ramin bahrami
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54 MASSIMARIO MINIMO a cura di Federico Roncoroni I giovani vanno convinti con la saggezza, non vinti con la forza. (Publilio Siro) S A B AT O 2 6 M A R Z O 2 0 1 1 [ una vita da raccontare ] di Grazia Lissi il profilo RAMINBAHRAMI Ramin Bahrami a tre anni guardava l’antica storia del suo Paese attraverso un caleidoscopio e pensava che il mondo fosse meraviglioso: «Una magia che non finiva di sorprendermi. La stessa che ho ritrovato suonando il pianoforte». Pianista iraniano, 34 anni, ha lasciato il suo paese quando ne aveva a 10. Oggi vive a Stoccarda, è considerato uno dei maggiori interpreti di Bach del quale ha pubblicato 7 album. È uscito in questi giorni Joseph Sebastian Bach: Piano concertos (Decca) realizzato con la Gewandhausorchester di Lipsia, diretta da Riccardo Chailly. Entusiasta Bahrami continua: «Bach è la mia vita. Ha saputo creare la convivenza di elementi musicali differenti. Ogni cosa è necessaria, questa è la democrazia che ci insegna». Bambino come si immaginava da grande? Pianista o direttore d’orchestra. A tre anni ascoltavo i dischi con le Sinfonie di Brahms e Beethoven, pensavo che sarei diventato il rivale di Von Karajan. Salivo in piedi sul tavolo della cucina e fingevo di dirigere l’orchestra. Mi immergevo completamente in quei suoni: era l’unico modo per non sentire la guerra in corso fra Iran e Iraq. Com’era la sua famiglia? Cosmopolita. Papà era un ingegnere tedesco-iraniano, nato a Berlino, mamma ha origini russo turco. Mio nonno è stato il più grande archeologo persiano, il primo studente mandato dallo Scià a studiare alla Sorbona di Parigi, mia nonna era una soprano tedesca. Da noi la musica senza barriera era di casa: si ascoltavamo Bach, Beethoven Charles Aznavour, Sinatra. In casa nostra civiltà differenti parlavano la stessa lingua, non c’erano discriminazioni. Quando si è avvicinato al pianoforte? L’ho sempre avuto in casa, mamma, pianista, mi ha insegnato le note ma io ero sicuro di saperle già. Un giorno mio padre mi fece ascoltare un disco di Arrau e io mi nascosi per ore, non potevo pensare che qualcuno suonasse meglio di me: avevo quattro anni. Solo crescendo ho capito quanto si è piccoli di fronte alla musica. Qual è stato il primo brano di Bach che ha ascoltato? Un’amica di famiglia aveva portato da Parigi un disco di Glenn Gould. Mi fece ascoltare la Toccata della Partita N. 6 e si aprì una nuova esistenza. Avevo 5 anni, a 7 sognavo già di registrare le Variazioni Goldberg, infatti è stato il mio primo disco. Bach è il più grande compositore mai esistito. Insegna a vivere, dà un’educazione morale e tutti ne abbiamo bisogno. Spesso quando sento la musica dei giovani, così ripetitiva mi rattristo e penso: peccato, il loro cervello sarà più lento. Se non sono finito in manicomio dopo aver visto la guerra, la distruzione del mio paese è grazie a Bach; chiunque soffre deve ascoltarlo per rinascere. Suo padre cosa le ha lasciato? La capacità di unire la civiltà, la tolleranza, la cultura iraniana alla disciplina tedesca. Aveva un grande cuore, una profonda umanità racchiuse in binari molto rigidi: la simbiosi perfetta per un musicista. È stato incarcerato dai pasdaran e poi giustiziato nel 1990 con l’accusa di essere un oppositore della Repubblica Islamica e un collaboratore dello Scià. Quando avevo 6 anni mi arrivò una sua lettera dal carcere, mi raccomandava: «Frequenta Bach, studialo fino in fondo, ti darà la possibilità di vivere da uomo». Come ha saputo della morte di suo padre? Vivevo a Milano con mia madre, avevo 15 (g.l.) Ramin Bahrami è nato a Theran in Iran nel 1976.Il padre Paviz, ingegnere,incarcerato con l’accusa di essere un collaboratore dello Scià e un oppositore del regime, venne giustiziato nel 1991.A10 anni Ramin è costretto ad emigrare con la madre in Europa.Nel 1997 si diploma al Conservatorio Verdi di Milano con Piero Rattalino; poi studia con Rosalyn Tureck sua mentore e vera autorità in campo bachiano. Discografia: «Ramin Bahrami plays Bach», «Bahrami live in Catania» (1998 Aur),«Bahrami plays Bach, Partitas Nos.1,2,3» (Aur 405-2), J. S. Bach,«Variazioni Golberg BWV988» (2004 Decca),J.S.Bach,«Partite» (2005 Decca), J.S.Bach, «L’arte della Fuga» (2007 Decca),J.S.Bach, «The French Suites» (2010 Decca). Con Riccardo Chailly, J.S.Bach «Pianos» (2011 Decca) Il pianista Ramin Bahrami: a sinistra il suo ultimo cd. FOTO DI GRAZIA LISSI «Bach mi fa sentire umano È l’eredità di mio padre...» Il pianista iraniano è figlio di un ingegnere giustiziato dai Pasdaran «Quando lo seppi, a 15 anni, non parlai e riuscii soltanto a suonare» anni. Un giorno squillò il telefono e sentii la voce incerta di mio fratello, sembrava non volesse parlarmi. Capii subito cos’era successo, non dissi nulla e andai al pianoforte e suonai il più doloroso momento musicale di Schubert in La bemolle maggiore, un misto di disperazione e nostalgia. Cosa ha significato per lei abbandonare l’Iran all’età di 10 anni? Lasciare i miei fratelli di 10 e 9 anni maggiori di me. Oggi uno vive ancora in Iran, l’altro ci ha raggiunto in Germania. E poi ho dovuto abbandonare sapori, atmosfere, colori di un paese magico da Mille e una notte. È un Paese che ha il mare, la neve il deserto, è la culla di Zarathustra. Non sono legato alla terra, mi mancano i valori dell’Iran di 7 mila anni, mi mancano il noce fresco, il sorriso delle mie nonne. Ricorda il suo arrivo in Europa? All’inizio sono stato studente alla Hochschuke fur Music di Francoforte, ero un bambino, mia madre è sempre stata con me. Sono rimasto poco, dopo la caduta dello Scià i soldi iraniani non avevano più valore, era costoso vivere in Germania. Il console italiano che mi aveva sentito a Teheran, mi indirizzò al Conservatorio Verdi di Milano e lì studiai con Piero Rattalino. Quanto è cambiato l’Iran? Vive una situazione gravissima, la repres- sione è spietata, in Occidente arriva solo poche notizie. L’Iran ha dato i natali alla civiltà umana e sta subendo una grande inciviltà. Mesopotamia e Persia hanno insegnato i valori della democrazia al mondo. Noi iraniani viviamo in un paese che vuole uscire dalla dittatura ma non può. I politici di tutto il mondo non vogliono capire. Perché non mandano ispettori a vedere cosa accade ai giovani del movimento Onda Verde? Non è giusto che centinaia di loro siano in carcere come il regista Jafar Panahi. Non sappiamo il numero esatto delle vittime per colpa dell’isolamento mediatico. Siamo un paese ricco che fa gola all’Occidente: questa è la nostra tragedia. Se il nostro cervello non ci vuole liberi Importanti risvolti legali da nuovi studi italiani sul ruolo dei neuroni: incontro a Milano Il volume in libreria Siamo davvero liberi? Una domanda di una semplicità estrema, alla quale, però, viene molto difficile dare una risposta. La questione non è certo nuova, anzi. Filosofi di ogni epoca hanno trattato l’argomento: oggi, alla luce delle nuove scoperte delle neuroscienze, la discussione è stata rivitalizzata, e tre importanti autori hanno provato a cercare la risposta. Il libro «Siamo davvero liberi? Le neuroscienze e il mistero del libero arbitrio» (Codice Edizioni), curato da Mario De Caro, insegnante di filosofia morale, Andrea Lavazza, studioso di scienze cognitive e Giuseppe Sartori, ordinario di neuropsicologia clinica e neuroscienze, ci spiega che noi prendiamo coscienza delle nostre intenzioni di agire solo quando il nostro cervello ha già dato l’impulso per il movimento. Pare, quindi, che in alcuni casi le nostre azioni possano essere previste prima che noi le compiamo: è quindi un’illusione l’idea del libero arbitrio? Esiste la libertà se decidono i nostri neuroni per noi? Che cos’è una scelta? Sono solo alcune delle domande a cui si cerca di dare risposta nel libro, passando dalla letteratura - Lev Tolstoj diceva che non può esistere la libertà di arbitrio se anche esiste una sola legge che governi le azioni degli uomini - alla filosofia - il libero arbitrio accetta in sé l’idea di determinismo? - alle neuroscienze più moderne, grazie a tecniche come l’elettroencefalogramma e la risonanza magnetica funzionale. La domanda: "se non siamo liberi, possiamo essere punti?" implica rilevanti considerazioni non solo neurobiologiche ma anche giuridiche. Si sente sempre più parlare di «incapacità di intendere e di volere», anche per i reati più efferati. «Negli Stati Uniti - sostiene Lavazza - sono sempre più richiesti, e a volte ammessi, nelle aule dei tribunali, esami neurologici come le risonanze magnetiche per valutare le funzionalità di specifiche aree cerebrali». La colpa, quindi, non è imputabile all’individuo ma «al suo cervello». Per restare in patria, nel 2009 la Corte d’Assise d’Appello di Trieste ha accordato una riduzione di pena a un condannato per omicidio anche perché una perizia scientifica evidenziava come il soggetto fosse geneticamente "prono alla violenza", in determinate circostanze. Insomma, in taluni casi «il libero arbitrio può venir meno». Il concetto importante non è legato alla pena, ma al riconoscimento di «una nuova cultura neuroscientifica sul piano del diritto». Marco Cambiaghi