Disuguaglianze di salute e cancro: nuovi modelli assistenziali

Transcript

Disuguaglianze di salute e cancro: nuovi modelli assistenziali
Università Politecnica delle Marche
Facoltà di Medicina e Chirurgia
Dottorato di ricerca in
Epidemiologia e Sociologia delle disuguaglianze di salute
IX Ciclo
Disuguaglianze di salute e cancro:
nuovi modelli assistenziali
Relatore: Prof. Francesco Di Stanislao
Tesi di dottorato di
Simona Olivadoti
Anno Accademico 2010 - 2011
Alla mia famiglia
A chi mi ha sostenuto in questi anni
Alle persone stupende che ho incontrato
in questi tre anni
A chi il “male” se l’è portato via
Indice
Introduzione
Capitolo 1.
pag.
1
6
Le disuguaglianze di salute
1.1.
Le disuguaglianze di salute: approcci teorici
pag.
1.2.
Determinanti sociali di salute
pag. 26
1.3.
La relazione tra sociologia e medicina
pag. 35
1.4.
Approccio sociologico ed approccio
1.5.
epidemiologico
pag. 39
La malattia come fatto sociale
pag. 42
Capitolo 2.
La ricerca
2.1.
Interrogativo di ricerca
pag. 47
2.2.
Le malattie croniche
pag. 49
2.3.
Disuguaglianze di salute e cancro
pag. 58
2.4.
Dati epidemiologici sul cancro
pag. 65
2.5.
Reti assistenziali regionali
pag. 86
2.6.
Vivere con una malattia cronica
pag. 99
Capitolo 3.
Modelli assistenziali
3.1.
Le politiche
pag. 105
3.2.
Nuovi modelli di cura
pag. 112
3.3.
Il Chronic Care Model
pag. 120
Conclusioni
pag. 130
Riferimenti bibliografici
pag. 134
Introduzione
Un’ampia letteratura
ha ormai
dimostrato come la salute sia
largamente influenzata da fattori esterni alla medicina e al sistema
sanitario,
quali
sono
appunto
i
determinanti
sociali,
ambientali,
economici e comportamentali.
Le principali dimensioni strutturali della salute sono individuabili nella
distribuzione del reddito, nell’organizzazione del lavoro e nell’ambiente
sociale.
Il tema delle disuguaglianze di salute si colloca nell’intersezione di
molteplici sfere e discipline, dalle scienze sociali a quelle mediche,
dall’economia alla politica, fino agli aspetti morali e di etica dei diritti
umani.
La salute rappresenta un requisito fondamentale per la partecipazione
alla vita sociale, politica ed economica.
Dopo decenni di studio e di attuazione di un sistema sanitario tutti gli
indicatori di salute confermano una forte associazione tra un cattivo
stato di salute e condizioni di svantaggio sociale ed economico.
1
Nelle società postindustriali la salute acquista valenza sociale, prova
ne è che si parla sempre più di promozione della salute nel contesto
societario.
Il secolo scorso è stato definito “l’epoca d’oro della biomedicina” per
le conquiste e le speranze mediche. Il costante miglioramento dei
trattamenti
medici
e
il
mutamento
dei
comportamenti
salutari
compartecipano a determinare i decrementi dei tassi di mortalità, di
morbilità e gli incrementi progressivi dell’aspettativa di vita.
A partire dalla metà del XX secolo la transizione epidemiologica e
demografica hanno profondamente modificato lo scenario sociale della
società. Le patologie prevalenti non sono più quelle infettive ma
divengono quelle cronico – degenerative, sempre più diffuse nella
popolazione, specie quella anziana.
Nonostante tutti i progressi fatti dalla medicina, dimostrati proprio
dall’aumento della vita media e dalla riduzione della mortalità infantile,
ancora tante persone continuano a morire per fame, povertà, ignoranza,
esclusione sociale e discriminazioni e per malattie che sono prevenibili e
curabili.
Da un lato gli indicatori di salute continuano a progredire, dall’altro si
scopre quasi ovunque, sia nel confronto fra nazioni, sia al loro interno,
una crescita continua delle differenze nella salute e nell’aspettativa di
vita, secondo le classi, i generi, le etnie.
Differenze nella mortalità e nella morbilità tra i gruppi socioeconomici
sono state documentate fin dall’inizio del secolo.
Le disuguaglianze nella salute riflettono disuguaglianze sociali nella
società. Nonostante i vari tentativi fatti per arginare tale fenomeno, le
disuguaglianze di salute sono sempre più in aumento.
A livello mondiale, è ormai riconosciuto che la salute di tutti stia
migliorando. Sono sempre meno le persone che muoiono per malattie
infettive e sempre più sviluppano malattie croniche. L’aumento di fattori
di rischio come stili di vita insalubri, alimentazione scorretta, inattività
fisica, consumo di tabacco ed abuso di alcool ha portato ad uno sviluppo
più precoce di malattie croniche negli ambienti sempre più urbanizzati,
ma i sistemi sanitari non sono abbastanza preparati per gestire la
2
richiesta di cure e trattamenti. Spesso sono i più poveri che si trovano,
insieme alle loro famiglie, a lottare contro i danni economici e sociali che
una lunga malattia può provocare. Le malattie croniche possono portare
il soggetto malato e la sua famiglia in una spirale negativa di indigenza
(WHO, 2005).
Le differenze nel rischio di contrarre un tumore sono presenti anche
nei paesi sviluppati tra differenti gruppi di popolazione. Le condizioni
sociali ed ambientali di alcune zone dei paesi industrializzati possono
essere paragonabili a quelle esistenti nei paesi in via di sviluppo. In ogni
caso, le disuguaglianze di salute non sono limitate agli appartenenti alle
classe sociali inferiori, ma sono presenti in tutta la società.
La cause dell’insorgenza del cancro all’interno di una popolazione
possono essere studiati a vari livelli, inclusi i fattori socioeconomici, lo
stile di vita e le alterazioni genetiche. Per esempio, fattori quali il fumo,
può apparire come un’esposizione principalmente a livello individuale, in
realtà, l’esposizione si può verificare a causa di una vasta gamma di
fattori economici, sociali e politici.
Per poter ottenere maggiori risultati è necessario agire a tutti i livelli
possibili, come dimostra la storia della sanità pubblica, i cambiamenti a
livello di popolazione sono più efficaci di quelli a livello individuale. In
questo senso, un singolo fattore di rischio come il fumo può essere
considerato come un sintomo secondario di elementi più profondi
sottostanti della struttura economica e sociale della società (IARC,
1997).
I dati (IARC, 1997) mostrano che, sia nei Paesi industrializzati che in
quelli meno sviluppati, l’incidenza del cancro e la sopravvivenza sono
legate allo status socio-economico. Questo può essere spiegato a causa
dei diversi fattori di rischio, quali il fumo, la dieta, rischi lavorativi,
comportamenti sessuali, ai quali gli appartenenti alle classe sociali
inferiori sono maggiormente esposti.
Il cancro è la più frequente causa di morte per le persone sotto i 64
anni, seguita dalle malattie cardiovascolari.
Il cancro rimane una malattia da debellare come testimoniano ogni
anno i circa dieci milioni di casi di tumore.
3
Accanto all’identificazione dei bisogni medico/clinici è importante
porre attenzione alle esigenze relazionali e sociali, agli aspetti etici e alla
biografia della persona malata.
Per fare ulteriori, significativi progressi nella ricerca sul cancro è
necessario un approccio interdisciplinare che integri lo studio della
natura biologica del cancro e le sue applicazioni cliniche con le influenze
sociali e comportamentali sulla malattia. La ricerca sul cancro è un
esempio di come la complessità della scienza moderna richiede un
investigazione su più discipline.
Alla luce di tutto ciò, ci è sembrato utile ragionare e indagare la
situazione attuale delle malattie croniche, in particolare i tumori, e
l’associazione tra l’incidenza della malattia e le condizioni socio –
economiche.
Si è cominciato con un’attenta analisi della letteratura teorica in
merito alle disuguaglianze di salute; in secondo luogo vista l’evidenza di
un gradiente sociale di salute sono stati esaminati i principali studi che
hanno affrontato il tema dei determinanti di salute. Le differenze sociali
di mortalità e morbilità tra i diversi gruppi socioeconomici, di cui
abbiamo ampie testimonianze statistiche, rappresentano un problema
cogente. Attraverso tali
studi
si
è cercato di
dimostrare se le
disuguaglianze di salute negli ultimi venti/trenta anni sono aumentate o
diminuite e qual è la posizione del nostro Paese.
Nella ricerca qui presentata, ci siamo concentrati sui nuovi modelli
assistenziali, in
particolare
sul
Chronic
Care
Model,
elaborato
e
sperimentato inizialmente negli Stati Uniti, i cui principi generali sono
ormai riconosciuti come fondamentali e che spingono verso un sistema
nel quale il trattamento dei casi acuti è integrato dalla gestione proattiva
della cronicità (stretto legame con la comunità; identificazione delle
responsabilità delle cure sanitarie; sostegno ad un effettivo selfmanagement;
pianificazione
del
programma
di
cura;
decisioni
supportate dall’evidenza; presenza di un sistema informativo clinico).
Questo modello è rappresentativo del nuovo paradigma medico, cioè
il passaggio da un approccio sull’attesa dell’evento acuto, ad un
approccio
proattivo,
improntato
al
paradigma
preventivo,
4
all’empowerment del paziente e della comunità e alla qualificazione del
team assistenziale.
Utilizzando
le
banche
dati
messe
a
disposizione
dall’ISTAT,
dall’AIRTUM e dall’OMS sono state effettuate delle analisi statistiche
cercando di sintetizzare nel miglior modo possibile le cause di tale
fenomeno.
5
Capitolo 1
Le disuguaglianze di salute
1.1.
Le disuguaglianze di salute: approcci teorici
Lo sviluppo di ogni nazione è fortemente correlato con la salute dei
suoi abitanti, tale relazione è però ad influenza reciproca, nel senso che
anche la salute, a sua volta, è influenzata dal reddito, tanto che il
reddito diventa il principale determinante dell’incremento dell’aspettativa
di vita.
“Nessuna società in cui la maggioranza dei suoi membri sia povera e
infelice potrà essere fiorente e felice” (Smith, 1975).
Tutte le società sono caratterizzate da differenze di salute tra le
persone, anche le più egualitarie. La questione su cui ci si interroga è se
tali differenze sono casuali, biologiche, legate alla posizione di una
persona
nell’ambito
della
stratificazione
sociale
o
causate
dall’organizzazione della società.
Assodato che l’ammalarsi dipende non solo dalla genetica e dalla
casualità o dalle scelte individuali, ma anche e soprattutto dalla
posizione sociale, dai comportamenti indotti, dalla qualità degli ambienti
in cui si vive, dalle proprie ricchezze, tutto ciò è ovviamente ingiusto e
non accettabile.
6
È anche ormai ampiamente confermato il ruolo giocato dal reddito.
Sono le fasce della popolazione più povera che godono di peggiori
condizioni di salute ed una minore aspettativa di vita e va aggiunto, che
spesso, una malattia o un cattivo stato di salute può far precipitare in
uno stato di povertà anche chi precedentemente non lo era.
Le condizioni di deprivazione materiale spesso portano verso una
deprivazione di salute ed una deprivazione relazionale che rende difficile
la risalita nella scala sociale, si innesca così una spirale che non solo
colpisce i diretti interessati, ma si trasmette tra le generazioni.
Gli appartenenti alle classi sociali più basse sono più suscettibili alle
malattie in quanto spesso vivono e lavorano in ambienti malsani,
conducono uno stile di vita insalubre e ricorrono all’assistenza sanitaria
in modo inadeguato.
Come anche sottolineato dal Black Report, uno dei più importanti
documenti sulle disuguaglianze di salute, i poveri hanno una speranza di
vita inferiore rispetto ai ricchi, sono maggiormente soggetti al rischio di
imbattersi
nelle
più
diffuse
patologie
mortali
e
hanno
maggiori
probabilità di ammalarsi di patologie croniche (Black et al., 1980).
Nel 1997 Richard Smith, direttore di una delle riviste mediche più
autorevoli, il British Medical Journal, scriveva che la disponibilità di
denaro è il fattore che, da solo, ha la più forte influenza sulla salute,
perfino confrontato al fumo.
Quando si parla di disuguaglianze di salute ci si riferisce alle
differenze di stato di salute fra gruppi socioeconomici, definiti in base al
reddito, l’occupazione o l’istruzione (Macintyre, 1997).
Le disuguaglianze di salute sono il prodotto di un insieme di fattori
strettamente correlati tra loro, quali istruzione, assistenza sanitaria,
reddito, occupazione, tipologia dell’abitazione, situazione familiare, stili
di vita (Comodo, Maciocco, 2006). Un ruolo fondamentale è rivestito
dall’appartenenza ad una determinata classe sociale, come ben espresso
da Costa e colleghi (1998) che appunto sostengono che la cosa più
stupefacente delle disuguaglianze di salute è la loro regolarità nella scala
sociale. A qualsiasi livello della scala sociale ci si ponga, il livello inferiore
presenta
un
profilo
epidemiologico
più
sfavorevole
di
quello
7
immediatamente superiore. Queste disuguaglianze si osservano su tutte
le dimensioni della struttura demografica e sociale: a parità di età, il
rischio di morire è più alto tra i meno istruiti, nelle classi sociali
subordinate, tra i disoccupati, tra chi abita in case meno agiate e in
quartieri degradati, tra chi vive solo o in situazioni familiari meno
protette.
Negli ultimi vent’anni le disuguaglianze di salute e nell’assistenza,
storicamente
presenti,
sono
terribilmente
aumentate
tanto
da
rappresentare uno dei più gravi scandali del nostro tempo (Maciocco,
2006) e sono una delle forme di disuguaglianza più ingiuste e non
necessarie (Whitehead, 1990).
La stessa Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo afferma che le
differenze tra gli esseri umani, tipo il sesso, la razza o la religione, non
devono costituire motivo di disparità di accesso alle opportunità di base,
tra cui l’assistenza sanitaria.
Si è definitivamente infranto il sogno di “una salute per tutti” e le
ambiziose aspettative sulle condizioni di salute della popolazione.
La società civile, quindi, con le sue norme e le sue politiche nega
eguali opportunità ad individui appartenenti a gruppi diversi (Cattaneo,
Tamburlini, 2006).
Secondo Margaret Whitehead (1990) esistono delle caratteristiche
distintive, che trasformano le semplici variazioni di stato di salute tra le
persone in disuguaglianze di salute.
La prima di queste caratteristiche riguarda la loro sistematicità, cioè
tali differenze non si manifestano in modo casuale, ma si presentano con
una
distribuzione
contraddistingue
costante
è
la
nella
sistematica
popolazione.
differenza
Infatti,
tra
ciò
differenti
che
le
gruppi
socioeconomici, colpendo sempre di più le fasce più svantaggiate.
La seconda caratteristica punta il dito sul ruolo della società, cioè le
differenze nella salute sono generate dai processi sociali, la causa non
va ricercata nei fattori biologici. Nessuna legge della natura stabilisce
che i bambini delle famiglie povere hanno una probabilità doppia di
morire rispetto ai bambini nati in famiglie ricche (Blane et al., 1993;
Stefanini, Albonico, Maciocco, 2006).
8
Infine, la terza caratteristica che rende delle diversità di salute delle
disuguaglianze di salute, è la loro perversità. Tali disuguaglianze sono
ingiuste in
quanto generate da
ordinamenti
sociali ingiusti, che
offendono il comune senso di giustizia. Quasi tutte le popolazioni sono
concorde sul fatto che tutti i bambini, indipendentemente dalla classe
sociale
di
appartenenza,
debbano
avere
le
stesse
chance
di
sopravvivenza. Quindi, è un’ingiustizia il fatto che le probabilità di
sopravvivere siano determinate dal gruppo sociale di appartenenza.
Le condizioni di salute delle popolazioni dell’Europa così come della
maggior parte dei Paesi ricchi sono mediamente buone, soprattutto se
comparate con la maggior parte dei paesi del resto del mondo (vedi Fig.
1). Questo non vuol dire che i Paesi del mondo occidentale siano esenti
dal soffrire di disuguaglianze di salute.
Le disuguaglianze tra i paesi ricchi e i paesi poveri sono sicuramente
abissali basti pensare che la differenza nella speranza di vita alla nascita
tra le donne del Giappone e le donne dello Zambia è di 86 anni contro
43; ma se ci sposta nella ricca Inghilterra si osservano simili differenze
tra ricchi e poveri di una stessa città. Per esempio gli abitanti di un
quartiere ricco di Glasgow hanno un’aspettativa di vita di 82 anni,
mentre gli uomini di un quartiere povero della stessa città hanno
un’aspettativa di vita di 54 anni (Macintyre, Macdonald, Ellaway, 2008).
9
Fig. 1. Aspettativa di vita – primi e ultimi 10 Paesi al mondo
Fonte: WHO, 2004.
Le
disuguaglianze
di
salute,
infatti,
non
sono
solo
a
livello
internazionale tra nord e sud del mondo, ma si verificano grosse
disparità di salute anche all’interno delle nazioni ricche, come per
esempio l’Italia. L’Italia è una delle nazioni con l’aspettativa di vita tra le
più alte, ma questo che rappresenta uno degli indicatori di salute più
importante, varia secondo le condizioni socioeconomiche individuali e le
caratteristiche dell’area geografica in cui si vive (vedi Fig. 2).
10
Fig. 2. Aspettativa di vita alla nascita maschi-femmine
84
84,73
84,09
82,9
82,87
83,75
84,17
84,62
84,62
84,14
84,8
85,17
Femmine
84,59
84,37
84,04
84,27
84,63
85,05
85,01
84,31
83,97
83,97
86
85,05
Maschi
78
78,02
78,14
78,82
78,39
79,17
77,42
78,55
78,55
78,69
79,49
79,58
79,29
78,86
78,31
78,91
78,91
78,91
79,37
79,11
78,72
78,3
80
78,3
82
76
74
Fonte: ISTAT, 2007.
La differenza di circa 5 anni di vita a favore del sesso femminile è
attribuibile ai minori livelli di mortalità delle donne alle varie età e per la
maggior parte delle cause di morte. Sono soprattutto i tumori maligni, le
malattie cardiovascolari e le cause accidentali i maggiori responsabili del
divario tra i due sessi.
Il gradiente Nord-Sud Italia al netto di tutti gli effetti composizionali e
contestuali considerati è visibile soprattutto nella percezione di cattiva
salute e nella morbosità cronica (Costa, Spadea, Cardano, 2004).
Per quanto riguarda l’ambiente nel quale si vive e si lavora,
l’associazione con lo stato di salute è storicamente conosciuta. Basti
ricordare l’immane e dettagliato lavoro di Friedrich Engels sulla classe
operaia nella seconda metà dell’Ottocento in Inghilterra. Nel suo lavoro,
11
Sardegna
Sicilia
Calabria
Basilicata
Puglia
Campania
Molise
Abruzzo
Lazio
Marche
Umbria
Toscana
Emilia-Romagna
Liguria
Friuli Venezia Giulia
Veneto
Trento
Bolzano
Trentino -Altoa Adige
Lombardia
Valle D'Aosta
Piemonte
72
Engels diede molto spazio alle condizioni di vita del proletariato inglese
approfondendo in particolare le condizioni abitative, la struttura dei
quartieri, l’alimentazione, il vestiario e i ritmi di lavoro. Descrivendo lo
stile di vita, Engels riuscì a fornire una descrizione ben dettagliata delle
malattie di cui soffrivano e delle cause di morte.
Lo
studio
di
Engels
è
solo
un
esempio,
forse
il
più
noto,
dell’importanza data alle ricerche sullo stato di salute e all’associazione
con l’ambiente sociale, anche in tempi non recenti. Segnaliamo tra i
primi Rudolf Virchow, che fu un medico sociale negli anni dei moti
rivoluzionari in Germania. Virchow sviluppò nel suo lavoro la convinzione
che le condizioni di salute fossero correlate con le condizioni sociali e che
era inutile curare solo l’individuo senza prestare attenzione all’ambiente
in cui viveva. Fu anche promotore della riforma sanitaria.
Sempre nell’Ottocento, abbiamo altri grandi studiosi che si sono
occupati della questione. Villarmé, a Parigi, analizza i tassi di mortalità
collegati con le condizioni socioeconomiche dei deceduti; nel 1837 in
Inghilterra, il Sovrintendente alle Statistiche, William Farr istituisce per
la prima volta un registro di mortalità nel quale veniva dettagliatamente
compilata la causa di morte e registrata anche la classe sociale di
appartenenza. Da allora l’Inghilterra si è distinta per la precisione e
l’accuratezza con cui ha sempre registrato le disuguaglianze di salute.
Sempre in Inghilterra, dopo la pubblicazione del Public Health Act del
1875, ogni Amministrazione Locale è obbligata ad essere responsabile
della salute della propria comunità e delle condizioni sanitarie generali.
Sociologicamente, uno dei primi studi in merito è quello di Faris e
Dunham (1939) della Scuola di Chicago, che dimostrò con grande
efficacia l’esistenza di una correlazione tra determinate condizioni di vita
e dell’ambiente e l’insorgere delle malattie psichiche.
Un ruolo fondamentale è rivestito dal “gradiente sociale nella salute”
che sottolinea come le differenze nello stato di salute sono dovute alle
differenze socioeconomiche.
In letteratura (Marmot, 2006) è ampiamente dimostrato come la
salute segua un gradiente sociale, cioè più alta è la posizione sociale,
migliore è la salute. Quindi, per comprendere le cause di questo
12
gradiente dobbiamo esaminare le circostanze nelle quali le persone
vivono e lavorano.
In pratica il gradiente sociale è la connessione tra posizione sociale e
livello di salute – malattia e riflette lo svantaggio materiale, gli effetti
dell’insicurezza e la mancanza di integrazione sociale.
Numerose ricerche (Costa, Spadea, Cardano, 2004) condotte in Italia,
hanno dimostrato che anche nel nostro Paese è presente un marcato
gradiente sociale correlato alla salute. E’ stata dimostrata una maggiore
incidenza
e
mortalità
per
un’ampia
varietà
di
patologie,
in
corrispondenza di una minore scolarità, classe occupazionale inferiore e
abitazioni scadenti. Mentre, l’associazione malattie - classe sociali
benestanti è limitata a poche patologie, per esempio le allergie.
Diversi sono i meccanismi che si attuano ed interagiscono tra di loro e
che possono essere all’origine delle disuguaglianze o almeno darne una
spiegazione. Sono stati svolti molteplici studi che hanno avvallato una
spiegazione piuttosto che un’altra, fattori spesso contraddittori; diventa
così impossibile stabilire la predominanza di un’ipotesi sulle altre.
Una prima spiegazione riconduce la presenza delle disuguaglianze di
salute a differenze genetiche, infatti, le dotazioni genetiche possono
contribuire alle differenze nella speranza di vita.
L’idea di fondo è che le caratteristiche congenite dell’individuo
influenzano la posizione sociale e le condizioni di salute, sia direttamente
che indirettamente. Tale spiegazione però, risulta poco attendibile se
analizzata in relazione alla “transizione epidemiologica”. Quest’ultima
indica un cambiamento nelle cause principali di mortalità: dalle malattie
infettive alle malattie croniche e cardiovascolari. Malattie legate agli stili
di vita difficilmente conciliabili con un determinismo genetico.
Sullo stesso filone si colloca l’approccio dell’“health selection effect”.
Secondo quest’ipotesi lo stato di salute di ogni persona è solo in minima
parte determinato dalle condizioni economiche e sociali, in maggioranza
dipende dal capitale biologico, che può condizionare l’accesso alle
diverse posizioni sociali. Gli studi che si sono concentrati su questo
filone, hanno però dovuto ammettere che, il suo impatto sulle
disuguaglianze di salute è sostanzialmente modesto.
13
Un altro filone, ben sviluppato da ampi studi, è quello degli stili di
vita, con la diversa propensione ad adottare comportamenti e attività
dannose per la salute. Tali comportamenti, fumo, alcool, mancanza di
attività fisica, alimentazione scorretta, sono individuati come fattori di
rischio individuali. Quest’approccio però, se interpretato in modo
riduttivo rischia di colpevolizzare la persona, cosiddetto approccio
“victim blaming”, si dà infatti per scontata la totale libertà di scegliere
comportamenti a rischio, senza considerare che per molte abitudini,
come l’esposizione ai rischi professionali, i margini di libera scelta
individuale tendono ad annullarsi.
I comportamenti a rischio spesso sono influenzati dalla cultura del
gruppo di appartenenza, tanto da divenire normali (Blaxter, 1990).
Inoltre, molti dei più diffusi comportamenti insalubri, come il consumo di
“comforting food” possono essere la risposta a condizioni di stress
cronico (Costa, Spadea, Cardano, 2004). Bisogna, a tal proposito,
ricordare che esperienze di stress cronico possono innescare dei processi
patologici già sviluppati in nuce nel soggetto.
Gli stili di vita hanno un impatto sulla salute differito nel tempo e
segnalano il diverso rapporto con il rischio in differenti gruppi sociali
(Vannoni, 2004).
La
prospettiva
del
“corso
di
vita”
considera
responsabile
del
patrimonio di salute la posizione sociale occupata durante tutta
l’esistenza. Ogni esperienza vissuta dal soggetto resterebbe incisa nella
fisiologia e nella patologia del suo corpo. Il punto centrale di tale teoria è
che, l’ambiente nel quale si cresce può avere effetti sullo sviluppo
biologico individuale e che le opportunità sia positive che negative
possono concentrarsi trasversalmente e accumularsi longitudinalmente
(Costa, Spadea, Cardano, 2004). In pratica, ogni tipo di esposizione si
accumula lungo tutto il corso della vita.
Le disuguaglianze nella salute nella storia personale di una persona
possono
nascere
molto
presto,
infatti,
secondo
la
teoria
della
programmazione biologica (Barker, 1994), già durante la gravidanza si
possono verificare disuguaglianze dovute alle scadenti condizioni di vita
e di salute della madre. Ciò si ripercuoterebbe sul nascituro con effetti
14
verificabili sia al momento della nascita, con basso peso e maggiore
mortalità infantile, sia in età adulta, con un aumento di malattie
respiratorie, cardiocircolatorie e metaboliche.
I primi anni di vita, oltre che dalla programmazione biologica, sono
influenzati dalla programmazione sociale, secondo cui gli svantaggi
sociali tendono ad accumularsi a partire dall’infanzia per poi proseguire
nell’adolescenza e nell’età adulta (Wadsworth, 1999). È nella fase
dell’infanzia che si sviluppano la capacità e le opportunità per affrontare
le difficoltà della vita e le conseguenze negative, sono anche questi gli
anni in cui si attuano e si consolidano comportamenti pericolosi per la
salute, come il fumo, l’alcool e il consumo di sostanze stupefacenti.
Secondo tale approccio, è nelle condizioni di vita dei primi anni che si
possono sviluppare importanti mediatori eziopatogenetici. Le cause le si
possono ritrovare sia nei fattori materiali che in quelli psicosociali. Quelli
materiali influiscono in quanto condizionano aspetti quali l’igiene e la
sicurezza; quelli psicosociali condizionano la salute attraverso un
rinforzo della presenza di stili di vita dannosi.
La prospettiva del corso di vita, che include l’interazione di processi
biologici e sociali, che si susseguono nel corso di tutta la vita, offre
numerosi spunti di ricerca verso l’individuazione delle caratteristiche biosociali (Spadea, Cois, 2004). Va però precisato che non è un singolo
momento o stadio della vita di una persona ad avere una maggiore
influenzare sulla salute, ma è più corretto parlare di catene di rischio
biologiche e sociali. In tutte le ricerche epidemiologiche focalizzate ad
individuare un’associazione tra corso di vita e salute, sono emerse
significative
associazioni,
indipendentemente
dalla
metodologia
utilizzata.
Quindi, non è un solo fattore che è dominante e condiziona la salute,
ma
una
serie
di
condizioni
che
influiscono
sulla
vulnerabilità
dell’individuo, accumulandosi progressivamente in più svantaggi a lungo
termine.
Un’altra delle spiegazioni delle disuguaglianze di salute, esterna al
soggetto, può essere ricondotta alla variabilità all’accesso ai servizi. Le
persone appartenenti a fasce di popolazione svantaggiata accedono a un
15
sistema di prestazioni sanitarie molto spesso intempestive, di qualità
scadente, ripetitive, inappropriate e scarsamente efficaci. In particolare,
sono più esposte a iperconsumo di prestazioni inefficaci e inappropriate quando non addirittura dannose - e sono meno capaci di accedere ai
servizi necessari, soprattutto a interventi di alta complessità, per
rimediare a condizioni di salute peggiori; o ancora, nei loro confronti
vengono effettuate scelte discriminatorie che non trovano giustificazione
in termini di evidenze. Le ricerche hanno però dimostrato che, l’impatto
di questo fattore non sembra superare il 20% sul totale dei risultati di
salute.
Infine, un’ultima argomentazione, sempre esterna al soggetto,
riguarda il contesto, cioè l’ambiente di vita circostante, che include le
caratteristiche fisiche, ecologiche, infrastrutturali e socioeconomiche
(Nuvolati, Tognetti Bordogna, 2008). Tali caratteristiche si sommano a
quelle dell’individuo e ne amplificano l’effetto. Tale ipotesi, sul piano
metodologico, con l’elaborazione di indici di deprivazione su base
territoriale si è dimostrata efficace nell’analisi delle disuguaglianze di
salute (Marinacci, 2004).
Sempre
sull’importanza
data
all’ambiente
geografico,
si
sono
concentrati gli studi di Sally Macintyre (2002). La sociologa scozzese ha
individuato tre tipi di effetti dell’ambiente: composizionali, derivanti
dall’aggregazione
di
fattori
individuali;
contestuali,
dovuti
alle
caratteristiche dell’ambiente fisico e sociale; collettivi, rintracciabili nelle
tradizioni storiche e culturali del luogo.
Attraverso questi modelli è possibile apprezzare quali siano le
spiegazioni più verosimili per le disuguaglianze per la salute e come le si
possa utilizzare per la predisposizione di azioni di contrasto (Costa,
Spadea, Cardano, 2004).
Le spiegazioni fin qui illustrate possono ulteriormente essere divise in
due gruppi, uno di tipo trasversale dove si collocano i fattori causali,
legati appunto a catene causali, tipo la posizione sociale, la costituzione
biopsichica, gli stili di vita e l’ambiente in cui si vive. L’altro gruppo
potrebbe essere di tipo longitudinale, nel quale includere fattori
16
cumulativi che si sviluppano nel corso della biografia individuale, come il
corso di vita.
Abbiamo visto che, negli ultimi anni gli studi sulla comprensione dei
percorsi eziopatogenetici che generano le variazioni sociali nella salute
sono in costante aumento, ma non si è ancora arrivati ad una
spiegazione univoca ed in grado di comprendere totalmente tutti i fattori
che originano le disuguaglianze di salute (vedi Tab. 1).
Tab. 1. Spiegazioni delle disuguaglianze sociali di salute
Influenze
Tipo di spiegazione
Materiali
Culturali /
comportamentali
Psicosociali
Corso di
vita
Economia
politica
Reddito
individuale,
alimentazione,
qualità
dell’abitazione,
ambiente,
lavori
pericolosi.
Differenze in
credenze, norme e
valori, significa che i
membri dei gruppi
meno avvantaggiati
sono meno propensi
a bere alcol con
moderazione, ad
astenersi dal fumo e
a fare esercizio fisico
nel tempo libero.
Status,
controllo,
supporto
sociale al
lavoro e a
casa,
equilibrio tra
sforzo e
ricompensa
che
influenza la
salute
attraverso il
loro impatto
sulle
funzioni del
corpo.
Eventi e
processi che
cominciano
prima della
nascita e
durante
l’infanzia,
possono
influenzare sia
la salute fisica
che l’abilità a
mantenersi in
salute. La
salute e le
influenze delle
circostanze
sociali si
trasmettono
nel tempo.
Processi
politici e
distribuzione
del potere
hanno effetti
sulla
disponibilità
di servizi,
qualità
dell’ambiente
fisico e delle
relazioni
sociali.
Fonte: Bartley, 2004.
I cinque tipi di spiegazioni visti in tabella riassumono i vari
orientamenti ed inizialmente tale suddivisione fu proposta dal Black
Report, quindi già alla fine degli anni Settanta. Queste spiegazioni però
non sono mutualmente esclusive (Bartley, 2004).
È comunque necessario andare oltre le singole proposte interpretative
per riconoscere che il rapporto fra condizione sociale e stato di salute è
17
frutto di un complesso intreccio di cause multiple (Townsend, Davidson,
Whitehead, 1992).
Il dibattito teorico sull’origine delle disuguaglianze è quindi tutt’ora
vivo. Inoltre, sociologicamente, esistono due macro correnti di idee, una
definita neo – materialista, l’altra psicosociale, che possono intersecarsi,
ed includere, anche con tutti gli altri fattori appena spiegati.
Entrambi
tali
approcci
si
collocano
in
una
visione
macro,
strutturalista, che sottolinea l’influenza sia dei fattori sociali, politici ed
economici, sia gli effetti degli aspetti che vanno al di là della volontà del
soggetto. La spiegazione strutturalista, infatti, conferma il fatto che le
disuguaglianze di salute non sono dovute a differenze biologiche o
variabilità individuali, ma sono prodotte dall’organizzazione stessa della
società, sono quindi svantaggi socialmente strutturati.
Coloro che sostengono l’approccio “neo – materialista”, il cui massimo
esponente è John Lynch, dell’Università del Michigan (Lynch et al.,
2000), affermano che le disuguaglianze nel reddito si associano a
disuguaglianze nelle altre sfere della vita, sia a livello individuale che di
popolazione, che hanno ricadute sullo stato di salute. Quindi, secondo
tale approccio il perno di tutto è il reddito assoluto. Il reddito diventa un
indicatore generale dello stato di ogni persona, in quanto chi ha un
reddito basso avrà anche meno opportunità, meno istruzione, abiterà in
case più disagiate.
Gli effetti sulla salute delle ineguaglianze nel reddito sono la
conseguenza di una combinazione di esposizioni negative e della
mancanza di risorse economiche individuali, associate a un sistematico
scarso investimento in una serie di infrastrutture umane, fisiche,
sanitarie e sociali. Le differenze nella distribuzione del reddito hanno
origine da processi storici, culturali e politico – economici, che
influenzano la disponibilità di risorse private per gli individui e la
disponibilità di risorse per le infrastrutture pubbliche: educazione, servizi
sanitari, trasporti, ambiente. Le differenze nel reddito non sono altro che
l’esteriorizzazione di condizioni “neo – materiali” che incidono sulla
salute della popolazione (vedi Fig. 3).
18
Fig. 3. Interpretazione neo-materialista delle disuguaglianze
di salute nel reddito e nella salute
Fonte: Lynch, 2000.
L’interpretazione materiale delle disuguaglianze di salute mette in
risalto la relazione scalare tra posizione socioeconomica e l’accesso a
condizioni materiali tangibili, sia quelle fondamentali come il cibo, una
casa e l’accesso ai servizi, sia di altro tipo legate più allo status, come il
possesso di un’auto, l’accesso ai servizi telefonici e ad internet e così via
(Coburn, 2000). Reddito alto vuol dire conoscenza, denaro, potere e
prestigio, che possono essere utilizzati in differenti modi, anche per
evitare i rischi e le conseguenze della malattia (Link, Phelan, 2000).
Quindi chi possiede queste risorse è in grado di proteggersi meglio.
Il reddito diventa fondamentale, ed è essenziale, per poter scegliere
una buona zona di residenza, la mancanza di soldi o un reddito basso
può portare a vivere in case umide, sovraffollate, in zone industriali,
particolarmente inquinate.
19
L’altra
teoria,
sostenuta
principalmente
dall’inglese
Richard
G.
Wilkinson (1992), dell’University of Sussex, Brighton, definita “psico –
sociale” considera, oltre alle disuguaglianze economiche, le relazioni
sociali e il loro forte impatto sul benessere psico-sociale, tanto da poter
spiegare il quadro di salute della popolazione nei paesi più ricchi. Per
tale approccio, il problema non è più il reddito assoluto, ma il modo in
cui le persone si collocano nel contesto sociale. Viene suggerita l’ipotesi
che la variabile reddito non è di per sé sufficiente per spiegare e
misurare le disuguaglianze nella salute, ma che occorre prendere in
considerazione anche altre variabili che tengano conto del contesto socio
– relazionale di appartenenza (Marmot, Wilkinson, 2001).
Per l’approccio psicosociale la causa delle disuguaglianze di salute è
da ricercarsi negli effetti diretti e indiretti provocati dallo stress che
scaturisce dall’essere inferiore nella gerarchia socio-economica o dal
vivere in condizioni di relativo svantaggio socio-economico. Inoltre, lo
stress può anche influenzare indirettamente la salute, spingendo verso
comportamenti rischiosi tipo il fumo e l’alcool, come surrogati per
alleviare i problemi quotidiani.
Essere collocati nelle posizioni inferiori nella gerarchia sociale può
portare ad un insieme di emozioni negative, come la vergogna e la
disistima, che si possono tradurre in stati di salute precari. Il consumo di
beni materiali, oltre ad essere essenziale per i bisogni primari, appaga
gli individui sul piano sociale e simbolico (Marmot, 2004; Elstad, 1998).
La caratteristiche psicosociali di molti lavori manuali sono rilevanti.
Spesso i ritmi di lavoro sono imposti dalle macchine, la retribuzione è a
cottimo, le mansioni sono ripetitive e monotone, senza possibilità di
gestione autonoma, sotto stretta sorveglianza, tutto ciò porta ad un
aumento della produzione di ormoni dello stress come l’adrenalina e la
noradrenalina, legati ad un maggior rischio di sviluppare malattie
cardiache e coronariche.
Gli approcci appena spiegati non sono mutualmente esclusivi e non è
possibile districare gli effetti dell’uno o dell’altro.
Infine, un’ultima ipotesi è la tesi di David Coburn dell’Università di
Toronto (2000), secondo cui la causa di tutto è da attribuirsi al neo –
20
liberismo. Infatti, il neo-liberismo, cioè la liberalizzazione dei mercati e
della competizione, ha creato maggiori disuguaglianze di reddito e una
più bassa coesione sociale che ha portato ad uno stato di salute della
popolazione più basso di quello che ci si potrebbe attendere. La filosofia
del neo-liberismo è una società orientata al mercato: economia, stato,
società civile sono di fatto inestricabilmente interrelati (Coburn, 2000).
Secondo i neo-liberali le disuguaglianze sono inevitabili e sono il
necessario sotto-prodotto del buon funzionamento dell’economia e
rispondono al principio secondo cui “se qualcuno entra nel mercato,
qualcun
altro
ne
deve
uscire”.
Oggi,
con
la
diffusione
della
globalizzazione sempre più economie in tutto il mondo si sono votate al
neo-liberismo, con politiche di commercio globale, strategie di crescita
economica che trascurano la lotta alla povertà, rischi occupazionali e
perdita di coesione sociale, che sempre più si associano a rapide e
crescenti ineguaglianze. Da qui l’ineluttabile affermazione di Coburn:
“quanto più un regime è neo-liberale e orientato al mercato, tanto più
grandi sono le ineguaglianze nel reddito. Quanto più una società è
orientata verso il mercato, tanto maggiore è la frammentazione sociale e
minori
sono
la
fiducia
e
la
coesione
sociale”.
Tutto
ciò
porta,
direttamente o indirettamente, ad un peggiore stato di salute della
popolazione.
La tesi di Coburn dimostra quanto i concetti della scienza politica e
della filosofia economica possano essere utili per comprendere la
complessità delle differenze nella condizione socio-economica e nella
salute (Tarlov, 2000).
Attualmente,
quindi, non
è
possibile
dare
una
risposta
certa
sull’origine delle disuguaglianze di salute e il dibattito è ancora
particolarmente vivo ed intenso (Della Bella, 2008; Lynch, Smith, 2002;
Lynch et al., 2000).
È certo però che le disuguaglianze sociali nella salute sono il risultato
di una catena di cause che trova la sua origine nella struttura di base
della società (Acheson et al., 1998).
Lo sviluppo futuro dell’analisi delle disuguaglianze di salute avrà
bisogno di contributi specifici di specialisti di varie discipline, dalla
21
medicina, alla psicologia sociale, all’epidemiologia e alla sociologia. Gli
studiosi di tale argomento devono poter inserire le loro ipotesi in un
quadro di riferimento macro – teorico, in cui poter inserire sia le
strutture sociali, sia le azioni individuali.
Per comprendere realmente da dove le disuguaglianze di salute
hanno origine bisogna studiare come i diversi fattori siano compresenti
ed interagenti nel corso di tutta la vita, attraverso gli studi longitudinali.
Tali studi permettono di seguire il soggetto per diversi anni,
raccogliendo così maggiori informazioni ed in modo più accurato, ma
soprattutto si è in grado di avere informazioni sulla fasi intermedie, cioè
prima della comparsa della malattia e dopo. Inoltre, con gli studi
longitudinali è possibile confrontare lo stato di salute di uno stesso
soggetto in differenti momenti e confrontare i cambiamenti nella sua
condizione socioeconomica.
Abbiamo ben evidenziato l’importanza del reddito. In merito a ciò,
uno studio di Kawachi e colleghi (1997) sottolinea l’importanza del
capitale sociale, dimostrando che in quei stati in cui vi erano forti
disuguaglianze economiche e bassa coesione sociale, si avevano tassi di
mortalità più elevati rispetto agli stati in cui, vi erano comunque grosse
differenze economiche tra gli strati sociali, ma una forte coesione
sociale. Quindi, ciò a cui giunge Kawachi è che la fiducia sociale ha
effetti curativi e preventivi sui tassi di mortalità.
Negli ultimi dieci anni le ricerche sulla povertà sono notevolmente
aumentate ed è stato ampliato il concetto: esclusione sociale, nuove
povertà, povertà relativa, povertà assoluta, povertà oziosa, povertà
operosa,
fragilità,
vulnerabilità.
Questi
nuovi
concetti
si
basano
sull’assunto che la povertà non è una questione esclusivamente
economica, di basso reddito.
Un ultima precisazione va fatta sulla distinzione tra povertà assoluta e
povertà relativa.
La povertà assoluta segna il livello di reddito al di sotto del quale non
è possibile condurre una vita accettabile e non si è in grado di soddisfare
i bisogni primari fondamentali. Negli Stati Uniti, uno dei Paesi più ricchi
22
al mondo, circa l’11% delle famiglie vive al di sotto della soglia ufficiale
di povertà.
La povertà relativa è riferita all’intera comunità in cui si vive. La
deprivazione relativa si esprime nell’esperienza soggettiva del disagio di
chi non può vivere nello standard degli altri, pur non vivendo in
condizioni di povertà assoluta.
Nonostante tutta l’importanza data in questa trattazione al ruolo del
reddito e della posizione economica non va dimenticato che anche
l’ambiente psico - sociale influenza la salute attraverso percorsi che
colpiscono le emozioni sociali, le conoscenze e le motivazioni.
Come sottolinea Sen (1992), la disuguaglianza riguarda non la
distribuzione dei mezzi quanto l’esistenza di differenziazioni nelle
capacità. Un deficit di capacità può dipendere infatti dalla scarsità di
mezzi, ma anche dalla difficoltà di convertire i mezzi disponibili in
capacità.
Dare una spiegazione delle disuguaglianze di salute univoca è
impossibile perché le variabili intercorrelate sono troppe (Marmot,
Bobak, Davey Smith, 1994). Quello che è certo è che il gradiente sociale
nella salute testimonia l’esistenza di fattori quali quelli economici, sociali
e ambientali che hanno un grosso ruolo nelle differenze di salute e che,
purtroppo, solo marginalmente possono essere modificati dal singolo
individuo.
La progettazione di politiche tese a contrastare le disuguaglianze di
salute non può essere disgiunta dalla definizione esplicita dei criteri che
consentono di valutarne l’efficacia e dalla congiunta progettazione di un
protocollo di valutazione.
L’Acheson Report (1998) ha individuato 11 aree, nelle quali sarebbe
necessario un intervento pubblico per ridurre le disuguaglianze di salute:
1. povertà, reddito, tassazione;
2. educazione;
3. occupazione;
4. abitazione ed ambiente;
23
5. mobilità, trasporti, inquinamento;
6. nutrizione e politiche agricole;
7. madri, bambini, famiglie;
8. giovani ed adulti in età da lavoro;
9. anziani;
10. differenze etniche;
11. differenze di genere.
Per ridurre le disuguaglianze di salute sono, quindi, necessarie
politiche volte a migliorare i determinanti di salute in generale, come le
campagne antifumo e contro gli stili di vita a rischio, ma anche a
livellare la distribuzione dei principali determinanti di salute (reddito,
istruzione, servizi sanitari…), per renderli più accessibili alle persone
svantaggiate.
Maggiore uguaglianza ed equità saranno raggiunte solo migliorando la
salute dei gruppi più poveri.
Stabiliti quali possono essere le cause generatrici delle disuguaglianze
di salute, l’attenzione degli studiosi si è concentrata sulle strategie di
riduzione. Costa (2008) (vedi Fig. 4) ha proposto uno schema esplicativo
a tal fine. Nel suo schema Costa dà alla posizione sociale un ruolo
centrale quale fattore causale fondamentale. A seconda della posizione
occupata si avrà un certo controllo sulle risorse materiali. Gli interventi
di contrasto dovrebbero puntare a ridurre la stratificazione sociale
attraverso politiche integrate, volte a favorire l’occupazione, ridurre la
disoccupazione e aumentare la lotta alla povertà.
Viene poi l’analisi dell’esposizione ai fattori di rischio: si parla di
fattori quali quelli psico-sociali, comportamentali, ambientali e di
accesso ai servizi. In questo caso, gli interventi di contrasto dovrebbero
essere orientati a diminuire l’esposizione a tali fattori con campagne di
informazione e di educazione, interventi di riqualificazione urbanistica e
di sostegno abitativo.
24
La
vulnerabilità
al
danno,
quale
conseguenza
della
maggiore
esposizione ai fattori di rischio, è particolarmente presente nei gruppi
svantaggiati. Gli interventi di contrasto dovrebbero cercare di prevenire,
o almeno, moderare la vulnerabilità dei soggetti, soprattutto con
interventi sociali integrati per favorirne l’inclusione.
Infine, Costa analizza il livello delle conseguenze dei danni subiti, che
si trascina nella scarsa disponibilità di risorse. In questo caso gli
interventi sono volti ad interrompere il circolo vizioso della povertà.
Fig. 4. Meccanismi generatrici delle disuguaglianze di salute
Fonte: Costa, 2008.
25
È quindi ovvio che per combattere le disuguaglianze di salute sono
necessarie politiche attuative mirate, purtroppo secondo David Stuckler
(2010) dell’Università di Oxford, i tagli alla spesa sanitaria decisi in
tempo di crisi dalla maggior parte dei Paesi europei per ridurre il deficit,
si traducono in un aumento del rischio di morte per cause legate a
malattie collegate a questioni sociali, come cardiopatie e patologie da
abuso di alcolici. La spesa in campo sanitario è quanto mai importante
per il benessere e la stessa sopravvivenza della popolazione.
1.2.
Determinanti sociali di salute
Per comprendere le cause delle differenze di salute è necessario fare
il focus sui determinanti sociali di salute.
La salute di ogni individuo è influenzata da molteplici fattori, alcuni
dei quali non possono essere modificati, né dalla volontà delle persone,
né da adeguate politiche sanitarie, su altri si può intervenire.
I determinanti dello stato di salute includono il luogo dove si vive, le
condizioni dell’ambiente che si frequenta, il patrimonio genetico, il
reddito e il livello di istruzione, così come le relazioni sociali con amici e
familiari hanno un impatto considerevole sullo stato di salute; mentre
l’accesso ai servizi sanitari, pur essendo fondamentale per alcune
patologie,
ha
comunque
un
impatto
minore
rispetto
ai
fattori
sopraelencati (Mackenbach et al. 1988; Whitehead, Dahlgren, 2007).
I determinanti della salute possono essere raggruppati sotto diverse
categorie: comportamenti e stili di vita; fattori sociali; condizioni di vita
e di lavoro; accesso ai servizi sanitari; condizioni generali socioeconomiche, culturali e ambientali; fattori genetici.
La semplice enumerazione di tali fattori non basta a spiegarne la
complessità e soprattutto il ruolo che ognuno può avere negli esiti di
salute, a tal proposito sono stati sviluppati più modelli concettuali.
26
Il modello più noto, e che meglio rappresenta graficamente le
priorità, quindi in un modo facilmente individuabile, è quello proposto da
Dahlgren
e Whitehead
(1993), costituito da
una
serie di
strati
concentrici che rappresentano i differenti livelli di influenza (ved. Fig. 5).
L’individuo viene collocato al centro di questo schema insieme alle
sue caratteristiche biologiche, quali il sesso, l’età, il patrimonio genetico
e i fattori costituzionali. Lo strato successivo è costituito dallo stile di
vita, ci riferiamo quindi a fattori quali l’abitudine al fumo, l’abuso di
alcool, l’alimentazione, i comportamenti sessuali e l’attività fisica.
A seguire si collocano le reti con cui l’individuo interagisce, cioè i
familiari, gli amici e la comunità circostante. La qualità delle relazioni
sociali influenza la qualità della vita e di conseguenza la salute
attraverso meccanismi psicologici, come la depressione e l’ansia o
condizioni materiali sfavorevoli, come l’assenza di una rete di supporto
familiare (Comodo, Maciocco, 2006).
Il quarto livello riguarda l’ambiente di vita o di lavoro nel quale
l’individuo vive, che si caratterizza per le condizioni ambientali del posto
di lavoro, il reddito percepito, le condizioni igieniche e la qualità
dell’acqua, la qualità dei servizi sanitari e le condizioni dell’abitazione.
Infine, lo strato più esterno è quello delle condizioni generali esterne,
quali le condizioni socio – economiche – culturali e politiche della
comunità.
Le caratteristiche biologiche sono determinanti immodificabili, mentre
tutti gli altri fattori possono essere modificati.
Il destino di salute di una persona è così determinato da una
molteplicità di fattori e situazioni, alcune richiamano in causa la
responsabilità
comportamenti
individuale
e
salutari,
altre
familiare
le
nell’attuare
responsabilità
dei
e
trasmettere
governi
e
la
responsabilità di soggetti sovranazionali.
Abbiamo descritto i vari fattori, non è però possibile individuarne uno
unico che abbia un ruolo dominante nel condizionare lo stato di salute di
una persona, sono tutti interrelati. Ad esempio, gli stili di vita sono
fortemente influenzati dal contesto familiare e sociale, che è a sua volta
27
influenzato dalle condizioni di vita e di lavoro, che a loro volta sono
condizionate dal contesto socioeconomico, culturale e ambientale.
Il modello proposto da Dahlgren e Whitehead rivela una gerarchia di
valori tra i diversi determinanti di salute, dove i semicerchi più esterni
quelli
che rappresentano il contesto, sono quelli
che influiscono
maggiormente sullo stato di salute.
Fig. 5. I determinanti della salute
Fonte: Dahlgren and Whitehead, 1991.
I fattori che influiscono sulla salute possono essere divisi in fattori
positivi - protettivi e in fattori di rischio.
I fattori positivi contribuiscono a mantenere la persona in buona
salute e riguardano condizioni adeguate dell’abitazione, la qualità degli
alimenti consumati, la sicurezza economica, oltre alla qualità delle
relazioni sociali.
I fattori di rischio sono quelli, invece, che causano problemi di salute
e provocano malattie, che potrebbero essere eventualmente evitabili.
28
Questi includono oltre ai comportamenti e agli stili di vita, altre cause
legate all’ambiente, per esempio la salute nei posti di lavoro o le zone
con problemi di smaltimento dei rifiuti.
Un altro modello, che stila una vera e propria classifica di valori, è
quello proposto dal “Centers for disease control and prevention” di
Atlanta (USA) (ved. Fig. 6). Secondo tale modello lo stato di salute delle
persone è condizionato per il 50% dai loro comportamenti e dallo stile di
vita. Un ruolo minore è invece rivestito dagli altri fattori: 20% i fattori
ambientali; 20% i fattori genetici e solo per il 10% l’assistenza sanitaria.
Il ruolo centrale è dato agli stili di vita delle persone e rispecchia l’enfasi
che negli Stati Uniti viene data alla responsabilità individuale nei
confronti della salute e delle malattie.
Fig. 6. L’influenza dei determinanti sulla salute
Fonte: Centers for disease control and prevention
29
Riconoscendo il ruolo dominante dei determinanti di salute, l’OMS nel
2005 ha creato un’apposita Commissione “Commission on Social
Determinants of Health” con la missione di legare le conoscenze alle
azioni. La Commissione, costituita da 20 membri tra accademici, ex
Ministri della Salute, premi Nobel ed ex Capi di Stato, impiegò tre anni
per redigere il rapporto finale “Closing the gap in a generation: Health
equity through action on the social determinants of health”, nel quale
veniva ribadito con forza che tutti i governi devono intervenire sui
determinanti sociali di salute al fine di eliminare o almeno ridurre le
disuguaglianze di salute.
Nel rapporto finale della Commissione viene proposto un nuovo
modello concettuale dei
determinanti di
salute. Il modello è la
rielaborazione del modello proposto da Finn Diderichsen.
Il modello proposto dall’OMS (vedi Fig. 7) parte dal considerare anche
i fattori coinvolti nella diseguale distribuzione della salute all’interno di
una Nazione.
Quindi, i fattori che hanno un impatto sulla salute sono: il contesto
politico e socioeconomico; la posizione socioeconomica; le condizioni di
vita e di lavoro; i fattori psicosociali; i comportamenti individuali; i
fattori biologici e il sistema sanitario.
Il contesto socioeconomico e politico comprende tutti gli aspetti
strutturali del sistema sociale. Ovviamente, essendo un aspetto così
ampio è impossibile quantificare la reale portata sulla salute del singolo,
è però scontato che esercita una forte influenza su come la società
distribuisce le risorse e di conseguenza sulle opportunità di salute.
Gli elementi che caratterizzano il contesto socioeconomico e politico
sono:
− Governance. Il termine si riferisce alla responsabilità e alla
trasparenza delle politiche e della pubblica amministrazione,
sono i processi attraverso i quali i cittadini possono difendere i
loro diritti;
30
− Politiche sociali. Includono le politiche del lavoro e le politiche di
Welfare State, sulla sanità, la previdenza e l’educazione. Lo
Stato ha un ruolo chiave nella protezione dei cittadini;
− Politiche macroeconomiche. Quest’aspetto rispecchia gli effetti
della globalizzazione e quindi la ridistribuzione della ricchezza
all’interno delle nazioni; inoltre, le politiche macroeconomiche di
orientamento liberista hanno indebolito le reti di protezione
sociale, colpendo anche la sanità;
− Valori culturali e sociali. Essi si riflettono nelle priorità del
governo, ma rispecchiano anche il modo in cui una società
tratta il finanziamento dei servizi sanitari.
Per quanto riguarda la posizione socioeconomica, in ogni società le
risorse sono distribuite in modo ineguale. Il sistema di stratificazione
sociale,
presente
in
quasi
tutte
le
società,
è
evidente
nelle
disuguaglianze, che si strutturano attraverso la presenza di alcune
variabili: reddito, istruzione, occupazione, classe sociale, genere.
Del
reddito
abbiamo
già
ampiamente
parlato,
ed
insieme
all’educazione rappresenta una forte associazione con la salute.
Anche l’occupazione riveste un ruolo forte perché aiuta a collocare le
persone nella scala sociale ed indica l’esposizione a specifici rischi
occupazionali.
La classe sociale è un altro aspetto ampiamente analizzato. L’ipotesi
di fondo è che i membri delle classi sociali alte spendono meno energia e
sforzo e ottengono di più, in termini di stipendio, promozioni, sicurezza
del lavoro, mentre gli appartenenti alle classi sociali basse ottengono
meno ma fanno maggiori sforzi. Quindi, i meno potenti sono a maggiore
rischio di esaurire le loro riserve di “energie” e di sviluppare un deficit di
salute fisico e psicologico.
Un
altro
aspetto
l’appartenenza
al
da
considerare
genere
femminile
è
il
può
genere,
portare
in
particolare
ad
ulteriori
discriminazioni o svantaggi. Così come l’appartenere ad una minoranza
etnica.
31
Il contesto politico e socioeconomico insieme alla posizione sociale
costituiscono i determinanti strutturali. Sono definiti strutturali in quanto
generano
la
stratificazione
sociale
e
definiscono
la
posizione
socioeconomica degli individui attraverso le gerarchie di potere, prestigio
e accesso alle risorse.
Dopo di essi si collocano i determinanti intermedi di salute, costituiti
dalle condizioni di vita e di lavoro, fattori psicosociali, coesione sociale,
comportamenti individuali e fattori biologici, sistema sanitario.
− Condizioni
materiali.
Rappresentano
il
più
importante
determinante intermedio e riguardano gli standard materiali
della vita quotidiana, quali salubrità dell’abitazione, disponibilità
di acqua potabile e cibo sano, disponibilità di servizi igienici e
riscaldamento;
− Coesione sociale. Si manifesta nella qualità delle relazioni sociali
e nell’esistenza della condivisione di valori e doveri all’interno
della comunità;
− Condizioni psicosociali e ambientali. Lo stress cronico, come già
detto
può
essere
causa
di
diverse
malattie,
legate
alle
precarietà della situazione finanziaria o all’incertezza della
condizione lavorativa. Lo stress inoltre, può manifestarsi a
seguito di episodi di violenza;
− Comportamenti
individuali.
Questa
categoria
è
facilmente
comprensibile e il ruolo nell’influenzare la salute è ben noto,
andiamo dall’uso di fumo e alcool alla mancanza di attività
fisica;
− Fattori biologici. Sono ovviamente il patrimonio genetico, l’età e
il sesso.
Il modello concettuale che qui stiamo presentando, proposto dalla
Commissione sui determinanti di salute dell’OMS, individua nel sistema
sanitario un fondamentale determinante sociale di salute e di equità. Il
compito del sistema sanitario è di intervenire con azioni di prevenzione
primaria e di igiene ambientale, ridurre la vulnerabilità nei confronti
32
delle malattie attraverso le campagne di vaccinazione, curare e
riabilitare i problemi di salute che rappresentano il gap socioeconomico
del carico di malattia, proteggere contro le conseguenze sociali ed
economiche della malattia attraverso la copertura assicurativa sanitaria.
Fig. 7. Quadro concettuale dei determinanti di salute secondo la
CSDH
Fonte: Commission on Social Determinants of Health, 2008.
Il modello va letto da sinistra a destra, con continui feedback in senso
inverso. Per esempio, l’ammalarsi ha ripercussioni sulla posizione
sociale, in quanto può compromettere il lavoro e può ridurre il reddito; a
livello comunitario, certe malattie, soprattutto quelle epidemiche,
producono gravi danni alle istituzioni sociali, economiche e politiche.
La Commissione alla fine del suo mandato ha messo in atto azioni
concrete in diversi Paesi del mondo, dai ricchi Canada, Svezia, Regno
Unito ai paesi poveri come Kenia, Iran, Mozambico, Cile e Sri Lanka, che
33
si sono impegnati a far progredire l’equità sanitaria e attuare politiche in
merito.
Nel Report finale “Closing the gap in a generation” pubblicato nel
luglio del 2008, la CSDH propose una serie di azioni e raccomandazioni
per sconfiggere le disuguaglianze di salute (vedi Fig. 8).
Fig.
8.
Le
aree
di
azione
e
di
raccomandazioni
della
Commissione
Fonte: Commission on Social Determinants of Health, 2008.
Nell’introduzione al Report, Michael Marmot, chair della Commissione,
scriveva che il principale obiettivo contro le disuguaglianze è di
convincere i politici ad usare gli indicatori di salute come misure del
benessere economico. Infatti, la salute rappresenta la misura di come
una popolazione sta beneficiando dei risultati delle politiche economiche.
Politiche appropriate possono ridurre l’ampiezza delle disuguaglianze
ma
è
necessario
anche
intervenire
sui
fattori
ambientali
e
comportamentali che le generano.
34
1.3.
La relazione tra sociologia e medicina
La relazione tra la sociologia e la medicina è una relazione di vecchia
data, soprattutto dal punto di vista della sociologia. Infatti, all’origine la
sociologia fu definita metaforicamente “medicina” del corpo sociale
malato a causa dei contraccolpi subiti dalla transizione alla modernità
(Bucchi, Neresini, 2001). E fu, invece, un medico, Virchow a formulare il
concetto che la “medicina è una scienza sociale”, per indicare che anche
in questa disciplina vi erano forti aspetti sociali.
Una relazione che in alcuni casi porta a sovrapposizioni disciplinari, in
particolare tra la medicina sociale e la sociologia medica.
La sociologia medica studia le condizioni sociali che favoriscono lo
stato di salute e che si presentano nelle fasi di insorgenza, decorso e
superamento della malattia, analizza l’andamento della malattia e i
fattori che influenzano le reazioni del paziente; la medicina sociale ha
introdotto i fattori sociali nei modelli del pensiero medico. Risulta,
quindi, impossibile una distinzione netta.
Mentre la medicina si occupa di corpi malati, la sociologia diventa la
scienza del corpo sociale.
Un altro aspetto da considerare è il ruolo assunto dalla medicina
sociale e dall’igiene nel creare il contesto nel quale sarebbero nate le
scienze sociali.
I concetti della sociologia possono aiutare la medicina a comprendere
la struttura socioeconomica della società e le tendenze di sviluppo delle
istituzioni mediche. Tutto ciò aiuterà il medico nel suo operato
professionale. Inoltre, la sociologia aiuta a spiegare il significato delle
costrizioni sociali alle quali il paziente è esposto durante la sua malattia.
La sociologia applicata alla medicina riguarda specificatamente quegli
aspetti che influenzano le esperienze di salute e malattia negli individui
e le risposte date a ciò dai medici, infermieri e politici.
Il tema delle relazioni medico – sociali è diventato di rilevanza
pregnante dalla metà degli anni Settanta con l’animarsi del dibattito di
natura politico – sanitaria.
35
La sociologia, o almeno quella medica, utilizza i propri schemi,
concetti e metodi scientifico – sociali per lo studio della genesi, del
riconoscimento e della prevenzione delle malattie, per l’analisi delle
relazioni medico – pazienti e tra gruppi di popolazioni.
La malattia è un fatto tipico della vita umana che si verifica in tutte le
società e proprio per questo tutte le società si sono organizzate con una
serie di credenze e saperi, coerenti con la propria cultura, per
fronteggiarla (Wellin, 1977).
È dalla metà del XX secolo che la medicina inizia ad accettare un
nuovo modello di malattie: si passa dalle malattie infettive ad un nuovo
gruppo di malattie. Il cambiamento essenziale è nella loro genesi, non
più solo di tipo biologico, e nella nuova importanza data alle malattie
psichiche e psicosomatiche. Si ricorda, ad esempio, lo sviluppo della
psicoanalisi.
Per
la
società
la
malattia
è
una
condizione
problematica,
potenzialmente pericolosa, che può avere anche costi economici e sociali
elevati, collegati al mancato svolgimento delle attività lavorative,
familiari e sociali.
A tal fine, ogni società ha elaborato una serie di aspettative specifiche
rispetto a come la persona malata deve comportarsi, affinché riduca i
rischi provocati dalla sua stessa malattia.
Le cure vengono anch’esse attuate attraverso una serie di pratiche
socialmente costruite.
La sociologia, quindi, studia i comportamenti che si attuano nei
confronti della salute, i fattori sociali che favoriscono lo sviluppo delle
malattie e le conseguenze sociali derivanti dalla malattia.
Inoltre, l’attenzione della sociologia si è indirizzata verso tutti quei
fattori correlati alla salute, ma ignorati dalla scienza biomedica. In
particolare, si tratta di dare importanza ai fattori sociali che fanno parte
dell’esperienza della malattia.
La maggiore importanza data alla sociologia e agli aspetti medico
sociali può essere fatta ascrivere anche alla crisi che ha colpito il modello
biomedico, dalla metà degli anni Settanta.
36
Sempre in questo periodo, il modo di pensare del sociologo inizia ad
essere rivolto a problematizzare il modello comportamentale del medico
(Siegrist, 1979), cioè a minare il potere della classe medica. Quindi, tra
medicina
e
sociologia
si
creano
contrapposizioni
strutturali
che
coinvolgono anche aspetti del dibattito politico sanitario.
La
sociologia
della
salute
in
particolare,
si
è
interessata
al
collegamento con la medicina, elaborando anche dei paradigmi per
analizzare la relazione tra malattia e società.
Storicamente, il primo approccio della sociologia alla medicina è
definito strutturalfunzionalista. Si tratta di una concezione legata al
paradigma biomedico, dove la malattia è considerata ancora solo
esclusivamente nella sua forma organica. Il collegamento si trova nel
fatto che la salute è vista come la capacità del soggetto di assolvere ai
suoi ruoli sociali, mentre la malattia rende incapaci di svolgere
efficacemente i ruoli sociali. La malattia è vista in modo disfunzionale
(Parsons, 1951).
C’è poi tutto il filone che analizza la produzione sociale della malattia
che, abbandona l’approccio biomedico e dirige l’attenzione verso il
contesto. La malattia è considerata quale prodotto delle relazioni sociali,
politiche, economiche ed ideologiche e rispecchia un determinato
contesto storico.
Un altro approccio riguarda la critica culturale alla medicina. Questo
rappresenta le critiche rivolte al sapere biomedico, cioè alla sua pretesa
di scientificità assoluta. La biomedicina comincia a perdere la sua aurea
di superiorità scientifica. Anche in questo caso ci si indirizza verso la
salute
–
malattia
considerandoli
quali
prodotti
storicamente
e
socialmente determinati.
Un altro paradigma sociologico è quello proposto da Luhmann (1990),
definito sistemico – cibernetico, che divide i sistemi biologici da quelli
psichici. Secondo quest’approccio, quindi, il discorso sulla salute e sulla
malattia torna ad essere incentrato sulla medicina come sistema
istituzionalizzato delle società funzionalmente differenziate. Si torna a
ricollegare le persone nel loro ambiente, lasciando il discorso sulla
malattia ai referenti istituzionali – professionali.
37
Alla medicina, soprattutto al modello biomedico, sono state mosse
anche molte critiche. La maggiore e più famosa è quella di Ivan Illich
(1976), nel suo celebre “Nemesi medica. L’espropriazione della salute”.
Illich si concentra sugli effetti collaterali della medicina, della diagnosi e
della terapia, chiamandola appunto iatrogenesi; si mette in discussione
l’istituzione medica, considerata intoccabile.
Il sistema di tutela della salute può diventare patogeno quando
produce un danno clinico che va oltre i suoi potenziali benefici; favorisce
le condizioni politiche che rendono malsana la società; tende a
mistificare e ad espropriare il potere dell’individuo di guarire se stesso
(Illich, 1976).
Esistono diversi tipi di iatrogenesi. La iatrogenesi clinica è riferita ai
danni provocati dai medici e dagli ospedali. L’efficacia delle terapie
biomediche è sempre più un problema degno di essere esaminato con
occhio critico e che spesso si traduce in vere e proprie malpractice, che
possono essere anche mortali.
Un altro tipo di iatrogenesi è quella sociale, intendendo con ciò la
spinta da parte della pratica medica verso un eccessivo consumo di
farmaci che provoca nella società un malessere generale. Questa spinta
verso i medicinali non ha ripercussioni solo sulle persone, ma su tutti gli
aspetti della società, portando ad una medicalizzazione della vita. Con la
medicalizzazione di sfere sempre più ampie della vita, si tende a
diventare sempre più inermi di fronte alla dipendenza terapeutica.
Infine, la iatrogenesi culturale, avviene quando la medicina impone
un determinato modello di salute e di malattia, per cui il paziente perde
la propria potenziale capacità di far fronte alla sua vulnerabilità e di
reagire alla sofferenza.
Ovviamente questa è solo una sommaria e ristretta presentazione dei
molti modi e paradigmi con i quali la sociologia si collega alla medicina,
e nei quali gli interessi di una disciplina entrano nell’orbita dell’altra.
Un segnale positivo, verso una maggiore integrazione di queste due
discipline, arriva dall’inserimento dell’insegnamento della sociologia e
della sociologia della salute, nella formazione medica e delle professioni
sanitarie, in sempre più facoltà. Le teorie, i concetti e i metodi sviluppati
38
dai sociologi possono illuminare alcuni aspetti più umani dell’esperienza
della malattia. L’insegnamento della sociologia, e delle scienze sociali,
sviluppa negli studenti di medicina una maggiore attenzione verso le
ferite intime, la disperazione, la speranza, l’afflizione e il dolore morale
che spesso accompagnano la malattia.
1.4.
Approccio sociologico ed approccio epidemiologico
Il tema delle disuguaglianze di salute è argomento di interesse sia
della sociologia che dell’epidemiologia, tanto che, in non pochi casi, è
difficile distinguere le scelte metodologiche di una disciplina rispetto
all’altra (Sarti, 2006).
Nella pratica, però, possiamo dire che gli epidemiologi sono più
concentrati a ricercare le cause delle malattie a livello biologico,
ambientale e sociale (Vineis, 1990). Gli studi degli epidemiologi sono
studi che cercano di identificare le cause prossime della morbosità e
della mortalità, senza escludere tra le cause possibili quelle derivate
dalle differenze di status socioeconomico.
Dal punto di vista sociologico, l’attenzione è rivolta non tanto
all’individuazione delle condizioni che possono generare una patologia,
ma piuttosto ricondurre le disuguaglianze di salute a quelle sociali. Il
sociologo non ricerca una spiegazione in senso predittivo degli stati di
salute, ma cerca di dimostrare l’incidenza dell’ineguale distribuzione di
risorse materiali e simboliche sulla salute e di comprenderne le relazioni
in termini generali (Sarti, 2006).
Gli studi sociologici cercano di comprendere perché nonostante le
tante politiche a favore dell’equità ed i buoni propositi persistano le
disuguaglianze di salute.
I sociologi, infine, si differenziano, per una preferenza verso la
spiegazione strutturalista. Tale approccio prende in considerazione
l’ipotesi che i soggetti che occupano diverse posizioni sociali sono esposti
a varie influenze fisiche, come cattive condizioni abitative, lavori
39
pericolosi e precari, e psicologiche, come le preoccupazioni finanziarie o
un eccessivo carico di lavoro, tali fattori sono ormai ampiamente
riconosciuti come importanti fattori eziologici per una molteplicità di
patologie (Lucchini, Tognetti Bordogna, 2010).
Nonostante qualche discordanza, nella pratica, gli obiettivi dei
sociologi e quelli degli epidemiologi tendono a convergere e spesso a
confondersi nei campi di interesse.
L’apertura della ricerca epidemiologica ai fattori sociali getta le basi
per una feconda collaborazione con la sociologia, verso un approccio
articolato ed
integrato. Dal
punto di
vista
dell’epidemiologia, la
questione centrale dovrebbe essere non la differenza tra le spiegazioni
materiali
e non
materiali, ma
la
distinzione tra
riduzionismo e
stratificazione. Dal punto di vista della sociologia, l’obiettivo dovrebbe
essere quello di trasformare i concetti sociali in misure empiriche adatte
all’analisi statistica. In questo modo le due discipline possono contribuire
allo sviluppo di un nuovo paradigma, in grado di sostenere la ricerca
teorica ed empirica (Pratschke, 2006).
Sociologicamente, il tema delle disuguaglianze di salute si collega alle
disuguaglianze sociali. Il pensiero sociologico si focalizza in particolare
sulla stratificazione sociale che porta all’istituzione delle classi sociali e
quindi ad un diseguale accesso alle risorse ed un maggior rischio di
contrazione di malattie.
Come ben spiegato da Valkonen (1994) che ribadisce che gli studi
sulle
disuguaglianze
sociali
nella
salute
si
basano
sul
concetto
sociologico di stratificazione sociale, cioè esistono strati o classi sociali
che costituiscono una gerarchia in funzione di determinate variabili
strettamente correlate, quali la professione, il reddito, il livello di
istruzione e le condizioni economiche.
L’epidemiologia è definita come lo studio della distribuzione e dei
determinanti
di
stati
o eventi
correlati
alla
salute in
specifiche
popolazioni, e l’applicazione di questo studio al controllo dei problemi
sanitari (Last, 1995). L’epidemiologia, quindi, studia quali sono i rischi
possibili per la salute di una comunità o popolazione. Un fattore di
rischio (hazard) è una fonte di danno che può danneggiare la salute
40
umana; il rischio invece è la probabilità che il danno alla salute avvenga
(WHO, 1989).
Per ridurre i rischi è necessario individuare quali sono i fattori di
rischio, i gruppi di popolazione maggiormente esposti, il livello a cui
sono esposti, l’impatto di tali fattori sulla salute e gli approcci per ridurre
l’esposizione (ved. Fig. 9).
Fig. 9. Fasi della valutazione e della gestione del rischio
ambientale a fini sanitari
Fonte: ARPAT, 2004
La ricerca epidemiologica si occupa della distribuzione delle malattie
nello spazio e nel tempo e dei fattori che spiegano tale distribuzione.
Inizialmente l’epidemiologia si occupava di analizzare solo la diffusione
delle epidemie, in seguito ha esteso il suo campo di interesse anche alle
malattie croniche ed infettive non a carattere epidemico. Il metodo
epidemiologico consiste nell’osservare come una malattia si diffonde in
un dato territorio e in quanto tempo (epidemiologia descrittiva) e nel
formulare ipotesi sui fattori ambientali responsabili della diffusione della
malattia (epidemiologia analitica).
La metodologia epidemiologica misura e pesa i fenomeni di salute e di
malattia, identifica i fattori di rischio, quelli determinanti e quelli
protettivi, progetta interventi sperimentali ed infine ne valuta l’efficacia.
41
L’epidemiologia per descrivere l’impatto delle disuguaglianze utilizza
in prevalenza i dati di mortalità messi a confronto con le caratteristiche
socio-economiche dei soggetti presi in esame.
L’epidemiologo ha il compito di cooperare a migliorare le condizioni di
salute esistenti (Padovani, 2008).
Ai dati biomedici ed epidemiologici il sociologo, invece, aggiunge il
suo contributo specifico con l’introduzione di altre variabili di tipo sociodemografico e sociali: lo status sociale, la professione, il livello
d’istruzione e di reddito.
La
ricerca
socioeconomico
sociologica
(SES)
si
concentra
misurato
su
sul
quattro
concetto
variabili:
di
status
l’istruzione,
l’occupazione, condizioni di lavoro e status socioeconomico (Mirowsky et
al., 2000). Ognuna di queste caratteristiche viene poi associata alla
salute: dalle ricerche (ISTAT, 2007) emerge come l’istruzione, così come
l’occupazione, hanno un ruolo fondamentale. Le persone con più alti
titoli di studio godono di migliore funzionalità fisica, salute percepita,
salute mentale e minori
tassi
di
disabilità. Lo stesso vale per
l’occupazione: essere disoccupati è direttamente correlato con maggiori
tassi mortalità da malattie cardiovascolari, malattie mentali e suicidio.
1.5.
La
La malattia come fatto sociale
malattia
è
contemporaneamente
un
fenomeno
molecolare,
genetico, fisiologico, psicologico, familiare, sociale, economico e viene
studiata a ciascuno di questi livelli dalla genetica, dalla biochimica, dalla
fisiologia, dalla psicologia, dalla sociologia e dall’epidemiologia (Parodi,
2002). Il modo in cui la malattia viene gestita e curata mette in luce uno
degli aspetti più delicati dell’organizzazione di ogni società.
Salute e malattia sono definizioni sociali di modi di essere e di
comportarsi e queste definizioni derivano dalle più ampie definizioni
cognitive e normative della costruzione sociale della realtà (Berger,
Luckmann, 1969).
42
Oggi consideriamo la malattia come un’alterazione dello stato
fisiologico dell’organismo, che riduce o modifica negativamente le
funzionalità normali del corpo (Genova, 2008).
Inoltre, la malattia può essere considerato un fatto sociale, in quanto
è la deviazione da uno standard di normalità definito socialmente.
L’interesse della sociologia per i temi della salute e della malattia
nasce dalla considerazione che la salute e la malattia sono oltre che stati
fisici costruzioni sociali. L’influenza dei fattori sociali sulla salute è
ampiamente riconosciuta già da tempo ed infatti a partire dagli anni ’70
sono molti gli studi che si sono occupati degli aspetti psico-sociali capaci
di influenzare lo stato di salute. Si è iniziato a riflettere sulla malattia
come costruzione sociale, sui determinanti sociali del modello biomedico
dominante, sull’estensione del potere di controllo della medicina sugli
individui attraverso il concetto di rischio.
Un buon esempio del riconoscimento dato ai fattori sociali ed
ambientali, viene da Thomas McKeown nel suo famoso libro “The Role of
Medicine: Dream, Mirage or Nemesis?” del 1976. L’autore sostiene che
la riduzione del tasso di mortalità, cominciato intorno al 1870, è dovuta
principalmente al miglioramento delle condizioni igieniche ambientali e
alle abitudini alimentari e non al progresso della medicina, tra cui
l’introduzione degli antibiotici.
Le generali condizioni di miseria rappresentavano un pericolo per la
salute. Molte malattie insorgono in seguito all’accumularsi di molteplici
fattori tra i più disparati, per cui diventa impossibile isolare le specifiche
condizioni patogene.
I modelli culturali di una data società comprendono anche, al di là
della percezione e dell’espressione dei sintomi, ciò che è definito come
malattia in quella determinata società. In alcune società, alcuni
fenomeni che la medicina occidentale giudica patologici non sono
considerati come tali. Per esempio, magari quella che per una cultura è
una grave malattia mentale, in altre è segno di elezione, di divinazione
(Siegrist, 1979). Un altro tipico esempio sono le malattie somatiche. In
ogni società, comunque, vi è una separazione tra i sani e i malati.
43
Le società in parte creano le malattie e poi modellano il modo nel
quale debbono essere esperite (Susser et. al., 1985). È il contesto che
dà significato alla malattia, spiegandone la sua origine e le pratiche per
gestirla (Genova, 2008). I cambiamenti avvenuti nella società attuale
hanno sviluppato nuovi comportamenti verso la salute e la malattia.
Questi
cambiamenti,
purtroppo,
a
volte
spingono
verso
comportamenti non salutari come la cura maniacale dell’aspetto fisico e
le varie sindromi segnalate dalla psichiatria.
La malattia può essere interpretata in molti modi, determinati dal
contesto storico e sociale (Marino, 2003).
Le malattie, soprattutto in passato, erano causate dalla povertà, dalla
sporcizia, dalla malnutrizione e per alcune, in particolare nel caso di
epidemie, da un castigo divino. Tant’è che ogni epoca è caratterizzata da
specifiche malattie; ricostruzioni storiche hanno evidenziato che la storia
delle malattie dell’umanità è la storia dello sviluppo sociale, economico e
culturale della società.
Nel passato, malattia era sinonimo di epidemia. Nell’Europa del XVII
secolo la malattia era il male assoluto, un fatto totale che colpiva tutta la
società ed era vista come punizione divina. Malattie come la lebbra, il
colera, il vaiolo o la peste non potevano essere facilmente circoscritte,
per cui la società reagiva isolando gli ammalati e pregando per
sconfiggere la malattia.
L’Ottocento è il secolo della tisi, una malattia che colpiva in
prevalenza i ricchi e le donne, ed era vista come il mal di vivere. I
soggetti sono persone particolarmente sensibili, passionali e spirituali
(Bucchi, Neresini, 2001).
Il XX secolo si caratterizza per il cambiamento di immagine della
tubercolosi, da malattia dei ricchi a malattia dei poveri, dei lavoratori
delle fabbriche. La tbc diventa un flagello per la società, un male che
distrugge la capacità lavorativa. È una malattia associata alla miseria,
alle condizioni abitative, causata da una cattiva alimentazione, dalle
precarie condizioni igieniche e dall’ambiente delle fabbriche.
Infine, la nostra epoca, caratterizzata dalle malattie croniche degenerative, in primis il cancro. Una malattia non visibile nel corpo, e
44
quindi alla società, se non allo stadio finale. Non è più una malattia che
riguarda la collettività ma il singolo.
In tutte le società, quindi, sia in quelle moderne che in quelle antiche,
la salute ha sempre rivestito un ruolo fondamentale, in quanto è
identificata oltre che nell’assenza di malattia, nella capacità di lavorare.
L’esistenza di un gradiente sociale di mortalità e morbilità indica le
forti influenze a livello ambientale e da parte della società (vedi Tab. 2).
Tab. 2. Malattie correlate ad agenti ambientali
Fonte: ARPAT, 2004.
I fattori sociali possono essere legati a determinati quadri clinici sotto
forma di cause dirette o di condizioni determinanti, oppure i fattori
sociali determinano in maniera decisiva il decorso di malattie già in atto.
Riconoscendo la malattia non solo come questione medica, nel mondo
anglosassone esistono tre diversi termini per definirla, disease, illness e
sickness. L’introduzione di tale distinzione in sociologia la si deve ad
Andrew Twaddle (1968).
La
disease
malfunzionamento
rappresenta
fisiologico,
la
definizione
organico,
biomedica,
oggettivamente
un
misurabile;
45
l’illness è l’aspetto soggettivo, personale della malattia, il vissuto del
paziente; la sickness riguarda il modo attraverso cui gli altri interpretano
la malattia dell’individuo. La sickness è l’identità sociale.
Come ha ben esplicitato Cassel “illness è ciò che il paziente sente
quando va dal dottore, disease è ciò che egli ha quando torna a casa
dall’ambulatorio” (Cassel, 1976).
Nel caso specifico dei malati di tumore, la malattia irrompe in tutte le
diverse dimensioni di disease, illness e sickness.
Sul piano strettamente fisiologico ed organico, cioè la disease, la
malattia
si
manifesta
con
dolore,
affaticamento,
indolenzimento
muscolare, nausea, disturbi del sonno. La sofferenza fisica porta
all’indebolimento del corpo, che in alcuni casi può anche essere
menomato dagli interventi medici, con ripercussioni sulle relazioni
sociali. La sickness legittima l’esenzione a partecipare appieno alla vita
sociale e lavorativa.
Sofferenza psichica ed organica si condizionano a vicenda e si
inscrivono nella storia personale del malato.
46
Capitolo 2
La ricerca
2.1. Interrogativo di ricerca
Obiettivo di tale lavoro di tesi è la relazione tra stato sociale e
malattie croniche, in particolare i tumori, e verificare se esiste
un’interazione tra fattori sociali, ambientali, comportamentali e biologici
nell’eziologia del cancro e nei tassi di sopravvivenza.
Si
cercherà
di
verificare
se
esiste
un’associazione
tra
status
socioeconomico e incidenza del cancro e sopravvivenza. Le classi sociali
più basse tendono ad avere maggiore incidenza di tumori ed una
sopravvivenza al cancro minore rispetto agli appartenenti alle classi
sociali alte, anche se questo modello si differenzia per alcuni specifici
tumori. È stato dimostrato che l’incidenza dei tumori può in parte essere
spiegata con l’influenza di fattori di rischio noti, rintracciabili in
particolare a livello sociale ed ambientale.
Sono sempre meno le persone che muoiono per malattie infettive e
sempre più quelle che sviluppano malattie croniche. L’aumento di fattori
di rischio come stili di vita insalubri, alimentazione scorretta, inattività
47
fisica, consumo di tabacco ed abuso di alcool ha portato ad uno sviluppo
più precoce di malattie croniche negli ambienti sempre più urbanizzati,
ma i sistemi sanitari non sono abbastanza preparati per gestire la
richiesta di cure e trattamenti. Spesso sono i più poveri che si trovano,
insieme alle loro famiglie, a lottare contro i danni economici e sociali che
una lunga malattia può provocare. Le malattie croniche possono portare
il soggetto malato e la sua famiglia in una spirale negativa di indigenza.
Il cancro è un gruppo di malattie che impongono un pesante onere per
la sanità pubblica e rappresentano una sfida alla scienza.
Da metà degli anni Novanta, il cancro resta la seconda principale
causa di morte, senza tener conto dei costi economici per la società.
Inoltre, il cancro presenta un ulteriore complessità di problemi dovuti
alla molteplicità di siti in cui si può sviluppare, inadeguatamente
compresi e alla miriade di strategie ed interventi che richiede.
La ricerca sul cancro ha fatto passi da gigante, sia grazie a nuove
conoscenze circa la sua genetica, sia grazie a nuovi approcci terapeutici.
Progressi
che
comprensione
si
sono
verificati
ed
interessamento
anche
verso
grazie
i
ad
una
determinanti
maggiore
sociali
e
comportamentali del cancro.
Nell’elaborato ci si concentrerà sulla letteratura e su casi studi,
utilizzando dati presenti in letteratura o disponibili da banche dati on
line, che permettono così di analizzare il fenomeno oggetto di studio
sotto diversi punti di vista. In particolare, si descrive la situazione
italiana nell’incidenza e nella mortalità dei tumori. Con un particolare
spaccato sulle disuguaglianze geografiche.
Non si vuole fare un’analisi dal punto di vista clinico, ma da quello
degli effetti dei tumori sulla vita quotidiana. Sociologicamente si è
sviluppato un vasto ed importante corpo di ricerca del vivere con una
malattia cronica. Il dibattito ha messo in evidenza come gli ambienti
sociali modellano le esperienze legate alla cronicità e quanto le risposte
individuali definiscano gli outcomes sanitari.
Molto spazio è stato dato all’associazione tra i fattori sociali e lo
sviluppo di una malattia cronica e a come, una volta sviluppata la
48
malattia, affrontarla, conviverci e quale impatto ciò ha sui sistemi
sanitari.
Obiettivo ultimo del presente lavoro, quindi, è quello di cercare di
analizzare le malattie croniche in connessione con le componenti sociali
e relazionali che le definiscono e le cointeressano.
L’impostazione che si è cercata di dare, visto anche l’ambito di
dottorato di ricerca nel quale si è sviluppata, è di tipo transdisciplinare,
spaziando dalla sociologia all’epidemiologia.
Dal punto di vista medico, allo stato attuale, le malattie croniche sono
quelle che non possono essere guarite, si può solo cercare di rendere le
condizioni di vita il più sopportabile possibile.
2.2.
Le malattie croniche
L’Organizzazione Mondiale della Sanità definisce le malattie croniche
come “malattie di lunga durata e generalmente a lenta progressione”.
Una persona affetta da malattia cronica è una persona affetta da una
malattia di lunga durata, tendenzialmente lunga quanto la vita del
soggetto. È una malattia che può provocare invalidità di vario grado e
che spesso si ripercuote sullo stile di vita, in alcuni casi, modificandolo
totalmente. La malattia cronica ha bisogno di consistenti periodi di
controllo e di cure, sia a domicilio, sia in ambiti specialistici.
La storia naturale della malattia cronica segue un percorso stabilito,
che va dall’esposizione ai fattori di rischio all’inevitabile evoluzione nella
morte (vedi Fig. 1).
49
Fig. 1. Storia naturale delle malattie croniche
Fonte: Marceca, Ciccarelli, 2007.
Le malattie croniche sono anche definite “non trasmissibili”, oppure
malattie “correlate allo stile di vita”, proprio per enfatizzare quanto è
importante il comportamento nello sviluppo di certe malattie croniche.
Le malattie croniche includono cardiopatie, ictus, cancro, disturbi
respiratori
cronici
e
diabete.
Disturbi
visivi
e
cecità,
disturbi
dell’apparato uditivo e sordità, problemi del cavo orale e difetti genetici
sono
altre
condizioni
croniche
responsabili
di
una
percentuale
consistente del carico globale di malattia (WHO, 2005).
Alcune caratteristiche che contraddistinguono le malattie croniche
sono:
− spesso compaiono in età giovanile;
− inizio graduale e subdolo;
− hanno un lungo decorso;
− richiedono un approccio al trattamento sistematico e a lungo
termine.
In particolare, in questo lavoro, tratteremo del cancro, cioè tutte
quelle malattie in cui cellule anomale proliferano e si diffondono senza
controllo. Ci sono numerosi tipi di cancro, che possono interessare tutti
gli organi del corpo (WHO, 2005). Un punto critico è che, in realtà, il
50
cancro è molteplici malattie con eziologie diverse. I Registri Tumori
attualmente riportano l’esistenza di circa 80 tipi di tumore maligno,
definiti in base alla loro posizione e ai tipi di cellule colpite. Tuttavia, solo
quattro siti rappresentano circa la metà di tutta l’incidenza dei tumori:
seno (15%), prostata (17%), polmone (13%), colon (8%). Questi
rappresentano il 53% di tutti i nuovi casi di tumore diagnosticati ogni
anno. La concentrazione in questi quattro siti, offre la possibilità per
indirizzare le ricerche verso i determinanti sociali del cancro. Per
esempio, il cancro ai polmoni è fortemente associato al fumo; quello al
seno e al colon con programmi di screening e prevenzione. Anche se,
l’incidenza del cancro al seno è maggiore nelle donne appartenenti alle
classi sociali alte, ma la mortalità è maggiore tra le donne di classe
sociale bassa.
Inoltre, ci sono importanti differenze nell’incidenza di sedi tumorali
diverse in base alla razza e all’etnia.
Così, il cancro offre alcuni paradossi ed evoca domande di ricerca, che
gettano luce sui diversi modi, nei quali i fattori sociali influenzano i
risultati del cancro (Hiatt, Breen, 2008).
I fattori di rischio associati con l’insorgenza dei tumori sono vari, dagli
agenti fisici, quali le radiazioni ionizzanti e quelle ultraviolette; gli agenti
chimici di uso industriale e non; agenti virali; fattori ormonali; fattori
legati agli stili di vita.
Il cancro è, quindi, un gruppo di malattie che richiedono ulteriori
ricerche e nuovi sviluppi, ed impongono alla sanità pubblica la
riorganizzazione dei servizi.
Dei 58 milioni di decessi avvenuti nel 2005 (WHO, 2005), più di 3
milioni sono attribuibili a malattie croniche, più di quelle imputabili a
malattie quali l’HIV/AIDS. Nello stesso rapporto “Preventing Chronic
Diseases. A vital investment”, l’OMS stima che se non si interviene con
un’azione globale, entro il 2015 saranno 36 milioni i morti per malattie
croniche (vedi fig. 2). Sempre secondo le stime dell’OMS, nei prossimi
dieci anni i decessi per malattie infettive diminuiranno del 3%, mentre
quelli per le malattie croniche aumenteranno del 17%.
51
Fig. 2. Decessi globali previsti per le diverse cause.
Fonte: WHO, 2005.
Le ultime previsioni continuano a confermare il trend di aumento delle
malattie croniche. Mathers e Loncar per fare le loro previsioni si sono
basati sui dati del World Health Report del 2002 e sui dati sulla crescita
economica della Banca Mondiale (vedi Fig. 3), dividendo lo scenario che
si potrebbe prospettare in basilare, ottimistico e pessimistico. Per fare
tali previsioni i due autori, entrambi del WHO di Ginevra, hanno poi
tenuto conto dei dati demografici e della capacità delle diverse aree del
mondo di mettere a frutto le scoperte della medicina. Nei Paesi ad alto
reddito è emerso un calo nella diffusione delle malattie infettive, dovuto
alle vaccinazioni, alle terapie mirate e alle regole igieniche migliori.
52
Fig. 3. Proiezione delle cause di morte di cancro
Fonte: Mathers, Loncar, 2006.
Nella classifica stilata dall’Organizzazione Mondiale della Sanità dei
“killer” di domani, al primo posto si collocano le malattie cardiovascolari,
seguite dai tumori.
Le malattie cronico – degenerative hanno un’importanza sociale per
gravità dei quadri clinici correlati, per i costi e per la diffusione.
La situazione che si prospetta è molto preoccupante, con grosse
questioni aperte per la salute pubblica e ricadute a livello economico e
sociale. Fino a poco tempo fa, l’impatto delle malattie croniche era
sottovalutato.
Attualmente le malattie croniche sono la principale causa di morte,
tanto da essere considerate la nuova epidemia globale.
All’inizio
del
XX
secolo
si
è
avuto
uno
spostamento
delle
caratteristiche delle malattie da un quadro dominato dalle malattie
infettive a uno in cui prevalgono le malattie croniche, come i tumori,
considerati
il
“male
del
secolo”
(Cosmacini,
Sironi,
2002).
Nell’immaginario collettivo, il cancro è diventato la malattia da temere
per eccellenza, che compare in modo subdolo e senza preavviso. Il
cancro è un’invasione segreta e spietata (Sontag, 2002).
53
Questo scivolamento verso le patologie croniche si può in parte
spiegare col fatto che molta più gente ha vissuto fino all’età in cui
queste malattie colpiscono. Tutto questo fa parte della cosiddetta
“transizione epidemiologica” (vedi fig. 4).
Fig. 4. La transizione epidemiologica
Fonte: Omran, A.R., 1971.
Le malattie croniche sono molto differenti dalle malattie acute e
infettive (vedi Tab. 1). Quest’ultime, infatti, sono un fenomeno episodico
e complete in sé. Sono causate da agenti eziologici specifici, che
svolgono un ruolo determinante all’inizio e nello sviluppo del processo
patologico. Nel caso delle malattie croniche, invece, si parla di fattori di
rischio, la cui presenza aumenta la probabilità che la malattia si
manifesti, pur non essendo ancora chiaro il preciso ruolo eziologico. Da
una patologia infettiva si può guarire, l’esito di una patologia cronica il
più delle volte è il decesso.
54
Tab.
1.
Caratteristiche
epidemiologiche
differenziali
delle
patologie infettive e cronico – degenerative
Caratteristiche
Malattie infettive
(acute)
Malattie non infettive (croniche)
Fattori causali
maggiori
Per lo più specifici.
Necessari
Molteplici. Per lo più aspecifici. Non
necessari
Durata del
periodo di
latenza
Per lo più breve
(giorni o settimane)
Per lo più lunga (anni o decenni)
Esordio
Per lo più clamoroso
Spesso subdolo e lento.
Manifestazione dei sintomi graduale
o improvvisa
Decorso
Rapido (giorni o
settimane)
Lento (anni o decenni)
Esito
Guarigione
Stabilizzazione o progressivo
peggioramento. In molte forme
decesso a distanza di anni o decenni
Effetto dei
miglioramenti
terapeutici
Abbreviano il
decorso. Diminuisce
la prevalenza
Allungano il decorso. Aumenta la
prevalenza
Fonte: WHO, 2005.
Il nuovo quadro epidemiologico che si profila è molto più complesso e
per rispondere alle mutate necessità, la medicina si è anch’essa
specializzata ulteriormente, è diventata più flessibile e complessa.
Le malattie croniche, come già detto, il più delle volte come esito non
hanno la guarigione, per cui anche il concetto della cura va rivisto,
estendendo ed includendo tutti gli interventi che permettano una
migliore
convivenza
con
la
malattia
cronica.
Alla
diagnosi
deve
accompagnarsi una valutazione delle potenzialità del paziente, l’obiettivo
della terapia deve essere non quello della guarigione, ma quello del
raggiungimento della migliore funzionalità residua.
L’attuale organizzazione dei sistemi sociosanitari ha ancora qualche
difficoltà ad intercettare i nuovi bisogni di assistenza.
55
Per questo si tende a parlare sempre di più di umanizzazione e
personalizzazione delle cure, principi cardine con i malati cronici.
La specificità del malato cronico è quella di una persona che vive la
sua vita dentro la malattia (Esposito, 2008). La malattia è sempre
presente, non è limitata ad un periodo o all’ospedalizzazione, la malattia
c’è in tutte le relazione che il soggetto decide di avere, perché i malati
cronici non cercano solo di restare in vita o di controllare i sintomi, ma
soprattutto di vivere il più normalmente possibile, a dispetto dei sintomi
e della malattia (Strauss et al., 1975). Il focus non è più sull’essere
malato, ma su come organizzare la malattia. Si cerca di vivere nella
normalità, per quanto sia una normalità contraddistinta dall’incertezza,
cioè dalla generale mancanza di progettualità. Il malato cronico non può
far altro che vivere giorno per giorno.
Una parte importante della qualità della vita è rivestita dalle relazioni
sociali, i malati cronici sono spesso costretti a ridurre le loro reti sociali
allargate,
mentre
acquistano
pregnanza
vitale
i
legami
forti
(Granovetter, 1973), quelli forniti dai familiari e nello specifico dai
caregivers. Le reti sociali o, per usare un termine sociologico, il capitale
sociale, forniscono oltre all’aiuto prettamente materiale e concreto,
affetto, sicurezza, sostegno, riconoscimento, senso di appartenenza. Per
usare le parole di Donati (2003) la funzione primaria del capitale sociale
non è quella di essere uno strumento per qualcosa, ma è quella di
favorire la relazionalità sociale stessa, cioè la scambietà che produce un
bene condiviso.
Purtroppo la malattia cronica è una realtà con cui sempre più famiglie
dovranno abituarsi a convivere, una quotidianità devastante, che
rivoluziona la vita di tutto il nucleo.
Le principali cause ascrivibili alle patologie croniche sono ormai ben
conosciute (vedi Fig. 5), di alcune ne abbiamo ampiamente parlato nel
primo capitolo, e sono appunto riconducibili ad una dieta scorretta e
ipercalorica; alla mancanza di attività fisica; ed al consumo di tabacco.
L’insieme delle caratteristiche immodificabili, ma soprattutto i principali
fattori di rischio modificabili sono la causa della maggior parte delle
malattie croniche, tra cui anche alcuni gravi tipi di cancro.
56
Fig. 5. Cause delle malattie croniche
Fonte: WHO, 2005.
Un aggravante a questi fattori è l’età. Infatti, l’età è un marcatore
importante dell’accumulo dei rischi: l’impatto dei fattori di rischio
aumenta con l’età. La maggior parte degli interventi a prevenzione sono
rivolti alla popolazione di mezza età, se invece, si intervenisse nei primi
anni di vita si potrebbe ridurre in modo sostanziale la pandemia di
malattie croniche.
Altri fattori, “più moderni”, che in qualche modo influiscono, sia
positivamente che negativamente, le malattie croniche riguarda per
esempio la globalizzazione. È positiva quando permette la circolazione di
nozioni mediche e tecnologie moderne; è negativa quando favorisce la
circolazione di stili e modelli di vita dannosi, dai paesi ricchi ai paesi
poveri, come per esempio i regimi alimentari.
È quindi evidente che la causa delle malattie croniche non può essere
ascrivibile ad un unico fattore scatenante, ma ad una serie di concause.
Indipendentemente dalle proprie risorse, ogni Paese deve cercare di
migliorare la prevenzione e il controllo delle malattie croniche e
procedere per tappe per raggiungere l’obiettivo globale della riduzione
delle malattie croniche (WHO, 2005) (vedi Fig. 6).
57
Fig. 6. Strategie di riduzione malattie croniche WHO
Fonte: WHO, 2005.
I dati e le ricerche attuate negli ultimi anni hanno messo in evidenza
come l’aumento dell’incidenza delle malattie croniche richiede maggiori
attività finalizzate a prevenire tali patologie attraverso il controllo e la
prevenzione dei fattori di rischio e l’adozione di corretti stili di vita.
2.3.
Disuguaglianze di salute e cancro
Agli inizi il cancro presentava un’eziologia sconosciuta, per questo la
ricerca partì dall’esaminare la sua incidenza in diversi sottogruppi della
popolazione. La speranza era quella di individuare la malattia in
particolari gruppi sociali o etnici, in modo da poter orientare la ricerca.
58
Però, erano importanti anche i gruppi in cui la malattia aveva una
bassa incidenza, in modo da individuare eventuali fattori di protezione.
Le
prime
ricerche,
quindi,
utilizzavano
uno
schema
preciso,
abbastanza elementare, che partiva dalle caratteristiche demografiche e
analizzava l’occupazione e i comportamenti individuali (vedi Fig. 7).
Fig. 7. Catena eziologica di fatti che producono stati morbosi
Fonte: Graham, 1977.
La catena di fatti che può provocare una malattia, può avere origine
in uno specifico gruppo di individui, appartenenti ad una stessa
categoria lavorativa o classe sociale, e che quindi, molto probabilmente,
avranno gli stessi comportamenti o saranno esposti agli stessi rischi.
Certi comportamenti o ambienti mettono l’individuo direttamente a
contatto con l’agente produttore della malattia. La maggiore o minore
predisposizione del soggetto dipende dalle sue caratteristiche genetiche,
da precedenti condizioni socio ambientali e dal suo generale stato fisico.
È da metà degli anni Cinquanta che l’epidemiologia sul cancro ha
iniziato a considerare l’uso del fumo come causa per il tumore al
polmone (IARC, 1997), e nelle decadi seguenti, l’epidemiologia ha
59
scoperto nuove cause. I nuovi indirizzi di ricerca dati dall’epidemiologia
hanno, in alcuni casi, portato al successo di interventi di prevenzione,
senza il bisogno di grandi cambiamenti sociali e politici.
Va anche precisato che, per esempio, il collegamento tra fumo e
cancro al polmone è tanto un problema sociale, economico, politico,
quanto un problema individuale.
Il dibattito attuale e la letteratura scientifica documentano l’esistenza
di importanti disaccordi, anche a livello terminologico.
Il National Cancer Institute ha definito le disuguaglianze di salute nel
cancro come differenze di incidenza, prevalenza e mortalità nei tumori e
in patologie affini, che esistono tra gruppi specifici di popolazione negli
Stati Uniti. Questi gruppi di popolazione si caratterizzano per etnia,
istruzione, reddito, classe sociale, posizione geografica o orientamento
sessuale (NCI, 2004).
Il cancro presenta un set complesso di problemi, attualmente ancora
inadeguatamente
compreso.
La
continua
ricerca
scientifica
per
sconfiggere questa malattia ha iniziato ad estendere il campo di ricerca
anche ai determinanti sociali e comportamentali del cancro.
Però, per fare ulteriori progressi nella ricerca, è necessario un
approccio transdisciplinare che integri lo studio della natura biologica del
cancro, con gli aspetti clinici e con le influenze sociali. Proprio la
complessità del cancro, mette bene in luce come siano necessari nuovi
metodi di investigazione, spesso presi da altre discipline, non solo quelle
mediche. Gli studiosi di varie discipline devono lavorare insieme
indipendentemente dalla prospettiva della loro disciplina (Hiatt, Breen,
2008).
In
particolare,
alcuni
autori
(Krieger,
1999;
McLeroy,
Bibeau,
Steckler, Glanz, 1988) propongono un modello socioecologico, che
implica una reciproca causalità tra l’individuo e l’ambiente che definisce
l’interazione degli effetti. Questo modello è stato sviluppato inizialmente
per la comprensione del comportamento umano all’interno della società,
ed in seguito è stato esteso alla comprensione dei problemi di salute.
Il modello socioecologico incorpora e accresce le scoperte nel campo
della biologia del cancro a quelle delle scienze sociali.
60
Una questione centrale su cui ci si interroga, anche nella ricerca sul
cancro, è perché i determinanti sociali sono importanti. Le risposte
ruotano attorno al fatto se è a causa dei loro effetti indiretti sui fattori di
rischio individuali; se è perché interagiscono con i fattori genetici; o se
sono causa diretta di malattia.
Per poter rispondere a queste domande è necessario disegnare un
quadro concettuale nel quale inserire, ed integrare, tutti i fattori
collegati ai determinanti sociali del cancro. In questo modo si cerca di
promuovere una più completa comprensione delle cause del cancro.
I determinanti sociali del cancro si collocano a vari livelli di analisi e
seguono diversi tipi di intervento lungo un continuum in cui si sviluppa la
malattia. Invece, sembrerebbe che i sistemi sanitari hanno minori
probabilità di influenzare l’incidenza del cancro e la mortalità, tanto da
essere leggermente ombreggiati nella fase pre - clinica del continuum
della malattia (Hiatt, Breen, 2008) (vedi Fig. 8).
Fig. 8. Determinanti sociali del cancro
Fonte: Hiatt e Breen, 2008.
61
Il framework presentato da Hiatt e Breen è indirizzato ad aiutare la
concettualizzazione di come i determinanti sociali interagiscono con gli
altri fattori nell’eziologia del cancro e cogliere i cambiamenti nel tempo.
Questo quadro invita i ricercatori di tutte le discipline ad impegnarsi
nella ricerca sul cancro nell’ambito dei determinanti sociali come parte di
un coraggioso esperimento della ricerca transdisciplinare.
Il gradiente socioeconomico nella salute e nella mortalità è ben
documentato, anche se questo rapporto non è ancora così chiaro per il
cancro,
come
invece
risulta
per
altre
malattie,
tipo
quelle
cardiovascolari. Sono state fatte varie analisi per collegare i dati dei
registri dei tumori con i dati del censimento per documentare e
verificare le disparità di mortalità, sopravvivenza e incidenza.
Uno studio del 2004 ha confrontato gli esiti di salute di chi ha avuto a
disposizione attività di prevenzione e interventi terapeutici con chi non
gli ha avuti, ed è emerso che sono stati trovati forti gradienti di SES per
gli esiti di interventi di provata efficacia (Phelan, J.C., Link B.G., DiezRoux, A., Kawachi, I., Levin, B., 2004). Gli autori hanno concluso che, la
causa fondamentale è da ricercarsi nell’insieme delle risorse largamente
accessibile da parte delle persone con SES più alto. Questa spiegazione
resta però ancora molto dibattuta.
Per capire la potenziale importanza delle differenze socioeconomiche
nell’identificazione
e
nel
trattamento
dei
tumori,
i
dati
sulla
sopravvivenza sono essenziali.
La maggior parte degli studi sul rapporto tra classe socioeconomica e
cancro
sono
stati
effettuati
nei
paesi
industrializzati,
ed
hanno
costantemente dimostrato un’incidenza totale, così come la mortalità, di
tumore in tutti i siti è più alta nei gruppi socioeconomici più bassi, ed è
dovuta principalmente all’aumento dell’incidenza in alcuni siti. I siti in
cui le differenze sono più alte sono il polmone, lo stomaco e la cervice
uterina (Kogevinas, Marmot, Fox, Goldblatt, 1991).
Tre grossi studi fatti nel Regno Unito hanno verificato una mortalità
più alta per gli appartenenti ai gruppi socioeconomici bassi, per i tumori
al polmone, allo stomaco, al fegato e all’esofago (Smith et al., 1991). In
62
Italia, un simile studio, ha riscontrato grossi differenze per i tumori al
polmone, alla faringe, alla laringe, allo stomaco, alla vescica e alla
cervice uterina (Faggiano et al., 1994).
Alla maggior parte delle sedi che presentano differenziali elevati
corrispondono fattori di rischio ambientali: così per esempio, per i
tumori delle vie aereo-digestive superiori il principale indiziato è il
consumo di alcool; per i tumori del polmone e della laringe, il fumo di
tabacco e le esposizioni professionali; per il colon-retto e lo stomaco c’è
una forte associazione ai fattori della dieta; i tumori della pelle sono
associati all’esposizione alle radiazioni solari, anche se in questo caso, ci
sono contraddizioni rispetto alla forte incidenza nelle classi sociali alte.
Sono dunque tumori che riflettono la relativa distribuzione sociale dei
fattori di rischio (Faggiano et al., 1994).
L’inevitabile conclusione di questi studi è che i Paesi sviluppati, negli
ultimi
anni,
hanno
fatto
pochi
progressi
nella
riduzione
delle
disuguaglianze. Negli ultimi cinquant’anni, la mortalità per tumore al
polmone ha continuato ad aumentare nei gruppi socioeconomici bassi,
ma ha iniziato a diminuire nei gruppi socioeconomici più favoriti. Il
tumore al polmone è solo un esempio, e tali differenze non possono
essere riconducibili solo all’uso del fumo. Al fine di ridurre tali disparità,
la prevenzione dovrebbe essere indirizzata alla fornitura universale di
servizi e ad annullare le differenze socio-culturali in cui le disparità sono
profondamente radicate. Un elemento che certamente influenza la
mortalità è la diagnosi precoce e l’accesso ad adeguate cure.
Un aspetto interessante da considerare, riguarda il fatto che, il tipo di
patologia studiata, i tumori, tendenzialmente può durare al massimo 4
anni, dal momento della diagnosi, quindi, si può escludere il verificarsi di
un effetto di scivolamento in basso nella scala sociale, dovuto appunto
alla malattia.
Un’analisi, condotta in undici Paesi dell’Europa Occidentale nel
periodo 1980-89, sull’andamento della mortalità in rapporto alla classe
occupazionale per alcune patologie (malattia ischemica cardiaca, tumori,
malattie cerebro-vascolari, malattie gastro-intestinali e cause esterne)
ha evidenziato l’esistenza di una forte correlazione con le basse classi
63
occupazionali (lavori manuali); l’entità della differenza di mortalità tra
lavoratori
manuali
e
non
manuali
per
singola
causa
di
morte
considerata, è diversa nei vari Paesi considerati (Kunst et al. 1998).
Infine, quindi, possiamo dire che l’associazione tra incidenza di tumori
e bassa classe sociale è stata provata ed è molto forte per alcune sedi,
tra cui stomaco, polmone, orofaringe, laringe, esofago e cervice uterina.
La causa è riscontrabile in lunghe storie di povertà, all’abuso di alcol e
fumo e a comportamenti sessuali promiscui. Però ci sono anche alcuni
tipi di tumori legati agli stili di vita delle persone ricche e più istruite:
mammella, ovaie, colon, melanoma.
Rimangono esclusi dalla maggior parte degli studi le leucemie e i
linfomi, per i quali non sono conosciuti fattori ambientali eliminabili.
In
Italia,
purtroppo,
le
ricerche
sull’associazione
tra
status
socioeconomico ed incidenza di tumori non sono molto sviluppate, si
spera che in futuro sarà un filone su cui investire. Le ricerche si sono
concentrate in prevalenza sulle differenze geografiche, forse per la
particolarità che contraddistingue il nostro Sistema Sanitario e la
tradizionale e storica disparità tra Nord e Sud del Paese.
Le disparità osservate nella mortalità, sopravvivenza ed incidenza per
tumore hanno motivato ulteriori studi, in particolare sulle influenze a
livello sociale. Lo sviluppo dell’epidemiologia sociale ha aperto la strada
per analisi multilivello. L’ambiente, nelle sue componenti, sia fisico che
in quello costruito, influenza gli esiti del cancro. L’ambiente fisico
influenza sia il comportamento sia la biologia e può aiutare a spiegare
alcune tendenze osservate e le disparità dell’incidenza del cancro e dei
suoi risultati.
Per esempio, le minoranze e i gruppi a basso reddito sono soggetti a
più elevati livelli di esposizione a rischi ambientali, tra cui quelli
industriali o i siti di trattamento e smaltimento dei rifiuti (IOM, 1999;
Bullard, 1993).
L’effetto dei fattori di rischio ambientali sul cancro negli esseri umani
è difficile da valutare, soprattutto perché in merito ci sono pochi dati
disponibili e soprattutto bisognerebbe monitorare per lungo tempo i
64
gruppi o le popolazioni esposte a sostanze cancerogene. Il dibattito su
come misurare e valutare l’impatto dei rischi ambientali è ancora aperto.
Le soluzioni politiche necessitano di competenze e di aiuto da parte
della pianificazione urbanistica, dell’ingegneria, del diritto, dell’economia
e delle scienze biomediche, nonché input da parte della comunità.
Sono necessari più livelli di analisi per comprendere i diversi percorsi
e i meccanismi alla base di queste sfumature, e per determinare il modo
in cui si legano e che scaturiscono nella malattia.
Gli interventi focalizzati solo sul cambiamento individuale si sono
rivelati inadeguati. Per esempio, le politiche sociali contro il fumo si sono
rivelate
efficaci
e
potrebbe
essere
il
momento
di
prendere
in
considerazione altri interventi a livello sociale, o politiche di economia
sostenibile e giustizia ambientale. Tale approccio è coerente con gli
sforzi nazionali e internazionali intesi a modificare i determinanti sociali
di salute.
I dati attualmente disponibili, provenienti dai Registri Tumori, da
indagini e da fonti amministrative, descrivono la gamma di influenze
biologiche, cliniche e sociali per le diverse sedi tumorali.
2.4.
Dati epidemiologici sul cancro
Da metà degli anni Novanta, il cancro resta la seconda principale
causa di morte (vedi Fig. 9), senza tener conto dei costi economici per la
società. Inoltre, il cancro presenta un ulteriore complessità di problemi
dovuti alla molteplicità di siti in cui si può sviluppare, inadeguatamente
compresi e alla miriade di strategie ed interventi che richiede.
65
Fig. 9. Mortalità per grandi gruppi di cause
4%
3%
3%
4%
1%
9%
7%
39%
30%
Malattie sistema circolatorio
Tumori
Malattie apparato respiratorio
Traumatismi e avvelenamenti
Diabete
Malattie del sistema nervoso
Malattie apparato digerente
Malattie infettive
Altro
Fonte: ISTAT, 2007
La patologia oncologica è progressivamente diventata un elemento
rilevante delle moderne società, inclusa l’Italia dove è stato stimato che,
attualmente sono circa 1 milione e 800 mila le persone affette da
patologia tumorale.
Negli ultimi trent’anni le patologie tumorali sono cresciute del 40%. I
tumori alla mammella sono aumentati del 27%, quelli al cervello del
10%, quelli al fegato del 20%, dati che purtroppo non risparmiano i
bambini. Il cancro può colpire persone di ogni età, anche se i dati
statistici affermano che le persone anziane sono colpite con maggiore
frequenza, perché i danni tendono ad accumularsi negli anni (vedi Fig.
10).
66
Fig. 10. Trends dell’incidenza e di mortalità per classi d’età
Fonte: AIRTUM, 2009.
Considerando l’invecchiamento della popolazione, è comprensibile che
un aumento della quota di persone anziane porti ad un incremento nel
numero delle nuove diagnosi e dei decessi indipendentemente dal fatto
che l’incidenza e la mortalità aumentino.
La situazione italiana è la peggiore se paragonata ad altri Paesi
europei ed extraeuropei, infatti, per esempio, in Gran Bretagna e
Scandinavia l’incidenza è aumentata del 20%, mentre negli Stati Uniti
del 30%. Tali confronti mettono in luce come l’Italia stia perdendo alcuni
dei vantaggi propri dell’area mediterranea, assumendo gli stili di vita di
altri Paesi a maggiore rischio.
67
Secondo i dati dell’IARC (2007), nel 2006 sono stati stimati 3,2
milioni di nuovi casi di cancro nei soli Paesi Europei e 1,7 milioni di
morti.
Tale
trend
sembra
purtroppo
destinato
ad
aumentare,
come
dimostrano anche i dati riferiti alle tendenze temporali. In Italia, dagli
anni Ottanta, quando le statistiche hanno iniziato a documentare il
fenomeno in modo più dettagliato, vi è stato un sensibile peggioramento
del tasso di incidenza per tutti i tumori e per entrambi i sessi (vedi tab.
2).
68
Tab. 2. Trend storico tasso incidenza tumori 1980-2007
Periodo
Maschi
Femmine
1980
330.03
251.53
1981
339.22
257.44
1982
348.57
263.46
1983
358.24
269.75
1984
367.12
275.74
1985
376.44
282.23
1986
385.46
288.63
1987
394.28
295.06
1988
403.20
301.76
1989
411.77
308.37
1990
420.14
314.97
1991
428.13
321.54
1992
435.07
328.00
1993
441.08
334.20
1994
446.73
340.41
1995
449.03
347.23
1996
450.14
353.52
1997
452.96
358.69
1998
455.48
363.60
1999
457.54
368.34
2000
460.77
374.09
2001
464.84
381.08
2002
470.09
390.01
2003
475.72
400.07
2004
480.37
409.65
2005
482.46
416.56
2006
482.77
421.48
2007
482.88
426.32
Fonte: Health for All, 2008.
69
A livello europeo, è emerso che, oggi, la seconda causa di morte fra
la popolazione dell’Unione Europea è rappresentata dai tumori: 29% per
gli uomini, 23% per le donne. Inoltre, la mortalità è influenzata anche
dalla classe sociale, ma in una relazione inversa a quelle abituali,
soprattutto
nelle
donne.
Infatti,
sembrerebbe
che
una
migliore
condizione socioeconomica costituisca un maggiore fattore di rischio per
alcuni tumori, come per esempio al seno o alla pelle (European
Observatory on the Social Situation, 2005). Per il tumore della pelle, il
dato è spiegabile con una maggiore esposizione al sole da parte delle
classi sociali alte; per il tumore al seno esistono più spiegazioni, tra cui
una serie di fattori biologici, come l’età della prima mestruazione, o
fattori sociali, come l’allattamento al seno o l’età della prima gravidanza.
Sempre a livello europeo, il tumore al seno rappresenta il tumore più
frequente nelle donne, dai dati dell’OMS si stima che una donna su 12
svilupperà un carcinoma della mammella. Ogni anno in Europa più di
200.000 donne hanno affrontato una diagnosi di tumore al seno
(European Health Net, 2006). I fattori di rischio per il tumore al seno
sono, quindi, oggetto di studio ed includono la predisposizione genetica,
l’età e la condizione ormonale.
In Italia, secondo l’Istituto Superiore di Sanità (2008) l’andamento
temporale dell’incidenza dei tumori presenta importanti differenze
rispetto al sesso e all’area geografica.
Tra gli uomini
si
è osservato, nella mortalità, una riduzione
statisticamente significativa, soprattutto per quanto riguarda alcune
delle patologie tumorali più letali, per esempio il tumore del polmone e il
tumore dello stomaco, mentre per le donne, in generale, l’incidenza
risulta ancora in crescita, sebbene per alcuni siti specifici, come il
tumore alla mammella si registrino tassi in via di diminuzione. Nello
specifico, tra il 1998 e il 2005 la mortalità per tutti i tumori è diminuita
del 12% per gli uomini e del 6% per le donne (AIRTUM, 2009). Mentre
la mortalità è in diminuzione, l’incidenza resta stabile. Questo dimostra
l’efficacia dei programmi di prevenzione e diagnosi.
70
Per altri siti, invece, in particolare tiroide e prostata, l’incidenza
rappresenta
ancora
l’esito
sintetico
di
molteplici
fattori,
tra
cui
demografici, di pressione eziologica e di sensibilità diagnostica, non
facilmente risolvibile, ma di grande importanza per l’ingente impegno di
risorse diagnostiche – assistenziali. Negli uomini sono in aumento i
tumori del colon, del testicolo e dei tessuti molli; nelle donne, il tumore
del polmone e i linfomi di Hodgkin (AIRTUM, 2009) (vedi Tab. 3).
Attualmente però, se analizziamo le differenze di genere, dalle
banche dati dell’ISTAT, fra i tumori quello alle vie respiratorie è la
principale causa di morte per gli uomini (26.954 morti nel 2007), mentre
quello al seno lo è per le donne (11.916 morti nel 2007).
Tab. 3. Trend di alcuni tumori per incidenza e mortalità, 19982005
Fonte: AIRTUM, 2009.
71
Nel 2008, sempre secondo la banca dati dell’AIRTUM, i tumori più
diagnosticati sono stati (vedi Fig. 11), per gli uomini:
− prostata (18,5%);
− pelle non melanoma (15,8%);
− polmone (13,1%);
− colon-retto (12%);
− vescica (5,7%).
Per le donne, invece:
− mammella (24,9%);
− pelle non melanoma (15,1%);
− colon-retto (11,9%);
− polmone (5%);
− stomaco (4,1%).
Considerando l’intera popolazione, i tumori più frequentemente
diagnosticati sono stati:
− epiteliomi della cute (15,5%);
− colon retto (11,9%);
− mammella (11,5%);
− prostata (10,1%);
− polmone (9,4%).
72
Fig. 11. I cinque tumori più frequenti
30
25
20
15
10
5
0
Uomini e donne
Uomini
Donne
Epiteliomi della cute
Colonretto
Mammella
Prostata
Polmone
Cute non melanoma
Vescica
Stomaco
Fonte: AIRTUM, 2009.
Analizzando il pattern geografico, si evidenziano andamenti più
favorevoli al centro – nord, mentre il meridione, che storicamente, ha
sempre avuto tassi più bassi, si sta avvicinando a quello delle regioni del
nord (vedi Fig. 12 e 13).
L’incidenza e la mortalità di alcuni tumori presentano un gradiente
decrescente dalle aree del Nord e del Centro, che hanno valori simili, a
quelle del Sud.
73
Fig. 12. Tasso std Tumori maligni 0-84 anni - Maschi
Fonte: Health for All, 2008.
74
Fig. 13. Tasso std tumori maligni 0-84 – Donne
Fonte: Health for All, 2008.
Le differenze geografiche sono presenti, in particolare, su alcuni sedi
specifiche di tumori, tra cui al colon retto.
In passato, i livelli di tumore al colon al Sud erano più bassi di circa il
40% rispetto al Nord-Centro. Per gli studiosi tale differenza è spiegabile
con l’esposizione a diversi fattori di rischio e di protezione, tra cui
l’alimentazione.
Negli anni Sessanta, mentre il sud rimaneva prevalentemente
agricolo e manteneva una dieta di tipo “mediterraneo”, il nord si
sviluppava, trasformandosi in una società industriale, con stili di vita che
si allontanavano da quelli agricoli. Quindi, le abitudini alimentari
75
mediterranee hanno protetto i residenti del sud nei confronti del tumore
al colon e questo fino agli anni Settanta, quando i tassi hanno
cominciato ad aumentare. Secondo le previsioni dell’AIRTUM, nel 2019
l’incidenza per tumore al colon sarà quasi omogenea su tutto il territorio
nazionale, per effetto di un livellamento degli stili di vita e delle abitudini
alimentari (vedi Fig. 14).
Fig. Incidenza Tumore al colon per area geografica.
Dati osservati al 2005; dal 2006 al 2019 proiezione.
Fonte: AIRTUM, 2010.
I dati sulle disuguaglianze geografiche sono stati registrati anche dal
Rapporto Osservasalute (2010), dove si sottolinea che il rischio
oncologico complessivo del Sud, si sta avvicinando a quello del Nord.
Le ricostruzioni dell’andamento dell’incidenza e della mortalità dal
1980 al 2009 indicano che esistono ancora delle differenze nei tassi tra il
Nord e il Sud, anche se sensibilmente ridotte, rispetto al passato (vedi
Tab. 4). Come già detto, si sono verificati una riduzione dei tassi di
mortalità per gli uomini, e le regioni, dove tale diminuzione è stata più
evidente sono il Veneto e il Friuli Venezia Giulia. I tassi di incidenza nelle
donne, invece sono in aumento, in particolare in Sardegna, Campania e
Basilicata.
76
Tab. 4. Tassi standardizzati di mortalità per tutti i tumori
maligni nella classe 0-84 anni per Regione, macroarea, sesso –
Anni 1980 – 1989, 1990 – 1999, 2000 – 2009
Maschi
Femmine
Regioni
1980-89
1990-99
2000-09
1980-89
1990-99
2000-09
Piemonte
263,6
247,3
201,6
138,1
125,2
107,1
Valle
273,4
266,5
213,2
134,6
124,7
110,5
Lombardia
332,9
290,7
213,9
150,4
137,2
117,1
Trentino
Alto Adige
Veneto
279,6
254,3
199,2
136,0
122,3
105,1
306,5
269,7
193,7
131,3
123,0
106,6
Friuli
Venezia
Giulia
Liguria
322,9
283,3
207,8
148,7
140,0
123,0
270,9
244,9
194,4
137,4
123,5
102,9
EmiliaRomagna
Toscana
267,0
238,1
183,7
140,1
126,7
106,5
261,4
236,0
187,4
132,1
119,0
101,3
Umbria
220,5
212,3
180,8
120,0
113,5
100,8
Marche
228,4
214,6
179,2
122,1
111,0
94,6
Lazio
247,5
230,0
187,5
134,7
124,2
105,8
Abruzzo
186,7
191,4
173,8
104,8
99,6
89,5
Molise
173,4
179,9
180,1
104,6
95,0
83,6
Campania
212,8
232,6
235,1
114,3
114,7
108,3
Puglia
202,2
206,5
189,1
110,4
106,3
95,7
Basilicata
157,3
178,1
187,1
96,6
97,6
93,9
Calabria
162,1
173,3
164,9
95,5
93,7
86,3
Sicilia
177,3
188,4
184,7
111,7
108,6
99,9
Sardegna
206,5
220,6
205,6
111,1
110,7
103,3
Nord
296,61
265,04
201,09
141,74
129,51
110,66
Centro
247,66
228,38
185,79
130,95
119,79
102,47
Sud e
Isole
Italia
191,23
203,44
197,10
109,31
107,18
99,01
252,8
237,8
193,3
129,7
120,8
106,0
d’Aosta
Fonte: Osservasalute, 2010.
77
Le differenze geografiche lasciano aperti molti dubbi in merito alla
diversa capacità di programmazione e prevenzione che caratterizza le
diverse aree del nostro Paese.
Infine, nelle disuguaglianze regionali e nelle differenze di mortalità,
va purtroppo considerata la diversa disponibilità di strutture oncologiche
e di centri di eccellenza.
Dal
censimento
effettuato
dall’Osservatorio
sulla
Condizione
Assistenziale dei malati oncologici (2010) emerge, per esempio, che la
Regione col maggior numero di posti letto nelle discipline oncologiche è
la
Lombardia
(inclusa
oncologia,
oncoematologia
pediatrica,
oncoematologia, ricovero ordinario e day hospital), seguita dall’Emilia
Romagna, dal Lazio e dal Piemonte. Nella lettura dei dati, va anche
considerata la presenza di IRCCS a indirizzo oncologico e la presenza di
centri specializzati. A tal proposito, caso eccezionale è quello del Molise,
che appare fuori media nazionale, in quanto dispone di una dotazione di
posti letto di oncologia doppia rispetto alla media nazionale, grazie
appunto alla presenza nella Regione di un IRCSS dotato di un centro di
eccellenza per la chirurgia oncologica cerebrale. Il bacino d’utenza di
tale istituto supera l’ambito regionale ed accoglie molta parte delle
regioni centro meridionali.
Analoghe differenze si possono osservare per quanto concerne la
distribuzione regionale delle strutture ospedaliere con servizio di
oncologia medica, dove spicca sempre la Lombardia, seguita dal Lazio,
ma risultano interessanti anche i dati della Sicilia e della Campania, dove
appunto non sembrano mancare strutture, superiori perfino all’Emilia
Romagna (vedi Fig. 15).
78
Fig. 15. Distribuzione regionale delle strutture ospedaliere
con servizio di oncologia medica.
0
10
20
30
40
50
60
70
80
Piemonte
Valle d'Aosta
Lombardia
Prov. Aut. Bolzano
Prov. Aut. Trento
Veneto
Friuli Venezia Giulia
Liguria
Emilia Romagna
Toscana
Umbria
Marche
Lazio
Abruzzo
Molise
Campania
Puglia
Basilicata
Calabria
Sicilia
Sardegna
Fonte: Ministero della Salute, 2008.
Un altro dato degno di attenzione è l’indice di attrazione e il relativo
contrario indice di fuga, che rappresenta appunto il giudizio positivo e
l’apprezzamento dei malati per le attività svolte nella propria Regione.
Mentre il
giudizio opposto, l’indice di
fuga, è la percezione di
inadeguatezza assistenziale della Regione di residenza, che spinge i
malati a cercare assistenza in altre Regioni.
Le Regioni a maggiore migrazione di malati oncologici sono quelle del
Sud verso il Nord. Fa eccezione il Molise, per il motivo prima spiegato,
della presenza sul suo territorio di un IRCSS altamente specializzato
sull’oncologia, che ha contribuito ad elevare gli standard qualitativi e
reso il Molise una Regione di richiamo. La Valle d’Aosta invece presenta
un alto tasso di emigrazione sanitaria, dovuta ad un accordo fatto con
un grosso Centro della Provincia di Alessandria (vedi Fig. 16).
79
Fig. 16. Mobilità ospedaliera per tutti i tumori – Anno 2007
Fonte: Osservatorio sulla condizione assistenziale dei malati oncologici, 2010.
L’analisi per età alla diagnosi, mostra che i tumori sono una patologia
prevalente dell’età anziana (vedi Tab. 5). È naturale aspettarsi un
aumento dei casi in parallelo al progressivo invecchiamento della
popolazione italiana. Quindi, il sistema sanitario italiano deve soddisfare
i bisogni della popolazione oncologica anziana, adattando le risposte in
base al tipo di tumore, dell’età, alla condizione familiare e ai bisogni
riabilitativi (Murianni, Sabetta, Sferrazza, Ricciardi, 2008).
80
Tab. 5. Malati di tumore per classe di età e sesso – Anno 2005.
Classi d’età
0-
15-
25-
35-
45-
55-
65-
70-
75-
80 e
14
24
34
44
54
64
69
74
79
più
Maschi
0,1
0,1
0,1
0,2
0,5
1,8
2,7
3,3
3,3
3,3
Femmine
0,0
0,1
0,2
0,6
1,2
2,5
2,7
2,0
2,5
2,3
0,0
0,1
0,1
0,4
0,8
2,1
2,7
2,6
2,9
2,6
Maschi +
Femmine
Fonte: ISTAT, 2007.
I trend di lungo periodo evidenziano che gli andamenti della patologia
tumorale rilevati a metà degli anni Ottanta sono stati confermati.
L’analisi dell’andamento temporale della frequenza dei tumori è un
utile strumento per la sanità pubblica, in quanto permette di valutare gli
effetti degli interventi sanitari intrapresi, l’introduzione di nuove terapie
e nuovi strumenti e interventi diagnostici.
La riduzione della mortalità può essere dovuta ad una riduzione del
numero dei soggetti che si ammalano oppure all’introduzione di nuovi ed
efficaci strumenti terapeutici.
Allo stesso modo, la riduzione dell’incidenza, che è un indicatore
sempre positivo, può essere il segno di una minore esposizione a fattori
cancerogeni o dell’effetto dell’introduzione di programmi diagnostici.
Attualmente, per quanto riguarda la mortalità, sono in aumento la
sopravvivenza a 5 anni dalla diagnosi; tali risultati positivi dipendono,
probabilmente, dal miglioramento della diagnostica e dall’efficacia delle
nuove terapie, oltre ovviamente che dalla maggiore precocità delle
diagnosi. Non va poi dimenticata la maggiore attenzione culturale alla
salute.
Infine, un’ultima precisazione in merito, gli aumenti o la riduzione
dell’incidenza
e
della
mortalità
possono
essere
dovuti
anche
a
81
cambiamenti nei sistemi di classificazione dei tumori con l’introduzione
di nuove entità nosologiche o modifiche nella definizione di entità già
presenti.
In Italia, secondo gli ultimi dati disponibili ISTAT (Health for All,
2008) i morti per tumore nel 2007 sono stati 171.625, di cui 97.355
uomini e 74.270 donne (vedi Fig. 17).
Fig. 17. Mortalità per sesso e per fasce d’età – Anno 2007
20000
18000
16000
14000
12000
10000
8000
6000
4000
2000
Maschi
94
10
0e
pi
ù
90
-
84
80
-
74
70
-
64
60
-
54
50
-
44
40
-
34
30
-
24
20
-
14
4
10
-
2
0
0
Femmine
Fonte: Health for All, 2008.
Nell’Indagine Multiscopo “Condizioni di salute e ricorso ai servizi
sanitari” dell’ISTAT, del 2005, il tumore è trattato insieme alle patologie
croniche gravi, e nonostante la grande importanza che riveste non viene
trattato separatamente. Nel questionario viene domandato se il soggetto
ha mai avuto un tumore, è possibile quindi fare un’analisi quantitativa
del fenomeno, non è, però, possibile sapere il tipo di tumore, la
sopravvivenza ed il trattamento ricevuto. Tra le persone intervistate
quelle che dichiarano di essere affette da un tumore o di esserne state
colpite negli ultimi cinque anni sono circa il 2%.
Dai dati dell’ultima Indagine Multiscopo emerge che la prevalenza di
malattie croniche cresce al decrescere della classe sociale.
82
Analizzando le differenze per titolo di studio emerge che la più alta
concentrazione la si trova tra le persone con la sola licenza elementare
(39,4%), a cui si può aggiungere anche un buona quota di persone
senza titolo di studio (8,7%). Questo dato è in linea con le statistiche
sull’età, infatti, visto che ad ammalarsi sono maggiormente le persone
anziane, è possibile dedurre che chi oggi dichiara di avere solo la licenza
elementare siano persone sopra i 65 anni di età. Anche tra coloro che
hanno la licenza media è emerso un 23% di persone affette da tumore
maligno. Mentre tra i laureati (inclusi laurea vecchio ordinamento,
diplomi universitari e laurea triennale e specialistica) solo il 6,9% ha un
tumore. Molto bassa la percentuale tra chi ha frequentato un istituto
artistico o il conservatorio (0,3%) (vedi Fig. 18).
Tutto ciò conferma le argomentazioni precedentemente esposte a
livello di letteratura internazionale. Dove le fasce più colpite risultano
essere gli anziani, ma anche le fasce più povere e meno istruite, a causa
di influenze legate agli stili di vita, all’ambiente nel quale sono vissuti e a
quello lavorativo.
83
Fig. 18. Malati di tumore per titolo di studio
0,3
6,9
0,5
8,7
16,8
4,3
39,4
23
Nessun titolo
Licenza elementare
Licenza media
Diploma scuola professionale
Diploma scuola superiore
Istituti artistici
Laurea
Dottorato
Fonte: Nostra elaborazione su dati Multiscopo, 2005.
Per quanto riguarda la condizione professionale, quindi se occupati o
meno e non il tipo di lavoro svolto, invece, emerge sempre dai dati della
Multiscopo, che quasi la metà degli ammalati sono persone ormai in
pensione, ritirate dal lavoro (43,8%). Un dato interessante che emerge
è l’alta percentuale delle casalinghe, che raggiunge quasi un quarto di
tutti i malati (23,9%), mentre la percentuale degli occupati, che
rappresentano il gruppo più numeroso, ed include varie fasce d’età, di
entrambi i sessi e diverse professioni, si attesta intorno al 20,4% (vedi
Fig 19). Se analizziamo la posizione nella professione, vediamo che le
persone maggiormente colpite sono gli impiegati e coloro che stanno
nelle posizioni intermedie (43,6%), a seguire dirigenti, imprenditori e
liberi professionisti (21,2%), operai e apprendisti (19,1%) ed infine,
lavoratori in proprio (15,9%). Va però precisato che da tale suddivisione
sono esclusi i lavoratori occasionali ed i co.co.co, quindi tutta la fascia
dei precari.
84
Fig. 19. Malati di tumore per condizione professionale
43,8
5,1
0,7
4
23,8
20,4
0,4
1,6
Occupato
Disoccupato
In cerca di primo lavoro
Casalinga
Studente
Ritirato dal lavoro
Inabile al lavoro
In altra condizione
Fonte: Nostra elaborazione su dati Multiscopo, 2005.
Un’altra
area
indagata
dall’Indagine
Multiscopo
riguarda
la
prevenzione femminile, in particolare chi si sottopone al pap test in
assenza di sintomi. Emerge, così, che la percentuale di ricorso al pap
test è più elevata tra le donne con titolo di studio più alto, sono infatti il
72,3% tra la fascia d’età 25-64 anni, mentre si scende al 66,1% delle
donne con licenza elementare o nessun titolo (vedi Tab. 6). Le stesse
differenze si notano analizzando l’età al primo pap test: più bassa per le
donne con titolo di studio più alto. L’età al primo pap test è più tardiva
per le donne del sud Italia.
Negli ultimi anni molte Regioni hanno attivato programmi di screening
cervicale e mammografico, seguendo le indicazioni date a livello
nazionale e le linee guide generali dell’Organizzazione Mondiale della
Sanità.
85
Fig. 6. Pap test per classi d’età e titolo di studio (%)
Classi d’età
25-29
30-34
35-44
45-54
55-64
Tot.
25-64
Laurea /
dipl. sc.
45
65,4
78,4
86,1
85,4
72,3
44,4
61,4
72,5
80,2
80,5
71,7
37,8
46,3
49,1
69,1
70,8
66,1
Sup.
Licenza
media
Licenza
element.
Fonte: ISTAT, 2007.
L’area della prevenzione e degli screening è, purtroppo, un altro
campo nel quale si evidenziano molto bene le disuguaglianze. È questo
l’unico livello sul quale si può intervenire contro la malattia, prima viene
diagnostica e più possibilità di sopravvivenza ci sono. Come per altri
aspetti, ad avvantaggiarsi della prevenzione sono le persone più istruite
e appartenenti alle classi sociali alte.
2.5. Reti assistenziali regionali
Come già anticipato, esistono molte disuguaglianze a livello regionale.
Anche i tumori come molti altri aspetti in Italia, risentono della storica
differenza tra Nord e Sud Italia.
Oltre che nella maggiore o minore incidenza e mortalità, le differenze
sono presenti nei servizi offerti ai malati di tumore. Vorremmo qui
illustrare, in forma grafica, le difformità assistenziali e le carenze
strutturali per ciascuna regione.
È anche vero che, spesso le difformità a livello di assistenza fornita
costituiscono
fattori
di
specifici
modelli
di
organizzazione,
autonomamente decisi dalle singole Regioni.
86
La rete assistenziale per i tumori include oltre strutture ospedaliere
con servizio di oncologia medica, i posti letto nelle discipline oncologiche
e in radioterapia, strutture ospedaliere con servizio di radioterapia, le
prestazioni ambulatoriali di oncologia e radioterapia, i posti in hospice, la
spesa per i farmaci antineoplastici e i casi terminali in ADI.
Rispetto a quello che è la media nazionale, le varie Regioni vi si
discostano in modo differente a vari livelli, chi più, chi meno.
Graficamente, la media nazionale è rappresentata con un poligono, a cui
si sovrappongono le varie medie regionali: se il singolo corrispondente
fattore regionale rimane all’interno del perimetro del poligono nazionale,
vuol dire che c’è una situazione di carenza, mentre se fuoriesce vi è una
situazione di eccedenza locale, rispetto alla situazione media nazionale
(vedi Fig. 20).
Fig. 20. Sinossi grafica della rete assistenziale oncologica
Fonte: Osservatorio sulla condizione assistenziale dei malati oncologici, 2010.
87
Nelle figure1 che seguono, è rappresentata una sinossi per ogni
Regione, in cui è sovrapposta la rete regionale a quella nazionale, in
modo da poter vedere immediatamente in quale settore la Regione è
carente (vedi Fig. 21).
Fig. 21. Sinossi Grafica della rete assistenziale delle Regioni
Italiane
Piemonte: si presenta una
situazione abbastanza nella
media
nazionale,
con
qualche valore in più per
l’assistenza
domiciliare
integrata e le prestazioni
ambulatoriali
di
radioterapia.
1
I grafici radar di seguito illustrati sono tutti presi dall’Osservatorio sulla
condizione assistenziale dei malati oncologici. (2010). 2° Rapporto sulla
condizione assistenziale dei malati oncologici.
88
Valle
d’Aosta:
per
questa
Regione bisogna tener conto
della sua modesta dimensione
demografica
e
della
co-
gestione dei malati oncologici
con
un
Centro
situato
in
Piemonte.
Lombardia: la Regione risulta
pienamente
nella
media
nazionale, con una situazione
superiore per quanto riguarda
le
prestazioni
territoriali
e
l’accompagnamento dei malati
terminali.
89
Provincia
Autonoma
di
Bolzano: la situazione della
Provincia
è
particolare.
alquanto
Per
quanto
riguarda la rete assistenziale,
le dotazioni strumentali e la
copertura assistenziale sembra
insufficiente e al di sotto della
media nazionale.
Provincia
Trento:
atipica
Autonoma
situazione
anche
di
piuttosto
questa.
La
carenza di posti letto sembra
compensata
da
un
numero
superiore alla media di servizi
di
oncologia.
La
leggera
carenza di posti in hospice è
compensata
dall’ADI,
eccede
valore
il
che
medio
dell’Italia.
90
Veneto: per questa Regione
vi
è
una
coincidenza
dei
poligoni della rete, ciò sta ad
indicare che la Regione rientra
nella media nazionale.
Friuli
Venezia
Regione
presenta
sostanziale
medie
Giulia:
all’assistenza
una
aderenza
nazionali
e
la
alle
rispetto
ambulatoriale
oncologica.
91
Liguria: la dotazione di posti
letto, i servizi ospedalieri e le
prestazioni
ambulatoriali
di
radioterapia appaiono superiori
alla media nazionale.
Emilia
Romagna:
appare
evidente la notevole attenzione
all’assistenza
terminali,
al
ai
domicilio
malati
e
in
hospice, mentre è in contrasto
la spesa farmaceutica.
92
Toscana: i dati della Toscana
sono abbastanza in linea con
quelli nazionali, tranne che per
la
spesa
territoriale
per
farmaci oncologici.
Umbria: le differenze rispetto
alla situazione nazionale sono
evidenti.
Ha
ottime
prestazioni per quasi tutti i
fattori
esclusa
la
spesa
farmaceutica.
93
Marche: per quanto riguarda
la rete assistenziali, la Regione
si
colloca
eccedendo,
molto
in
bene,
alcuni
casi,
rispetto alla media nazionale.
In assonanza alle altre Regioni
del centro presenta una spesa
farmaceutica inferiore.
Lazio: il grafico della Regione
presenta
una
situazione
superiore alla media nazionale,
con l’unica eccezione di una
modesta
carenza
per
gli
hospice.
94
Abruzzo:
la
situazione
è
complessivamente equilibrata,
con qualche carenza per gli
hospice
e
le
prestazioni
ambulatoriali.
Molise: la rete assistenziale di
questa Regione è del tutto
anomala, tanto da uscire dai
limiti del grafico. Come si è
precedentemente esposto, la
Regione è dotata di un centro
IRCCS di eccellenza.
95
Campania: il grafico mostra
che la Regione è carente per
quanto concerne l’assistenza a
livello
territoriale,
investito
nelle
ma
ha
strutture
ospedaliere.
Puglia:
presenta
la
Regione
una
Puglia
situazione
di
carenza per tutti i fattori.
96
Basilicata: a fronte di una
scarsa attività ambulatoriale, la
Regione eccede nell’assistenza
domiciliare integrata tanto da
finire fuori scala.
Calabria:
il
quadro
della
Regione Calabria è carente in
tutti i settori, ma con una
spesa abnorme per i farmaci.
97
Sicilia: la rete assistenziale
della Regione Sicilia presenta
un’offerta
di
posti
letto
superiore alla media nazionale,
ma una minore intensità per
quanto riguarda le prestazioni
territoriali.
Sardegna:
la
situazione
complessiva è molto vicina alla
media nazionale, con carenze
di prestazioni ambulatoriali di
radioterapia.
98
2.6. Vivere con una malattia cronica
Ci sono patologie che per diffusione e letalità colpiscono l’immaginario
collettivo più di altre, provocando paure e ansie e che cambiano
radicalmente la vita di una persona, della sua famiglia e della comunità
in cui la persona vive. Il cancro è una di queste patologie.
La comparsa di una malattia cronica nella vita di una persona
rappresenta sempre un evento complesso e doloroso.
Dal drammatico e dirompente momento della diagnosi, per tutti i
pazienti
neoplastici
ha
inizio
un
cammino
impervio
che,
indipendentemente dall’esito della malattia, sconvolgerà radicalmente
ogni aspetto della loro vita (Iseppato, 2009).
La nuova condizione obbliga il paziente a sottomettersi a nuove
regole
e
a
ridefinire
la
propria
vita,
le
sue
abitudini,
i
suoi
comportamenti. In molti casi, la malattia ha un decorso lento, per cui il
malato deve imparare a convivere con la malattia e con le terapie.
L’irruzione della malattia distrugge il mondo della vita quotidiana. Le
persone capiscono realmente che cos’è una malattia cronica nel
momento in cui ne sono colpite.
Quella della malattia cronica, ovvero la convivenza prolungata con
una patologia non eliminabile, rappresenta una condizione inedita nella
storia dell’umanità (AA.VV., 2008).
La ri-definizione della propria vita è una questione sia pratica che
emotiva.
Dopo
la
prima
fase
iniziale
di
spaesamento,
questi
aggiustamenti vengono percepiti come un normale adattamento.
La normalizzazione che si cerca di riconquistare è anche un modo per
minimizzare l’impatto della malattia (Robinson, 1993) e costituisce un
tentativo di contenere la malattia e di mantenere le apparenze. Questo
ovviamente è possibile finché la malattia lo permette, fino a quando non
compare con tutta la sua potenza distruttiva.
Però, può anche capitare che la paura che si scatena quando viene
diagnosticato un tumore impedisca l’accettazione di nuove soluzioni. Le
99
reazioni messe in atto possono anche essere di diniego, negazione, che
spingono la persona ad isolarsi, a ritirarsi dalla vita sociale.
La malattia influisce sulla visione della vita, con implicazioni fisiche,
psicologiche e sociali.
La medicina ha fatto grandi progressi anche con i tumori, per quanto
non sia riuscita ancora a sconfiggerli del tutto, è riuscita a dilatare i
tempi della fine. Questo ha portato al fatto che, nella società vivono
molte persone ancora vive, ma già profondamente segnate dal dolore,
dalla prospettiva di una fine a breve, o contraddistinte da mutilazioni
fisiche. Ciò che caratterizza la malattia tumorale è la perdita.
Una precisazione importante da fare è che, essendo il tumore un
male che può colpire differenti organi, esistono di conseguenza differenti
risposte, che possono variare a seconda dei sintomi, della gravità e dei
trattamenti disponibili, non si può quindi generalizzare. Ciò che è certo è
che più il tumore è penalizzante più aumenta la ridefinizione del
presente e del futuro.
Come precedentemente detto, la malattia cronica è una malattia a
lungo decorso, permanente nella vita della persona, che distrugge
lentamente la sua identità. Il soggetto diventa un esperto della sua
malattia, in grado di scegliere percorsi terapeutici differenziati (Bury,
1991). Impara ad ascoltare il proprio corpo e a riconoscere i sintomi
della malattia.
Esiste un’ampia letteratura sui temi della distruzione e della perdita di
identità, tanto da essere definita “evento biografico distruttivo” (Bury,
1982), soprattutto nella classe lavoratrice.
I problemi prioritari che si pongono ad una persona ammalata cronica
sono di tre ordini (Charmaz, 2000):
1. dare un senso alla malattia;
2. ricostruire il proprio io in funzione di ciò;
3. riprendere il controllo della propria vita.
100
I malati cronici devono ripensare la loro vita, la loro qualità della vita
diventa problematica. Usando le risorse a loro disponibili cercano di
affrontare i rischi della nuova situazione.
Per la persona colpita da un tumore, la malattia è al centro di tutti i
rapporti sociali.
Le malattie croniche, ed in particolare il cancro, sono caratterizzate
da
decorsi
fluttuanti,
con
fasi
acute
alternate
a
momenti
di
stabilizzazione della malattia, per poi acutizzarsi, fino alla morte,
all’improvviso. Il paziente deve, quindi, riuscire a ristrutturare il modo di
concepire la propria vita, nonostante la consapevolezza dell’instabilità in
cui si trova. Diventa importante l’illness del paziente, cioè il particolare
modo di percepire il proprio stato di salute, dal quale si può partire per
individuare il percorso migliore.
Terapia, ginnastica, alimentazione equilibrata e bilanciata sono
considerati fattori che migliorano la qualità della vita del paziente e che
possono rappresentare un modo per riappropriarsi del proprio percorso
di vita. Molti pazienti, valutano il loro stato di salute ed eventuali
miglioramenti, proprio dal benessere psicofisico e da azioni facilmente
misurabili, come un maggior appetito, più energia, migliori capacità
motorie.
Il modo in cui si affronta la sofferenza e il dolore dipendono anche
dalle risorse che si sono accumulate nel corso degli anni e che ora la
mente può continuare a utilizzare.
Un’altra questione che merita attenzione riguarda il nesso tra malattia
e contesto familiare, che si declina anche in relazione alle condizioni
socioeconomiche.
Quando nel contesto familiare irrompe una diagnosi tumorale tutta la
famiglia è sottoposta ad un tremendo shock psicologico ed è costretta a
cambiare taluni comportamenti per accettare la situazione. L’equilibrio
familiare si spezza. Il sistema familiare è molto sensibile alla malattia di
un suo membro.
I dati ISTAT (2007) dicono che sono più di sei milioni le famiglie con
almeno un componente affetto da malattie croniche gravi, circa il 28,1%
delle famiglie italiane.
101
Il supporto familiare aiuta il malato a mantenersi obiettivo, ad avere
un atteggiamento positivo, soprattutto nei confronti della sua terapia. La
dimensione temporale che intercorre tra la diagnosi e il momento della
fine, permette alla famiglia di instaurare una relazione di
cura
continuativa e di accompagnamento nell’iter terapeutico.
Da parte del paziente, nei confronti della famiglia, cerca di vivere il
più normalmente possibile, per proteggerli dalla dolorosa separazione
che li attende. L’ammalato cerca anche nascondere i propri sintomi più a
lungo possibile.
Abbiamo già detto che, la comparsa della malattia crea una rottura,
un solco, tra il soggetto e la società, ma anche tra il soggetto e la sua
rete familiare ed amicale. I rapporti con gli altri non saranno più gli
stessi, il malato diventa immediatamente il diverso. Il malato attraversa
una soglia invisibile che lo separa per sempre dal mondo dei sani
(Marzano, 2004).
Inoltre, purtroppo, in alcuni casi e per certi tumori, esiste ancora una
forma di colpevolizzazione della vittima (per esempio, nel caso di tumore
al polmone per i fumatori). La stigmatizzazione di una patologia rivela il
modo in cui una società interpreta e risponde alle malattie (Sontag,
2002). Il cancro può essere visto come una punizione per uno stile di
vita non sano, come risposta per aver scelto di correre dei rischi, una
mancanza di volontà.
Spesso il malato teme di essere un peso per gli altri o che abbiamo
difficoltà a conviverci, di solito queste sono proiezioni che fa il soggetto
stesso, sono quindi, prima di tutto i suoi di sentimenti. La proiezione
diventa una fonte di conflittualità in quanto produce rabbia.
Secondo la Idler (1979), le reazioni che il malato può avere quando
gli viene diagnosticata una malattia grave e terminale, sono di quattro
tipi:
− tendenza ad isolarsi, concentrandosi esclusivamente sul proprio
corpo;
− cristallizzazione della coscienza sul presente della malattia;
− sfiducia nella forza di reazione del proprio corpo alla malattia;
102
− diminuzione delle capacità comunicative rispetto ai propri stati,
con conseguente tendenza all’isolamento.
Le reazioni appena elencate rappresentano delle indicazioni degli
effetti che la malattia può avere sull’autorappresentazione che il
soggetto ha di sé.
La malattia non si esaurisce nell’ammalato, ma si estende al mondo
dell’ammalato (famiglia, amici, lavoro, etc…). “Vivere” una malattia
cronica è sensazione che coinvolge corpo e psiche (Charmaz, 2000). La
malattia cronica pone al soggetto molti più problemi sociali, di
interazione ed esistenziali di una malattia acuta.
Comprendere l’esperienza di malattia cronica significa andare oltre lo
stress fisico, la conoscenza dei sintomi e il bisogno di cure, ma include le
metafore e i significati che accompagnano la malattia, i giudizi morali
che ne possono scaturire e la ricostruzione del sé.
Infine, possiamo dire, che anche come si vive con una malattia
cronica, come la si affronta, risente delle influenze culturali e delle
credenze (Calnan, 1987; Crawford 1984; Fitzpatrick et al. 1984).
Nancy Waxler (1981) porta ad esempio gli etiopi, che considerano la
malattia con fatalismo, qualcosa contro cui non si può fare niente,
inoltre, l’ammalato abbandona i suoi familiari, la sua casa ed adotta
volontariamente un’identità stigmatizzante. Al contrario, gli americani
tendono a pubblicizzare la malattia e, a seconda della malattia, diventa
un modo per educare altri verso quella malattia e i rischi che se ne
corrono. Un tipico esempio sono le lezioni ai liceali contro l’AIDS e certi
tumore, come ai polmoni e al fegato, da parte di malati.
Quindi, il contesto storico, culturale, sociale ed istituzionale influenza
il significato della malattia. In ogni società, le persone malate imparano
qual è il ruolo che la società si aspetta da loro.
Le azioni assumono valore in relazioni al contesto nel quale si vive.
Gli atteggiamenti cambiano nella fase avanzata della malattia,
quando subentra un forte dolore ed i trattamenti e le terapie non
sortiscono gli effetti sperati, e provocano inevitabili, profonde riflessioni
sulla morte.
103
Ciò che aspetta al malato di tumore è un faticoso cammino
caratterizzato da una continua ricostruzione del percorso di vita, un
cammino personale, compiuto attraverso il dolore e la sofferenza.
Tuttavia, anche nel caso in cui si riesca a vincere la malattia, anche a
distanza di anni, rimangono effetti fisici e soprattutto psicologici. Rimane
la sensazione di incertezza ed il timore di recidive. La vita prosegue
segnata dalle visite ambulatoriali e dai controlli di follow-up.
In
ogni
caso,
tutto
è
condizionato
dalle
caratteristiche
della
personalità del soggetto. Ciascuna persona può decidere di lasciarsi
sopraffare o meno dai risvolti invalidanti della malattia.
104
Capitolo 3
Modelli assistenziali
3.1.
Le politiche
Nella Carta dei Diritti fondamentali dell’Unione Europea si riconosce il
diritto all’assistenza sociale, alla prevenzione sanitaria e alle cure
mediche,
oltre
che
alla
presa
in
considerazione
delle
condizioni
lavorative che possono influire sulla salute.
Le
disuguaglianze
di
salute
sono
una
delle
quattro
priorità
dell’iniziativa della Commissione Europea sulla salute dei giovani,
lanciata nel 2009.
Il Consiglio Europeo del giugno 2008 ha sottolineato l’importanza di
ridurre le disuguaglianze in materia di salute, che esistono tra gli Stati
membri e al loro interno ed ha deciso di sostenere gli Stati membri nel
far fronte a tale situazione.
Il Consiglio, in più occasioni, ha insistito sull’obiettivo fondamentale di
ridurre le disuguaglianze di salute, puntando l’attenzione soprattutto su
un migliore accesso alle cure sanitarie e ai sistemi di prevenzione delle
malattie, in particolare per quanto riguarda gli screening di prevenzione
dei tumori.
105
La lotta contro le disuguaglianze di salute è tra le azioni fondamentali
della Strategia Sanitaria dell’UE (2008 – 2013), che appunto identifica
l’equità nella salute come un valore basilare delle nostre società, ed
orienta la lotta in settori specifici, tra cui la salute mentale e il cancro.
Le politiche dell’UE contribuiscono in vario modo nel sostenere gli
Stati membri nella riduzione delle disuguaglianze di salute. Per esempio
con politiche volte alla sostenibilità economica e alla solidarietà sociale,
ma anche con politiche ambientali e di diritto del lavoro. L’UE concede
aiuti finanziari attraverso il Fondo europeo agricolo, che possono essere
utilizzati per ridurre le disparità tra regioni mediante investimenti in
fattori come le condizioni di vita, i servizi di formazione e di
occupazione, i trasporti e le tecnologie.
Nonostante tutti i buoni propositi, le azioni attualmente in corso
sembrano avere avuto un impatto limitato, e vi è il rischio che le
differenze aumentino.
Anche se, la responsabilità principale in materia di salute spetta agli
Stati membri, l’UE dovrebbe utilizzare quanto più efficacemente possibile
i meccanismi e gli strumenti di cui dispone nel controllare e valutare i
progressi compiuti nell’applicazione di politiche specifiche.
Un’equa distribuzione della salute dovrebbe essere parte integrante
dello sviluppo sociale ed economico globale.
Gli Stati membri dovrebbero impegnarsi a stabilire, in stretta
collaborazione un insieme comune di indicatori per il controllo delle
disuguaglianze di salute. L’UE da parte sua, potrebbe contribuire
finanziando progetti pilota.
Le azioni dell’UE dovrebbero essere indirizzate a sostenere l’ulteriore
sviluppo e raccolta dati; orientare la ricerca comunitaria al fine di ridurre
le lacune esistenti; porre l’accento sulla diffusione di buoni prassi.
Un buon esempio dell’operato dell’UE è la strategia comunitaria di
salute e sicurezza sul lavoro 2007-2012, che offre l’opportunità di
ridurre le disuguaglianze di salute nell’UE proteggendo la salute dei
lavoratori e riducendo l’impatto negativo di alcuni suoi determinanti.
In Italia, è col Piano Sanitario Nazionale 1998 – 2000 che la riduzione
delle disuguaglianze sociali nella salute entra formalmente nell’agenda
106
politica, ed è annoverata tra gli obiettivi prioritari. Nel Piano sono anche
riconosciuti la scarsità di evidenze epidemiologiche sulle disuguaglianze
in Italia.
Il compito del sistema sanitario, in merito alle disuguaglianze di
salute, è riconducibile a tre aspetti:
•
Non concorrere alla generazione delle disuguaglianze;
•
Cercare di ridurre l’impatto delle disuguaglianze sulla salute;
•
Promuovere politiche non sanitarie.
Sempre nel Piano Sanitario Nazionale 1998 - 2000, viene riconosciuto
il ruolo delle malattie croniche, considerate la nuova frontiera della
medicina. A tal proposito si sottolinea che una categoria di persone
sovente affette da patologie croniche, gli anziani, nel 2020 costituirà il
23% della popolazione italiana. La patologia cronica è la protagonista
futura della medicina e della nostra società, per questo il Piano Sanitario
le
attribuisce
attenzione
prioritaria,
in
primis
nominandola
espressamente negli obiettivi II e IV, ma anche in tutte le parti
riguardanti la prevenzione.
Il PSN prevede la realizzazione di interventi domiciliari e residenziali a
supporto dei malati, che anche se non hanno più possibilità di guarire,
hanno comunque il diritto a ricevere tutte le cure possibili, nel tentativo
di ridurre la sofferenza per migliorare la qualità del tempo che resta loro
da vivere.
Nel Piano Sanitario Nazionale 2006-2008 si ribadisce che un sistema
sanitario ideale dovrebbe tendere alla sicurezza, all’efficacia, alla
centralità del paziente, alla tempestività delle prestazioni, all’efficienza e
all’equità. Per cui è necessario sviluppare un nuovo modello che
comprenda i pazienti, i professionisti e l’organizzazione.
Un punto saldo di tutto il Piano è quello di promuovere e garantire
l’equità
del
sistema,
intendendo
con
ciò
il
superamento
delle
disuguaglianze sociali e territoriali. Il tema del superamento del divario
strutturale e qualitativo dell’offerta sanitaria tra le diverse realtà
107
regionali rappresenta ancora un asse prioritario nella programmazione
sanitaria nazionale.
Tra i tanti temi trattati nel PSN, in corrispondenza con i cambiamenti
nel sistema salute e in campo epidemiologico, si parla delle malattie
croniche, e si riconosce la necessità dell’integrazione socio-sanitaria per
trattare queste patologie.
L’evoluzione della domanda di salute pone la necessità di intervenire
in modo diverso. La risposta al bisogno di unitarietà del processo di cura
si realizza attraverso lo sviluppo di percorsi integrati e di continuità delle
cure.
L’oncologia rappresenta una delle priorità del sistema salute in ambito
nazionale, vista l’alta incidenza e la prevalenza delle patologie tumorali.
Per questo, sia a livello nazionale che regionale, da tempo si è orientati
verso una programmazione che migliori tutti gli aspetti della lotta contro
il cancro, sia per quanto riguarda la prevenzione che per la qualità
dell’assistenza e della ricerca.
Il Ministero della Sanità ha sviluppato un Piano triennale oncologico
(2010 – 2012). Tale piano oncologico cerca di affrontare tutti i problemi
connessi all’oncologia, dalla prevenzione alle cure palliative.
Obiettivo
prioritario
è
quello
di
offrire
standard
diagnostici
e
terapeutici sempre più elevati e per tutti, riducendo il gap esistente tra
le diverse aree della penisola.
Le azioni programmatiche per il triennio sono (vedi Fig. 1):
• Definire standard di qualità e metodiche per la loro valutazione
al fine di ridurre la mortalità per cancro;
• Ridurre il divario nella mortalità per cancro fra le Regioni,
mediante un più razionale impiego delle risorse;
• Ridurre la migrazione sanitaria tra le varie Regioni, favorendo la
riduzione del divario tecnologico, organizzativo ed assistenziale;
• Incrementare la copertura da parte dei Registri Tumori;
• Facilitare la creazione di reti telematiche dei Registri Tumori;
108
• Sviluppare reti oncologiche con modelli Hub & Spoke, dedicate
in
particolare
allo
sviluppo
e
all’applicazione
di
nuove
metodologie diagnostiche e terapeutiche.
Le politiche attuate per ridurre l’insorgenza dei tumori, decise a livello
europeo, riguardano i seguenti settori:
• Combattere il fumo;
• Promuovere un’alimentazione salubre e l’attività fisica;
• Combattere l’uso dell’alcool;
• Combattere gli agenti infettivi oncogeni;
• Combattere l’esposizione ad oncogeni negli ambienti di vita e di
lavoro;
• Sviluppo tecnologico.
L’altro punto fondamentale da rafforzare è quello degli screening. I
“Programmi organizzati di screening” sono inclusi dal 2001 nei Livelli
Essenziali di Assistenza, in particolare per i tumori alla mammella, alla
cervice uterina e al colon – retto. A tal fine, il Piano Oncologico prevede
di definire un programma nazionale, in accordo con le Regioni, per la
sperimentazione di innovazioni nei modelli organizzativi per i programmi
di screening.
Per quanto riguarda la continuità assistenziale, gli obiettivi del Piano
Oncologico mirano ad ottimizzare la gestione dei percorsi diagnostico
terapeutici. Deve essere garantita la presa in carico globale del malato
fin dall’inizio del percorso terapeutico, l’approccio integrato vede come
obiettivo la cura del malato e non solo del tumore.
L’umanizzazione delle cure si realizza attraverso una collaborazione
profonda tra operatori di diverse discipline e con la partecipazione, nelle
scelte terapeutiche, del malato e dei familiari. In questo modo si può
assicurare alla persona malata e alla sua famiglia una migliore qualità di
vita durante tutte le fasi delle cure e dell’assistenza.
Il mantenimento della migliore qualità di vita possibile costituisce una
priorità sia medica sia sociale.
109
Fig. 1. Azioni Programmatiche Triennio 2010 – 2012
Fonte: Ministero della Salute, 2010.
Gli Stati che hanno adottato politiche di prevenzione e programmi di
screening hanno raggiunto risultati apprezzabili. Per esempio, per il
tumore al seno, la forma di cancro più comune tra le donne dei Paesi
occidentali,
il
tasso
di
mortalità
è
in
diminuzione
e
quello
di
sopravvivenza a cinque anni dalla diagnosi è cresciuto (OECD, 2007)
(vedi. Fig. 2).
110
Fig. 2. Screening mammografico, percentuale di donne età
50-69 anni
Norvegia
Finlandia
Svezia
Paesi Bassi
Irlanda
Francia
Canada
Regno Unito
Nuova Zelanda
Islanda
Stati Uniti
Portogallo
Italia
Belgio
Australia
Ungheria
Korea
Svizzera
Repubblica Ceca
Messico
Slovacchia
Polonia
Giappone
0
20
40
60
80
100
Fonte: OECD, 2007.
Il tumore al seno, rappresenta il miglior esempio di come la
combinazione di interventi di sanità pubblica e l’avanzamento della
tecnologia medica, possano realmente portare al miglioramento della
sopravvivenza. Una
promozione
maggiore consapevolezza della malattia e la
degli
screening
mammografici
hanno
portato
all’individuazione della malattia a stadi precoci, mentre i progressi
tecnologici e chirurgici hanno elevato il tasso di sopravvivenza. Lo stesso
si può dire per il tumore al colon retto e alla cervice, dove si sono
registrati
tassi
di
sopravvivenza
in
aumento,
grazie
appunto
ai
programmi di screening e di diagnosi precoce.
La persona affetta da patologia cronica, nonostante non sia in grado
di poter essere guarita, ha comunque dei diritti, ribaditi con forza anche
dall’OMS,
e
che
gli
operatori
sanitari
devono
rispettare.
Oltre
111
ovviamente al diritto prioritario, che rientra nei diritti fondamentali della
persona ad essere curata anche se inguaribile, ha il diritto:
− a non venire trascurata, in quanto non costituisce un caso
scientificamente interessante;
− a non vedersi negati ausili che l’aiuterebbero a vivere meglio;
− a non venire trasferita in modo forzato, a seconda della
disponibilità di posti letto, magari lontana da casa e dagli affetti;
− ad essere ascoltata quando esprime parere su ciò che la
riguarda direttamente.
Sicuramente, un altro diritto da rispettare è il diritto a non essere
segregati dalla vita sociale, soprattutto per persone giovani. Spesso i
medici tendono a concentrarsi solo sulle cure, con la conseguenza di
medicalizzare tutto e non tengono in considerazione la necessità della
persona di potere avere ancora una vita.
Un altro diritto, molto importante per le persone, è la possibilità di
poter essere curate al proprio domicilio. Le cure domiciliari sono un
ottimo rimedio contro la depressione. Proprio per questo i migliori
programmi di aiuto e supporto sono quelli che prevedono l’assistenza
domiciliare integrata,
realizzata
appunto garantendo la
continuità
terapeutica tra ospedale e territorio, per accompagnare e sostenere il
paziente nel suo spazio di vita. Per poter fare ciò è essenziale un buon
livello organizzativo della struttura sanitaria territoriale.
3.2. Nuovi modelli di cura
Il cambiamento verificatosi nella transizione epidemiologica, con lo
spostamento da malattie acute a malattie croniche, necessita anche di
una revisione dei modelli assistenziali.
I nuovi modelli sono il risultato del cambiamento dell’assetto del
sistema
sanitario, caratterizzato dallo spostamento del
baricentro
112
dall’ospedale al territorio. Sono stati molti i fattori che hanno contribuito
a modificare il rapporto tra bisogno/domanda di salute e offerta dei
servizi, tra cui il cambiamento della struttura della famiglia, l’aumento
delle patologie croniche, il potenziamento della medicina e della
tecnologia.
C’è la necessità di implementare una nuova medicina che riesca ad
intervenire
prima
dell’evento
acuto,
cioè
nella
prevenzione
e
nell’identificazione precoce dei soggetti a rischio e con azioni volte allo
sviluppo di reti integrate.
Questi obiettivi rimettono in discussione il ruolo dell’assistenza
primaria e dei medici di famiglia e puntano a strumenti di management
aziendale, quali lo sviluppo dell’associazionismo medico, la ridefinizione
delle funzioni della medicina di famiglia, la definizione di percorsi per
patologia, l’attivazione di sistemi di programmazione e controllo e lo
sviluppo di sistemi informativi.
L’aumento dei malati cronici sta creando un’emergenza per i sistemi
sanitari e il sempre maggior numero di persone ammalate di tumori
richiede sempre più servizi specialistici.
Oggi di tumore si vive a lungo e il concetto di cancro come sinonimo
di morte è superato. Proprio per questo, i sistemi sanitari devono
adoperarsi per dare alle persone affette da patologia oncologica la
possibilità di recupero o di mantenimento della massima autonomia
fisica e relazionale, per la migliore qualità di vita possibile.
Avendo come assunto prioritario quello della qualità della vita, le cure
devono avere un approccio rivolto ad incontrare i bisogni dei cittadini. È
importante privilegiare un atteggiamento che superi il concetto di “cure”
per approdare al “care”, sviluppare, quindi modelli assistenziali orientati
ad
implementare
ciò
che
è
già
presente.
Modelli
caratterizzati
dall’empowerment del paziente, volti quindi ad aiutare i partecipanti a
trattare autonomamente la sintomatologia nelle sue manifestazioni più
comuni e frequenti.
Il nuovo modello culturale della cura, caratterizzato dalla “presa in
carico”
dei
pazienti
(patient
centred)
opera
per
contenere
il
113
deterioramento del soggetto, alleviare la sofferenza, sostenere le risorse
esistenti, rendere accettabili i restanti giorni di vita.
Ciò che deve essere centrale è la rilevanza significativa alla presa in
carico del singolo paziente, sia per quanto riguarda la prevenzione, sia la
continuità di cura in fase diagnostica e terapeutica. È necessario un
approccio
multidisciplinare
che
prevede
valutazione collegiale e l’elaborazione di
per
ogni
paziente
una
un indirizzo diagnostico
terapeutico, nel quale tutte le competenze professionali utili siano
coinvolte. Per il paziente, il vantaggio della rete, è di poter trarre
benefici dalle conoscenze e dall’esperienza dei vari specialisti e quindi di
veder applicata al proprio caso la terapia migliore, oggi disponibile.
La classe medica, oggi, si trova a dover fronteggiare richieste sempre
più pressanti, da parte di pazienti/cittadini sempre più informati e che
pretendono un percorso trasparente per quanto riguarda le condizioni
cliniche e la determinazione del loro valore.
In passato, il medico era l’esperto, il professionista che sapeva e si
collocava in posizione superiore rispetto al paziente. Col nuovo modello
di cura, rivolto ai pazienti affetti da malattie croniche, intervengono più
professionisti, si instaurano relazioni multiple e variegate. Non è più una
relazione duale, medico-paziente, nel percorso di cura si inseriscono
anche i familiari e gli operatori di altri servizi. È fondamentale cooperare,
gestire le micro conflittualità e offrire tutti i supporti per promuovere
autonomie.
La collaborazione e la sinergia degli operatori (medici di medicina
generale,
specialisti,
pediatri,
specialisti
ambulatoriali)
in
forme
organizzate a garanzia della continuità della cura, non costituisce più
una scelta fondata sulla libera iniziativa dei singoli, ma è considerata
essenziale.
Si verifica, quindi, un cambiamento di modello, da uno in cui il centro
dell’attenzione era la malattia ad un nuovo modello in cui si valorizza il
paziente e le sue capacità residue (vedi Fig. 3).
114
Fig. 3. Modelli culturali di cura
Fonte: Modificato da ASR – Emilia Romagna.
Applicare alle malattie croniche il paradigma assistenziale delle
malattie acute provoca danni incalcolabili (Maciocco, 2008), in quanto,
secondo quel paradigma, il sistema sanitario si mobiliterebbe davvero
solo nel momento in cui il paziente si aggrava e, quindi, diventa un
paziente acuto. Così facendo si salta tutta la parte, fondamentale, della
prevenzione e rimozione dei fattori di rischio e del trattamento adeguato
della malattia cronica di base.
La malattia cronica richiede, oltre alla presenza di centri di eccellenza,
la capacità solidale dell’intera comunità di appartenenza.
Per garantire la continuità della cura, specie nelle fasi avanzate e
terminali della malattia, è necessario un coordinamento nel passaggio
dall’ospedale ai servizi territoriali, in collaborazione con le famiglie ed il
volontariato.
In questo contesto, assume particolare importanza l’organizzazione
su tutto il territorio nazionale di una rete di cure domiciliari.
Il modello organizzativo assistenziale del case management si
propone come strumento empirico, nella realizzazione di percorsi di
115
cura, che favoriscono l’efficacia e il controllo dei costi e che risponde in
modo individualizzato ai bisogni di salute.
Diverse sono le definizioni date del case management: sistema di
accertamento, pianificazione, fornitura, erogazione, coordinamento dei
servizi e monitoraggio dei bisogni; ma anche modello organizzativo
assistenziale che ha lo scopo di provvedere alla qualità delle cure,
aumentare la qualità della vita, diminuire la frammentazione e contenere
i costi dell’assistenza.
Utilizzando tale modello, si possono ottimizzare i livelli di autocura,
fornire qualità e continuità nella cura e di conseguenza accrescere la
qualità della vita del paziente.
Il case management si profila come la migliore risposta a pazienti con
bisogni molteplici e percorsi assistenziali molto lunghi.
L’approccio del case management è quello di considerare i pazienti
come
soggetti
che
stanno
vivendo
un
percorso
di
malattia,
allontanandosi così dalla concezione di vedere i pazienti attraverso le
cure erogate in modo frammentario ed episodico.
Uno degli strumenti del case management è i clinical pathways, cioè
dei
percorsi
di
cura integrati
che definiscono l’attività clinico –
assistenziale multidisciplinare, sulla base di linee guida e di evidenze
scientifiche. In concreto, i clinical pathways permettono di tradurre nella
pratica clinica le indicazioni contenute nelle linee guida.
I clinical pathways possono essere definiti come la trasposizione dei
percorsi in un preciso iter multidisciplinare, allo scopo di ottenere la
massima efficacia ed efficienza delle attività.
Tutti gli Stati stanno sperimentando nuovi modelli assistenziali per
rispondere alle nuove necessità dei propri cittadini ammalati.
Il Regno Unito, si è contraddistinto come sempre nelle innovazioni in
campo sanitario. Recentemente il Ministero della Sanità britannico,
ispirandosi al Chronic Care Model statunitense (cfr. par. 3.3) ha
elaborato un proprio modello di assistenza sociosanitaria per i pazienti
cronici, da implementare nel National Health Service.
116
Il modello chiamato “Improving chronic disease management” punta
all’empowerment del paziente e della comunità e alla qualificazione del
team assistenziale.
In questo modello la salute della popolazione viene divisa in tre livelli
di necessità assistenziali:
− Supported
self-care:
che
riguarda
circa
il
70-80%
della
popolazione. Fornendo il giusto supporto alle persone, possono
imparare a prendersi cura di se stessi, convivere e gestire la
propria condizione. Questo può aiutare a prevenire complicanze
e rallentare il deterioramento. La maggioranza delle persone
con una malattia cronica rientra in questa categoria, quindi
anche i piccoli miglioramenti possono avere grossi impatti
positivi.
− Disease specific care management: che coinvolge circa il 1520% della popolazione e sono i pazienti cronici ad elevato
rischio. Un’assistenza di alta qualità viene fornita da un team
multidisciplinare,
in
tal
modo
la
gestione
della
cura
è
appropriata per la maggior parte delle persone incluse in questo
livello. L’assistenza segue protocolli approvati e percorsi specifici
per quella patologia. L’approccio su cui si basa è di tipo
proattivo.
− Case management: che riguarda circa il 2-3% dei pazienti
cronici
ad
elevata
complessità.
Quando
compaiono
più
condizioni croniche (comorbidità), la presa in carico del paziente
diventa più complessa e difficile da gestire. Questo richiede una
gestione del caso con un operatore chiave, di solito un
infermiere, che gestisce attivamente l’assistenza per queste
persone (vedi Fig. 4).
117
Fig. 4. Disease Management
Fonte: Department of Health, Government of United Kingdom, 2005.
Tale modello rientra nella strategia di “Population management”, in
cui rientra oltre ai sopradescritti livelli di salute della popolazione, le
risorse della comunità, i sistemi informativi e i servizi sanitari e sociali.
L’erogazione
dei
servizi
è
caratterizzata
da
quattro
approcci
assistenziali: promoting better health; supported self-care, disease
management e case management (vedi Fig. 5).
Si introduce così una gestione programmata dei pazienti cronici
attraverso un nuovo disegno del team assistenziale, nel quale si
valorizzano tutte le figure sanitarie.
118
Fig. 5. Modello britannico di assistenza sociosanitario a
pazienti cronici
Fonte: Department of Health, Government of United Kingdom, 2005.
Il
modello
inglese
appena
presentato
si
presenta
come
un’infrastruttura a supporto del sistema di erogazione.
È stato implementato nel 2005 e da allora è diventato linea guida per
i servizi territoriali del National Health Service.
La nuova sanità ha bisogno oltre che di tecniche e tecnologie
avanzate, di professionisti competenti e aggiornati alle più recenti
evidenze scientifiche e di un’alta dose di umanità.
C’è ancora molto da riflettere su come gestire questo tipo di patologie
e l’obiettivo più importante da raggiungere è senz’altro ancora quello di
migliorare la qualità dell’assistenza di questi pazienti.
I bisogni del malato oncologico non si esauriscono nel disporre della
migliore
terapia
che
offre
la
scienza,
è
indispensabile
agire
nell’ottimizzare ogni fase della malattia, fino al ritorno alla vita sociale.
119
3.3. Il Chronic Care Model
I cambiamenti verificati negli ultimi anni hanno ormai confermato la
necessità dell’acquisizione di nuovi strumenti di lettura.
Una solida letteratura scientifica ha ormai dimostrato che adeguati
interventi potrebbero ridurre il pesante carico delle malattie croniche.
Obiettivo a cui tendere sempre, in ogni caso, deve essere il
miglioramento degli esiti.
Si sta diffondendo un nuovo Health System, cioè una cultura basata
su un’organizzazione e meccanismi che promuovano un’assistenza sicura
e di alta qualità.
Una radicale innovazione nel modello assistenziale fornito ai malati
cronici è rappresentato dal “Chronic Care Model” elaborato dal Professor
Wagner, direttore del MacColl Institute for Healthcare Innovation di
Seattle.
Inizialmente il modello è stato sperimentato presso una Managed
Care Organization (MCO), la Group Health Cooperative.
Il modello propone dei cambiamenti a livello dei sistemi sanitari, utili
a favorire il miglioramento delle condizioni dei malati cronici.
Il fulcro su cui si basa è un approccio “proattivo” tra il personale
sanitario e i pazienti stessi, e quest’ultimi diventano parte integrante del
processo assistenziale.
Il Chronic Care Model individua le variabili fondamentali che servono
per creare un approccio sistemico che include tutte le leve organizzative
ed operative.
Il modello è basato su sei elementi fondamentali (vedi Fig. 6), sui
quali è necessario intervenire per fornire la migliore assistenza possibile
ai malati cronici:
− Le risorse della comunità (Community);
− Le organizzazioni sanitarie (Health System);
− Il sostegno all’autocura (Self-Management Support);
− L’organizzazione del team (Delivery System Design);
120
− Il sostegno alle decisioni (Decision Support);
− I sistemi informativi per tentare di valutarne la fattibilità di
applicazione
allo
specifico
contesto
nazionale
(Clinical
Information Systems).
Fig. 6. Il Chronic Care Model
Fonte: Wagner, 1996.
Partendo dal primo punto, le risorse della comunità, è ovvio che per
migliorare l’assistenza ai pazienti cronici è necessario stabilire solidi
collegamenti tra le organizzazioni sanitarie, le risorse della comunità, i
gruppi di auto aiuto e quelli di volontariato. Spingere le organizzazione
sociali a sviluppare interventi che riempiano le mancanze nei servizi.
Inoltre, una volta mobilizzate le risorse della comunità, si deve
incoraggiare i pazienti a partecipare ad efficaci programmi sociali.
La gestione delle malattie croniche dovrebbe entrare a far parte delle
priorità dei finanziatori e degli erogatori dell’assistenza sanitaria. La
nuova
cultura
organizzativa
promuove
un
visibile
miglioramento
121
supportato ad ogni livello dell’organizzazione. Serve a promuovere
efficaci
strategie
di
miglioramento,
finalizzate
ad
un
globale
cambiamento del sistema. Se ciò non si verifica, difficilmente saranno
introdotte le necessarie innovazioni nei processi assistenziali e nelle
organizzazioni sanitarie e ancora più difficilmente si raggiungerà la
giusta qualità dell’assistenza.
Per quanto riguarda il supporto all’autocura, vuol dire che il paziente
con una malattia cronica diventa il protagonista attivo del proprio
processo di cura. È il paziente che deve imparare a vivere con la
malattia e quindi a gestirla, soprattutto negli aspetti inerenti l’uso dei
farmaci e lo stile di vita. Il sostegno all’auto cura significa aiutare i
pazienti e i loro familiari ad acquisire abilità nel management della
malattia, nel risolvere eventuali problemi che si presentano e nel
valutare i risultati.
I medici ospedalieri, i medici di base, gli infermieri costituiscono il
team assistenziale. Rispetto alle cure fornite ai pazienti con malattie
acute, l’organizzazione del team deve essere profondamente rivista. Il
personale medico non è formato per supportare l’auto cura dei pazienti,
mentre il personale non medico è adibito a quello, a svolgere alcune
specifiche funzioni e assicurare lo svolgimento del follow up dei pazienti.
Insieme formano il personale del team. Le visite programmate sono uno
degli aspetti più significativi del nuovo disegno organizzativo del team. I
ruoli e i compiti devono essere ben definiti e distribuiti fra i membri del
team. Infine, è fondamentale assicurarsi che il paziente abbia capito
tutto e che le spiegazioni fornite siano corrispondenti al suo background
culturale.
Le linee guida basate sulle evidenze forniscono al team gli standard
da seguire per un’assistenza ottimale ai pazienti cronici e aiutano il team
nel prendere decisioni. Ogni decisione presa o assistenza clinica fornita
deve essere in accordo con le evidenze scientifiche, ma le linee guida
devono essere integrate con la pratica clinica quotidiana. Inoltre, la
condivisione delle linee guida e delle informazioni col paziente, permette
ed incoraggia la sua partecipazione.
122
I sistemi informativi computerizzati fungono da:
1.
sistema di allerta che aiuta i team delle cure primarie ad attenersi
alle linee guida;
2.
feedback per i medici, mostrando i livelli di performance nei
confronti degli indicatori delle malattie croniche;
3.
registri di patologia per pianificare la cura individuale dei pazienti.
La registrazione dei dati relativi ai pazienti e alle popolazioni facilita
un’assistenza efficace ed efficiente (vedi Tab. 1).
123
Tab. 1. Sintesi delle prove dell’efficacia dei componenti del
Chronic Care Model
Componenti
Interventi che si sono
Risultati attesi misurati
dimostrati efficaci
Sostegno all’autocura
Istruzione del paziente;
Misure fisiologiche della
Motivazione del paziente;
malattia;
Counselling;
Fattori legati al paziente:
Distribuzione di materiale
qualità della vita, stato di
educativo.
salute, stato funzionale,
soddisfazione del servizio,
comportamenti a rischio,
conoscenze, adesione al
trattamento.
Organizzazione del team
Team multidisciplinare
Misure fisiologiche della
malattia;
Adesione dei professionisti
alle linee guida;
Uso dei servizi da parte dei
pazienti.
Sostegno alle decisioni
Implementazione delle linee
Adesione dei professionisti
guida;
alle linee guida;
Incontri educativi con i
Misure fisiologiche della
professionisti;
malattia.
Distribuzione di materiale
educativo tra i
professionisti.
Sistemi informativi
Audit e feedback
Aderenza dei professionisti
alle linee guida.
Organizzazioni sanitarie
Piccole pubblicazioni
sperimentali delle evidenze.
Risorse della comunità
Piccole pubblicazioni
sperimentali delle evidenze.
Fonte: Nostra traduzione da European Observatory on Health Systems and Policies
Series, 2008.
124
Le sei componenti del Chronic Care Model appena descritte sono
interdipendenti, costruite l’una sull’altra.
Però, mentre le prime due componenti sono caratterizzate da una
forte valenza politica, gli ultimi quattro caratterizzano il percorso
assistenziale dei pazienti affetti da disturbi cronici. Secondo il Chronic
Care Model, informare i pazienti e fornire loro un valido supporto
all’autocura
è
un
processo
di
fondamentale
importanza
per
il
raggiungimento di un miglior stato di salute, nonostante il permanere
della malattia.
L’organizzazione del percorso assistenziale deve garantire un perfetto
coordinamento tra tutto il personale sanitario, compreso quello non
medico.
Il
personale
d’aggiornamento
sanitario
continuo
ed
deve
ogni
poter
decisione
accedere
clinica
a
deve
fonti
essere
supportata da linee guida che, garantiscano la massima efficacia del
trattamento assistenziale. Proprio per questo è essenziale anche un
ampio sistema di informazioni cliniche digitali che fornisca dati relativi a
pazienti affetti da disturbi cronici. Consultando il database si potrà
mettere a punto un piano individualizzato di assistenza e le migliori
strategie.
L’obiettivo finale del Chronic Care Model è quello di creare un
paziente informato che interagisce con un team appositamente formato
e proattivo, per il raggiungimento di un’assistenza di alta qualità,
un’utenza soddisfatta e miglioramenti nello stato di salute della
popolazione.
Il Chronic Care Model rappresenta un’ottima ed efficace guida per
migliorare l’assistenza ai pazienti cronici.
Uno studio di Tsay e colleghi (2005) sull’applicazione del Chronic Care
Model in 112 studi controllati randomizzati e non randomizzati su malati
cronici è giunto alla conclusione che negli interventi in cui era presente
almeno un elemento del modello gli outcome clinici erano migliori.
Il Chronic Care Model prevede un continuum assistenziale tra le
strutture ospedaliere ed i servizi territoriali e si propone di erogare
un’assistenza più qualificata al paziente dopo la dimissione ospedaliera.
125
La maggiore novità introdotta da questo modello consiste nella
formazione, sul territorio, di personale sanitario esperto per una
determinata patologia, ma soprattutto la formazione del “paziente
esperto”, non più oggetto della malattia, ma soggetto attivo nella
gestione della propria patologia. Un paziente educato all’autogestione e
informato sulle problematiche della sua patologia, che può essere in
grado
di
affrontarle
e
gestirle
coscientemente,
con
aumentata
compliance.
Il sistema di valutazione si basa su determinati aspetti centrali (Noto,
Di Stanislao, 2006):
− un focus sul paziente e sul suo progetto individuale di salute,
costruito attraverso un patto terapeutico personalizzato, che
considera sia la malattia clinica (disease) che quella vissuta
(illness);
− un focus sugli esiti effettivamente raggiungibili e sui processi
attivati;
− un
focus
sul
sistema
organizzativo,
cioè
su
quanto
l’organizzazione riesca a compiere nella direzione sistemica
indicata dal Chronic Care Model.
Negli
USA
alcune
tra
le
più
importanti
Health
Maintenance
Organization hanno come riferimento il Chronic Care Model.
Lo stesso staff del MacColl Institute dopo aver visto i risultati positivi
ottenuti dal loro modello ha pensato ad alcuni cambiamenti che
rendessero il modello più facilmente esportabile in altre Regioni. Ogni
Stato sulla base di quelle che sono le caratteristiche della propria
popolazione e della propria comunità può proporre un differente
framework per migliorare la qualità e l’efficienza dei propri sistemi
sanitari. Il nuovo framework (vedi Fig. 7) deve essere basato su
componenti specifiche, a partire dalle iniziative regionali.
126
Fig. 7. Framework per la creazione di un Sistema Sanitario
Regionale
Fonte: MacColl Institute for Healthcare Innovation.
Nel nuovo quadro proposto, letto dall’alto al basso, gli obiettivi
fondamentali rimangono:
• migliorare la qualità delle cure e dei risultati in una popolazione,
in particolare per i malati cronici;
• ridurre i costi delle cure, maggiore efficienza amministrativa,
ma mantenendo sempre il miglioramento degli esiti.
Per raggiungere questi ambiziosi obiettivi serve una riprogettazione
importante dei nostri attuali sistemi di assistenza sanitaria.
In breve tempo il modello è stato importato in Europa, con alcuni
aggiustamenti a seconda delle caratteristiche del Paese. Rimane,
comunque, centrale l’approccio volto alla tutela della salute per il
paziente cronico (vedi Fig. 8).
127
Fig. 8. Approccio volto alla tutela della salute
Fonte: MacColl Institute for Healthcare Innovation.
Gli elementi fondamentali del modello restano quasi sempre gli stessi,
cambia la disposizione, la complessità e il ruolo dei vari fattori.
Per esempio, nel 2000 lo stato australiano del New South Wales
(NSW) ha istituito un programma per le cure croniche. Tra le attività
messe in atto, la nomina di coordinatori di cura per le persone con
patologie croniche, con lo scopo di incoraggiare approcci con team
multidisciplinari, che coinvolgono medici, infermieri e altri professionisti
del settore sanitario. L’esperienza della prima fase del programma era
mista, così nella seconda fase si è adottato un approccio più ampio,
volto a sviluppare un NSW Chronic Care Model. Sono ancora in corso i
lavori di questa seconda fase, che dovrebbe disegnare, in linea anche
con le indicazioni del WHO, un Chronic Care Model applicabile al
contesto locale.
Anche in Italia, alcune ASL stanno cominciando a sperimentare il
Chronic Care Model. Per esempio è stato adottato dall’ASL 10 Firenze
con la Società della Salute Sud-Est, con l’obiettivo di migliorare la
qualità della vita del paziente cronico. Per il momento il progetto è stato
128
sperimentato su pazienti affetti da scompenso cardiaco, diabete,
nefropatia, riportando buoni risultati.
129
Conclusioni
Il tema delle disuguaglianze di salute si trova nell’intersezione di più
discipline: la sociologia e l’epidemiologia che le descrive, la medicina che
vuole contrastarle, l’economia per i danni economici e la politica che ha
il dovere di ridurle. L’intento di fondo di questo lavoro è stato quello di
farle incontrare al fine di descrivere come e dove possono nascere le
disuguaglianze di salute, e di verificare in che misura sono documentate
e presenti nel nostro Paese.
Misurare le disuguaglianze in materia di salute è il primo passo
fondamentale per contrastarle. Nonostante il fatto che esistono prove
solide in una serie di ambiti, è necessario disporre di informazioni più
particolareggiate sull’effetto e sull’importanza dei vari determinanti della
salute per intraprendere azioni efficaci in rapporto a particolari gruppi di
popolazione.
È necessario conoscere meglio l’efficacia delle varie politiche volte a
combattere le disuguaglianze. Pur essendo state effettuate numerose
prove sull’efficacia degli interventi in materia di salute pubblica, solo per
pochi interventi sono stati specificatamente valutate le ripercussioni
sulla salute di gruppi sociali specifici o zone geografiche.
La mancanza di dati normalmente disponibili e comparabili e le
carenze nella ricerca costituiscono un ostacolo nel valutare l’attuale
situazione,
determinare
le
priorità
politiche,
stabilire
confronti,
130
individuare
le
migliori
prassi
e
attribuire
risorse
dove
sono
maggiormente necessarie. I dati esistenti e quelli futuri dovrebbero
essere utilizzati per mettere a punto misure delle disuguaglianze di
salute che consentano di effettuare confronti tra vari periodi e varie
zone.
La letteratura esistente riguardo alle disuguaglianze sociali nella
salute dimostra la chiara esistenza di un’associazione tra livello
socioeconomico e stato di salute ed un gradiente di salute regolare
lungo tutta la scala sociale e per un’ampia varietà di patologie.
La presenza di un gradiente sociale nella salute che attraversa tutto
l’assetto sociale lascia
supporre l’esistenza
di
molteplici
fonti
di
disuguaglianza che si intersecano.
Le ipotesi fatte in merito sono tante, ed è quindi auspicabile che gli
studi proseguano, ma sicuramente la considerazione del tenore di vita
degli individui resta un’ipotesi valida ed influente.
L’obiettivo idealistico dovrebbe
approccio
ed
una
metodologia
essere
di
quello di
analisi
che
sviluppare un
tenga
conto
contemporaneamente di variabili tradizionali e di quelle nuove, dei
concetti di classe e di reddito, ma anche degli aspetti relativi alle
situazioni di vita degli individui, come i nuovi legami sociali o le nuove
povertà e fragilità.
Dall’analisi effettuata si nota che, anche in Italia, un segnale forte, è
sicuramente il ruolo degli stili di vita, soprattutto per certe malattie, che
è in effetti possibile collegare alla condizione socioeconomica.
Dall’analisi dei dati, però, purtroppo non è stato possibile trovare
un’associazione statisticamente significativa per l’incidenza dei tumori e
lo status sociale, come invece è possibile in altri Paesi europei. Gli studi
su questo tema nel nostro Paese sono ancora scarsi, nonostante si
riconosca l’importanza di fattori esterni alla medicina nell’insorgere del
cancro.
Gli studi italiani, sembrano molto più concentrati sulle differenze
geografiche e territoriali che ancora persistono in modo invasivo, su più
campi, inclusi i tumori.
131
Il Sud Italia presenta tutt’ora un profilo di salute peggiore del resto
d’Italia. Per quanto riguarda i tumori, è registrata una minore incidenza,
ma una maggiore mortalità. Inoltre, gli abitanti delle Regioni meridionali
sono spesso costretti ad una migrazione sanitaria, aggiungendo così
anche
la
difficoltà
di
doversi
spostare,
cosa
non
sempre
economicamente possibile per tutti, e la sofferenza della lontananza
dagli affetti.
Per quanto riguarda il Sistema Sanitario è emerso che suo ruolo è
minore nel generare le disuguaglianze di salute, un ruolo predominante
spetta ai fattori sociali. Anche per quanto riguarda le malattie croniche,
e nei tumori nello specifico, abbiamo visto quanta parte abbiamo i fattori
non medici. Ma una volta comparsa la malattia, la differenza la fa
l’organizzazione sanitaria, che deve appunto modellarsi sulle nuove
necessità e fornire nuovi modelli assistenziali. Qui sta la differenza.
Un ruolo forte spetta alla disponibilità di nuove forme di assistenza,
modellate sui nuovi bisogni del paziente. Un malato che non ha solo
bisogno di cure, ma di essere accolto nella sua totalità, con progetti
integrati e che riconoscano la capacità residua del soggetto.
I nuovi modelli di cura rappresentano il futuro dell’assistenza, su di
essi si deve puntare, implementandoli nel rispetto anche delle diversità
locali, adattandoli a sfruttare i punti di forza del contesto nel quale
vengono inseriti.
Per rispondere al bisogno sempre più crescente di cure di lunga
durata, è necessario rivedere l’orientamento della ricerca e dello
sviluppo in materia sanitaria, l’investimento di capitali, la formazione dei
professionisti e le relazioni interpersonali.
La malattia oncologica rappresenta una priorità per la sanità pubblica
ed una sfida per la medicina.
Un altro aspetto sul quale puntare e che acquista rilevanza prioritaria
è la prevenzione e le campagne di screening, a partire proprio da quei
gruppi sociali, che abbiamo visto, essere i più discriminati e soggetti alle
disuguaglianze di salute.
I tumori sono uno dei capitoli più importanti per la salute della
società, ed è sempre più evidente che una adeguata attenzione alla
132
prevenzione e alla qualità delle cure sono in grado di modificare
rispettivamente l’incidenza e la sopravvivenza in modo significativo; una
buona quota di risultati di salute possono ancora essere ottenuti in
questo modo nei prossimi anni.
Se è vero che allo stato attuale della ricerca non si può far niente per
arrestare questa nuova epidemia, il male del secolo, il sistema salute ha
il dovere di sostenere e aiutare nel miglior modo possibile le persone che
ne sono affette, nel trovare soluzioni alternative, nel rispetto della
persona.
133
Riferimenti bibliografici
AA.VV.
(2008).
“Il
vissuto
del
malato
cronico
tra
isolamento,
“normalizzazione” e riduzione del capitale sociale. Tavola rotonda”. In
Battisti, F., Esposito, M. “Cronicità e dimensioni socio-relazionali”. In
Salute e Società, Anno VII – 3. Milano: Franco Angeli.
AA.VV.
(2010).
Rapporto
Osservasalute
2009.
Roma:
Università
Cattolica del Sacro Cuore.
Acheson, D., Barker, D., Chambers, J., Graham, H., Marmot, M.,
Whitehead, M. (1998). Independent inquiry into inequalities in health.
Report. London: The Stationery Office.
AIRTUM. (2009). “I tumori in Italia – Rapporto 2009. In Epidemiologia e
Prevenzione. No. 33 luglio-ottobre, supplemento 1.
Albrecht, G.L., Fitzpatrick, R., Scrimshaw, S.C. (1999). The Handbook of
Social Studies in Health and Medicine. London: Sage Publications.
Annandale, E. (1998). The Sociology of Health and Medicine: a critical
introduction. Cambridge: Polity.
Ardigò, A. (1997). Società e salute. Lineamenti di sociologia sanitaria.
Milano: Franco Angeli.
ARPAT.
(2004).
applicazioni
in
Epidemiologia
sanità
ambientale.
pubblica.
Firenze:
Metodi
di
ARPAT.
studio
[tit.
e
orig.
Environmental Epidemiology. A textbook on Study Methods and Public
Health Applications].
134
Barker, D.J.P. (1994). Mothers, babies and disease in the later life.
London: BMJ Publishing Group.
Battisti, F.M., Esposito, M. (2008). “Cronicità e dimensioni sociorelazionali”. In Salute e Società, Anno VII – 3. Milano: Franco Angeli.
Barry, A.M, Yuill, C. (2002). Understanding the Sociology of Health.
London: Sage Publications.
Bartley, M. (2004). Health Inequality. Cambridge: Blackwell Publishing.
Berger, P.L., Luckmann, T. (1969). La realtà come costruzione sociale.
Bologna: Il Mulino.
Black, D., Smith, C., Townsend, P. (1980). Inequalities in Health: report
of a research working group. London: DHSS – Department of Health
and Social Security.
Blane, D., Davey Smith, G., Bartley, M. (1993). “Social selection: what
does it contribute to social class differences in health?. Sociology of
Health and Illness, No. 15:1-15.
Blaxter, M. (1990). Health and lifestyles. London: Tavistock.
Bradby, H. (2009). Medical Sociology. London: Sage Publications.
Brandolini, A., Saraceno, C., Schizzerotto, A. (a cura di). (2009).
Dimensione della disuguaglianza in Italia: povertà, salute, abitazione.
Bologna: Il Mulino.
Braveman, P., Tarimo, E. (2002). “Social inequalities in health within
countries: not only an issue for affluent nations”. In Social Science &
Medicine. No.54, pp. 1621-1635.
135
Bronzini, M. (2009). Sistemi sanitari e politiche contro le disuguaglianze
di salute. Milano: Franco Angeli.
Brown, P. (2007). Perspective in Medical Sociology. Long Grove, Illinois:
Waveland Press.
Bruner, E., Marmot, M. (2006). “Social organization, stress and health”.
In Marmot, M., Wilkinson, R. Social Determinants of Health. New
York: Oxford University Press.
Bucchi, M., Neresini, F. (2001). Sociologia della salute. Roma: Carocci.
Bullard, R.D. (1993). Confronting environmental racism: voices from the
grassroots. Cambridge MA: South End Press.
Bury, M.R. (1982). “Chronic Illness as Biographical Disruption”. In
Sociology of Health and Illness, vol. 4, n. 2, pp. 167-182.
Bury, M.R. (1991). “The Sociology of Chronic Illness: a review of
research and prospects”. In Sociology of Health and Illness, Vol. 13,
No.4:451-168.
Calnan, M. (1987). Health and Illness: the Lay Perspective. London:
Tavistock.
Cardano, M., Costa, G., Demaria, M., Merler, E., Biggeri, A. (1999). “Le
diseguaglianze di mortalità negli studi longitudinali italiani”. In
Epidemiologia & Prevenzione, N. 23, pp. 141 – 152.
Cardano, M., (2008), “Disuguaglianze sociali di salute. Differenze
biografiche incise nei corpi”, in Polis, n.1, pp. 119-146.
136
Carter, S.M., Hooker, L.C., Heather, M.D. (2009). “Writing social
determinants into and out of cancer control: an assessment of policy
practice”. In Social Science & Medicine. No. 68, pp. 1448-1455.
Cassel, E.J. (1976). The Healer’s Art: a New Approach to the Doctorpatient Relationship. New York: Lippincot.
Cattaneo,
A.,
Tamburlini,
G.
(2006).
“Il
profilo
globale
delle
disuguaglianze nella salute”. In Osservatorio Italiano sulla Salute
Globale (a cura di). A caro prezzo. Le disuguaglianze nella salute.
Pisa: Edizioni ETS.
Cetto, G.L. (2009). La dignità oltre la cura. Dalla palliazione dei sintomi
alla dignità della persona. Milano: Franco Angeli.
Charmaz, K. (2000). “Experiencing Chronic Illness”. In Albrecht, G.L.,
Fitzpatrick, R., Scrimshaw, S.C. The Handbook of Social Studies in
Health and Medicine. London: Sage Publications.
Clarke,
A.
(2001).The
Sociology
of
Healthcare.
Essex:
Pearson
Education.
Clegg, L.X. et al. (2009). “Impact of socioeconomic status on cancer
incidence and
stage
at
diagnosis:
selected
findings from
the
surveillance, epidemiology, and end results: National Longitudinal
Mortality Study”. In Cancer Causes Control. N. 20:417-435.
Coburn, D. (2000). “Income inequality, social cohesion and the health
status of populations: the role of neo-liberalism”. Social Science &
Medicine. No. 51, pp. 135-146.
Cockerham, W.C. (2010). Medical Sociology. Chichester West Sussex:
Wiley – Blackwell.
137
Commission on Social Determinants of Health. (2007). Achieving Health
Equity: from roots causes to fair outcomes. Geneva: WHO.
Comodo, N., Maciocco, G. (2006). Igiene e Sanità Pubblica. Roma:
Carocci.
Cosmacini, G., Sironi, V.A. (2002). Il male del secolo. Per una storia del
cancro. Roma: Laterza.
Costa, G., Faggiano, F. (a cura di). (1994). L’Equità nella salute in Italia.
Rapporto sulle disuguaglianze sociali in sanità. Milano: Fondazione
Smith Kline, Franco Angeli.
Costa, G., Cardano, M., Demaria, M. (1998). Torino. Storie di salute in
una grande città. Torino: Città di Torino, Ufficio di Statistica.
Costa, G., Spadea, T. e Cardano, M. (2004). “Disuguaglianze di salute”.
Supplemento di Epidemiologia e Prevenzione. Anno 28, n. 3.
Crawford, R. (1984). “A cultural account of health: control, release and
the social body”. In McKinlay, J.B. Issues in the Political Economy of
Health Care. New York: Tavistock.
Delamothe, T. (1991). “Social inequalities in health”. British Medical
Journal. Vol. 303: 1045-50.
Della Bella, S. (2008). “Disuguaglianze sociali nella salute: possibili
interpretazioni ed approcci di studio”, in Habitus, n. 5, vol. 1.
Demakakos,
P.,
Nazroo,
J.,
Breeze,
E.,
Marmot,
M.
(2008).
“Socioeconomic status and health: The role of subjective social
status”. Social Science & Medicine. No. 67, pp. 330-340.
138
Di Stanislao, F., Liva, C. (1997). Accreditamento dei servizi sanitari in
Italia. Torino: Centro Scientifico Editore.
Di Stanislao, F., Visca M., Caracci, G., Moirano, F. (2010). “Sistemi
integrati e continuità nella cura: la riorganizzazione ospedaliera e il
rapporto territorio-ospedale”. In Salute e Territorio, No. 179.
Di Stanislao, F., Caracci, G., Moirano, F. (2010). “Gli indicatori per la
misura della continuità assistenziale”. In Salute e Territorio, No. 179.
Donati, P. (a cura di). (1982). Salute e analisi sociologica. Milano:
Franco Angeli.
Donati, P. (2003). Famiglia e capitale sociale nella società italiana.
Rapporto CISF. Milano: San Paolo.
Elias, N. (2005). La solitudine del morente. Bologna: Il Mulino.
Elstad, J.I. (1998). “The psycho-social perspective on social inequalities
in health”. Sociology of Health & Illness. Vol. 20, No. 5, pp. 598-618.
European Health Net. (2005). Tackling Health Inequalities. Position
Paper.
European Observatory on the Social Situation. (2005). Health Status
and Living Conditions in an Enlarged Europe. Vienna: European
Centre for Social Welfare Policy and Research.
European Observatory on Health Systems and Policies. (2010). Health in
the European Union. Trends and analysis. Copenhagen: World Health
Organization.
Faggiano, F.,Zanetti, R., Costa, G. (1994). “Le differenze sociali
nell’incidenza dei tumori a Torino negli anni ‘80”. In Costa, G.,
139
Faggiano, F. (a cura di). L’Equità nella salute in Italia. Rapporto sulle
disuguaglianze sociali in sanità. Milano: Fondazione Smith Kline,
Franco Angeli.
Faggiano, F., Di Stanislao, F., Lemma, P., Renga, G. (1999). “Inequities
in health. Role of social class in caries occurrence in 12 years old in
Turin, Italy. In European Journal of Public Health. N. 9, pp. 109 –
113.
Faris, D.E., Dunham, H.W. (1939). Mental disorder in urban areas.
Chicago: The University of Chicago Press.
Field, D., Taylor, S. (a cura di). (1998). Sociological Perspective on
Health, Illness and Health Care. Oxford: Blackwell Science.
Fisher, E.B. (2008). “The Importance of Context in Understanding
Behavior and Promoting Health”. In Ann. Behav. Med., N. 35:3-18.
Fitzpatrick, R., Hinton, J., Newman, S., Scambler, G., Thompson, J.
(1984). The Experience of Illness. London: Tavistock.
Frederiksen
Lidegaard,
Jørgensen,
treatment
T.
B.,
(2009).
explain
Osler,
“Do
social
M.,
patient
inequality
Harling, H., Ladelund, S.,
characteristics,
in
survival
disease,
from
or
colorectal
cancer?”. In Social Science & Medicine. No. 69, pp. 1107-1115.
Furler, J. (2008). “Changing paradigms in chronic conditions care”. In
Chronic Illness. N. 4:157-159.
Gabe, J., Bury, M., Elston, M.A. (2004). Key Concepts in Medical
Sociology. London: Sage Publications.
Genova, A. (2008). Le disuguaglianze nella salute. Roma: Carocci.
140
Graham, S. (1977). “Cancro, cultura e struttura sociale”. In Maccacaro
G., Martinelli, A. (a cura di). Sociologia della medicina. Milano:
Feltrinelli.
Granovetter, M. (1973). “The Strength of Weak Ties”. In American
Journal of Sociology, vol. LXXVIII, pp. 1361-1380.
Haynes, R., Pearce, J., Barnett, R. (2008). “Cancer survival in New
Zealand: ethnic, social and geographical inequalities”. In Social
Science & Medicine. No. 67, pp. 928-937.
Haslbeck,
J.W.,
Schaeffer,
D.
(2009).
“Routines
in
medication
management: the perspective of people with chronic conditions”. In
Chronic Illness. N. 5:184-196.
Heath, I. (2010). “Crocodile tears for health inequality”. In British
Medical Journal, No. 340.
Hiatt, R.A, Breen, N. (2008). “The Social Determinants of Cancer”. In
American Journal of Preventive Medicine, Vol. 35, N. 2S, pp. 141150.
Kaplan, GA. (1996). “People and places: contrasting perspectives on the
association between social class and health”. In International Journal
of Health Service, N. 26:507–19.
Kawachi, I. et al. (1997). “Social Capital, Income Inequality and
Mortality”. In American Journal of Public Health, No. 87:1491-1498.
Kogevinas, M., Marmot, M., Fox, A., Goldblatt, P. (1991). ”Socioeconomic differences in cancer survival. In Journal Epidemiology of
Community Health, No. 45:216-219.
141
Koh, H.K, Judge, C.M., Ferrer, B., Gershman, S.T. (2005). “Using public
health data systems to understand and eliminate cancer disparities”.
In Cancer Causes and Control. N. 16:15-26.
Krieger, N. (1999). “Embodying inequality: a review of concepts,
measures
and
methods
for
studying
health
consequences
of
discrimination”. In International Journal of Health Service, No.
29:295-352.
Krieger, N., Emmons, K.M., White, K.B. (2005). “Cancer disparities:
developing a multidisciplinary research agenda – preface”. In Cancer
Causes and Control. N. 16:1-3.
Krieger, N. (2005). “Defining and investigating social disparities in
cancer: critical issues”. In Cancer Causes and Control. N. 16:5-14.
Krieger, N. (2008). “Proximal, distal, and the politics of causation:
what’s level got to do with it?”. In American Journal of Public Health,
98:221-30.
Kuh, D., Ben – Shlomo, Y. (1997). A Life Course Approach to Chronic
Disease Epidemiology. Oxford: Oxford University Press.
Kunst, A.E., Groenhof, F., Mackenbach, J.P., et al. (1998). “Occupational
class and cause-specific mortality in middle aged men in 11 European
Countries: comparison of population based studies”. In British Medical
Journal, No. 316:1636-1342.
IARC. (1997). Social Inequalities and Cancer. Lyon: International
Agency for Research on Cancer.
IARC. (2007). “Estimates of the cancer incidence and mortality in
Europe 2006”. In Annals of Oncology. February 7.
142
Idler, E.L. (1979). “Definitions of Health and Illness and Medical
Sociology”. In Social Science & Medicine, 13A:723-731.
Illich, I. (1976). Nemesi medica. L’espropriazione della salute. Milano:
Boroli Editore.
IOM. (1999). Toward environmental justice: research, education and
health policy needs. Washington DC: National Academy Press.
Iseppato, I. (2009). “Il cancro, tra definizione scientifica ed esperienza
individuale”. In Cipolla, C., Maturo, A. (a cura di). Con gli occhi del
paziente. Milano: Franco Angeli.
ISTAT. (2007). Indagine Multiscopo sulle condizioni di salute e ricorso ai
servizi sanitari. Roma: ISTAT.
Last, J. (1995). A dictionary of Epidemiology, 3rd edition. Oxford: Oxford
University Press.
Link, B.G., Phelan, J.C. (2000). “Evaluating the fundamental cause
explanation for social disparities in health”. In Bird C.E., Conrad, P.,
Fremont, A.M. Handbook of Medical Sociology. Upper Saddle River:
Prentice-Hall.
Lynch, J. (2000). “Income inequality and health: expanding the debate”.
Social Science & Medicine. No. 51, pp. 1001-1005.
Lynch, J., Davey Smith, G., Kaplan, A.G., House, J.S., (2000). “Income
inequality and mortality: importance to health of individual income,
psychosocial environment, or material conditions”. British Medical
Journal. Vol. 329:1200-4.
Lucchini, M., Sarti, S., Tognetti Bordogna, M., (2009). “I Welfare
regionali e le differenze territoriali nelle disuguaglianze di salute”. In
143
Brandolini A., Saraceno C., Schizzerotto A. (a cura di). Dimensione
della disuguaglianza in Italia: povertà, salute, abitazione. Bologna: Il
Mulino.
Lucchini, M., Tognetti Bordogna, M. (2010). “Le disuguaglianze di
salute”. In AIS (a cura di). Mosaico Italia. Milano: Franco Angeli.
Luhmann, N. (1990). Sistemi sociali. Fondamenti di una teoria generale.
Bologna: Il Mulino.
Maccacaro, G.A., Martinelli, A. (1977). Sociologia della medicina. Milano:
Feltrinelli.
Macintyre S. (1997). “The Black report and beyond; what are the
issues?”. Social Science and Medicine; No. 44:723-746.
Macintyre, S., Ellaway, A., Cummins, S. (2002). “Place effects on
health: how can we conceptualise, operationalise and measure
them?”. In Social Science & Medicine, No.55, pp. 125-139.
Macintyre, S., McKay, L., Ellaway, A. (2005). “Are rich people or poor
people more likely to be ill? Lay perceptions, by social class and
neighbourhood, of inequalities in health”. In Social Science &
Medicine, No. 60, pp. 313-317.
Macintyre, S., Macdonald, L., Ellaway, A. (2008). “Do poorer people
have poorer access to local resources and facilities? The distribution
of local resources by area deprivation in Glasgow, Scotland”. In Social
Science and Medicine, No. 67, pp.900-914.
Maciocco, G. (2006). “Prefazione”. In Osservatorio Italiano sulla Salute
Globale (a cura di). A caro prezzo. Le disuguaglianze nella salute.
Pisa: Edizioni ETS.
144
Maciocco, G. (2008). “Malattie croniche: nuovi modelli assistenziali”. In
Prospettive Sociale e Sanitarie, N. 3.
Mackenbach, J.P., et al. (1988). “Post-1950 Mortality trends and medical
care: gains in life expectancy due to declines in mortality conditions
amenable to medical intervention in the Netherlands”. In Social
Science and Medicine, No.27, vol.9, pp.889-894.
Mackenbach, J.P. et al. (2004). “Inequalities in lung cancer mortality by
the educational level in 10 European populations”. In European
Journal of Cancer. N. 40:126-135.
Marceca, M., Ciccarelli, S. (2007). “Parole chiave: cronico”. In Care, n.
3.
Marinacci, C. (2004). “Il contesto”. In Costa G., Spadea T., Cardano M.
(a cura di). Disuguaglianze di salute in Italia. Epidemiologia e
Prevenzione, No. 28, suppl. 3, pp.76-81.
Marino, M. (2003). Salute e malattia. Tra vecchi e nuovi paradigmi.
Milano: Franco Angeli.
Marmot, M., Bobak, M., Davey Smith, G. (1994). “Spiegazioni per le
disuguaglianze sociali nella salute”. In Costa, G., Faggiano, F. (a cura
di). L’equità nella salute in Italia. Milano: Fondazione Smith Kline,
Franco Angeli.
Marmot, M., Wilkinson, R.G. (1999). (a cura di). Social determinant of
health. Oxford: Oxford University Press.
Marmot, M., Wilkinson, R. (2001). “Psychosocial and material pathways
in the relation between income and health: a response to Lynch et
al.”. British Medical Journal. Vol. 322; 1233-1236.
145
Marmot, M. (2004). The Status Syndrome. How Social Standing Affects
Our Health and Longevity. New York: Holt Paperbacks.
Marzano, M. (2004). Scene finali. Morire di cancro in Italia. Bologna: Il
Mulino.
Mathers, C., Loncar, D. (2006). “Projections of Global Mortality and
Burden of Disease from 2002 to 2030”. In PLoS Medicine, Vol. 3,
Issue 11, November.
McKeown, T. (1976). The Role of Medicine: Dream, Mirage or Nemesis?.
Oxford: Basil Blackwell.
McLeroy K.R., Bibeau, D. Steckler, A. Glanz, K. (1988). “An ecological
perspective on health promotion programs”. In Health Educational
Quarterly, No. 15:351-377.
Melchior, M., Goldberg, M., Krieger, N., Kawachi, I., Menvielle, G., Zins,
M., Berkman, L. (2005). “Occupational class, occupational mobility
and cancer incidence among middle-aged men and women: a
prospective study of the French Gazel cohort”. In Cancer Causes and
Control, Vol. 16, N. 5, June.
Menvielle, G., Luce, D., Geoffroy-Perez, B., Chastang, J.F., Leclerc, A.
(2005). “Social inequalities and cancer mortality in France, 1975 –
1990”. In Cancer Causes and Control, Vol. 16, N. 5, June.
Mirowsky, J., Ross, C.E., Reynolds, J. (2000). “Links between social
status and health status”. In Bird, C.E., Conrad, P. Fremont, A.M.
Handbook of Medical Sociology. Upper Saddle River: Prentice-Hall.
Murianni, L., Sabetta, T., Sferrazza, A., Ricciardi, W. (2008). “Prevenire
le malattie croniche: sfida del futuro”. In Battisti, F., Esposito, M.,
146
“Cronicità e dimensioni socio-relazionali”, Salute e Società, Anno VII
– 3.
Munir, F., Leka, S., Griffiths, A. (2005). “Dealing with self-management
of chronic illness at work: predictors for self-disclosure”. In Social
Science & Medicine. No.60, pp. 1397-1407.
National Cancer Institute (NCI). (2004). Overview of Health Disparities
Research: Health Disparities Definition.
Nettleton, S. (2006). The Sociology of Health and Illness. Cambridge:
Polity.
Niero, M. (2008). La personalizzazione nella ricerca quantitativa. Per la
valutazione della salute e degli esiti riferiti dai pazienti. Milano:
Franco Angeli.
Niezen, M.G.H., Stolk, E.A., Steenhoek, A., De Groot, C.A. (2006).
“Inequalities in oncology care: Economic consequences of high cost
drugs”. In European Journal of Cancer. N. 42:2887-2892.
Noto, G., Di Stanislao, F. (2006). “Come implementare un sistema di
valutazione della gestione del paziente con patologia a lungo termine
nelle aziende sanitarie”. In Tendenze Nuove, N. 4-5, pp.361-374.
Nuvolati, G., Tognetti Bordogna, M. (2008). Salute, ambiente e qualità
della vita nel contesto urbano. Milano: Franco Angeli.
OECD. (2007). Health at a Glance 2007. Paris: OECD.
Omran, A. (1971). “The epidemiologic transition: a theory of the
epidemiology of population change”. In Milbank Memorial Fund
Quarterly, vol. 49, n.4, pp. 509-538.
147
Osservatorio Italiano sulla Salute Globale. (2006). A caro prezzo. Le
disuguaglianze nella salute. Pisa: Edizioni ETS.
Osservatorio sulla condizione assistenziale dei malati oncologici. (2010).
2° Rapporto sulla condizione assistenziale dei malati oncologici.
Roma: Ministero della Salute - FAVO.
Padovani, G. (2008). Il diritto negato. La salute e le cure sono uguali per
tutti? Roma: Il Pensiero Scientifico Editore.
Parodi, A. (2002). Storie della medicina. Torino: Edizioni di Comunità.
Parsons, T. (1951). Il Sistema sociale. Torino: Edizioni di Comunità.
Phelan, J.C., Link, B.G., Diez-Roux, A., Kawachi, I., Levin, B., (2004).
“Fundamental causes of social inequalities in mortality: a test of the
theory”. In J Health Soc Behav, No. 45:265-285.
Popay, J., Williams, G., Thomas, C., Gatrell, A., (1998). “Theorizing
inequalities in health: the place of lay knowledge”. Sociology of
Health & Illness. Vol. 20, No. 5, pp. 619-644.
Pratschke, J. (2006). “Siegrist e la sociologia: un commento critico”. In
Giarelli, G. Geyer, S. (a cura di). “Prospettive europee sui sistemi
sanitari che cambiano”. Salute e Società, Anno V – Supplemento n.1.
Prinja,
S.,
Kumar,
R.
(2009).
“Reducing
health
inequities
in
a
generation: a dream or reality?”. Bulletin World Health Organization,
87:84.
Regione Piemonte, Assessorato alla Sanità. (2001). La salute in
Piemonte 2000. Torino.
148
Robinson, C.A. (1993). “Managing a life with a chronic condition: The
story of normalization”. In Qualitative Health Research, No.3: 6-28.
Rodgers, G.B., (2002). “Income and inequality as determinants of
mortality: an international
cross-section analysis”. International
Journal of Epidemiology. No. 31:533-538.
Rutigliano, E. (2001). Teorie sociologiche classiche. Torino: Bollati
Boringhieri.
Sarti, S. (2006). “La classe sociale in buona salute”, in Polis, n.3, pp.
317-346.
Scrambler, G. (a cura di). (1997). Sociology as Applied to Medicine.
London: Saunders Company.
Sen, A. (1992). Risorse, valori e sviluppo. Torino: Bollati Boringhieri.
Shi, L., Macinko, J., Starfield, B., Politzer, R., Wulu, J., Xu, J. (2005).
“Primary care, social inequalities and all-cause, heart disease and
cancer mortality in US counties: a comparison between urban and
non-urban areas”. In Public Health. N. 119:699-710.
Siegrist, J. (1979). Sociologia medica. (1979). Padova: Cedam.
Siegrist, J. (1995). “Social differentials in chronic disease: what can
sociological knowledge offer to explain and possible reduce them?”.
In Social Science and Medicine. Vol. 41, N. 12, pp. 1603-1605.
Siegrist, J. (1999). “The Social Causation of Health and Illness”. In
Albrecht, G.L., Fitzpatrick, R., Scrimshaw, S.C. The Handbook of
Social Studies in Health and Medicine. London: Sage Publications.
149
Siegrist, J., Marmot, M. (2006). Social Inequalities in Health. New
evidence and policy implications. Oxford: Oxford University Press.
Simon,
A.E.,
Wardle,
J.
(2008).
“Socioeconomic
disparities
in
psychosocial wellbeing in cancer patients”. In European Journal of
Cancer. N. 44:572-578.
Smith, A. (1975). La ricchezza delle Nazioni. Roma: Grandi Tascabili
Economici Newton [ed. orig. 1976 An Inquiry into the Nature and
Causes of the Wealth of Nations].
Smith, D.G., Leon, D., Shylley, M.J., Rose, G. (1991). “Socioeconomic
differentials in cancer among men”. In International Journal of
Epidemiology, No. 20:339-345.
Sontag, G. (2002). Malattia come metafora. Cancro e Aids. Milano:
Oscar Mondadori.
Spadea, T, Cois, E. (2004). “I primi anni di vita”. In Costa, G., Spadea,
T. e Cardano, M. (2004). “Disuguaglianze di salute”. Supplemento di
Epidemiologia e Prevenzione. Anno 28, n. 3.
Spadea, T. et al. (2010). “Cancer risk in relationship to different
indicators of adult socioeconomic position in Turin, Italy”. In Cancer
Causes Control. N. 21:1117-1130.
Susser, M., Watson, W., Hopper, K. (1985). Sociology in Medicine. New
York: Oxford University Press.
Stefanini, A., Albonico, M., Maciocco, G. (2006). In Osservatorio Italiano
sulla Salute Globale (a cura di). A caro prezzo. Le disuguaglianze
nella salute. Pisa: Edizioni ETS.
150
Strauss, A.L., et al. (1975). Chronic Illness and Quality of Life. St. Louis:
Mosby.
Stuckler, D., Basu, S., Mckee, M. (2010). “Budget crises, health and
social
welfare
programmes”.
In
British
Medical
Journal,
No.
340:c3311.
Tarlov, A.R. (2000). “Coburn’s thesis: plausible, but we need more
evidence and better measures”. In Social Science & Medicine”, No.
51, pp. 993-995.
Tognetti Bordogna, M. (2008). Disuguaglianze di salute e immigrazione.
Milano: Franco Angeli.
Tommis, Y. et al. (2009). “Carers with chronic conditions: changes over
time in their physical health”. In Chronic Illness. N. 5:155-164.
Townsend, P., Davidson, N. (1982). The Black Report on Social
Inequalities in Health. London: Pelican.
Townsend, P. Davidson, N., Whitehead, M. (1992). Inequalities in
Health. The Black Report. The Health Divide. London: Penguin Books.
Tsay, A.C., Morton, S.C., Mangione, C.M., Keller, E.B. (2005). “A meta
analysis of interventions to improve care for chronic illnesses”. In
American Journal of Managed Care, August 11(8):478-488.
Twaddle, A. (1968). Influence and Illness: Definition and Definers of
Illness Behavior among Older Males in Providence, Rhode Island.
PhD. Thesis, Brown University.
Valkonen, T. (1994). “Le ineguaglianze sociali nella salute nei paesi
europei: testimonianze e tendenze”. In Costa, G., Faggiano, F., (a
151
cura di). Equità nella salute in Italia. Milano: Fondazione Smith Kline,
Franco Angeli.
Vannoni, F. (2004). Gli stili di vita. In Costa, G., Spadea, T. e Cardano,
M. (2004). “Disuguaglianze di salute”. Supplemento di Epidemiologia
e Prevenzione. Anno 28, n. 3.
Vicarelli, G. (1993). “La salute e i servizi sociali e sanitari”. In Paci, M. (a
cura di). Le dimensioni della diseguaglianza. Bologna: Il Mulino.
Vicarelli, M.G. (1997). Alle radici della politica sanitaria in Italia. Società
e salute da Crispi al Fascismo. Bologna: Il Mulino.
Vineis, P. (1990). Modelli di rischio. Epidemiologia e causalità. Torino:
Einaudi.
Zhang-Salomons, J., Qian, H., Holowaty, E., Mackillop, W.J. (2006).
“Association Between Socioeconomic Status and Cancer Survival:
Choice of SES Indicator May Affect Results”. In AEP, 16:521-528.
Wadsworth, M. (1999). “Early life”. In Marmot, M., Wilkinson, R. Social
determinants of health. Oxford: Oxford University Press.
Wagner, E.H., Austin, B.T., Von Korff, M. (1996). ”Improving outcomes
in chronic illness”. In Managed Care Quarterly, Vol. 4(2), pp.12-25.
Wagner, E.H., Austin, B.T., Von Korff, M. (1996). “Organizing care for
patients with chronic illness”. In Milbank Quarterly, No. 74:511-544.
Waxler, N.E. (1981). “Learning to be a leper: A case study in the social
construction of illness”. In Mishler, L.R. et al. Social Contexts of
Health, Illness & Patient Care. New York: Cambridge University Press.
152
Wang, R., Gross, G., Halene, S., Ma, X. (2009). “Neighborhood
socioeconomic status influences the survival of elderly patients with
myelodysplastic syndromes in the United States”. In Cancer Causes
and Control, Vol. 20, N. 8, October.
Weiss, G.L., Lonnquist, L.E. (2008). The Sociology of Health, Healing
and Illness. Upper Saddle River: Prentice Hall.
Weissman, J.S., Schneider, E.C. (2005). “Social disparities in cancer:
lessons from a multidisciplinary workshop”. In Cancer Causes and
Control. N. 16:71-74.
Weitz, R. (2007). The Sociology of Health, Illness and Health Care: a
critical approach. Boston: Wadsworth Cengage Learning.
Wellard, S. (1998). “Constructions of chronic illness”. In International
Journal of Nursing Studies. N. 35:49-55.
Wellin, E. (1977). “Theoretical orientations in Medical Anthropology:
continuity and change over the past half-century”. In Landy, D.
Culture, disease and healing. New York-London: MacMillan.
White, K. (2009). An Introduction to the Sociology of Health and Illness.
London: Sage Publications.
Whitehead, M. (1990). The concepts and principles of equity and health.
Copenhagen: WHO Regional Office for Europe.
Whitehead, M., Dahlgren, G. (2007). Concepts and Principles for
Tackling Social Inequities in Health: Levelling up, Part I. Copenhagen:
World Health Organization.
WHO. (1989). Assessment and management of environmental health
hazards. Geneva: World Health Organization.
153
WHO. (2005). Preventing Chronic Disease a vital investment. Geneva:
World Health Organization.
Wilkinson, R., Marmot, M. (1998). Social Determinants of Health. The
solid facts. Geneva: World Health Organization.
Williams, G.H. (2003). “The determinants of health: structure, context
and agency”. Sociology of Health & Illness. Vol. 25, pp. 131-154.
154