
Nella mia vita ho conosciuto
molte persone serie (anche se
forse in numero decisamente
inferiore a quello delle persone
poco serie!) e ho attraversato
molte situazioni serie, difficili:
in entrambi i casi ho imparato
molto.
Ho imparato come reagire con
pari dignità - almeno spero nell'interazione con questi personaggi,
immagazzinando
nella mia coscienza personale
e professionale il più possibile
della loro ricchezza di vita e di
pensiero: in questi casi sono
stato più attento a ricevere, di
quanto non sia stato in grado di
dare. La mia esperienza di vita
e' stata comunque arricchita
moltissimo dalla interazione
con questi personaggi:
nell'università, come
nelle attività
culturali e professionali, che hanno attraversato, nel corso dei
lunghi anni della mia
attività lavorativa, la
mia vita di relazione.
Ho attraversato, parallelamente, situazioni
molto "serie", ovvero
gravi e difficili: in
questi casi ho sempre
cercato di tenere alta e
luminosa la fiaccola della ragione e fermissimo il timone
dell'onesta' intellettuale e materiale. Ho incontrato personaggi e situazioni che non
avrei mai voluto incontrare,
ma alla fine di siffatte espe-
rienze "serie", che ho dovuto
affrontare, ne sono uscito più
ricco moralmente e più forte
anche professionalmente.
I mezzi di comunicazione di
massa, il cinema in particolare,
hanno sempre avuto molta attenzione verso entrambe le accezioni della serietà: in
entrambi i casi però, sovente,
la versione cinematografica ha
privilegiato le esigenze dell'efficacia della rappresentazione
rispetto alla coerenza del messaggio, soprattutto quando ha
utilizzato espedienti retorici
come l'antitesi della comicità
per dipanare, con l'ironia, situazioni diversamente inestricabili.
Parlarne è, comunque, davvero
difficile: ecco perché abbiamo
scelto la via della rassegna filmica, affidandoci alla creatività dei più giovani per il
piacere estetico dei più....maturi!
Giovanni Puglisi