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SOCIETA’
DI SCIENZE
FARMACOLOGICHE
APPLICATE
SSFAoggi
SOCIETY FOR APPLIED
PHARMACOLOGICAL
SCIENCES
Notiziario di Medicina Farmaceutica
Bimestrale della Società di Scienze Farmacologiche Applicate
Giugno 2016
numero
Fondata nel 1964
55
Il progetto SMD al nastro di partenza!
Sommario:
Cari Soci,
Editoriale
1 ormai la maggior parte di voi sanno riconoscere il significato dell’abbreviazione
Assemblea Soci
2
Fase I in Italia
4
Brexit
7
Un buon messaggio
7
Credi, ma verifica
8
Svegliatevi CRO
12
INPS e CUD
13
Notizie dai master
14
Ultime notizie
17
Salute, alimentazione, farmaci,
ambiente
18
GLP
20
Terapie avanzate
22
IFAPP & SMBF
24
Felicità
25
TBC
26
Donne e farmaci
28
Corso BPL
30
The Lancet - BMJ
31
Morbo di Alzheimer
37
Demenza senile
39
Nuovi Soci
40
SMD, poiché ne parliamo da tempo su queste pagine. Il progetto Specialist in
Medicines Development (SMD), al quale molti colleghi SSFA stanno lavorando
da parecchi mesi, è arrivato finalmente al nastro di partenza. Lo scorso 31 maggio si è svolta a Roma una tavola rotonda per gli addetti ai lavori: sono intervenuti
diversi colleghi internazionali (Mike Hardman, VicePresidente AstraZeneca ed
uno dei fautori del progetto; Ingrid Klingmann, Presidente PharmaTrain; Peter
Stonier, Presidente del Global Board PTF; Edward Nagy, un medico dipendente
GSK che sta seguendo il programma SMD in UK). Erano inoltre presenti AIFA
(dr.ssa Sandra Petraglia), EMA (prof Sergio Bonini che, impossibilitato a partecipare, ha inviato un messaggio di saluto), AICRO (dr. Stefano Marini), molti direttori di master italiani, e poi noi di SSFA (Marco Romano, Domenico Criscuolo,
Luciano Fuccella e Francesco De Tomasi).
E’ stata una intensa giornata di lavoro, durante la quale è stato ricordato
l’importante lavoro svolto dalla “cordata” PharmaTrain che, nel periodo 20092014 e con il sostegno del programma IMI, ha portato avanti il progetto di armonizzazione del syllabus dei master Europei. Questo progetto è poi sfociato nel
programma SMD, un periodo di verifica sul lavoro delle competenze acquisite dai
candidati che si sono iscritti al progetto.
Italia e Giappone sono i primi due Paesi che attiveranno il programma SMD: ma
molti altri seguiranno a breve. Perché, ormai lo sappiamo da tempo, quando si
stabilisce uno standard di qualità, in breve esso viene adottato da tutti i Paesi
coinvolti nella ricerca e sviluppo dei farmaci.
Prossimamente troverete sul sito SSFA tutte le informazioni ed i moduli per partecipare a questo progetto, che darà ai partecipanti una certificazione globale di
competenza e professionalità.
Domenico Criscuolo
SSFA incontra il Presidente AIFA
SSFA presenta le proprie attività al prof. Mario Melazzini
Il 3 maggio scorso una delegazione SSFA, composta dal Presidente Marco Romano, dai Past
President Francesco de Tomasi
e Gianni de Crescenzo, e dal
segretario Salvatore Bianco, è
stata ricevuta dal Presidente
AIFA prof. Mario Melazzini. Nell’incontro, la delegazione
SSFA ha illustrato le attività della società nel campo della Ricerca Clinica e Farmacologica. Il
prof. Melazzini ha espresso vivo
interesse per le attività SSFA: i
partecipanti hanno poi condiviso
la necessità di una trasparente e
produttiva collaborazione tra le varie componenti del mondo della Ricerca Clinica, per rendere il nostro Paese sempre più competitivo a livello internazionale.
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ASSEMBLEA SOCI 6 APRILE 2016
Cari Soci,
Marco Romano e Anna Piccolboni
lo scorso 6 aprile si è svolta, presso la nostra sede,
l’Assemblea annuale dei soci che ha visto la partecipazione del Consiglio Direttivo e dei principali coordinatori
dei Gruppi di Lavoro (GdL): l’affluenza dei soci è stata,
come tutti gli anni, piuttosto modesta. Da quest’anno abbiamo più spazio presso la nostra sede di viale Abruzzi;
pertanto sollecito una maggiore presenza dei Coordinatori dei GdL ma anche dei soci, non solo all’Assemblea
annuale ma anche durante le riunioni di Consiglio che si
tengono ogni 4-6 settimane. La voce dei soci è fondamentale per guidare le scelte e le decisioni del Consiglio.
Nella mia Relazione ho sottolineato l’aumento costante
del numero dei nostri soci (> 800) e delle richieste di
iscrizione che, nel 2015, sono state 141. I numeri dimostrano che SSFA sta avendo successo grazie soprattutto
alle tante iniziative che anche nel 2015 sono state proposte dai nostri GdL: la fase I in oncologia, anziani e
metodologia degli studi clinici, risk based monitoring,
solo per ricordare qualcuno tra i tanti eventi (17) organizzati l’anno scorso. Tra gli obbiettivi del mio mandato che
ho ricordato, mi fa piacere citare la realizzazione del progetto di formazione a distanza, l’aggiornamento del nostro sito e l’organizzazione del prossimo Congresso Nazionale 2017 che si terrà a Milano.
La relazione del Tesoriere ha confermato lo stato di salute ed il progresso di SSFA anche dal punto di vista
finanziario: questo è un dato importante anche per una
società no profit come la nostra, perché ci consente di
attivare nuovi progetti, di fornire a voi un programma
formativo ed informativo di prim’ordine, di guardare con
ottimismo al futuro con la consapevolezza di poter intraprendere nuove iniziative a beneficio di tutti. Vi sono poi
state le relazioni della maggior parte dei GdL che hanno
ricordato tutte le attività svolte nel 2015 e i progetti per il
2016.
Come ogni anno, Medicina Farmaceutica, GIQAR-GCP,
BIAS, Affari Istituzionali e Affari Legali hanno partecipato
a numerosi eventi, convegni ed incontri; tuttavia non
vanno dimenticati molti altri GdL come Farmacoviglilanza, Studi Osservazionali, Rapporti con la Stampa, Dispo-
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ragion d’essere.
Sono invece molto lieto di segnalare alla vostra attenzione la nascita di un gruppo SSFA giovani che origina da
alcuni ex studenti del Master della Bicocca: questo gruppo riunirà gli “under 35” e terrà un primo incontro a Milano in sede ancora da definire il prossimo 24 settembre.
Vedo con grande interesse questa iniziativa, alla quale
spero molti di voi aderiranno: è necessario infatti intraprendere un rinnovamento della SSFA nelle persone,
nelle idee e negli strumenti utilizzati e sono certo che
(Continua da pagina 2)
Luigi Godi
Il diploma a Francesco De Tomasi
sitivi Medici, Farmacoeconomia ma anche nuovi gruppi
di lavoro come Medicina Complementare che ha grandi
potenzialità nel campo degli integratori alimentari e nutraceutici. Purtroppo abbiamo chiuso il GdL CRO in
quanto vi è stata scarsa partecipazione anche perché
chi lavora in CRO è attivo in molti altri GdL della nostra
società scientifica e quindi un GdL CRO non aveva più
Il diploma
a
Il diploma a Domenico
Criscuolo
Domenico
Criscuolo
questo gruppo farà molto bene e potrà gettare le basi
per il futuro della nostra società.
Infine, ho nominato due nuovi soci onorari che
l’Assemblea ha approvato: si tratta di due past President, Domenico Criscuolo e Francesco De Tomasi. Entrambi hanno dato tantissimo alla SSFA e meritano in
pieno questo riconoscimento. Ad entrambi va il nostro
più affettuoso e sincero ringraziamento: essi sono ancora molto attivi con varie iniziative, nei GdL di appartenenza, nei Master e attraverso le pagine di questa rivista
della quale, come sapete, Domenico è Direttore responsabile fin dall’inizio, cioè da circa 10 anni.
Grazie per la vostra attenzione e soprattutto per la vostra partecipazione alla SSFA!
Marco Romano
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SPERIMENTAZIONE CLINICA DI FASE 1 IN ITALIA
Auditorium CNR, Roma, 30 marzo 2016
La Determina n.809/2015 del 10
giugno 2015 è stata approfonditamente analizzata da Umberto Filibeck in 3 articoli apparsi sui numeri
51, 52 e 53 della rivista SSFAoggi,
ai quali rimando e che suggerisco a
tutti di leggere. Non vi è dubbio che
questo documento costituisca un
momento importante nel processo di
adeguamento della normativa italiana agli standard internazionali, tanto
più in previsione dell’avvio del Regolamento Europeo. Consci dell’importanza della Determina, SSFA e SIF
hanno ritenuto opportuno organizzare un convegno che si è tenuto a
Roma il 30 marzo nell’aula convegni
del CNR al quale hanno partecipato
oltre 200 persone.
Decreto Ministeriale 28 luglio 1977
recante il regolamento per l’esecuzione di detti accertamenti. Dozzine
di campioni di prodotti da analizzare
e di documentazioni precliniche si
riversarono sull’ISS che era totalmente impreparato ad affrontare un
compito del genere. I tempi di risposta si allungarono in modo intollerabile, spesso all’infinito, e la ricerca di
Fase 1 italiana fu costretta a trasferirsi all’estero. Criscuolo ha anche
ricordato come i dati forniti da AIFA
mostrino che nel 2015 gli studi di
Fase 1 in Italia hanno rappresentato
l’11.5% del totale delle sperimentazioni cliniche ma quelli su volontari
sani sono stati appena l’1% del totale. Si sta verificando un’importante
La sessione del mattino, moderata
da Domenico Criscuolo per SSFA e
dal prof. Giorgio Cantelli Forti per
SIF, è stata aperta appunto da Criscuolo che ha ricordato come gli
studi di Fase 1 in Italia abbiano subito un colpo mortale dall’avvento della legge 7 agosto 1973, n.519 che
modificava i compiti dell’ISS e al
secondo comma, lettera l, da cui il
temine “comma l” entrato nell’uso,
attribuiva a questo istituto il compito
di accertare la composizione e
l’innocuità dei prodotti farmaceutici
di nuova istituzione (cioè mai utilizzati ancora nell’uomo) prima della
sperimentazione. A questa legge
faceva seguito successivamente il
evoluzione nel settore della farmacoterapia che vede sempre più emergere prodotti antitumorali e biotecnologici che, ovviamente, compiono
anche la Fase 1 in pazienti ed ai
tradizionali parametri ADME e tollerabilità si aggiunge ora anche una
preliminare valutazione di attività.
Altra area che si sta notevolmente
sviluppando è quella delle terapie
per le malattie rare. In questo caso,
essendo per definizione pochi i pazienti reperibili nei centri specializzati, occorre coinvolgere molti centri ed
anche in questo caso si tratta di studi in pazienti, non in volontari sani.
In ambedue i casi, tuttavia, sviluppare la Fase 1 è importante perché gli
stessi centri vengono poi ovviamente coinvolti nelle successive fasi 2 e
3, essendo gli sperimentatori già a
conoscenza delle proprietà e delle
caratteristiche dei nuovi farmaci.
Ha preso quindi la parola Gianni De
Crescenzo che, in qualità di Past
President SSFA, ha sostituito il Presidente in carica Marco Romano
impossibilitato a partecipare causa
impegni di lavoro all’estero. De Crescenzo ha confermato quanto detto
da Criscuolo ed ha ricordato un fenomeno che sottolinea i cambiamenti in atto nella ricerca farmaceutica.
SSFA fu fondata nel 1964 da ricercatori preclinici come farmacologi,
tossicologi, tecnici farmaceutici, biochimici, tutte figure attive in aree che
in gran parte stanno scomparendo in
Italia causa la progressiva dismissione dei grandi laboratori di ricerca
farmaceutica preclinica, e che vengono sostituite da professionisti attivi
nella sperimentazione clinica che
tuttavia ha acquisito una posizione
importante nel mondo rappresentando un settore di eccellenza, come
dimostra l’elevato numero di ricerche
cliniche con nuovi farmaci in atto nel
nostro Paese.
La dr.ssa Angela Del Vecchio, Direttore dell’Ufficio Attività Ispettiva GCP
e di Farmacovigilanza di AIFA, ha
comunicato che l’agenzia pubblicherà l’elenco dei centri accreditati per
studi di Fase 1 e che in caso di criticità sarà possibile la sospensione
del centro dall’elenco. In quanto alla
procedura di autocertificazione prevista dalla Determina, per ora si procederà solo con l’invio della documentazione mediante posta certificata ma verrà successivamente comunicato quando sarà possibile procedere tramite l’Osservatorio. Gli studi
autorizzati attualmente in corso potranno essere portati a termine pur
in assenza di osservanza della nuova Determina. Lo stesso vale per i
laboratori.
La dr.ssa Sandra Petraglia, Direttore
dell’Ufficio Ricerca e Sperimentazione Clinica di AIFA, ha esaminato
(Continua a pagina 5)
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(Continua da pagina 4)
l’andamento delle sperimentazioni
cliniche in Italia negli ultimi anni. Dal
2010 al 2015, gli studi di fase 1 sono
passati dal 5,6% a 11,5% del totale.
Nel 90% dei casi i soggetti sono pazienti ed 1/3 degli studi riguarda le
malattie rare. Per quanto riguarda la
classificazione Anatomica Terapeutica (ATC), l’onco-ematologia rappresenta il 70% degli studi; seguono il
SNC e la cardiologia. Il nuovo Regolamento Europeo dovrebbe superare
molti dei problemi oggi ancora presenti nell’armonizzazione delle procedure alla sperimentazione clinica
e AIFA, in collaborazione con le agenzie degli altri Paesi, sta lavorando alla definizione di nuove procedure riferendosi alle attuali norme sulle
VHP. Non viene tuttavia prevista
l’utilizzazione di teleconferenze per
superare posizioni divergenti. Sono
anche in progetto incontri con i Comitati Etici.
La dr.ssa Annarita Meneguz, Dirigente Tecnologo dell’ISS, ha sostenuto che per quanto riguarda gli studi di fase 1 l’ISS identifica esperti
referenti cui affidare le pratiche. Dal
2006, le richieste di studi di fase 1
all’ISS sono state 533, ma solo 20
riguardavano studi in volontari sani e
nessuno di questi ultimi riguardava
nuovi farmaci. Si è anche osservato
un forte aumento degli studi con te-
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rapie cellulari (75-80%).
Il dr. Umberto Filibeck, docente del
Master di Tor Vergata, ha trattato
l’importante argomento dei requisiti
di qualità, ricordando come già il
DPR 14 gennaio 1997 si occupasse
dei requisiti minimi strutturali, tecnologici ed organizzativi per l’esercizio
delle attività sanitarie da parte delle
strutture pubbliche e private, senza
tuttavia entrare nei dettagli come fa
ora la Determina che anche tiene
conto dell’evoluzione della normativa
della sperimentazione clinica che nel
frattempo ha avuto luogo. La Determina prevede l’esistenza di un sistema di assicurazione di qualità nei
centri che eseguono studi di fase 1,
le caratteristiche professionali del
personale per il quale deve anche
prevedersi adeguata formazione,
fornisce anche dettagliate procedure
operative standard. Molti di questi
elementi mancano nel caso di sperimentazioni Non Profit e AIFA ha
avviato un progetto per colmare questa lacuna in collaborazione con i
comitati etici.
Nella discussione che è seguita al
termine della prima parte del convegno, da alcuni partecipanti provenienti da centri ospedalieri è stato
sollevato il problema di come questi
debbano certificarsi e di chi debba
firmare tale certificazione: il Primario, il Direttore Generale dell’ospeda-
le, l’Assessore Regionale alla Sanità, il responsabile di una agenzia di
QA esterna?
Dopo l’intervallo ha preso la parola il
dr. Giuseppe Caruso in rappresentanza di Farmindustria, il quale ha
ricordato che la spesa per la ricerca
clinica in Italia ammonta a 800 milioni di Euro, una cifra certo rispettabile
ma che potrebbe essere ancora
maggiore. Farmindustria ha attivamente partecipato negli ultimi anni
alle iniziative che hanno avuto luogo
nei diversi settori della ricerca clinica. Partecipa al tavolo multidisciplinare organizzato da MinSal con la
presenza del Ministero per lo Sviluppo Economico ed altre istituzioni
interessate per definire le criticità tra
ricerca clinica ed istituzioni, al Progetto Fast Track che si propone di
eliminare gli ostacoli che impediscono il rispetto dei tempi, ha delineato
uno schema di contratto da adottare
per tutte le sperimentazioni cliniche
nazionali. Segue da vicino anche il
problema della sperimentazione
nell’animale, dopo che il recepimento della direttiva europea ha introdotto in Italia norme che la penalizzano
rispetto agli altri paesi europei e che
andranno quindi eliminate con un
ricorso alla UE.
Il dr. Stefano Milleri, Direttore del
Centro Ricerche Cliniche di Verona,
(Continua a pagina 6)
Anno X numero 54
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Ha chiuso la serie degli interventi il
prof. Filippo Drago, Professore Ordinario di Farmacologia all’Università
di Catania e Direttore del Master in
Discipline Regolatorie del Farmaco.
Gli studi FIM (First In Man) debbono
prevedere l’imprevedibile, cioè se vi
è un rischio anche solo teorico si
debbono prendere tutte le precauzioni, eventualmente rinunciando a
procedere. Esempi di precauzioni
insufficienti sono il caso Te Genero
di alcuni anni or sono in UK ed il
recentissimo caso occorso in Francia a Rennes. Per quanto riguarda
l’accreditamento dei centri ove si
eseguono studi FIM, Drago ha ricordato che in UK l’accreditamento è
volontario ed i centri non accreditati
possono ugualmente operare. Le
unità debbono dimostrare di essere
in grado di eseguire studi clinici anche FIM e di avere staff adeguato. Il
possesso dei requisiti viene accertato mediante ispezioni (validità 3 anni). Il Principal Investigator di uno
studio FIM deve possedere un minimo di 2 anni di esperienza come
Sub-investigator in altri studi. In
Francia,
invece,
esiste
l’accreditamento che ha validità di 5
anni e le AASS tengono una banca
dati nazionale dei soggetti che si
prestano come volontari. Viene quindi logico chiedersi, anche in previsione dell’entrata in vigore del Regolamento Europeo se sia necessario
istituire un sistema unico di accreditamento di tutti i centri di Fase 1. Al
Policlinico Vittorio Emanuele di Catania sono in corso azioni per
l’adeguamento dei requisiti a quanto
previsto dalla Determina.
E’ seguito un acceso dibattito e da
più parti è venuta la richiesta di chiarimenti e modifiche al fine di evitare
errate interpretazioni. E’ stato richiesto che AIFA, quando prepara provvedimenti importanti che coinvolgono aziende, accademia, clinici, CRO
ed altri professionisti, pubblichi sul
suo sito, o comunque faccia circolare, una bozza del provvedimento
richiedendo, come fa EMA, commenti e suggerimenti.
si è soffermato sui problemi degli
studi di fase 1 in Italia, specie dopo
la crisi economica del periodo 20082010 che in questo settore ha determinato tra le altre cose una riduzione del personale e del numero dei
letti nei centri. Quali sono questi problemi? Uno importante è rappresentato dalle dimensioni dei centri italiani, in termini di numero di letti che
nel nostro Paese si aggira sui 10-15
per centro mentre nei grandi centri
stranieri va da 96 a 600, come mo-
merino ed un reparto di Galenica
clinica a Camerino. L’oggetto sociale
prevalente è lo sviluppo di nuovi servizi e prodotti ad elevato valore tecnologico:
1) Medicina personalizzata (studio
del profilo individuale del citocromo
450 ai fini di un miglioramento del
quadro informativo sulla sicurezza
del farmaco);
2) Sviluppo dell’applicazione dei
disegni adattativi agli studi clinici;
3) Sviluppo e allestimento di nuove formulazioni e sistemi di rilascio
strato in una tabella presa da una
recente inchiesta. Altro punto dolente, comune non soltanto alla fase 1,
è rappresentato dai tempi di autorizzazione. Anche l’impossibilità di allestire un confezionamento primario
da parte delle farmacie ospedaliere
rappresenta un ostacolo assente in
altri paesi. Milleri ritiene che la Determina avrà scarso impatto sui centri che eseguono studi in volontari
sani che sono già oggi organizzati
con modalità assai vicine a quanto
richiesto dalla Determina, mentre
maggiori difficoltà si presenteranno
per i centri che svolgono studi in
pazienti.
Il prof. Fiorenzo Mignini, Direttore
del Master in Ricerche Cliniche e
Sviluppo dei Farmaci dell’Università
di Camerino, ha illustrato un progetto in corso nelle Marche: è stato istituito uno spin-off universitario per la
fase 1 che sorgerà a Recanati ed al
quale le strutture accademiche forniranno spazi, strumenti, risorse umane. Il nuovo centro avrà a disposizione una Unità Clinica presso il
Presidio Ospedaliero di Recanati, il
Data Processing a Recanati e Ca-
non convenzionali.
La dr.ssa Valentina Sinno, coordinatrice dal Clinical Trials Center
dell’Istituto Nazionale Tumori di Milano, ha illustrato la situazione dell’importante istituzione in cui lavora.
L’INT è struttura pubblica e tutti gli
studi condotti sono del tipo profit.
Occorrerà dedicare tempo e risorse
alla preparazione delle SOP ed organizzare la struttura del personale e le
attrezzature mediche, il che comporterà certamente un investimento di
natura economica. Ha poi chiesto
cosa significhi “medico farmacologo”? Un medico con specialità in
farmacologia? Un laureato in Farmacologia Clinica? Quali requisiti deve
avere il personale che si occuperà di
QA e monitoraggio? Attualmente si
tratta di qualifiche non riconosciute
dalla corrente normativa contrattuale.
Occorrerà anche stabilire le modalità
di coinvolgimento del personale della
rianimazione quando è in corso uno
Luciano M. Fuccella
studio, nel caso si presenti
un’emergenza. Si dovrà anche verificare la rispondenza del laboratorio
centrale a quanto stabilito dalla De- Le presentazioni sono disponibili sul
sito www.ssfa.it
termina per gli studi di fase 1.
(Continua da pagina 5)
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I giornali parlano spesso delle posibili conseguenze dell’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea, facendo riferimento agli
scambi commerciali. Interessante invece la riflessione sulle possibili ripercussioni in campo oncologico.
Impact of Brexit on cancer care and research
The Lancet Oncology http://dx.doi.org/10.1016/S1470-2045(16)30025-0
On June 23, 2016, the UK will vote in a referendum on whether to leave the European Union (EU). In The Lancet
Oncology, prominent oncologists from both the EU and the UK voice their support for the UK remaining part of the
EU. In so doing, they join other scientists and clinicians who have publicly declared their belief that it would be best
to remain. Part of the inherent difficulty with this debate is that the repercussions of leaving can only be speculated
on: this would be the first time a member state has left the EU. There is no precedent for the dissolution, or alteration, of the many thousands of ties that join UK and EU member states. These unknowns mean that points of argument are often semantic, and emotionally led.
The resulting lack of structure and planning could make a UK exit potentially catastrophic for patients with cancer,
and for cancer research. As discussed in the two Comments, EU–UK cancer research collaborations are numerous
and strong. Dissolution could leave patients with cancer without access to treatment, as the intricacies of research
funding and drug supply withdrawal or alteration are debated. Dissolution would also lead to a dearth of new trials
beginning in both the UK and EU as sponsors wait to see how regulators realign their respective organisations.
Large pharmaceutical companies have already warned that a UK exit from the EU would leave the UK isolated, and
reduce its influence in medicine and clinical science. Finally, limiting the free movement of researchers between the
EU and UK would, at best, leave the UK without access to some of the best researchers and clinicians in the world,
and, at worst, cause a brain drain of the brightest international talent out of the UK. Almost all scientific researchers
and clinicians who have spoken out in this debate have expressed their preference to remain in the EU, citing the
need to maintain the position of strength that the UK currently occupies. To rock this solid foundation would undermine the provision of care to all patients with cancer—not just for those patients currently in multi-country clinical
trials, or under the care of an EU specialist—and would weaken vital research that could save lives in the future.
UN BUON MESSAGGIO
Sono certo che molti lettori di SSFAoggi, di certo quelli milanesi, avranno notato nelle scorse settimane la pubblicità
che compare nella foto: era in piazzale Loreto, e copriva l’intera facciata di un palazzo.
A me ha colpito per due motivi: primo, perché affronta un grave problema, spesso sottovalutato. Sono
molti i pazienti che non seguono le
prescrizioni del medico e “fanno la
tara” alla posologia: si tratta di un
grave errore, potenzialmente fatale
(nel caso delle infezioni, perché
serve solo a selezionare i ceppi
resistenti).
Il secondo motivo è che – invece di
usare il termine compliance molto
caro a tanti colleghi - ha usato un
termine italiano, cioè aderenza terapeutica.
Ricordiamoci che esiste, ed usiamolo più spesso!
Domenico Criscuolo
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Anno X numero 55
Nello scorso numero di SSFAoggi abbiamo dato ampio spazio al tema della frode in ricerca: l’argomento è piaciuto, molti Soci ci hanno manifestato il loro interesse, per cui continueremo a tenervi
aggiornati. Ecco, sempre sullo stesso tema, un interessante articolo che ci ha fatto avere il prof Alessandro Mugelli (Istituto di Farmacologia - Università di Firenze).
Credi, ma verifica
Quanto sono attendibili e riproducibili i risultati delle attuali ricerche scientifiche?
“Credi, ma verifica” è il principio alla
base del successo di tutta la scienza
moderna: ogni risultato deve sempre
essere soggetto ad attente e ripetute
verifiche sperimentali. Su questo si
basano gli enormi progressi che la
scienza ha prodotto negli ultimi quattro secoli. Purtroppo quando al puro
interesse scientifico si sovrappongono interessi di tipo economico si può
tendere a credere troppo e a verificare poco, con evidente svantaggio
per la ricerca scientifica. Il dibattito
sulla riproducibilità della ricerca
scientifica è sempre stato presente
all’interno del mondo accademico,
ma recentemente è uscito dai confini
della comunità scientifica ed ha iniziato ad attrarre l’interesse del pubblico generale; in particolare l’attenzione si è focalizzata sulle ragioni
per cui i risultati della ricerca biomedica non si traducono in effettivi miglioramenti della medicina. La necessità di una ricerca dai risultati
credibili e verificabili è infatti particolarmente forte nell’area biomedica,
nella quale, in linea teorica, ogni
scoperta rilevante dovrebbe tradursi,
prima o poi, in un miglioramento delle possibilità di cura dei pazienti. Ma
la situazione è molto diversa e, come hanno dichiarato i vertici del NIH,
gli scienziati troverebbero difficile
replicare le osservazioni di almeno
tre quarti di tutti gli studi effettuati in
ambito biomedico. Su questo tema,
già 10 anni fa John Loannidis, un
epidemiologo greco, pubblicò un
articolo su una rivista open access
dal titolo significativo: “Perché la
maggior parte degli studi pubblicati
sono falsi” (Why most published research finding are false, http://
journals.plos.
org/plosmedicine/
article?id=10.1371/
journal.pmed.0020124), nel quale
esaminava i fattori chiave che influenzano la probabilità che una affermazione scientifica non fosse vera e quindi potesse essere sconfessata da successivi studi. Nell’articolo
Ioannidis analizza in modo critico il
ruolo della statistica in questo fenomeno, focalizzandosi sull’impatto
che una statistica inadeguata o una
numerosità campionaria insufficiente
avevano avuto negli studi clinici,
negli studi epidemiologici tradizionali
ma anche nei più moderni studi di
associazione genetica. Lo stesso
autore, oggi all’Università di Stanford, ha pubblicato alla fine di ottobre 2014, sempre sulla stessa rivista, un articolo su come intervenire
per incrementare il numero di lavori
scientifici pubblicati che riportino
risultati veri (How to Make More Published Research True, http://
journals.plos.org/plosmedicine/
article?id=10.1371/
journal.pmed.1001747). Il suo articolo riporta dati impressionanti: dai
pochi “dilettanti” (in italiano nel testo)
del passato, la scienza è diventata
oggi un’attivissima industria globale
che, nel solo periodo 1996-2011, ha
prodotto oltre 25 milioni di pubblicazioni da parte di oltre 15 milioni di
autori. Le scoperte vere e rapidamente applicabili sono ovviamente
molto meno ed è stato calcolato che
l’85% delle risorse impegnate nell’attività di ricerca siano di fatto andate
sprecate. Sono state attivate molte
iniziative, alcune di grande interesse, per affrontare questo problema
nell’ambito della ricerca biomedica e
degli studi clinici in particolare, per
capire cioè le ragioni per cui, a fronte di enormi investimenti pubblici e
privati, non siamo in grado di generare una ricerca che impatti positivamente sull’assistenza e sulle malattie. Nel 2010 la spesa totale, pubblica e privata, nel settore delle scienze della vita, è stata di 240 miliardi di
dollari. Nonostante questo investimento abbia portato indubbi benefici
sul sistema salute, si ritiene che i
progressi avrebbero potuto essere
molto più significativi se si fossero
ridotti gli sprechi e l’inefficienza con
cui la ricerca biomedica viene scelta,
disegnata, condotta, analizzata, gestita, regolata, disseminata e comunicata. È al di fuori degli scopi di
questo articolo affrontare le molte e
complesse problematiche che sono
implicate in questi vari aspetti della
ricerca biomedica (quella clinica in
particolare) e che sono mirabilmente
riassunte in un articolo pubblicato su
Lancet nel gennaio 2014 (http://
dx.doi.org/10.1016/S0140-6736(13)
62329-6) in cui gli autori presentano
una serie di 5 articoli pubblicati sulla
prestigiosa
rivista
sul
tema:
“Research: increasing value, reducing waste”. Gli articoli affrontano e
suggeriscono, anche da un punto di
vista metodologico, le modalità con
cui si possono ridurre gli sprechi e
l’inefficienza nella ricerca clinica.
Come dicevamo all’inizio, il problema della non riproducibilità dei dati
riguarda anche la ricerca preclinica
ed è da questo punto di vista, in
quanto ricercatori preclinici, che vogliamo affrontare il problema. Differenze nelle specie animali utilizzate
e variazioni nelle condizioni sperimentali sono state portate da sempre a giustificazione del fatto che i
risultati di lavori analoghi fossero
diversi o comunque non esattamente sovrapponibili, ma la discussione
rimaneva molto spesso limitata agli
specialisti di quello specifico campo
di ricerca che cercavano altri modi
per confermare le proprie osservazioni con l’obiettivo di arrivare alla
verità. L’impatto della non riproducibilità dei dati è emerso in tutta la sua
importanza più recentemente, quando è stato chiaro che i ricercatori
industriali, soprattutto nel campo
dell’oncologia, basavano lo sviluppo
clinico di alcune molecole sui dati
preclinici presenti in letteratura. In
particolare, alcuni ricercatori della
azienda biotecnologica Amgen, prima di impegnarsi nello sviluppo della
ricerca clinica, decisero di verificare
la riproducibilità di 53 studi che era(Continua a pagina 9)
Anno X numero 55
(Continua da pagina 8)
no considerati pietre miliari nello
specifico settore. Gli articoli erano
pubblicati su riviste ad alto impact
factor (21 su giornali con IF > 20),
avevano generato numerose pubblicazioni secondarie e avevano un
alto numero di citazioni. Gli esperimenti dei ricercatori Amgen, effettuati nell’arco di 10 anni, hanno però
documentato la riproducibilità dei
dati scientifici di solo 6 dei 53 studi
(11%), un dato estremamente basso
e preoccupante anche tenendo conto delle molteplici limitazioni e difficoltà della ricerca preclinica in oncoematologia (CG Begley and LM Ellis,
Nature 483(7391):531-3,2012, http://
www.nature.com/nature/journal/
v483/n7391/ full/483531a.html). Ovviamente la complessità di questi
studi e delle metodologie oggi utilizzate rende spesso difficile riprodurre
singoli esperimenti in laboratori diversi, e pertanto la parola “riproducibilità” deve essere in qualche modo “contestualizzata” e non dobbiamo cadere nella semplificazione
(che alcuni media hanno fatto) di
dire che il 90% di tutta la scienza
non è riproducibile. Non dobbiamo
però nemmeno minimizzare il significato di questo e di altri analoghi risultati. Se ci domandiamo quali possono essere le ragioni che hanno
portato alla pubblicazione di dati
sbagliati o irriproducibili, dobbiamo
essere consapevoli di come l’attuale
sistema accademico e il sistema di
“referaggio” basato sulla revisione
tra pari (peer-review) tolleri o, in alcuni casi, forse inconsapevolmente
favorisca questo tipo di pubblicazioni: per ottenere fondi, per avere un
lavoro o un avanzamento nella propria carriera, i ricercatori devono
avere un curriculum solido, con molte pubblicazioni, comprese alcune di
cui devono essere primo autore,
pubblicate in riviste ad elevato fattore di impatto. Gli editori delle riviste
scientifiche, i revisori degli articoli, i
comitati che assegnano i finanziamenti spesso sono attratti da dati
scientifici semplici, chiari ed il più
possibile completi. Il lavoro deve
riportare una sorta di storia perfetta
che, partendo dall’ipotesi iniziale,
presenti dati che permettano delle
conclusioni coerenti. Ecco che allora
può nascere la tentazione di selezionare i dati, anche “massaggiarli” un
Pagina 9
po’ in modo che soddisfino adeguatamente l’ipotesi iniziale. La conseguenza di questo sistema è che la
riproducibilità degli studi è resa molto difficile: per i giovani ricercatori, la
necessità di incrementare il punteggio dell’impatto e di non “provocare”
le autorità scientifiche del settore,
porta spesso a rifiutare di compiere
studi confirmatori. Per i ricercatori
più “anziani”, l’esecuzione di studi di
conferma è spesso frutto di rivalità
con colleghi, e pertanto è comunque
macchiata dal rischio di commettere
errori, essendo guidata principalmente da un senso di rivalsa. Proprio per quest’ultimo motivo non sono molti i ricercatori che rendono
facile la replicazione dei propri dati,
attraverso una completa descrizione
dei metodi e degli esperimenti: solo
il 45% dei ricercatori sarebbe infatti
disposto a condividere i dati grezzi
delle proprie ricerche. Il sistema di
peer review è ritenuto un sistema
solido per passare al vaglio i risultati
scientifici, che vengono scrutinati da
esperti nel settore che dovrebbero
essere mossi solo dall’obbligo professionale. I problemi intrinseci nel
sistema di peer review sono però
stati evidenziati da alcuni “esperimenti”. John Bohannon, un biologo
di Harvard, ha recentemente sottoposto un lavoro, utilizzando uno
pseudonimo, in cui si descriveva gli
effetti di un nuovo composto ad azione antitumorale (ovviamente inventato), contemporaneamente a 304
giornali scientifici. Ben 157 giornali,
compresi giornali ad alto impatto,
hanno accettato il lavoro per la pubblicazione. Per testare il sistema un
editore del BMJ (Fiona Goodlee)
inviò invece a 200 revisori del suo
stesso giornale un lavoro fittizio con
evidenti errori di disegno dello studio, di analisi e di interpretazione dei
dati. Sebbene diversi errori siano
stati rilevati dai revisori, nessuno di
loro riuscì ad identificare contemporaneamente tutti gli errori. Raramente ad esempio i revisori ripetono
l’analisi statistica ed è assai difficile
quindi che riescano a identificare
errori volontari o involontari. Gli errori compiuti dagli scienziati sono molto spesso involontari. In alcuni casi
tuttavia si può arrivare alla malafede
e a situazioni veramente imbarazzanti che mettono in pericolo la credibilità del sistema. Faremo un paio
di esempi di pubblico dominio e che
sono avvenuti fuori dal nostro paese,
ma ovviamente questo non significa
che noi ne siamo indenni. Il primo
caso è stato portato alla nostra attenzione da un docente del nostro
Dipartimento, il prof. Claudiu Supuran che è editore capo della rivista
scientifica The Journal of Enzyme
Inhibition and Medicinal Chemistry.
La storia è riportata per intero su
Nature del 27 Novembre del 2014
(http://www.nature.com/news/
publishing-the-peer-review-scam1.16400). In breve Claudiu Supuran
aveva cominciato a sospettare di un
autore sud coreano, Hyung-In Moon,
perché le revisioni dei suoi lavori
erano arrivate in tempi brevissimi,
entro 24 ore. Sappiamo bene che
spesso è difficile convincere uno
scienziato molto occupato a rivedere
un lavoro che non sia di suo particolare interesse. Il fatto era che Hyung
-In Moon, cui il giornale aveva richiesto di indicare alcuni potenziali revisori esperti dell’argomento della sua
ricerca, forniva a volte nomi di veri
scienziati, a volte pseudonimi con
indirizzi mail che riconducevano direttamente a lui o a qualche suo amico. In questo modo era praticamente lui stesso che valutava se i
suoi lavori erano degni di essere
pubblicati e lo faceva molto rapidamente. La confessione del ricercatore ha portato al ritiro (retraction) di
ben 28 articoli pubblicati su varie
riviste di quel gruppo editoriale. Ma il
caso non è isolato e negli anni passati alcuni giornali, anche di gruppi
editoriali importanti, sono stati costretti a ritirare più di 110 articoli a
causa di imbrogli nel sistema di revisione. Un altro caso ha coinvolto
una tra le più importanti università
americane, la Duke University, per il
caso di un suo ricercatore, Anil Potti,
accusato di frode scientifica. Il ricercatore (e il suo gruppo) è stato accusato di aver falsificato i dati relativi a
delle analisi genetiche che avrebbero consentito una terapia personalizzata di pazienti con cancro; tale approccio veniva pubblicizzato anche
in un video diretto ai pazienti della
Duke University in cui il dr Potti faceva riferimento alle sue ricerche. Ricerche pubblicate su prestigiose
riviste scientifiche tra cui il New England Journal of Medicine, JAMA,
(Continua a pagina 10)
Anno X numero 55
(Continua da pagina 9)
PNAS, Nature Medicine, Lancet Oncology e altri. Questi lavori sono stati tutti ritirati, anche se paradossalmente alcuni continuano ad essere
citati. Il caso ha avuto un grande
risalto negli Stati Uniti dove è stato
presentato anche nella popolarissima trasmissione “60 minutes” nel
marzo 2012 (https://www.youtube.
com/watch?v=W5sZTNPMQRM). Il
terzo caso che presentiamo è quello
di un lavoro pubblicato nel 2012 su
Circulation (Cardiomyogenesis in
the Aging and Failing Human Heart)
dal gruppo di Piero Anversa del Brighamand Women’s Hospital di Boston e ritrattato nell’aprile 2014. Lo
studio portava dati che dimostravano come il cuore fosse in grado di
autoripararsi ad una velocità (23% di
cellule sostituite ogni anno dalle cellule staminali) molto superiore rispetto a quella riportata in precedenza da altri autori, che è invece
molto bassa. Il settore delle cellule
staminali cardiache è stato oggetto
di importanti tentativi di trasferire i
dati dal laboratorio alla clinica con
alcuni studi sull’uomo condotti da
eminenti scienziati. Il caso ha avuto
un grande impatto nella comunità
scientifica dove le ricerche di Piero
Anversa avevano sollevato grandi
controversie anche nel passato ed è
stato ripreso dai media. Una serie di
articoli sono comparsi sul Boston
Globe (http://www.bostonglobe.com/
news/science/2014/12/17/stem-cellscientistsues-harvard-formisconduct-investigation/
O6Vz5tYr8KFHm9foiUBSXM/
story.html) anche perché il laboratorio di Anversa aveva ricevuto importanti finanziamenti federali (6.9 milioni di dollari nel 2013). Anversa ed
una sua collaboratrice hanno citato
in giudizio davanti alla corte federale
l’ospedale e la Harvard Medical
School
(http://c.o0bg.com/rw/
Boston/2011-2020/2014/12/17/
BostonGlobe. com/Metro/Graphics/
stemsuit.pdf?
p1=Article_Related_Box_Article).
Vedremo come andrà a finire. Non
solo la ricerca preclinica è però oggetto di queste importanti problematiche. È informazione tristemente
nota anche al grande pubblico quella che riguarda lo studio pubblicato
dal dr Andrew Wakefield su Lancet
nel 1998. Il lavoro riportava una ca-
Pagina 10
sistica, successivamente rivelatasi
manipolata, e per alcuni aspetti francamente falsa, nella quale Wakefield ipotizzava un legame tra esposizione al vaccino MMR (morbillo,
parotite, rosolia) e lo sviluppo di autismo in 12 bambini da lui apparentemente valutati. In breve, il lavoro è
stato parzialmente ritirato nel 2004 a
seguito della scoperta di irregolarità
metodologiche, conflitto di interessi
e dell’assenza di consenso informato, per essere poi completamente
ritirato nel 2010, dopo l’espulsione di
Wakefield dall’Ordine dei Medici e la
dimostrazione che parti significative
della ricerca erano state completamente falsificate. L’editor in chief di
The Lancet, Richard Horton, ha affermato in proposito che il lavoro era
da considerarsi “completamente
falso” e che la rivista era stata
“imbrogliata”. Il problema principale
però è che nel frattempo il lavoro di
Wakefield era stato eretto a vessillo
dai movimenti anti-vaccinali, causando negli anni una serie di problematiche prima di tipo amministrativo
(incongrue richieste ai centri vaccinali), poi di tipo legale (cause inopportunamente vinte relative a richieste di risarcimento) ed infine di tipo
sanitario (emergenza di nuovi focolai epidemici in aree precedentemente coperte). Sembra incredibile,
ma purtroppo gli echi di tale pubblicazione, basata su 12 casi presunti,
senza alcuna valutazione statistica,
senza gruppo di controllo e senza
una metodologia attendibile, continuano ancora oggi a sentirsi, nonostante lo studio sia stato ritirato, Wakefield condannato e, cosa assai più
importante, siano ormai ampiamente
disponibili ricerche enormemente
più attendibili che hanno riguardato
prima gruppi di 500 bambini, poi di
10.000, poi di 500.000 ed infine di
oltre 14 milioni di bambini, senza
che alcuna relazione tra vaccino
MMR e autismo sia mai stata rilevata in nessuno studio al mondo. I casi
che abbiamo descritto sono in gran
parte avvenuti negli Stati Uniti e non
è pertanto sorprendente che da lì
stiano partendo iniziative tese a contrastare il fenomeno della non riproducibilità dei dati. I vertici dell’NIH
hanno pubblicato le loro riflessioni
sulla rivista Nature (FS Collins and
LA TabaK: NIH plans to enhance
reproducibility, Nature. 2014 Ja-
nuary 30; 505(7485): 612–613 http://
www.ncbi.nlm.nih. gov/pmc/articles/
PMC4058759/). La loro convinzione
è che alla base della irriproducibilità
dei dati non vi sia necessariamente
un comportamento scorretto o fraudolento da parte dei ricercatori; infatti, nel 2011 l’Ufficio per l’Integrità
della ricerca dell’ US Department of
Health and Human Services ha perseguito solo 12 casi riferibili a frode
(http://go.nature.com/t7ykcv). Anche
considerando che questi casi siano
sottostimati, è loro convinzione che
il numero sia comunque trascurabile
rispetto alle centinaia di migliaia di
articoli pubblicati ed eseguiti in modo corretto ogni anno. I fattori che
contribuiscono al problema della
mancanza di riproducibilità sono
secondo loro altri: lo scarso training
dei ricercatori a progettare un adeguato disegno sperimentale e a eseguire una autonoma analisi statistica, l’enfasi su affermazioni provocatorie piuttosto che sui dettagli tecnici, il fatto che spesso le pubblicazioni non riportano informazioni essenziali per riprodurre il protocollo sperimentale. Per continuare ad essere
competitivi nel loro settore, i ricercatori tendono infatti a tenere nascoste
quelle “ricette segrete” che permettono ai loro esperimenti di funzionare, ma che li rendono di fatto irripetibili, impedendo così il progresso
scientifico basato sui loro dati. Da
non trascurare infine il già citato fatto che è difficile pubblicare risultati
negativi o anche solo confirmatori.
L’NIH ha per questa ragione recentemente messo in atto una serie di
azioni per contrastare e invertire
questa tendenza alla non riproducibilità del dato. Anche alcuni giornali
scientifici, coscienti del problema,
hanno intrapreso azioni in questo
senso: PLoS One ha lanciato un
programma (Reproduciblity Initiative) attraverso il quale gli scienziati
possono chiedere che il proprio lavoro sia validato da laboratori indipendenti, programma in parte finanziato da fondazioni senza scopo di
lucro. Nature ha elaborato una checklist in 18 punti da soddisfare per
favorire la riproducibilità; inoltre obbliga a depositare online tutti i dati
originali su cui si basa lo studio, e di
renderli disponibili a richiesta. Ma
quello che ci piace sottolineare è la
(Continua a pagina 11)
Anno X numero 55
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chiamata che i vertici dell’NIH hanno
fatto a tutti gli attori (università, industria, società scientifiche, case editrici) a fare la loro parte assumendosi
la responsabilità dei propri comportamenti. In quest’ottica, sembra molto appropriato il richiamo alle università (solo quelle statunitensi?) a riconsiderare i loro sistemi di incentivazione e progressione delle carriere. L’enfasi sull’incrementare il numero delle pubblicazioni ha favorito
infatti la rapida sottomissione dei
dati ottenuti senza troppo preoccuparsi della loro replicabilità. Tale
invito alle università è chiaro e forte
e recita testualmente: University
promotion and tenure committees
must resist the temptation to use
arbitrary surrogates, such as the
number of publications in journals
with high impact factors, when evaluating an investigator’s scientific
contributions and future potential. Le
carriere dei ricercatori dovrebbero
basarsi di più sul contributo che il
candidato ha dato all’avanzamento
delle conoscenze nell’ambito delle
ricerche a cui ha partecipato e dovrebbe essere valutato il suo ruolo in
quelle ricerche piuttosto che fare
unicamente affidamento sugli indicatori bibliometrici, che potrebbero es-
Pagina 11
sere facilmente amplificati da comportamenti scorretti anche di difficile
individuazione. Le agenzie finanzianti, pubbliche e private, dovrebbero incoraggiare la ripetizione degli
studi finanziando progetti ben congegnati anche se non interamente
innovativi. I giornali scientifici dovrebbero pubblicare anche gli studi
con risultati negativi, se svolti con
cura e tecnicamente impeccabili. Gli
scienziati stessi, infine, dovrebbero
sviluppare un nuovo sistema di valori in cui nascondere i propri errori
rappresenti solo un danno a se stessi e alla scienza, piuttosto che
l’unico modo per proteggere la propria reputazione. Tutto questo non
appare certo facile, ma se vogliamo
che la scienza rimanga capace di
migliorare il mondo così come ha
fatto negli ultimi quattro secoli della
nostra storia, sarà un passaggio inevitabile e necessario.
Aggiornamento del 21 Aprile 2015
Un ulteriore studio apparso sulla rivista JAMA ha nuovamente escluso ogni ipotetico collegamento
tra la vaccinazione MPR e lo sviluppo di autismo. Jain e colleghi hanno
esaminato i dati di 95.727 bambini
coinvolti in una campagna di vaccinazione per morbillo, parotite e rosolia tra il 1997 e il 2012. Di que-
sti, 1929, cioè il 2,01 per cento, avevano un fratello maggiore affetto da
autismo e quindi erano da considerare particolarmente suscettibili e a
rischio di sviluppare la malattia.
Dall’analisi statistica dei dati è emerso ancora una volta che non esistono differenze nel tasso d’insorgenza
di autismo tra bambini vaccinati e
bambini non vaccinati.
“Coerentemente con quanto emerso
in altre popolazioni” scrivono gli autori “non abbiamo rilevato alcuna
associazione tra la vaccinazione
MPR e un incremento di rischio di
autismo tra i bambini, neppure tra i
bambini con un fratello autistico”.
Questi dati, oltre a confermare
l’assoluta inesistenza di alcun legame tra la vaccinazione MMR e lo
sviluppo di autismo nella popolazione infantile, confermano l’assenza di
legame anche in soggetti particolarmente suscettibili come i fratelli di
bambini autistici.
Alessandro Mugelli, Alfredo Vannacci, Raffaele Coppini, Elisabetta Cerbai
Nota: questo articolo è stato anche
pubblicato su Toscana Medica n 4,
aprile 2015
Anno X numero 55
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Svegliatevi CRO !!
Le Contract Research Organization
(CRO), o Organizzazioni di Ricerca
a Contratto, stanno diventando sempre più frequentemente una parte
importante organizzativa ed esecutiva delle sperimentazioni cliniche in
Italia e nel mondo: gli ultimi dati riportano una percentuale che varia
dal 51 al 65% del volume totale dei
finanziamenti impegnati dalle aziende farmaceutiche nel settore della
ricerca & sviluppo, e che tale quota
ammontava a circa USD 27 miliardi
nel 2014 e le previsioni stimano al
2017 una crescita a USD 33 miliardi
(Harris Williams & Co., 2014). In
Italia, il volume totale investito delle
aziende in R&S è di circa euro 1.300
milioni (dei quali circa euro 800 milioni in ricerca farmacologica) con
5.950 addetti alla ricerca (dati Farmindustria): non esistono purtroppo
ad oggi dati certi sul volume degli
investimenti in outsourcing relativo
alle sperimentazioni cliniche, ma si
ritiene che non sia inferiore al 50%
della suddetta cifra. Sulla base delle
ultime informazioni disponibili, il numero delle CRO in Italia è di circa
200, di cui circa il 60 % italiane o
con sede legale in Italia ed il rimanente 40% con sede internazionale;
in un recente congresso tuttavia, è
stato presentato che il numero delle
CRO oggi accreditate nel nuovo Osservatorio (OsSC) sarebbero solo
127, di cui 41 (il 33%) con sede legale all’estero, quindi che agiscono
probabilmente in Italia tramite singoli
professionisti o operatori (Decreto
15 Novembre 2011, art. 7, comma
4). Purtroppo la nuova versione
dell’OsSC non permette più la consultazione della lista completa delle
CRO auto-certificate, per cui dobbiamo attenerci al dato presentato in
quella sede congressuale. L’attività
delle CRO è oggi oggetto di discussione in due realtà associative: in
seno alla Società di Scienze Farmacologiche Applicate (SSFA), ed in
seno alla Associazione Italiana CRO
(AICRO). Al 31 dicembre 2015 i soci
regolarmente iscritti a SSFA erano
821, di cui 246 (29,9%) appartenenti
a CRO, che rappresentano in totale
72 CRO (cioè il 56,7 % delle CRO
accreditate in OsSC). Inoltre ci sono
ulteriori 55 Soci (7%) che si presentano come liberi professionisti e che,
nella maggioranza dei casi, espletano attività inerenti i servizi delle CRO
stesse.
Il GdL CRO (coordinato da Giovanni
Fiori, Marco Romano e Luigi Godi)
conta di circa 69 Soci SSFA che
hanno espresso, al momento della
loro iscrizione, interesse all’attività
del GdL, ma che effettivamente non
partecipano alle attività del GdL.
Questo GdL ha ideato e distribuito 3
anni fa un sondaggio sulle CRO ed
ha contribuito all’organizzazione di
un Congresso Nazionale congiunto
con AICRO nel 2014. Ma gli impegni
professionali dei coordinatori non
hanno permesso ulteriori attività, per
cui, vista la stagnante situazione, il
Consiglio Direttivo SSFA, in accordo
con i tre coordinatori, ha deciso di
interrompere le attività del Gruppo di
Lavoro, comunicandolo alla recente
Assemblea dei Soci.
AICRO consta di 18 CRO associate
(la lista può essere visionata su
www.aicro.it): nel congresso AICRO
svoltosi a Milano il 12 novembre
2015 su “Le sfumature della ricerca
clinica in Italia”, la dr.ssa Mariapia
Cirenei, Presidente AICRO, ha evidenziato come nelle 18 CRO associate lavorino circa 1.500 dipendenti,
che hanno gestito nel 2014 ben 916
studi clinici (sia farmacologici che
dispositivi medici) coinvolgendo
7.146 centri sperimentali. Numeri
importanti quindi, che lasciano presupporre che i rappresentanti di AICRO siano parte integrante delle
politiche di sviluppo e programmazione della ricerca in Italia.
Tutti sappiamo quali siano le difficoltà degli operatori per ottenere le necessarie autorizzazioni per iniziare
una sperimentazione clinica in Italia.
Difficoltà di differente origine:
complessità nella preparazione
della documentazione necessaria, perché non esiste
ancora, tranne rari eccezioni, una standardizzazione
della documentazione;
mancate disponibilità delle segreterie dei Comitati Etici
(CE), le quali hanno accessi
diretti e telefonici molto limi-
tati;
scarso numero di sedute dei CE,
che conduce inevitabilmente
allo sforamento dei 30 giorni
previsti dalla normativa vigente per l’ottenimento del
parere etico sulla ricerca; e
quando i 30 giorni vengono
rispettati, l’ottenimento del
verbale scritto della seduta
diventa un ostacolo insormontabile, tanto che ad alcune CRO è stato richiesta
la trascrizione dell’elenco
della documentazione inviata per accelerare la stesura
del verbale;
ulteriore tempo perduto per la
stipula della convenzione
per sperimentazione clinica:
i famosi 3 giorni sanciti con
Decreto Ministeriale 8 febbraio 2013 “Criteri per la
composizione e il funzionamento dei comitati etici” (che
cita testualmente al comma
9 dell’art. 2 “Il Direttore Generale della struttura sanitaria interessata ovvero un
suo delegato con potere di
firma, in caso di accettazione della sperimentazione,
deve garantire la definizione
dei contratti economici relativi agli studi contestualmente
alle riunioni del comitato
etico o tassativamente entro
tre giorni dall’espressione
del parere del Comitato Etico) non vengono mai rispettati, quando i contratti già
sottoscritti e bollati non vengono perduti nei meandri
delle aziende ospedaliere.
e non mi prolungo perché ognuno di
noi potrebbe contribuire all’allungamento della lista con altre esperienze. Tuttavia non posso esimermi dal
fare un cenno all’inefficienza del
nuovo (ma già inopportuno) sistema
informativo dell’Osservatorio Nazionale Sperimentazione Clinica dei
Medicinali (OsSC): l’ufficio più
“bombardato” è sicuramente l’help
desk, perché giornalmente chiamato
in causa per rispondere alle centinaia e centinaia di richieste per la
(Continua a pagina 13)
Anno X numero 55
(Continua da pagina 12)
mancata operatività del software.
Quanti pazienti lasciati privi di farmaci innovativi perché la ricerca sperimentale non viene approvata !!
Quanti progetti perduti a favore di
sedi europee ed extraeuropee di
aziende che perdono il loro budget :
è inutile nascondersi dietro numeri
non corrispondenti alla realtà quotidiana. Quanti posti di lavoro perduti
(sia nelle aziende che nelle CRO) a
causa dei ritardi ed incompetenze !!!
Quanti milioni di euro dei contribuenti italiani buttati dalla finestra !!!
Il nuovo Regolamento n. 536/2014
del Parlamento Europeo e del Consiglio del 16 aprile 2014 sulla sperimentazione clinica di medicinali per
uso umano sarebbe dovuto essere
alle porte (implementazione maggio
2016), ma anche a livello comunitario i ritardi di programmazione sono
evidenti ed il portale unico sarà attivo e pronto solo a fine 2018. Ogni
CRO sta adeguando la propria strut-
Pagina 13
tura ed il proprio personale impegnato nella delicata attività regolatoria
inerente la sottomissione all’ autorità
competente ed al comitato etico, in
vista proprio dell’enorme sforzo
scientifico ed imprenditoriale a cui si
andrà incontro. Le suddette problematiche come influenzeranno la vita
professionale degli addetti delle
CRO, la relazione con le aziende e
con gli altri stakeholders della ricerca? E allora che cosa possiamo fare? Come possiamo credere ancora
nella professione che quotidianamente svolgiamo con interesse e
passione? L’istituzione di tavoli di
lavoro e discussione delle varie problematiche e, soprattutto, delle normative e linee guida, è estremamente utile e produttivo, soprattutto
quando, ma non succede, anche gli
“operatori di campo” vengono invitati. Le CRO dovrebbero fare fronte
comune per intraprendere insieme
un’azione legale nei confronti dei
comitati etici, dei direttori generali, di
AIFA, per ottenere quanto sancito
dalle normative vigenti in merito alle
tempistiche previste (tempi certi sanciti da normative dello Stato Italiano,
non da opinabili e discutibili linee
guida) che sono quasi sempre disattese, lasciando l’Italia fanalino di
coda nella ricerca internazionale,
risultando Paese not appealing per
le numerose problematiche presenti,
pur avendo delle eccellenze internazionali in numerose aree terapeutiche.
Ed allora ….. svegliatevi CRO: fate
sistema, fate fronte unico riunendovi
in un’unica associazione di categoria
che possa tutelare gli interessi di
aziende e professionisti validi, che
assuma una valenza politica di settore, capace di diventare un punto di
forza e far sentire le proprie ragioni
nel sistema Italia della ricerca clinica.
Luigi Godi
Ridiamoci sopra………..
INPS e CUD
In una lettera, pubblicata recentemente sul Corriere della Sera, una contribuente ha parlato del suo idilliaco rapporto
telematico con INPS; ciò ha provocato in me un misto di invidia ed incredulità. Poiché la verità può avere molte facce, ecco che vi narro la mia esperienza. Anche io sono pensionato di 66 anni, ma continuo a lavorare come libero
professionista, quindi uso quotidianamente PC, con posta elettronica, internet ed altro. Lunedì sera 7 marzo: anche
se ho ancora una consulenza da concludere, decido di collegarmi ad INPS per avere il mio CUD: un presagio mi
dice che è bene essere prudenti, anche se ritengo di essere fortunato. Infatti, per precedenti interazioni telematiche
con INPS, ho già il mio PIN, ricevuto per la prima metà via web, per la seconda metà per posta (ma perché??). Sono le 21,00 quando entro nel sito INPS, penso che in pochi minuti avrò finito. Accedo all’area servizi on line, ed inserisco il mio PIN che avevo gelosamente custodito.
Prima sorpresa! Il PIN è scaduto, ma per fortuna il sito me ne fornisce uno nuovo: ostacolo superato.
Accedo con il nuovo PIN, entro nell’area CUD, e scopro con sorpresa che per avere il mio CUD non basta il PIN, ci
vuole il PIN certificato. Scarico il modulo, lo compilo con tutti i dati (chiedendomi perché INPS, che mi conosce da
oltre 40 anni, mi chiede sempre sesso, età, codice fiscale ed altro: ma gli archivi INPS sono fuori uso?), lo stampo,
lo firmo, e poi ne faccio una scansione ( e benedico il momento in cui, quando ho comprato la stampante, ne ho
presa una con scanner incorporato). Faccio anche la scansione della mia carta d’identità, perché bisogna inviare
anche un documento: mi sento pronto al grande momento. Accedo nuovamente all’area CUD, carico i due files
( modulo richiesta e carta identità), ma non succede nulla! Provo un paio di volte, poi mi accorgo di un messaggio
che mi avverte che posso inviare un solo file, e mi suggerisce di mettere i files in una cartella, e di “zippare” il tutto.
Comincio ad innervosirmi, ma persevero. Non ho mai “zippato” un file, quindi vado su internet, scarico “winzip” e
faccio un paio di prove: funziona! Creo la cartella INPS, metto i due files, “zippo” la cartella, e mi sento pronto al
grande momento: carico la cartella “zippata”, ma non succede nulla. Come mai? Ma certo, INPS mi dice che può
accettare file di dimensione massima 1 mega, e la mia cartella, anche se “zippata”, è di 1,8 mega. Ma come, nell’era
della banda larga, solo 1 mega? Mi sento in un vicolo cieco: ma, abituato a risolvere problemi ben più grandi, mi
accorgo che il modulo di richiesta del PIN certificato ha molti spazi bianchi. Faccio una fotocopia della carta
d’identità (sia fronte che retro), e la incollo negli spazi bianchi, ne faccio una scansione, poi “zippo” solo questo file,
risultato: 1,1 mega. Confido nell’elasticità del sistema, carico il file e premo invio: evviva, INPS mi informa che ha
ricevuto la mia documentazione. Con un sospiro di sollievo spengo il PC, guardo l’orologio: sono le 23,15. Avrei dovuto finire la consulenza, ma sono esausto al pensiero di aver lottato contro i mulini a vento. Subito dopo mi assale
un dubbio amletico: ma INPS accetterà la mia domanda, oppure la cestinerà perché non congrua? E quando me lo
farà sapere? Mentre mi addormento, penso che un contribuente sempre puntuale nei versamenti per circa 40 anni
dovrebbe essere trattato da INPS come un amoroso figlio. Invece INPS si comporta come la peggiore matrigna delle ben note favole.
Domenico Criscuolo
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Anno X numero 55
NOTIZIE DAI MASTER
MASTER ROMA SAPIENZA
Presente e futuro della sperimentazione clinica
L’inaugurazione ufficiale del master di II livello della Sapienza, diretto dal prof. Roberto Verna “ Ricerca clinica: metodologia, farmacovigilanza, aspetti legali e regolamentari”, ha avuto luogo il 24 marzo scorso presso l’auditorium della
prima Clinica Medica, con la tavola rotonda dal titolo: “Presente e futuro della sperimentazione clinica”. Invitate a
parlare sono state numerose personalità accademiche, istituzionali e dei vari settori della ricerca, oltre ad alcuni docenti del master; hanno partecipato all’evento, condotto dal direttore editoriale del Quotidiano Sanità, il dr. Francesco
Maria Avitto, che poi ha relazionato sulla pubblicazione on line, circa 45 persone, tra di essi i 14 studenti iscritti al
corso di questo anno.
Il Presidente del CUM, prof. Andrea Lenzi, ha portato il suo saluto sostenendo come sia necessaria una maggiore
valorizzazione dei master universitari, soprattutto di quelli che si occupano dell’area medica per il loro riflesso sulle
professionalità degli studenti. Il Preside della Facoltà di Medicina e Odontoiatria, prof. Sebastiano Filetti, che ha poi
preso la parola, si è impegnato a potenziare il master negli anni futuri per poter avere a disposizione professionisti
che conoscano nei dettagli la materia e sappiano far fronte alle crescenti richieste di salute e di benessere dei pazienti e dei cittadini, i quali, a loro volta, saranno sempre più informati attenti e desiderosi di conoscere i risultati degli
studi clinici realizzati.
Successivamente, ha preso la parola il prof. Roberto Verna, che, in prima istanza, ha voluto leggere la lettera inviata
dalla dr.ssa Marcella Marletta, della Direzione Generale dei Dispositivi medici e del Servizio Farmaceutico, impossibilità a presenziare per un concomitante incarico di rappresentanza. Nella sua comunicazione la dr.ssa Marletta ha
messo in evidenza i punti critici del settore, riconoscendo le deficienze del sisteProf. Roberto Verna
ma ed impegnandosi nell’agire per risolverli per consentire all’Italia di svolgere il
ruolo che le spetta per le eccellenze presenti nel nostro Paese.
Il prof. Verna ha anche ricordato come
sia nata, nel 2002, l’idea di dar vita ad un
master che ponesse le basi per una solida preparazione di chi intenda dedicarsi
alla ricerca clinica in campo farmacologico e come poi, nel corso degli anni, il
corso abbia avuto alterne vicende fino a
riprendere, in questo anno, con la prospettiva di entrare nel circuito europeo
della PharmaTrain Federation attraverso
l’adeguamento del programma didattico
al syllabus PharmaTrain.
Il master si avvale di docenti sia accademici che di estrazione dal mondo farmaceutico e dei servizi; inoltre, per assicurare uno stage agli studenti, ha la stretta collaborazione del Clinical Trial Center del Policlinico Umberto I diretto dal
dr. Roberto Poscia del Ministero della Salute, ed anche di alcune CRO.
La dr.ssa Sandra Petraglia, direttore Ufficio Ricerca e Sperimentazione Clinica, è intervenuta in rappresentanza del
Presidente AIFA, dr. Mario Melazzini e, riferendosi alla prossima implementazione del nuovo Regolamento europeo
sulla sperimentazione clinica, ha osservato come sia importante la professionalità di chi si occupa di tale complessa
materia e come siano opportuni e determinanti i master come quello diretto dal prof. Verna; d’altra parte anche AIFA
è molto interessata a queste iniziative, avendo non solo compiti regolatori ma anche di formazione del personale
dedicato alla ricerca. La dr.ssa Patrizia Popoli, dirigente ISS, è intervenuta a nome del presidente Walter Ricciardi
per assicurare la piena collaborazione dell’Istituto con l’Università , con l’industria e con tutte le altre istituzioni che
intervengono nell’applicazione del nuovo regolamento europeo per dare spazio all’Italia di emergere nel contesto
internazionale ed ha ricordato come, negli ultimi tempi, vi sia stato un incremento del numero degli studi di fase II,
ambito nel quale l’Istituto svolge un ruolo predominante.
Per Farmindustria ha parlato il dr. Maurizio Agostini, in rappresentanza del presidente Massimo Scaccabarozzi; egli
ha ricordato l’impegno delle aziende farmaceutiche per la ricerca farmacologica e clinica, sia in termini non solo di
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capitali ma anche di investimenti in risorse umane. Ha quindi ricordato come l’industria del farmaco in Italia sia importante e determinante anche nella produzione, che assicura esportazione e quindi offre un contributo non indifferente alla crescita del PIL nazionale. E’ intervenuto anche il Generale dei Carabinieri, Claudio Vincelli, comandante
dei NAS, che ha riepilogato l’ampio ambito di attività del suo gruppo, fornendo cifre sui vari controlli effettuati a protezione della sicurezza dei medicinali e della salute dei cittadini, delle azioni di repressione di attività illecite e di prevenzione delle stesse, operando sempre in stretta collaborazione con AIFA e con il Ministero della Salute. Hanno
espresso il loro parere anche Giovanni Leonardi, direttore generale della ricerca e dell’innovazione in sanità; il direttore generale della digitalizzazione, del sistema informativo sanitario e della statistica, Massimo Casciello; il presidente della fondazione GIMBE, Nino Cartabellotta; il presidente eletto della Fondazione Fadoi, Dario Manfellotto; ed
il presidente ANMCO ( Associazione Nazionale Medici Cardiologi Ospedalieri) Michele Gulizia.
Vi sono stati poi interventi da parte del pubblico, tra di essi, quello del dr. Stefano Marini, docente del master e presidente EUCROF ( European CRO Federation), che ha ricordato il contributo della federazione nel seno della commissione per lo sviluppo del portale europeo ed il successo nel prolungare a 30 mesi , invece dei 12 iniziali, il tempo
entro il quale pubblicare i risultati degli studi di fase I, e quello mio, che ha avuto lo scopo di menzionare il Progetto
SMD ( Specialist in Medicines Development), che SSFA sta attivando in Italia, con la collaborazione di IMIPharmaTrain e PharmaTrain Federation, e che ha lo scopo di perfezionare la formazione di studenti che hanno già
frequentato un master e che lavorano in ambito di ricerca clinica, attraverso un periodo di approfondimento e di supervisione dei capitoli essenziali della materia, della durata variabile da 2 a 4 anni, conferendo una certificazione
internazionale a questi professionisti. Il prof. Verna ha chiuso la seduta ringraziando sia i relatori che i partecipanti
ed auspicando una lunga serie di edizioni future a questo master.
Francesco De Tomasi
MASTER NAPOLI
Nella prima settimana di maggio ha avuto inizio la terza edizione del master della Seconda Università di Napoli, diretto dal prof Franco Rossi. Il programma di questo master si articola in cinque moduli di una intera settimana di lezioni: gli argomenti sono quelli classici della Medicina Farmaceutica, ma il programma ha un particolare attenzione
alla Farmacovigilanza ed agli Affari Regolatori. Gli studenti di questa terza edizione sono 21, con la usuale netta prevalenza di ragazze (17 a 4): la maggior parte ha la laurea in farmacia, ma sono presenti anche altre lauree ad indirizzo scientifico (medicina e chirurgia, biologia, biotecnologia, CTF).
Ho avuto l’opportunità di svolgere una prima lezione nel corso del primo modulo, ed ho apprezzato la preparazione e
l’attenzione di tutta la classe: di certo un buon inizio. Nella foto, tutti gli studenti del master, nella splendida terrazza
della Seconda Università di Napoli (non a caso si abbrevia SUN), con splendida vista sul golfo e sul Vesuvio.
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MASTER DI CATANIA
Il master dell’Università di Catania è un’altra
realtà del panorama formativo offerto dalle
Università italiane: si tratta di un programma
ben collaudato, coordinato dal prof. Filippo
Drago. Ho avuto occasione di svolgere due
giornate di lezione, davanti a circa 25 laureati
(farmacia, CTF, biotecnologie) molto attenti e
preparati. Nella foto, l’aula delle lezioni.
MASTER MILANO BICOCCA
Lo scorso 7 aprile si è svolta la giornata inaugurale della nuova edizione del Master dell’Università di Milano Bicocca. Giunto all’ottava edizione, questo master si è conquistato molta popolarità fra gli studenti. Infatti oltre cento laureati in
materie scientifiche avevano presentato la domanda di iscrizione: molto impegnativo dunque
il compito della dr.ssa Elena Bresciani e del prof
Antonio Torsello, che hanno svolto un colloquio
di selezione a tutti i candidati, per stilare poi la
graduatoria ed accogliere i primi trenta. Come
di consueto, le lezioni del master si tengono tutti i venerdì ed i sabato mattina, da aprile a dicembre, con l’ovvia pausa estiva, per un totale di 267 ore di lezioni: tutti gli studenti avranno inoltre la possibilità di svolgere uno stage, per
mettere in pratica, almeno per qualche mese, quanto appreso in aula. Nella foto, l’aula delle lezioni.
MASTER ROMA CATTOLICA (Sistemi di qualità)
Le indagini cliniche con i dispositivi medici
La mia tesi tratta di metodologia e ruolo delle Indagini Cliniche (IC) con i dispositivi
medici (DM) talvolta a torto ritenute “più libere” rispetto agli studi clinici con i farmaci. Il ruolo delle indagini cliniche è verificare che il DM fornisca, nelle normali condizioni di impiego, le prestazioni per cui è stato progettato e che i rischi siano prevedibili tenuto conto dei benefici apportati. Le IC sono uno dei tre pilastri della valutazione clinica. Quest’ultima, che compone una specifica sezione del fascicolo tecnico, si articola in 3 parti: una valutazione critica dei risultati delle specifiche indagini
cliniche condotte sul dispositivo in esame; una valutazione critica della letteratura
scientifica; l’analisi combinata dei dati ottenuti dalla letteratura scientifica e dalle
indagini cliniche. La conduzione scientifica delle IC è descritta nella norma tecnica
UNI EN ISO 14155:2012 “Indagine clinica dei dispositivi medici per soggetti umani.
Buona pratica clinica”. Le IC devono avere: obiettivi chiari, una metodologia definita, una corretta pianificazione statistica ed un’adeguata protezione del paziente.
Tutti questi aspetti vanno descritti nel piano di indagine clinica (protocollo). I risultati delle IC devono essere oggetto
di relazione completa e dettagliata, descritta dalla norma ISO. Viene inoltre richiesto un adeguato sistema di qualità.
La norma ISO infatti richiede che il fabbricante predisponga un insieme di procedure interne che descrivano punto
per punto tutti gli aspetti relativi alla gestione dell’indagine clinica. A seconda della classe di rischio e della situazione regolatoria del DM (ossia che abbia o meno già ottenuto la marcatura CE) variano le modalità di autorizzazione
presso l’Autorità Competente. In ogni caso è essenziale l’autorizzazione del Comitato Etico (CE) della struttura ove
si svolge l’indagine clinica. In conclusione, le indagini cliniche con dispositivi medici richiedono una preparazione
specifica del personale incaricato, sia esso del fabbricante o di una società di ricerca a contratto (CRO).
Rosa Anna Grifa
Laureata in Chimica e Tecnologia Farmaceutiche presso l’Università di Roma “La Sapienza”. Master in “Sviluppo
Preclinico e Clinico del farmaco” ed in “Sistemi di Qualità: GXP & ISO” presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore
(Roma). Attualmente Stagista presso l’unità CRO del Clinical Trial Center della Fondazione Policlinico Gemelli di
Roma.
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ULTIME NOTIZIE
Il Comitato Scientifico (CSST) incaricato dalla Agence National de Sécurité du Medicament et des produits
de la santé (ANSM) di fare chiarezza
sul grave incidente avvenuto lo scorso gennaio durante uno studio clinico nel centro Biotrial di Rennes
(Francia) ha concluso le sue indagini.
La sperimentazione di fase 1 First in
Human si concluse prematuramente
dopo la morte di uno dei volontari e
l’ospedalizzazione di altri quattro
soggetti durante il quinto giorno di
somministrazione del farmaco sperimentale BIA 10-2474, un inibitore
dell’enzima acido grasso ammide
idrolasi (FAAH) e perciò indicato per
il trattamento del dolore neuropatico.
Il CSST è stato chiamato ad analizzare gli aspetti concernenti sia il
meccanismo d’azione che i profili
tossicologici di BIA 10-2474 ed eventualmente proporre raccomandazioni utili al processo di revisione
delle norme che regolano
l’esecuzione degli studi di fase 1, al
fine di migliorare ulteriormente la
sicurezza per i volontari coinvolti.
Secondo quanto riportato nella relazione del CSST, la Investigator Brichure (IB) riporta numerosi errori ed
omissioni, implicitamente ribadendo
che le indagini in corso da parte sia
della Magistratura che
dell’Ispettorato Generale degli Affari
Sociali sono necessarie a chiarire
alcuni aspetti procedurali e metodologici particolarmente rilevanti (come
mai un Comitato Etico ha approvato
uno studio di fase 1 con una IB così
lacunosa? Perché lo studio non è
stato immediatamente sospeso dopo
l’ospedalizzazione del primo volontario trattato nella coorte con eventi
avversi?). In particolare, alcune immagini sembrano essere manipolate
e non rispondenti a quanto riportato
negli study report della CRO preclinica incaricata della loro esecuzione,
e gli studi di farmacologia preclinica
sembrano aver seguito un disegno
sperimentale inadatto ad una predizione accurata della dose efficace.
Per ciò che concerne il meccanismo
d’azione e la caratterizzazione tossicologica, il CSST evidenzia che il
BIA10-2474 è stato studiato con rife-
rimento alle conoscenze biomediche
attuali ed alle precedenti esperienze
con composti della stessa classe.
Tuttavia, si è riscontrato che il composto presenta bassa attività e scarsa specificità, oltre che una durata
d’azione piuttosto lunga.
Proprio questi tre aspetti potrebbero
essere alla base della tragedia: secondo il comitato è plausibile
l’ipotesi che nei volontari sottoposti a
trattamento multiplo di 50 mg/die,
BIA10-2474 o uno dei suoi metaboliti
si sia accumulato fino al superamento di una “soglia trigger” che può
aver scatenato l’improvvisa tossicità,
probabilmente per azione di tipo offtarget.
Oltretutto, la scelta delle dosi nella
parte multiple ascending dose dello
studio non hanno riscontro farmacologico, in quanto il farmaco inibisce il
target già a concentrazioni 10 volte
minori.
In effetti, alcuni scienziati in maniera
indipendente hanno osservato che i
segni di infiammazione e danno cerebrale evidenziati dagli studi di trattamento prolungato ad alte dosi in
roditore avrebbero dovuto accendere qualche lampadina: sebbene infatti in molti casi questo dato rappresenti un riscontro comune, è abbastanza inaspettato per inibitori FAAH, sia in relazione al meccanismo
d’azione che a quanto riportato in
letteratura.
Pertanto, il CSST raccomanda che
in futuro gli studi di fase 1 siano condotti ponendo una maggiore attenzione e consapevolezza alla caratterizzazione farmacologica del farmaco sperimentale sia in modelli animali che durante l’esecuzione degli
studi, ponendo anche l’accento sulla
rilevanza scientifica ed etica della
pubblicazione completa ed integrale
dei protocolli e degli risultati degli
studi senza pregiudizio verso gli interessi industriali.
Da un punto di vista umano rimane il
cordoglio per Guillaume Molinet, il
volontario deceduto nello studio la
cui morte sarebbe stata evitata applicando semplicemente una più
rigorosa metodologia di indagine
scientifica.
E’ probabilmente anche la fine degli
inibitori FAAH, una classe di composti che in passato aveva goduto di
ampio credito come nuova frontiera
nel trattamento del dolore neuropatico e dei disordini depressivi. Infatti,
dopo che l’inefficacia del target era
già stata sperimentata da Pfizer e
Vernalis, anche J&J ha deciso di
interrompere lo sviluppo del JNJ42165279 lasciando la piccola semivirtual company FAAH Pharma con il
suo IPI-940 l’unica a credere ancora
in questo target.
Daniele Colombo
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Salute, alimentazione, farmaci e ambiente
Workshop Nazionale Agroalimentare di Albenga, 17 – 18 marzo 2016
Nelle date indicate, con il patrocinio
SSFA, si è svolto il primo Workshop
Nazionale Agroalimentare organizzato da LABCAM, Laboratorio Chimico Merceologico della Camera di
Commercio di Savona, in collaborazione con il Laboratorio della Camera di Commercio di Torino. All’evento si sono dati appuntamento esperti
delle principali università, centri di
ricerca ed ordini professionali di tutta
Italia impegnati in un ricco calendario di lavori su ricerca, innovazione
dei prodotti, sicurezza ed etichettatura. A tracciare un bilancio del
Workshop è Luca Medini, direttore
Labcam: “Siamo decisamente soddisfatti della riuscita dell’evento che ha
visto sessanta partecipanti da tutta
Italia, in particolare del centro nord
tra aziende, università, associazioni
di categoria, Asl e industrie del comparto di primo piano”. L’iniziativa è
stata pensata con l’obiettivo di fornire un panorama aggiornato sui temi
più attuali. “Il comparto agroalimentare è senza dubbio al centro di un
crescente interesse – ha spiegato
Luca Medini – e quasi quotidianamente ci confrontiamo con notizie
che riguardano la sicurezza e la
qualità ’in tavola‘. Le normative e gli
studi in merito sono in continua evoluzione, viste le sempre più crescenti necessità del settore e le richieste
del mercato con particolare attenzione all’applicazione di tecniche
innovative per l’analisi della qualità
di prodotto e per il mantenimento
delle sue proprietà. La nostra iniziativa ha voluto mettere a fattor comune l’esperienza e la ricerca ai massimi livelli oggi nel panorama nazionale e internazionale fornendo soluzioni innovative alle aziende e informandole sulle ultime novità legislative e sulle responsabilità che coinvolgono le imprese”.
Quattro le sessioni di lavoro. Nella
prima sessione è stato affrontato il
tema della sicurezza alimentare con
particolare attenzione alle nuove
tecniche di valutazione della qualità
e l’utilizzo di tecniche e applicazioni
innovative. Ad aprire la prima sessione, dedicata alla ricerca e alla
sicurezza alimentare, è stato Sergio
Caroli della SSFA, con un focus su
“residui di farmaci e loro metaboliti
negli alimenti: problemi attuali e prospettive future”. “L’attuale produzione di una vastissima gamma di farmaci per uso umano e veterinario,
insieme all’uso, spesso abuso e uso
improprio, che se ne fa – ha detto
Caroli – implica che tali sostanze
siano di fatto onnipresenti nell’ambiente con possibili effetti negativi
per la salute umana e l’ambiente
stesso. La salute del consumatore è
messa rischio da residui e metaboliti
di farmaci per uso umano dispersi
nell’ambiente nonché da quelli di
farmaci veterinari. Le patologie di
maggior rilievo che ne derivano includono allergie, forme tumorali, effetti sulla riproduzione e sullo sviluppo. La rilevazione, l’identificazione e
la quantificazione dei residui e dei
metaboliti di farmaci nei comparti
ambientali, nel biota, negli alimenti
per consumo umano nonché nei
luoghi di lavoro, costituisce pertanto
una sfida importante per la salvaguardia della salute del consumatore.
È necessario peraltro disporre di
strategie analitiche innovative in grado di quantificare in modo attendibile
tali inquinanti in una grande varietà
di matrici per consentire al legislatore di predisporre idonei strumenti
normativi”. C’è consapevolezza crescente da parte del consumatore in
merito alla dispersione ambientale –
deliberata, non intenzionale ed inevi-
tabile – di farmaci. Basti citare tra le
numerose iniziative tese a sensibilizzare l’opinione pubblica quella recentemente realizzata dalla Commissione europea nell’ambito del
Seventh Framework Project.
Le norme vigenti nell’Unione Europea impongono controlli rigorosi per
quanto riguarda residui e metaboliti
di farmaci negli alimenti di origine
animale ai fini del rispetto dei Maximum Residue Limits (MRLs) e lo
sviluppo di adeguati metodi qualitativi, di conferma e di identificazione
(si vedano, ad esempio, la Council
Directive 96/23/EC e la Commission
Decision 2002/657/EC).
Tali contaminanti si ritrovano a livelli
non trascurabili in alimenti come
carne, pesce, latte, uova e miele.
La loro presenza deve quindi essere
costantemente monitorata per proteggere la salute umana ed animale,
garantire la sicurezza degli alimenti
stessi e ridurre quanto più possibile
ogni contenzioso negli scambi commerciali.
Le autorità sanitarie nazionali, comunitarie e internazionali ritengono
pertanto essenziale disporre di metodi di indagine pienamente affidabili
per la determinazione di residui di
farmaci negli alimenti destinati al
consumo umano.
Tramite l’esame della letteratura
scientifica pubblicata nel triennio
2013-2015, per un totale di circa
1000 lavori, è stato possibile eviden(Continua a pagina 19)
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ziare quali siano
le
metodologie
analitiche cui oggi
maggiormente si
fa ricorso per il
rilevamento,
l’identificazione e
la quantificazione
di residui e metaboliti di farmaci
per uso umano e
veterinario
nei
prodotti agroalimentari, essenzialmente riconducibili a tecniche
di cromatografia
liquida ad altissime prestazioni in
vario modo combinate con la
spettrometria di massa ad alta risoluzione ed a saggi immunologici,
come l’ELISA. La sicurezza alimentare richiede oggi una crescente attenzione ai problemi posti dalla dispersione ambientale di farmaci per
uso umano e dall’uso massiccio di
farmaci veterinari allo scopo di contenerne gli effetti dannosi non solo
nell’immediato, ma anche – e soprattutto – nel lungo termine.
Per garantire la salute umana e ambientale sotto questo profilo è indispensabile che il consumatore venga messo in grado di comprendere
sempre meglio quali rischi comporti
l’uso sconsiderato dei farmaci e si
adoperi per contribuire attivamente a
prevenirli. All’interno della sessione
di lavoro della prima giornata, moderata da Giovanni Minuto, direttore
del Cersaa, si sono avuti anche gli
interventi di Lanfranco Conte del
dipartimento di scienze agro-alimentari, ambientali e animali
dell’Università di Udine circa le nuove acquisizioni sulla valutazione di
qualità e purezza degli oli alimentari;
di Carlo Brera dell’Istituto Superiore
Sanità sugli aspetti innovativi ed i
nuovi orizzonti nella valutazione del
rischio da micotossine; di Andrea
Giomo della divisione Food Euranet
sui modelli innovativi per lo sviluppo
del prodotto; di Paolo Oliveri del dipartimento di farmacia dell’Università di Genova su “spettroscopia
NIR e chemiometria: un importante
binomio nell’analisi agroalimentare”;
di Andrea Ghiselli del centro di ricer-
ca per gli alimenti e la nutrizione su
“alimenti e salute: quali proprietà
preservare e sviluppare?”. Sempre
durante la prima giornata, una sessione è stata interamente dedicata
all’analisi sensoriale con interventi di
Maria Piochi, dell’Università degli
Studi di Firenze, Lanfranco Conte
dell’Università di Udine, Giovanni
Minuto del Cersaa e Pierpaolo Nebuloni
dell’azienda ThermoFisher
Scientific. ”L’analisi sensoriale – ha
sostenuto Luca Medini – è un metodo di misura oggettivo per la valutazione merceologica degli alimenti
caratterizzati attraverso la vista,
l’udito, il tatto, il gusto e l’olfatto.
Fa oramai parte a tutti gli effetti dei
criteri oggettivi necessari per dare
una carta d’identità a un prodotto,
affiancandosi ai rilevamenti chimici.
L’industria alimentare utilizza ormai
l’analisi sensoriale sia come verifica
del rispetto dei disciplinari imposti
per legge, ad esempio nell’attribuzione delle denominazioni di origine o volontari che come vero e proprio strumento di marketing”.
Durante la seconda giornata, una sessione è stata interamente dedicata all’aggiornamento tecnico e
legislativo in ambito agroalimentare.
Moderata da Franco Macchiavello
dell’Ispettorato centrale della tutela
della qualità e repressione frodi dei
prodotti agroalimentari, la sessione ha affrontato il tema della protezione del marchio in Italia ed
all’estero per l’impresa agroalimentare, la nuova etichettatura dei pro-
dotti alimentari, la responsabilità
delle imprese e gli aspetti sanzionatori e le linee guida per la conformità
dei materiali a contatto con gli alimenti. Sempre nella seconda giornata di lavori, grande interesse tra i
partecipanti è stato registrato dalla
“Shelf life degli alimenti: determinarla, prolungarla, garantirla”.
La sessione, moderata da Luca Medini di Labcam, ha affrontato, con
Sonia Calligaris dell’Università di
Udine e con Elisabetta Razzuoli
dell’Istituto Zooprofilattico Sperimentale del Piemonte, Liguria e Valle
d’Aosta gli indici microbiologici nella
predizione della shelf life; con Andrea Giomo, divisione Food Euranet
i modelli predittivi sensoriali; con
Lucrezia Lamastra dell’Istituto di
chimica agraria e ambientale
dell’Università Cattolica del Sacro
Cuore lo studio della cessione di
contaminanti da imballi alimentari e
in chiusura, un case study presentato dall’Azienda Olearia di Nasino
(SV).
Luca Medini
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The new OECD GLP advisory document “The Application of GLP Principles to Computerized Systems”
The OECD GLP consensus document “The Application of the Principles of GLP to Computerized Systems”, has been in use since 1995.
The revision of the document was
initiated by the OECD GLP working
group in 2012. A subgroup consisting of experts from several countries
drafted proposals that were discussed and commented by all members of the OECD GLP working
group. In a global public hearing
process OECD considered stakeholder opinions of all member countries around the world. The new
Guideline was published in April
2016. As key elements of computerised system validation are similar to
all GXPs the document is based
upon the systematics of the EU
GMP Guideline Annex 11 in consideration of the PIC/S PI 11-3 Good
Practices for Computerised Systems
taking into account specific requirements of GLP. It considers the preceding version of OECD document
no. 10 as published in 1995 in all
instances where changes appeared
unnecessary. The new guideline
introduces a life cycle approach to
the validation and operation of computerized systems. It emphasizes
risk assessment as the central element of a scalable, economic and
effective validation process with a
focus on data integrity. The validation approach should be risk-based
and test facility management has the
freedom to choose any appropriate
life cycle model. The intention is to
provide guidance that will allow to
develop an adequate strategy for
validation and operation of any type
of computerised system in a GLP
environment.
The guidance applies to all types of
computerised systems used in GLP
regulated activities regardless of
their complexity. Qualification rather
than validation is considered acceptable for Commercial Off the Shelf
systems (COTS), automated equipment of low complexity or small systems. Test facility management must
decide and define criteria for when
to apply computerised system vali-
dation and/or qualification approaches. Computerised systems
should be designed and demonstrated to be fit for purpose and introduced in a pre-planned manner.
Risk management is considered a
pivotal element of validation. It
should be applied throughout the life
cycle of a computerised system taking into account the need to ensure
data integrity and the quality of the
study results. Risk assessment
should be used to develop an adequate validation strategy and to
scale the validation effort in order to
adapt to the type of system. Test
facility management may rely on
best practice guidance when scaling
the validation effort.
Test facility management has overall
responsibility to ensure that the facilities, equipment, personnel and
procedures are in place to achieve
and maintain validated computerised
systems. To validate a system and
to operate a validated system, there
should be close cooperation between all relevant personnel if possible such as the test facility management, the study director, quality assurance personnel, IT personnel and
validation personnel. Written agreements between the local test facility
management and the parent organisation should clearly assign responsibilities for validation, maintaining
the validated status and GLP compliant operation of computerised
systems. The study director’s responsibility for electronic data is the
same as that for data recorded on
paper. Quality assurance personnel
should be aware of GLP-relevant
computerised systems at their test
facility or test site. Study directors
and quality assurance personnel
should have sufficient training to
understand the relevant procedures
in adequate use of GLP-relevant
computerised systems. Quality assurance should be able to verify the
valid use of a system. The competence and reliability of a supplier
should be evaluated by test facility
management and written agreements should exist between the test
facility and the supplier. Suppliers
need not conform to GLP regulations, but must operate to a documented quality system verified as
acceptable by test facility management with input from the quality assurance unit. Hosted services (e.g.
platform, software, data storage,
archiving, backup or processes as a
service) should be treated like any
other supplier service and require
written agreements describing the
roles and responsibilities of each
party. Change control should cover
any item that undergoes review, approval and test and that are relevant
for a defined configuration of a computerised system. The depth of
documentation of a computerised
system necessary will vary dependent on the complexity and validation
strategy. Any GLP study result
should be traceable to the relevant
and validated system configuration
to allow the verification of settings as
provided by the study plan or the
relevant method. Data migration
should be part of the test facility
management's validation scope if
GLP-relevant data are affected regardless of the status of any GLP
study project. Migrated data should
remain usable and should retain its
content and meaning. Data storage
should be considered for each computerised system used to perform
GLP studies during the study phase
and archiving period. Test facility
management should have a policy to
explain how data are stored and
how storage requirements are satisfied. If the test facility hands over the
electronic study data to a sponsor,
the responsibility for the data transfers to the sponsor. If data are
printed to represent raw data, all
electronic data including derived
data as well as metadata and
(information about data changes if
such changes are necessary to
maintain the correct content and
meaning of the data) should be
printed. Audit trail for a computerised
system should be enabled, appropriately configured and reflect the roles
and responsibilities of study person(Continua a pagina 21)
Anno X numero 55
(Continua da pagina 20)
nel. A system should be in place that
can ensure a risk based review of
the audit trail functions.
Computerised systems should be
periodically reviewed to confirm that
they remain in a validated state, are
compliant with GLP and continue to
meet stated performance criteria
(e.g. reliability, responsiveness, capacity). Computerised systems of
less criticality and less complexity
may be excluded from the review if
the exclusion is justified based on
risk. The study director, test facility
management, quality assurance
and, if appropriate, the sponsor
should be informed about incidents
requiring remedial action. The study
director is responsible for defining
the criticality of incidents for assessing the impact on the study. It is test
facility management’s decision to
rely on an electronic signature function if other means are possible (e.g.
printing and signing by hand). An
electronic signature function of a
computerised system should be addressed in the requirements for the
system and validated and described
in the system procedures. A person’s role in a GLP study should be
reflected by the meaning of the cor-
Pagina 21
responding electronic signature applied by a study relevant computerised system and should be traceable
to the system`s authorization policy.
Metadata which are associated with
the electronically signed record
should be clearly identified (e.g.
method settings and system configuration if relevant for the electronically
signed analytical result).
The archivist, who holds sole responsibility, may delegate tasks during the management of electronic
data to qualified personnel or automated processes (e.g. access control).
Ronald Bauer
With regards to archiving, the advisory document supplements OECD
GLP advisory document number 15
“Establishment and Control of Archives that Operate in Compliance
with the Principles of GLP”, [ENV/
JM/MONO(2007)10]. Electronic archiving should be regarded as an
independent
procedure
which
should be validated appropriately.
Any GLP-relevant data may be archived electronically. The GLP Principles for archiving must be applied
consistently to electronic and nonelectronic data. Electronic data
should be accessible and readable,
and its integrity maintained, during
the archiving period. If a hybrid solution is chosen (i.e. “paper-based”
data and electronic data maintained
in parallel) the test facility management should specify the regulated
records for relevance in archiving.
Ronald Bauer
Dr. Ronald Bauer is the Head of the Austrian Pharmaceutical Inspectorate. He joined the national inspection
unit in 2004. Since then he has been in charge of the national GLP monitoring program for pharmaceutical substances. Responsibilities extend to the inspection of
computerized systems in all GxPs. Experience covers
inspections of preclinical and clinical trials. He represents
one of Austria’s GLP monitoring authorities in the OECD
GLP working group and was appointed chair of the
OECD IT subgroup in 2012. Dr. Ronald Bauer has a degree in chemistry from the Technical University Graz.
Anno X numero 55
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Oggi parliamo di….
Qualità, efficacia e sicurezza di prodotti per terapie avanzate
I prodotti medicinali di terapia avanzata (ATMP), che comprendono i
prodotti di terapia genica, di terapia
(cellulare) genica somatica ed i prodotti di tessuti ingegnerizzati, sono
all’avanguardia
dell’innovazione
biomedica e rappresentano la principale, se non l’unica, speranza di
cura per molte patologie, genetiche
e acquisite, per le quali le opzioni
terapeutiche disponibili sono di efficacia limitata, oppure del tutto inefficaci o inesistenti. Grazie a questa
prospettiva, gli ATMP sono da tempo oggetto di notevole interesse e
vivace dibattito. A seguito della Direttiva Europea sugli ATMP (Regolamento CE n. 1394/2007 (1)), si è
venuto consolidando un quadro normativo regolatorio per queste terapie innovative, al cui centro c’è il
Committee for Advanced Therapies
(CAT), presso EMA, che si avvale di
un comitato scientifico multidisciplinare di esperti, nel quale sono rappresentati gli Stati membri europei e
le regioni aderenti alla European
Free Trade Association (EFTA),
insieme ad associazioni di pazienti
e medici. Il CAT è aperto alla discussione delle problematiche sollevate dalle società del settore che
ricercano, inventano, brevettano e
sviluppano gli ATMP ed evidenzia
l’opportunità, per queste società e
gruppi di ricerca, di interagire con
EMA e CAT, in veste di consulenti
regolatori, nel corso dello sviluppo e
dell’industrializzazione dei loro prodotti.
Per quanto riguarda la qualità,
l’efficacia e la sicurezza dei prodotti
di terapia genica e terapia genica
somatica, due sono le linee guida di
riferimento, emanate da EMA/CAT
nel 2008 (2) e nel 2014 (3). La seconda, in particolare, definisce principi scientifici e fornisce guida e
indirizzi 1) per lo sviluppo e la valutazione dei prodotti medicinali di
terapia genica (GTMP) avanzata
destinati all’uso umano, e 2) per la
produzione e raccolta della necessaria documentazione a supporto
della richiesta per ottenere l’autorizzazione all’immissione in com-
mercio nei Paesi UE ed EFTA, da
presentare all’Ente Regolatorio al
momento del deposito della domanda stessa. Sono tre le principali sezioni di questa linea guida: quella
sulla qualità si occupa, in particolare, delle richieste specifiche riguardanti lo sviluppo e la fabbricazione,
in GMP, dei GTMP. La sezione non
clinica affronta gli aspetti relativi agli
studi di R&D non clinici, allo scopo
di massimizzare l’informazione ottenuta nella selezione dell’intervallo di
dosi da testare negli studi clinici e
per supportare la via e lo schema di
somministrazione proposti nell’uomo. La sezione clinica affronta la
richiesta di studiare, per quanto
possibile, le proprietà farmacologiche del GTMP propriamente detto e
del transgene. Gli studi clinici devono dimostrare chiaramente se gli
effetti osservati sono attribuibili al
GTMP. Le richieste per gli studi di
efficacia sottolineano che, per questi prodotti, valgono gli stessi principi che regolano lo sviluppo clinico di
qualunque altro prodotto medicinale: in special modo le richieste delle
linee guida vigenti relative a specifiche aree terapeutiche. La parte finale di questa sezione, dedicata
alla valutazione della sicurezza del
Terapia genica somatica (cellulare)
prodotto, enuncia i criteri da tener
presenti negli studi di follow up e
nelle richieste relative alla farmacovigilanza.
I progressi della biologia molecolare
e delle biotecnologie, associati ad
una crescente comprensione dei
processi patologici e dei meccanismi di protezione immunitaria, hanno reso possibile lo sviluppo di nuovi vaccini progettati razionalmente,
utilizzando proteine ricombinanti,
naked DNA, live vector, tossine geneticamente modificate e cellule
dendritiche e tumorali, sia per la
profilassi che per la terapia di un
ampio numero di patologie. Queste
tecnologie vaccinali, associate a
nuovi e originali adiuvanti, sistemi di
rilascio, formulazioni, vie e regimi di
somministrazione, presentano molte sfide nel percorso volto a dimostrare la loro sicurezza ed efficacia
a supporto dei test previsti nell’R&D
clinico. La linea guida EMA, dedicata alla valutazione della qualità, efficacia e sicurezza di vaccini ricombinanti (4), passa in rassegna questi
nuovi vaccini e le tecnologie adiuvanti ed evidenzia le istanze di sicurezza potenzialmente connesse.
(Continua a pagina 23)
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(Continua da pagina 22)
Inoltre, si occupa degli approcci finalizzati a dimostrare la sicurezza dei vaccini
tramite la valutazione della
loro
tollerabilità/tossicità
locale e sistemica, della
biodistribuzione (ADME) e
persistenza,
dell’immunogenicità e immunotossicità, del potenziale tumorigeno, della tossicologia della funzione riproduttiva, della safety pharmacology e genotossicità.
Inoltre, il disegno del vettore, le sequenze geniche del
transgene, i materiali di partenza, le
packaging cell lines, il cell banking,
la validazione delle banche cellulari
e del processo di isolamento e purificazione del principio attivo in scala
ridotta, le specie animali usate nei
modelli di malattia per studi di farmacodinamica, e come test in tossicologia, sono tutti argomenti le cui
scelte vanno giustificate ed il cui
comportamento in vivo va indagato.
Particolare attenzione va anche posta all’eventualità che lo strumento
di terapia genica possa infettare i
soggetti che vengono a contatto del
paziente (personale sanitario, parenti) e contaminare l’ambiente. Poiché
i vaccini sono classificati come farmaci, devono subire la stessa rigorosa valutazione non clinica di sicurezza richiesta per i farmaci. Il contesto del loro uso profilattico richiede
che ogni sforzo sia fatto per assicurarne un impiego sicuro. La valutazione della sicurezza di questi vaccini è complessa, perché essi agiscono attraverso un meccanismo multistadio nel quale il vaccino funziona
da pro-farmaco, mentre anticorpi e
linfociti attivati sono i veri effettori. Di
conseguenza, varie tossicità poten-
ziali devono essere prese in Terapia genica (AAV: Adeno-associated virus)
considerazione: la tossicità
diretta del prodotto, la tossicità lega- dovrebbero essere adattati alle speta alla sua attività farmacodinamica, cifiche proprietà del vaccino ed agquella derivante dall’attivazione di giunte a questo tipo di studio. I vaceventuali patologie preesistenti, la cini destinati a donne incinte, o in
tossicità/immunogenicità di possibili età fertile, impongono che si esecontaminanti ed impurezze ed altre guano, durante la R&D non clinica,
reazioni avverse causate dall’inte- studi embrio-fetali e post-natali, con
razione tra i vari componenti. Tra le un disegno adattato per assicurare
linee guida che si occupano dei vac- un’appropriata esposizione al vaccicini ci sono quelle generali, applica- no, della madre e del feto, durante la
bili a tutti i farmaceutici, come la ICH gestazione, con estensione al perioS6, ma anche documenti più specifi- do post-natale (allattamento). Ci soci che lasciano spazio ad una certa no test appositi per rilevare ipersenflessibilità nel disegno dello studio. sibilità o reazioni autoimmuni, ma
Tra i vari studi, se quelli di singola richiedono una validazione più apsomministrazione fanno, general- profondita e ampia. Oltre a questo
mente, parte della batteria di test per approccio “su misura”, qualunque
il controllo di qualità, i test tossicolo- adiuvante o componente attivo aggici di dose ripetuta sono pivotali. Il giunto alla formulazione del vaccino
modello animale, la selezione dello richiede una sua propria valutazioschema di trattamento ed i parametri ne, che va fatta usando studi di roudi valutazione (alterazioni del com- tine per i nuovi farmaci. Da questa
portamento, peso corporeo, analisi review, la tossicologia dei vaccini
cliniche ed ematochimiche, mortali- apparirebbe disciplina separata a sé
tà, necroscopia, istopatologia, con- stante, la cui predittività sarà potensumo di cibo e acqua) sono aspetti ziata con lo sviluppo di nuovi metodi
critici per la valutazione della sicu- validati.
rezza (in GLP). L’immunologia e i
Domenico Barone
parametri di safety pharmacology
Bibliografia
1- Regolamento (CE) n. 1394/2007 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 13 novembre 2007, sui medicinali per terapie avanzate recante
modifica della direttiva 2001/83/CE e del regolamento (CE) n. 726/2004 (G.U. L 324 del 10.12.2007, pag. 121).
2 - EMA/CAT/GTWP/671639/2008 - Committee for Advanced Therapies (CAT). Guideline on quality, non-clinical and clinical aspects of
medicinal products containing genetically modified cells
3 - EMA/CAT/80183/2014 - Committee for Advanced Therapies (CAT). Guideline on the quality, non-clinical and clinical aspects of gene
therapy medicinal products (Draft)
4 - EMA/CHMP/VWP/141697/2010 - Committee for Medicinal Product for Human Use (CHMP). Guideline on quality, non-clinical and
clinical aspects of live recombinant viral vectored vaccines
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IFAPP & SMBF
Lo scorso 18 e 19 aprile, a São
Paulo (Brasile), si è svolto congiuntamente il 18° Congresso Internazionale di Medicina Farmaceutica (ICPM) ed il 38° Congresso Brasiliano di Medicina Farmaceutica, organizzati da IFAPP e
dalla società brasiliana di medicina farmaceutica (SBMF).
Nel prossimo numero di SSFAoggi
troverete ampie relazioni di alcune
sessioni: oggi pubblichiamo solamente alcune foto di questo evento, che ha avuto un grande sucSessione inaugurale con personalità brasiliane del ministero e dell’industria
cesso.
I partecipanti alla sessione su Medical Affairs
(Global Medical Directors di Bayer, MSD, Pfizer ed il segretario della
WMO, il dr Otmar Kloiber, con Honorio Silva
nel ruolo di moderatore.)
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Pensate che la felicità sia il miglior elisir di lunga vita? Purtroppo questo articolo vi smentisce!
Leggere per credere.
Happiness and unhappiness have no direct effect on mortality
The Lancet DOI: http://dx.doi.org/10.1016/S0140-6736(15)01222-2
What defines a good life? If in answering this question you included happiness in your list, you are not alone. Indeed, the pursuit and enjoyment of happiness is a common goal and desire in life for most people. Adults of all
ages, including those in old age, frequently report the experience of happiness as a determinant of a good life. Since
both happiness and health are crucial aspects of quality of life, medical work about the potential positive effects of
happiness on a person's health and longevity is a growing area that has received increasing attention in the past
decade. In The Lancet, Bette Liu and colleagues use data from a cohort of women in the UK Million Women Study,
mean age 60 years, to examine whether happiness was associated with good health and with reduced mortality risk
after an average follow-up of about 10 years. The strongest correlates of unhappiness were treatment for depression and anxiety (odds ratio [OR] 0·224 [99% group-specific CI 0·218–0·229]) and self-reported poor health (OR
0·298 [0·293–0·303]). In crude analyses of 719௖671 women without chronic health disorders from the cohort, unhappiness was significantly associated with an increased risk of all-cause mortality (age-adjusted rate ratio [RR] 1·29,
95% CI 1·25–1·33). However, in multivariate regression models adjusted for age, personal characteristics, treatment
for illnesses, and self-reported health (the key factor) there was no significant association (0·98, 0·94–1·01).
Other researchers have found that hedonic wellbeing (ie, a viewpoint that defines wellbeing through experiences of
pleasure vs displeasure and that can be roughly summarised as happiness) is not a good predictor of mortality in
women, when baseline levels of health and health behaviours had been taken into account. A Japanese cohort
study (n=88௖175) showed that high levels of enjoyment in life appeared to protect against cardiovascular mortality in
men but not in women aged 40–69 years. However, another study with 97௖253 women from the USA aged 50–79
years showed that high levels of optimism were associated with reduced mortality risk. Reviews and a metaanalysis8 on the associations between happiness (hedonic wellbeing, subjective wellbeing, or positive psychological
wellbeing) and longevity support the notion that happy people live longer. Although most studies on this topic did not
adjust their analyses for self-reported health, they suggest that the associations between happiness and longevity
are strongest among healthy individuals. Liu and colleagues' main finding does not support this association, since
no significant relation was shown between happiness and mortality risk within the subgroup of people reporting good
or excellent health (indeed, Liu and colleagues' analysis of only people reporting excellent health showed all-cause
mortality risk to be slightly higher in the unhappiest individuals compared with the happiest).
The happiness–mortality association seems to be, to some extent, sex-specific, with higher positive effects reported
in men than in women. Previous research shows different profiles of psychological wellbeing according to sex; for
instance, women's wellbeing would rely more on positive interpersonal relations than men's. Moreover, in older
adults, the difference between men and women on reported wellbeing and happiness increases with advancing
age. Therefore, men and women probably define happiness differently, which might explain, at least partially, sexspecific differences for the associations between happiness and medical outcomes, including mortality. Further qualitative research that allows separate content analysis for men and women about happiness across different age
ranges is needed to improve understanding of the complex concept of happiness. Although mortality is one of the
most well documented outcomes in reports on happiness, happiness has also been shown to be associated with
other medical disorders, particularly a reduced risk of both incident cardiovascular diseases and disability levels12 (see Diener and Chan for a review). Research about happiness of older adults should focus on medical outcomes other than mortality, particularly the incidence and prognostic value of disabling diseases and disability, the
most important clinical issues faced by elderly populations. For example, an important gap exists in knowledge about
the potential associations of happiness with the incidence of cognitive decline and dementia; indeed, happiness is
associated with healthy lifestyles, such as exercise and abstinence from smoking, which, in turn, are protective factors against dementia. Therefore, it is plausible to suggest that happiness could be associated with a reduced risk of
incident dementia. Moreover, further research from a lifecourse perspective is needed since happiness during critical
periods of development, such as in childhood, could have important consequences on health in adulthood.
Irrespective of caveats (eg, happiness being measured by a single-item questionnaire, no adjustment for physical
function or functional ability, and no adjustment for major life events) and limitations (ie, studying only middle-aged
women), Liu and colleagues' study provides extremely valuable and robust information about happiness, health, and
mortality. Its robustness relies on the very large sample size—indeed, the largest population so far in happiness
studies—and the well conducted analyses, which took into account several factors associated with both happiness
and mortality risk. Epidemiological evidence on associations between happiness and medical outcomes has been
accumulating over the past two decades. Randomised controlled trials are needed. Although a methodological challenge, interventions should be operationalised to examine the direct effects of happiness on health outcomes in both
healthy and clinical (eg, people with depression) populations, particularly in old age; happiness interventions have
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already been operationalised in the research field. Such studies should be powered to allow comparisons to be
made across age ranges and between men and women. Cross-cultural studies could also shed light on the generalisability of interventions to promote happiness.
References
King, LA and Scollon, CN. What makes a life good?. J Pers Soc Psychol. 1998; 75: 156–165
Liu, B, Floud, S, Pirie, K, Green, J, Peto, R, Beral, V, and for the Million Women Study Collaborators.Does happiness itself
directly affect mortality? The prospective UK Million Women Study. Lancet.2015; (published online Dec 9, 2015.
Ryan, RM and Deci, EL. On happiness and human potentials: a review of research on hedonic and eudaimonic wellbeing. Annu Rev Psychol. 2001; 52: 141–166
Shirai, K, Iso, H, Ohira, T et al. Perceived level of life enjoyment and risks of cardiovascular disease incidence and mortality:
the Japan public health center-based study. Circulation. 2009; 120: 956–963
Tindle, HA, Chang, Y-F, Kuller, LH et al. Optimism, cynical hostility, and incident coronary heart disease and mortality in the
Women's Health Initiative. Circulation. 2009; 120: 656–66
Veenhoven, R. Healthy happiness: effects of happiness on physical health and the consequences for preventive health
care. J Happiness Stud. 2008; 9: 449–469
Diener, E and Chan, MY. Happy people live longer: subjective well-being contributes to health and longevity. Appl Psychol
Health Well Being. 2011; 3: 1–43
Chida, Y and Steptoe, A. Positive psychological well-being and mortality: a quantitative review of prospective observational
studies. Psychosom Med. 2008; 70: 741–756
Koivumaa-Honkanen, H, Honkanen, R, Viinamäki, H, Heikkilä, K, Kaprio, J, and Koskenvuo, M.Self-reported life satisfaction
and 20-year mortality in healthy Finnish adults. Am J Epidemiol. 2000;152: 983–991
Pinquart, M and Sörensen, S. Gender differences in self-concept and psychological well-being in old age: a meta-analysis. J
Gerontol B Psychol Sci Soc Sci. 2001; 56: 195–213
Davidson, KW, Mostofsky, E, and Whang, W. Don't worry, be happy: positive affect and reduced 10-year incident coronary
heart disease: the Canadian Nova Scotia Health Survey. Eur Heart J. 2010;31: 1065–1070
Collins, AL, Goldman, N, and Rodríguez, G. Is positive well-being protective of mobility limitations among older adults?. J
Gerontol B Psychol Sci Soc Sci. 2008; 63: 321–327
Lyubomirsky, S, Dickerhoof, R, Boehm, JK, and Sheldon, KM. Becoming happier takes both a will and a proper way: an
experimental longitudinal intervention to boost well-being. Emotion. 2011; 11:391–402
Giornata mondiale contro la Tbc: l’eradicazione è ancora lontana
Più di quattromila persone perdono la vita ogni giorno a causa della tubercolosi. Lo ricorda AIFA, in occasione della
giornata mondiale contro la tubercolosi, che solo nel 2014 ha colpito circa 9,6 milioni di persone, secondo un rapporto dell’OMS. Fino a oggi molti passi avanti sono stati fatti, sia in termini di progressi scientifici sia di vite salvate,
se si pensa che dal 2000 a oggi 43 milioni di persone sono state salvate e che la mortalità si è ridotta del 47% dal
1990 al 2015. Ma il traguardo di eradicazione della malattia, che OMS si era posto tra gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibili (SDGs, Sustainable Development Goals) entro il 2030 è ancora lontano. Senza contare che un’ulteriore complicazione è sorta in questi anni dalla resistenza ai farmaci. Esiste infatti una forma difficilmente curabile della tubercolosi, detta multiresistente (MDR-TB), che non risponde ai principali farmaci antitubercolari. Due nuovi farmaci sono stati immessi sul mercato per la cura di questa forma più aggressiva, ma solo il 2% delle persone che ne avrebbe bisogno ha accesso alla cura. In Europa, secondo gli ultimi dati diffusi dal Centro Europeo per la Prevenzione e il
Controllo delle Malattie (ECDC), nel 2014 si sono registrati 340.000 casi di tubercolosi, con un calo del 4,3% dal
2010 al 2014. Purtroppo, però, se da una parte diminuiscono i casi della classica tubercolosi, dall’altra aumentano
quelli multiresistenti: un quarto dei 480.000 pazienti nel mondo malati di tubercolosi con resistenza multifarmaco si
sono infatti registrati proprio in Europa.Un nuovo aiuto per la lotta alla tubercolosi arriva dall’Università di Nottingham dove i ricercatori in collaborazione con IBM hanno avviato un progetto “Help Stop TB” su World Community
Grid, che servirà per studiare gli aspetti del comportamento dei batteri responsabili della tubercolosi. L’obiettivo è
scovare potenziali vulnerabilità dei batteri che potrebbero un giorno essere usate come target farmacologico. Il progetto prevede la collaborazione di migliaia di volontari che metteranno a disposizione dei ricercatori la potenza di
elaborazione dei loro dispositivi, quando non vengono utilizzati, per eseguire i milioni di calcoli necessari per queste
simulazioni. Grazie al crowdsourcing di un supercomputer virtuale, sarà possibile conseguire risultati più rapidi e di
maggiore portata rispetto all’impiego delle risorse computazionali tradizionali di cui i ricercatori dispongono. “La Tbc
è una delle malattie infettive più letali al mondo, insieme all’HIV – spiega Anna Croft, ricercatrice a capo del progetto
Help Stop TB e professore associato presso la facoltà di ingegneria dell’Università di Nottingham – ed un terzo della
popolazione mondiale ospita il batterio responsabile. Il mio gruppo utilizzerà World Community Grid per aiutare la
scienza a comprendere meglio il batterio, con l’obiettivo di sviluppare trattamenti più efficaci ed eliminare questa
minaccia per la salute umana. Grazie all’enorme potenza computazionale del World Community Grid, possiamo
studiare molte strutture di acidi micolici diverse, anziché limitarci ad alcune. Un tipo di analisi altrimenti impossibile
su questa scala”.
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Health and happiness
The Lancet
DOI: http://dx.doi.org/10.1016/S0140-6736(16)30062-9
What makes some individuals and countries happier than others? Whether associated with increased personal
wealth, social support, freedom of expression, or longer healthy life, the search for happiness varies as widely as
the definition of happiness itself. How to measure individual or national happiness, or related indices of wellbeing, is
subject to debate. In the 2014 Lancet Series on Ageing, Andrew Steptoe and colleagues distinguished between
three aspects of wellbeing—life satisfaction (evaluative), recent happiness or sadness (hedonic), and purpose
(eudemonic). However, happiness is already recognised as an important concept in global public policy. March 20
was declared by the UN to be International Happiness Day, Bhutan has a Gross National Happiness Index, and
Bhutan, Ecuador, United Arab Emirates, and Venezuela have appointed Ministers of Happiness. Efforts to assess
and improve wellbeing might, by using broader indicators than measures of income, poverty, health, education, and
good governance viewed separately, help countries to understand and improve what really matters to people.
The fourth World Happiness Report 2016, released on March 16, aims to survey the science of measuring and understanding subjective wellbeing. Using life evaluations from Gallup World Poll annual surveys of 1000 residents per
country (157 countries), people were asked to evaluate satisfaction with life (evaluative happiness) on a scale of 0
to 10 (Cantril ladder). The commonest answer was 5; worldwide, about a sixth were 0–3 (lowest) and a sixth were 8
–10 (highest). Other variables—gross domestic product (GDP) per head, social support, healthy life expectancy,
freedom to make life choices, generosity, and perceptions of corruption were investigated to account for national
differences in life satisfaction. Scandinavia topped the rankings, with Burundi, undergoing severe political unrest,
last. In North America, Australia, and New Zealand, 6% answered at the lower end (0–3) compared with 49% (8–10)
at the higher end. At the opposite extreme, in sub-Saharan Africa, 32% answered 0–3 and only 7% answered 8–10.
Unsurprisingly, multiple regression confirmed that this national average happiness score was strongly positively correlated with log GDP and healthy life expectancy. As to which factors determine average life satisfaction in countries, this is less clear. Richard Peto, University of Oxford, UK, told The Lancet that “the multiple regressions actually
obscure the crudeness of the evidence”. Therefore, it is difficult to draw national conclusions beyond what we might
already expect based on social economic and life expectancy data. Furthermore, from a purely medical viewpoint,
Bette Liu and colleagues recently reported from the prospective UK Million Women Study that although chronic illness causes unhappiness, unhappiness itself has no direct effect on mortality (unless it leads to damaging health
behaviour, such as smoking). After allowing for differences in health and lifestyle, the overall death rate in those who
reported being unhappy was the same as the death rate in those who did not. Further research is required to make
results generalizable cross culturally and to inform across age range and between sexes.
In this context, while in support of deepening global understanding of the study of happiness and health, The Lancet
identifies two areas to focus priority attention on. First, the opportunity to reduce premature deaths globally must be
taken. In 2015, Ole Norheim and colleagues showed that with continued international effort, the number of premature deaths (death in childhood or before age 70 years) could be reduced by 40% by 2030, where mortality is not
dominated by new epidemics, political disturbances, or disasters. Continuing efforts to control the targets of the Millenium Development Goals, non-communicable diseases, and injuries, will improve healthy life expectancy, and
contribute to improving individual and collective wellbeing. The second priority is reducing inequality within and between countries in access to health care, including mental health. The World Happiness Report 2016 indicates that
some regions have in recent years been experiencing progressively greater inequality of happiness. The Global
Burden of Disease 2013 study reported mental and substance disorders (including tobacco and alcohol) as leading
causes of the average number of years of life lost to premature death and disability. Further understanding of the
association between happiness and health should contribute to progress in sustainable development. However, indices of overall wellbeing must not obscure the need for ongoing progress in reducing disease, mental illness, and
premature death. Without life, there is no happiness to be realized.
XV Italian-Hungarian Symposium on Spectrochemistry
Pharmacological Research and Analytical Approaches
University of Pisa, 12-16 giugno 2016
La XV Edizione del Simposio, organizzato sotto l’egida della SSFA e dedicato alla ricerca farmacologica ed alle metodologie analitiche più innovative, si terrà presso l’Università di Pisa.
L’evento fa parte di una serie iniziata nel 1983 nell’ambito degli accordi di collaborazione scientifica vigenti tra Italia ed Ungheria. Il programma scientifico ed ogni informazione sono desumibili
dal sito https://www1.dcci.unipi.it/ihss2016/index.html.
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Le donne per la farmaceutica donne
Il 7 marzo Farmindustria, in collaborazione con “Europa Donna Italia”,
con Onda, con Telethon, con SIF e
FIGO, ha celebrato, a modo suo e
con un breve anticipo, presso il tempio di Adriano in Roma, la festa delle
donne. La manifestazione, che ha
avuto una larga partecipazione, ha
voluto dimostrare come nel settore
del farmaco, della ricerca e nel sistema salute, in generale, il contributo delle donne sia determinante e
vincente, in tutte le fasi della vita
( prevenzione, cure, assistenza) ed
anche nelle condizioni più difficili.
Francesca Fialdini, coordinatrice
della manifestazione, ha introdotto
subito la dr.ssa Enrica Giorgetti, Direttore Generale di Farmindustria,
che ha illustrato le ragioni
dell’evento
(focus sulle donne
nell’industria farmaceutica, sulla parità di genere, sulla medicina di genere), e l’importanza del valore della
donna nell’industria farmaceutica, e
poi ha illustrato i temi delle presentazioni e presentato i relatori:
Benessere per le donne: un modello vincente di relazioni
industriali, illustrato da
- Massimo Scaccabarozzi
(Farmindustria), che ha riportato i
dati più rilevanti del settore: il 43%
degli addetti è costituito da donne
(nell’industria manifatturiera è del
25%), il 90% di esse è laureato
(nell’industria manifatturiera è il
63%). Nell’industria farmaceutica si
annoverano imprenditrici, manager,
direttori di funzioni apicali, per cui è
lecito affermare che, nella farmaceutica, le pari opportunità non sono
solo uno slogan. Altro aspetto rilevante è che nelle imprese del farmaco il benessere aziendale è diffuso
ed è a misura di donna; oltre ai comuni servizi quali aspettativa, medicina preventiva, mense, asili nido
aziendali, alcune aziende hanno
iniziato a consentire lo smart
working per le neo mamme.
- Susanna Camusso (CGIL), Annamaria Furlan (CISL), Tiziana Bocchi
(UIL), hanno tutte riconosciuto i notevoli risultati raggiunti, ma, nel contempo, hanno dichiarato che ancora
c’è molto da fare, soprattutto per ciò
la farmaceutica per le
che riguarda
l’età pensionabile.
- E’ intervenuta anche Beatrice Lorenzin, Ministro
della Salute,
presentatasi
con una delle
gemelle, vestita tutta di rosa, molto applaudita
dal
pubblico presente; il Ministro, tra l’altro, Il Ministro dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca
ha insistito sul Stefania Giannini
tema del sup( dal laboratorio ai pazienti) sulle
porto alla genitorialità, anticipando
malattie rare, come sia necessario
proposte legislative a sostegno ulteun lavoro di ricerca, della durata
riore delle famiglie con bambini ed
anche di 20-25 anni, per arrivare
invitando tutti alla manifestazione
ad un farmaco efficace, come
sulla salute della donna in programl’associazione sia prevalentemenma per il 22 aprile 2016.
te una squadra al femminile, come
x
Nicoletta Luppi, nuovo Presisia stato elaborato un percorso di
dente e Direttore di MSD, ha tracselezione dei progetti di ricerca,
ciato il suo percorso professionale
che poi vengono finanziati, come,
da informatrice del farmaco a diinfine, sia importante il contributo
versi altri ruoli di crescente redelle madri nell’assistere i pazienti
sponsabilità, fino all’attuale posie come ciò porta alla valorizzaziozione, ed ha tenuto a sottolineare
ne della persona, non più e solo
come il lavoro non le abbia impedel malato; la dr.ssa Pisanelli ha
dito di svolgere un importante ruoinfine elogiato la lungimiranza di
lo in famiglia come moglie e mamqueste madri nell’ investire in un
ma.
futuro che può non appartenere
Il farmaco delle donne: la ricerca per
alla propria situazione.
la medicina di genere
Sono state poi invitate ad illustrare la
Su questo tema sono intervenute:
x
Caterina Simonssen (autrice loro esperienza per “L’impegno delle
del libro “Respiro dopo respiro” e imprese” nella ricerca per la medicitestimone di Telethon con “Io esi- na di genere, quattro giovani donne
sto”) che con dignità, umiltà e fer- che rivestono ruoli di responsabilità
mezza, ha testimoniato le difficoltà nelle proprie aziende: Nathalie Domnell’affrontare le sue 4 patologie pè (Dompè Farmaceutici) ha citato
rare, nonostante la disponibilità di la collaborazione con il premio Nobel
alcuni farmaci che le permettono Rita Levi Montalcini, con gli studi sul
di essere ancora in vita, sottopo- NGF; Franziska Khevennhller (IBI
nendosi costantemente a cure ed Giovanni Lorenzini) ha affermato di
esercizi respiratori, sempre più aver affrontato questo impegno per
prolungati che condizionano la passione e per seguire il lavoro della
nonna; Chiara Montingelli (Kedrion)
sua vita di relazione e di riposo.
x
F r a n c e s c a P a s i n e l l i ha presentato il concetto di marke(Telethon), che ha ricordato come ting sociale, con l’obiettivo di eradiTelethon sia stata fondata da una care la malattia emolitica del neonadonna, Susanna Agnelli, come la to con un farmaco che è già dispo(Continua a pagina 29)
fondazione sia rivolta alla ricerca
Anno X numero 55
differenze, ed ha
fatto richiesta alle
aziende di presentare dati di
“genere”
nella
preparazione dei
dossier registrativi.
x
Rosanna
D’Antona (Europa
Donna) e Francesca Merzagora
(Onda). La prima,
Presidente di Europa Donna, ha
Il Presidente Massimo Scaccabarozzi consegna il ricordato come
Premio alla dr.ssa Jenny Sassone
l’associazione sia
nata 21 anni fa da
nibile, diffondendolo anche nei paesi
un’idea del prof. Veronesi;
meno sviluppati e, soprattutto, faessa ha come missione la
cendo prevenzione; Anna Maria Portutela dei diritti delle donrini (Boehringher Ingelheim), prima
ne affette da tumore al
donna a ricoprire il ruolo di Presidenseno. Opera in tal senso
te nella storia di questa azienda farsu due direttrici: la premaceutica in Italia, è impegnata
venzione (esiste ancora
nello sviluppo di aree terapeutiche
molto divario tra nord e
molto importanti anche per le donne,
sud), e la qualità delle
quali le patologie cardio-cerebrocure, che si può miglioravascolari, oncologiche, metaboliche
re attraverso la costituzioed infettive e delle malattie rare quane di centri di senologia
le la fibrosi polmonare idiopatica.
specializzati e multidisci- Paola Testori Goggi (AIFA),
plinari, un ulteriore compiPresidente del comitato
to dell’associazione è
prezzi e rimborsi, ha sofferquello di attivare una
mato l’attenzione sulle diffescuola per il volontariato,
renze di genere che comin modo da armonizzare i
portano differenze nella diarapporti tra i vari interlocugnosi e nella terapia, ed antori; la seconda, Presidencora differenze sull’efficacia
te di Onda, ha parlato dele sulla sicurezza dei farmala pubblicazione biennale
ci; tali differenze devono
di un libro bianco sulla
essere opportunamente fatsalute delle donne, libro
te conoscere ai medici ed
che ha l’obiettivo di preagli studenti di medicina con
sentare un quadro comappositi corsi; come esempleto ed aggiornato sul
pio di queste differenze ha
tema specifico, offrendo
citato un fatto riportato dalle
anche approfondimenti e
cronache nei giorni scorsi:
spunti di riflessione, su
una donna di 59 anni, sindavari aspetti quali la clinica
co di un comune del nord, è
e l’epidemiologia.
deceduta per infarto; nei In chiusura vi è stata la premiazione
giorni precedenti aveva ac- di tre giovani ricercatrici, selezionate
cusato dei dolori al collo, da ben 450 domande giunte alla
non bene interpretati come commissione, composta da membri
cordialgie (nell’uomo tali della Fondazione Telethon, della SIF
sintomi sono differenti); AI- e dalla Fondazione Multimedia OnFA, in questo settore, ha lus. I premi (10.000 euro ciascuno
prodotto alcune linee guida, ed una targa ricordo) sono stati conuna finestra sul sito segnati da Francesco De Santis
“Farmaci e donne”; si prodi- ( Farmindustia), Massimo Scaccabaga, inoltre, per sensibilizzare rozzi e Stefania Giannini, Ministro
l’opinione pubblica a queste dell’Istruzione, dell’Università e della
Pagina 29
Ricerca, a Donatella Puliti (ISPRO,
Firenze) per un lavoro sulla medicina di genere, riguardante le condizioni sociali che possono modificare
l’adesione allo screening per il tumore della mammella, Jenny Sassone
( Istituto Neurologico Carlo Besta,
Milano) per un lavoro sul ruolo del
gene PARK2 nella patogenesi della
malattia di Parkinson e Maria Nicastro (Azienda Universitaria Ospedaliera di Parma) per un lavoro sulla
terapia della malattia di ErdheimChester, una patologia rara. Stefania
Giannini, nelle conclusioni, si è complimentata per l’attivismo scientifico
del settore, per i risultati straordinari
di donne per le donne, per il sistema
integrato per la ricerca, per
l’orientamento scientifico verso la
valutazione ed la consapevolezza
delle diversità, ed ha indicato la necessità di estendere, per il bene del
Paese, queste caratteristiche positive ad altri settori, principalmente la
scuola e l’università: ma per ottenere
ciò è necessario un cambiamento
culturale.
Francesco De Tomasi
Anno X numero 55
Pagina 30
Corso di formazione, addestramento ed aggiornamento sulla
Buona Pratica di Laboratorio.
Una nuova edizione del corso sulla
interpretazione, adozione ed utilizzazione dei principi di Buona Pratica di
Laboratorio (BPL) si è svolta dal 2 al
3 febbraio scorsi presso il plesso
“Giorgio Tecce” della Università La
Sapienza di Roma, facendo così
seguito a quello di identica impostazione tenutosi alcuni mesi prima (1516 settembre 2105, stessa sede),
per permettere a chi non aveva potuto partecipare allora per saturazione dei posti disponibili di poter avere
un’ulteriore possibilità di iscriversi.
Il corso è stato ancora una volta
organizzato, diretto e condotto da
M. M. Brunetti, S. Caroli e V. A.
Sforza in qualità di esponenti del
Gruppo di Lavoro GIQAR, ed è stato, come il precedente, dedicato
all’esame di tutte le funzioni previste
da un Centro di Saggio (CdS) che
voglia operare in conformità ai principi suddetti, vale a dire Assicuratore
della Qualità (AQ), Direttore di CdS,
Direttore di Studio (DdS), Ricercato-
zione, impiego e revisione delle Procedure Operative Standard (POS), i
rapporti tra l’unità per la AQ, il DdS
ed il personale a questi affidato, soprattutto sotto il profilo degli audit
interni, le criticità che possono manifestarsi nel corso dello svolgimento
degli studi e l’analisi dei comporta-
re Principale, Archivista e personale
a vario titolo afferente allo studio
nonché la committenza. Il corpo
docente è stato formato da Paola
Bottoni (ISS), Maria Mercede Brunetti (RTC), Sergio Caroli (SSFA),
Enrico Invernizzi (Merck Group),
Maurits-Jan Prinz (European Commission) e Valentine Anthony Sforza
(QMA). Ogni lezione ha trattato in
maniera estesa, completa ed articolata i compiti essenziali per la gestione di un CdS, in primis la preparazione del piano di studio e della relazione finale, l’elaborazione di deviazioni ed emendamenti, la prepara-
menti individuali in essere tra le due
controparti - CdS e autorità di monitoraggio BPL - durante le verifica
ispettiva per il superamento positivo
di quest’ultima, per poi esaminare
l’armonizzazione a livello comunitario dei vari programmi di monitoraggio della BPL in vigore negli Stati
Membri e l’evoluzione di questa materia in ambito internazionale, in particolare nel contesto dell’OECD. Opportuni spazi dedicati alla discussione degli argomenti esposti di volta in
volta sono stati intercalati alle lezioni
allo scopo di meglio chiarire dubbi
interpretativi anche attraverso lo
svolgimento di esercitazioni pratiche
basate sulla compilazione di formulari con quesiti a risposta multipla, la
valutazione critica di materiale documentale autentico (ma reso anonimo) consistente di piani di studio,
relazioni finali e POS ed un esempio
di compilazione della scheda elettronica preliminare richiesta dalla Unità
di Monitoraggio per la BPL, prima
che l’ispezione possa aver luogo.
Mediante queste esercitazioni si è
fornito ai discenti uno strumento efficace per permettere loro di confrontarsi con le difficoltà che un CdS
deve più comunemente fronteggiare,
di sviluppare in modo concreto soluzioni adatte alla molteplicità dei casi
che in pratica possono occorrere e
di comprendere come meglio cercare di superare gli ostacoli che con
maggiore frequenza possono avere
effetti negativi sulla operatività di un
CdS. Il numero totale di partecipanti
a questo corso ha raggiunto le 38
presenze sul massimo previsto di 30
ed a ciascun discente sono stati rilasciati 16 crediti formativi ECM. Come per la precedente edizione, anche questa può essere quindi considerata di piena soddisfazione. Buona parte del merito di tale successo
va peraltro riconosciuto con gratitudine alla Sig.ra Sabrina Lucioni per
la competenza, l’efficienza e la simpatia umana con cui ha saputo gestire il corso in ogni sua fase. Grazie
di cuore, Sabrina!
Maria Mercede Brunetti
Sergio Caroli
Valentine Anthony Sforza
Anno X numero 55
Pagina 31
Riportiamo un interessante editoriale sui problemi etici e pratici che si pongono nel cambiare il
disegno di uno studio a metà cammino.
ICON-6: the danger of changing study design midstream
The Lancet DOI: http://dx.doi.org/10.1016/S0140-6736(16)00658-9
Jonathan Ledermann and colleagues report the ICON-6 randomised trial findings for the tyrosine kinase inhibitor
cediranib in relapsed platinum-sensitive ovarian cancer. Cediranib offered the prospect of improved efficacy with
tolerable side-effects, and ICON-6 was a pragmatic trial to provide real-world evidence of the effectiveness, safety,
and acceptability of cediranib plus chemotherapy (either concurrent or concurrent plus maintenance as long as patients were deriving benefit), compared with chemotherapy plus placebo. ICON-6 found ”meaningful improvement in
progression free survival” (hazard ratio 0·56, 95% CI 0·44–0·72) for concomitant plus maintenance cediranib compared with placebo, as well as significantly more diarrhoea, hypothyroidism, and voice changes. However, after unexpected and major design changes were enforced, we still await data for overall survival; the safety data are less
informative than might be necessary, and there are no convincing data yet for patient acceptability and quality of life,
which can be particularly relevant to inform trade-offs between improved efficacy and increased side-effects. These
design changes should not have been necessary, and clinical trials should be better structured to make sure this
does not recur.
The original study design promised more reliable evidence, but instead of randomly assigning roughly 2000 participants, the study underwent a major revision with just 387 participants randomly assigned because the drug company involved (AstraZeneca) decided (on Sept 14, 2011) to cease commercial development of cediranib, owing to
negative findings for overall survival in three pivotal phase 3 studies on different cancers. With insufficient remaining
drug stock and its short shelf life, as well as AstraZeneca being unwilling to manufacture additional supplies, a fundamental redesign (or complete abandonment) became necessary. The researchers, in partnership with the independent Data Monitoring Committee (iDMC), and the funders should be congratulated on having the vision and
creativity to redesign the study, within the constraints of the remaining drug available. They redefined the primary
outcome from overall survival to progression-free survival, focused on comparing concomitant plus maintenance
cediranib with placebo, and reduced power from 90% to 80%, with overall survival, toxic effects, and quality of life
becoming secondary outcomes. This change meant that a revised sample size of 440 patients (for those on
cediranib, 20 mg after the initial 30 mg dose was dropped) was used. The study finally randomly assigned 486 patients, of whom 456 receiving the 20 mg dose were analysed.
Designing and executing large multinational trials is challenging, with many stakeholders (patients, clinicians, funders, regulators, ethics committee members, drug companies, health-care providers) to accommodate and many
reasons for why a study might not be completed as planned (stopping early for safety, efficacy, or so-called futility
reasons). Over the past few decades, statistical methods for sequential and Bayesian designs7 and more recently a
plethora of innovative adaptive designs, coupled with improved remits and increased experience within iDMCs, and
funders looking for better and more efficient designs, have allowed clinical trialists to deliver more efficient and responsive clinical trials. So there are many legitimate reasons to redesign or terminate trials on scientific grounds,
and well established statistical methods to achieve this in an orderly fashion. However, having to terminate or majorly redesign a trial because a stakeholder decides to cease manufacturing the relevant drug is not, in our view, a
legitimate reason—from a scientific perspective insight is lost into that compound and mechanism of action, and we
are letting down participants who agree to take part in research by allowing this to happen. When trials are redesigned midstream, there are ethical challenges in consenting future participants, and also potentially re-consenting
those recruited under the original process of informed consent, to make sure the participants are properly aware of
the reasons for the redesign and the scientific value of the new study. Here, the redesign was driven by the cessation of manufacture of the drug, but likewise a public funder might withdraw support for a study midstream due to a
change in policy or a re-assessment of the evidence value for the health-care system. Often, it is just as valuable to
know with good precision that an intervention doesn't work, particularly if it is expensive or associated with considerable side-effects. Most importantly, we must do everything we can as clinical trialists to reassure the patients and
the public that their participation is always considered with the utmost care and constant vigilance around the
emerging risk–benefit ratio, and never taken for granted. To get patients to participate in research is already challenging, and we are too permissive of stakeholders changing their minds midstream. This issue could be avoided by
requiring all stakeholders to commit to seeing the study through, backed by the required resources to complete this
study (and with adequate insurance cover for the case of commercial failure), with subsequent changes to design
only occurring through agreed scientific criteria mediated through appropriate statistical procedures. We owe participants this protection to properly safeguard their contribution, as well as improving the scientific yield of our trials.
Interestingly, after the initial conference presentation of the potentially positive findings in 2013, and more recent
promising early phase findings, interest from AstraZeneca appears to have been rekindled, and after company review of the outcomes and survival methods, the possibility now exists of using these data for regulatory submission.
However, these data will obviously be less convincing for that purpose than if the trial had continued under its origi-
Anno X numero 55
Pagina 32
nal design—in terms of evidence of effectiveness, safety, and acceptability. It appears to us that now this situation
has been fully played out, no one has gained any advantage from the 2011 decision to stop manufacturing
cediranib. We should try hard to make sure—particularly for the sake of patients—that this type of avoidable problem isn't allowed to happen again.
References
Ledermann J, Perren TJ, Raja FA, et al. Randomised double-blind phase III trial of cediranib (AZD 2171) in relapsed platinum sensitive
ovarian cancer: results of the ICON6 trial. European Cancer Congress; Amsterdam, Netherlands; Sept 27–Oct 1, 2013. Abstr 10.
Ledermann, JA, Embleton, AC, Raja, F..., and on behalf of the ICON6 collaborators. Cediranib in patients with relapsed platinum-sensitive
ovarian cancer (ICON6): a randomised, double-blind, placebo-controlled phase 3 trial. Lancet. 2016; 387: 1066–1074
Schmoll, HJ, Cunningham, D, Sobrero, A et al. Cediranib with mFOLFOX6 versus bevacizumab with mFOLFOX6 as first-line treatment for
patients with advanced colorectal cancer: a double-blind, randomized phase III study (HORIZON III). J Clin Oncol. 2012; 30: 3588–
3595
Hoff, PM, Hochhaus, A, Pestalozzi, BC et al. Cediranib plus FOLFOX/CAPOX versus placebo plus FOLFOX/CAPOX in patients with previously untreated metastatic colorectal cancer: a randomized, double-blind, phase III study (HORIZON II). J Clin Oncol. 2012; 30: 3596–3603
Batchelor, TT, Mulholland, P, Neyns, B et al. Phase III randomized trial comparing the efficacy of cediranib as monotherapy, and in combination with lomustine, versus lomustine alone in patients with recurrent glioblastoma. J Clin Oncol. 2013; 31: 3212–3218
Jennison, C and Turnbull, BW. Group sequential and adaptive methods for clinical trials. 2nd edn. Chapman & Hall, New York; 2010
Spiegelhalter, DJ, Abrams, KR, and Myles, JP. Bayesian approaches to clinical trials and health-care evaluation. John Wiley &
Sons, Chichester; 2003
US Department of Health and Human Services, Food and Drug Administration, Center for Drug Evaluation and Research (CDER), and
Center for Biologics Evaluation and Research. Guidance for Industry: adaptive design Clinical Trials for Drugs and Biologics.http://
www.fda.gov/downloads/Drugs/…/Guidances/ucm201790.pdf; 2010. ((accessed Feb 22, 2016).
Symonds, P, Gourley, C, and Davidson, S. Cediranib combined with carboplatin and paclitaxel in patients with metastatic or recurrent
cervical cancer (CIRCCa): a randomised, double-blind, placebo-controlled phase 2 trial. Lancet Oncol. 2015; 16: 1515–1524
Trial registration 10 years on
BMJ 2015;351:h3572
The single most valuable tool we have to ensure unbiased reporting of research studies
This month marks the tenth anniversary of the landmark decision by the International Committee of Medical Journal
Editors to make journals require “registration of any clinical trials in a public trials registry at or before the time of first
patient enrolment as a condition of consideration for publication.” It has been a long journey. The idea of prospective
registration was first suggested in 1986, but it took two decades for the idea to become reality. Since then both the
United States and the European Union have passed legislation making registration a legal requirement for most
types of clinical trials. Accordingly, the number of registered trials has gone up dramatically—ClinicalTrials.gov currently lists 189ௗ473 studies, the EU register has 25ௗ829, and the Chinese Clinical Trial Registry has 5199. As medical journal editors we are convinced that the requirement for prospective trial registration is the single most valuable
tool we have to ensure unbiased reporting. It allows us to make sure that the published paper accurately reports the
prespecified trial outcomes, samples sizes, and other planned analyses. It is the only way to identify outcome reporting bias and other deviations from the planned study to prevent such distortions from reaching publication. Before
registration outcome reporting bias was widely accepted as being a major problem that deserved more attention. Research suggests that the requirement has improved the quality of reporting,although some disciplines seem
to do better than others. Problems remain. Despite the registration requirements, The BMJ still receives a substantial number of papers reporting trials that were not prospectively registered. Since spring 2013 we have been keeping an informal tally of randomised trials submitted to The BMJ that were unregistered or registered late—as at 1
July, the list contained 69 entries. Most authors’ explanations for non-compliance are not persuasive, and we reject
those papers. The reasons cited for lack of compliance are varied, but at least two worrisome themes have
emerged. Firstly, some senior authors do not take responsibility for ensuring prospective trial registration and identify junior study personnel as the reason registration did not occur—for example, stating that “our project coordinator
was responsible for all registration related tasks.” Secondly, some academic authors believe that registration requirements should not or do not apply to trials that are not funded by industry, despite considerable evidence that
publication bias affects all types of studies. Other explanations for non-registration that we have received from academic investigators include being too busy, lacking the resources needed to comply with regulations, or the belief
that the rules should not apply to investigators working in less developed countries. One author asked us to overlook
(Continua a pagina 33)
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Pagina 33
the failure to register a large foundation funded trial because the reason to require trial registration was “mainly to
stop drug companies. [The principal investigator] is a developing country scientist doing this important study alongside a very busy job. Drug companies have whole departments devoted to compliance with regulations and processes like this.” Fortunately, the great majority of trials submitted to The BMJ are properly registered, and we do our
best to ensure that the published report is in accordance with the registration. A recent study confirms that we are
doing a reasonable job, although it is still far from perfect. The main problem is that it takes a substantial amount of
editorial and reviewer time—large journals are staffed to do this, but smaller medical journals struggle. Recent research shows that many journals still do not adhere to the International Committee of Medical Journal Editors’ trial
registration policy. Others that do may be very generous in allowing exceptions. Even more worrisome, many editors
do not feel that prospective registration and adherence to the registered plan is important. This is a worrying trend,
because non-adherence is not confined to low impact journals. We need ways to enforce this requirement. Given
that for many types of trials the policy is backed by legal requirements, this should be possible. The trial registration
process must be improved. Registries should implement better quality checks on data entry into the registry, as
these are often inadequate. The time required to process registrations in some registries is too long, and this may
lead to misclassification of some trials as retrospectively registered. Another way clinical registries can promote unbiased reporting of clinical trials is to accept (or even require) posting of the complete original protocol and statistical
plan and any amendments, all with a time stamp. We have made this suggestion to the National Institutes of Health,
when it asked for public comments on its draft policy to promote registration and results submission to ClinicalTrials.gov. Prospective registration of clinical trials is now an ethical and, in many cases, a legal requirement. Registries, public health agencies, funders, and journals must ensure compliance with these requirements to avoid biased
and incomplete reporting of clinical research studies.
References
DeAngelis CD, Drazen JM, Frizelle FA, et al. Clinical trial registration: a statement from the International Committee of Medical Journal Editors. JAMA2004;292:1363-4
Simes RJ. Publication bias: the case for an international registry of clinical trials. J Clin Oncol1986;4:1529-41.
ClinicalTrials.gov. Trends, charts, and maps. May 2015.
Mathieu S, Boutron I, Moher D, Altman DG, Ravaud P. Comparison of registered and published primary outcomes in randomized controlled trials. JAMA2009;302:977-84.
To MJ, Jones J, Emara M, Jadad AR. Are reports of randomized controlled trials improving over time? A systematic review of 284 articles published in
high-impact general and specialized medical journals. PLoS One2013;8:e84779
Killeen S, Sourallous P, Hunter IA, Hartley JE, Grady HL. Registration rates, adequacy of registration, and a comparison of registered and published
primary outcomes in randomized controlled trials published in surgery journals. Ann Surg2014;259:193-6
Su CX, Han M, Ren J, et al. Empirical evidence for outcome reporting bias in randomized clinical trials of acupuncture: comparison of registered records
and subsequent publications. Trials2015;16:28.
Dwan K, Gamble C, Williamson PR, Kirkham JJ. Systematic review of the empirical evidence of study publication bias and outcome reporting bias—an
updated review. PLoS One2013;8:e66844.
van Lent M, IntHout J, Out HJ. Differences between information in registries and articles did not influence publication acceptance. J Clin Epidemiol 29
Nov 2014,
Hooft L, Korevaar DA, Molenaar N, Bossuyt PM, Scholten RJ. Endorsement of ICMJE’s clinical trial registration policy: a survey among journal editors. Neth J Med2014;72:349-55.
Wager E, Williams P, Project Overcome Failure to Publish Negative Findings Consortium. “Hardly worth the effort”? Medical journals’ policies and their
editors’ and publishers’ views on trial registration and publication bias: quantitative and qualitative study. BMJ2013;347:f5248
Zarin DA, Tse T. Trust but verify: trial registration and determining fidelity to the protocol. Ann Intern Med2013;159:65-7.
Selective clinical trial reporting: betraying trial participants, harming patients
BMJ 2015; 350 doi: http://dx.doi.org/10.1136/bmj.h2753
Reporting biases found in trials of cardiovascular devices
Reporting biases in published trials were first identified in 1986. Published randomized studies of combination chemotherapy compared with treatment with an alkylating agent as first line treatment for ovarian cancer showed a significant survival advantage for combination chemotherapy. Unpublished cancer trial registry data from the same
studies, however, showed no such advantage. Similarly, in the treatment of multiple myeloma, registry data suggested a smaller survival advantage for combination chemotherapy (over prednisone and an alkylating agent) than
the results of published studies. The author who reported the discrepancy concluded that his findings “demonstrate
the value and importance of an international registry of all clinical trials.” Subsequent evidence for biased and selective reporting included prompt or delayed publication depending on whether trial results were positive or negative and more favorable results and conclusions in published studies funded by industry than in those funded independently.
The linked paper by Chang and colleagues (doi:10.1136/bmj.h2613) shows similar reporting biases in trials of medi(Continua a pagina 34)
Anno X numero 55
Pagina 34
cal devices. The authors found worrying differences between trial information submitted to the US regulator (the
Food and Drug Administration) and trial information reported in medical journals. Among 177 studies of 106 high risk
cardiovascular devices submitted to the FDA, fewer than half were published, and fewer than half the published
studies (45%) reported primary results that precisely matched the results in submissions to the regulator. Among the
published primary results, 11% (17) were judged to be “substantially different” from those submitted to the FDA. The
authors concluded that “even when trials are published, the study population, primary endpoints, and results can
differ substantially from data submitted to the FDA.”
Most studies of reporting biases have examined differences in efficacy between unpublished clinical trial data and
journal publication data but evidence now exists of under-reporting of adverse events. A recent BMJ editorial cites
“the growing body of research on reporting biases, which documents the gross under-reporting of adverse event
data in such [medical journal] sources.”
Unfortunately, selective reporting of clinical trial data in medical journals also extends to companies’ selective nonreporting of safety data to the FDA. In 2012, the US Department of Justice announced that “GSK [GlaxoSmithKline]
has agreed to plead guilty to failing to report data to the FDA and has agreed to pay a criminal fine in the amount of
$242,612,800 for its unlawful conduct concerning Avandia . . . The United States alleges that, between 2001 and
2007, GSK failed to include certain safety data about Avandia, a diabetes drug, in reports to the FDA that are meant
to allow the FDA to determine if a drug continues to be safe for its approved indications and to spot drug safety
trends.”
Efforts to increase the public availability of clinical trial data to prevent the serious public health consequences of
overstating benefits and understating risks have triggered strong industry opposition. In 2012 the former executive
director of the European Medicines Agency (EMA), Guido Rasi, committed the regulator to “proactive publication of
clinical-trial data, once the marketing-authorisation process has ended.” He added “We are not here to decide if we
publish clinical-trial data, but how.” Two pharmaceutical companies sued the EMA to prevent disclosure, and the
EMA has watered down its original plans.
Beyond adverse effects on patients of selective reporting in medical journals, the absence of publicly available data
from clinical trials violates an important ethical principle of the Declaration of Helsinki: “Researchers have a duty to
make publicly available the results of their research . . . Negative and inconclusive as well as positive results must
be published or otherwise made publicly available.” Many people participate in research because they trust that the
published results might improve the health of the general population.
Ignoring the Declaration of Helsinki, in 2013 the Pharmaceutical Research and Manufacturers of America (PhRMA)
urged the US government to influence the European Union against the EMA’s data disclosure policy. In a letter to a
US trade representative, PhRMA wrote that “Disclosure of companies’ non-public data submitted in clinical and preclinical dossiers and patient-level data risks damaging public health and patient welfare.”
It is clear that the reverse is true. Non-disclosure is far more damaging. The letter of rebuttal from leaders of the high
profile campaign for public registration and reporting of all trial results (AllTrials) reads,
“The world is moving towards a recognition that hiding information about what was done and what was
found in clinical trials is an abuse of trial participants’ trust and exposes patients to unnecessary harm.”12
References
Simes RJ. Publication bias: the case for an international registry of clinical trials. J Clin Oncol 1986;4:1529-41.
US Department of Health and Human Services: compilation of experimental cancer therapy protocol summaries. NIH publication, Government Printing Office, 1977-1983.
Stern JM, Simes RJ. Publication bias: evidence of delayed publication in a cohort study of clinical research projects. BMJ1997;315:640.
Lundh A, Sismondo S, Lexchin J, Busuioc OA, Bero L. Industry sponsorship and research outcome. Cochrane Database Syst Rev
2012;12:MR000033.
Chang L, Dhruva SS, Chu J, Bero LA, Redberg RF. Selective reporting in trials of high risk cardiovascular devices: cross sectional comparison between premarket approval summaries and published reports. BMJ2105:350;h2613.
Doshi P, Zito J, dosReis S.Digging for data on harms in duloxetine trials. It’s time for policy makers to get serious about drug related
harms. BMJ 2014;348:g3578.
Office of Public Affairs. GlaxoSmithKline to plead guilty and pay $3 billion to resolve fraud allegations and failure to report safety data. US
Department of Justice, 2012.
European Medicines Agency. Workshop on access to clinical-trial data and transparency kicks off process towards proactive publication of
data. EMA, 2012.
Torjesin I. European Ombudsman ramps up action against European Medicines Agency over data transparency plans.BMJ2014;348:g3733.
World Medical Association. Declaration of Helsinki—ethical principles for medical research involving human subjects. WMA, October
2013. www.wma.net/en/30publications/10policies/b3/.
PhRMA. www.plos.org/wp-content/uploads/2014/05/PhRMA_Comments_to_USTR_on_TTIP.pdf.
Goldacre B, Godlee F, Heneghan C, et al. Letter. AllTrials campaign, 2104.
Anno X numero 55
Pagina 35
When drugs don’t make it to market
We need to know why, and regulators should tell us
BMJ 2015; 350 doi: http://dx.doi.org/10.1136/bmj.h2852
Drug regulation aims to protect public health by ensuring that only medicines that are effective and safe are marketed. The key regulatory innovation after the thalidomide tragedy was the requirement for systematic evidence of
efficacy before marketing approval, with the understanding that no drug exposure is worth risking without evidence
of benefit. Over 50 years later, premarket evaluations remain much needed but imperfect, with efficacy standards
not always ensuring clinical benefit for patients, and inadequate public communication on the available evidence
and how it has been assessed. The United States Food and Drug Administration (FDA) is more open than many
regulatory agencies, but, when it comes to non-approvals, the linked study by Lurie and colleagues (doi:10.1136/
bmj.h2758) shows that commercial confidentiality continues to trump public health. If the FDA rejects an application,
the letter to the manufacturer stating the reasons is confidential. Lurie and colleagues are FDA staff members who
compared the content of FDA non-approval letters (n=61) with the firms’ press releases. This is the first published
study to compare what regulators say in confidence to pharmaceutical manufacturers and what those manufacturers
then say to the public. The differences are damning: 85% of the regulator’s safety concerns and 84% of efficacy
concerns went unreported in manufacturers’ press releases, as did 96% of regulatory concerns about trial conduct
or design. Increased death rates were not mentioned in six out of seven cases in which the FDA stated this as a
reason for non-approval. In total, 87% of the FDA letters in this study cited efficacy or safety concerns as reasons
for non-approval, and nearly half cited both.
Secrecy concerning non-approval of drugs has a similar potential to harm the public as trials with negative results
that fail to see the light of day. Drugs are often approved in one country but not another. The fact that a drug is considered too ineffective, too unsafe, or too poorly tested to be marketed is highly relevant to treatment decisions elsewhere. In Canada, for example, the safety of the acne drug cyproterone-ethinylestradiol (Diane-35; Dianette) has
been controversial, in part because of advertising to the public of questionable legality. This drug was not approved
in the US. Knowledge of whether it was considered for approval, and, if so, why the FDA did not approve the drug,
could help to inform the debate in Canada. Many initially rejected drugs are eventually approved. Of 302 new drug
applications in the US from 2000 to 2012, 151 (50%) were initially approved and 71 (24%) were approved after resubmissions. Some of the latter drugs became “blockbusters,” including gabapentin, pregabalin, duloxetine, aripiprazole, and rosuvastatin. Initial concerns over safety or efficacy might be only partially resolved during successful resubmission, and it is important that clinicians and the public are fully aware of all remaining issues as they might
guide a more judicious approach to prescribing. Trials of unapproved drugs are also much less likely to be published
than trials of licensed drugs, limiting the scientific knowledge that supports further drug development. Unlike the
FDA, the European Medicines Agency (EMA) posts reasons for non-approval in European Public Assessment Reports (EPARs) on its website. A loophole that allowed non-disclosure if manufacturers withdrew applications before
rejection was closed in 2012.6 International trade agreements are often cited as a reason that regulators must respect commercial confidentiality agreements. The EMA’s ability to publish the basis for decisions not to approve
new drugs, however, strongly suggests that this argument need not prevent publication of the FDA’s non-approval
letters.
Non-approval decisions account for just one of many differences between what the regulators know and what the
public can see. Published trial reports of evidence submitted to regulators can also be highly misleading. High profile
examples include the publication of interim results of the celecoxib CLASS trial as though these were the full clinical
trial results, trials of antidepressants with negative results spun to look positive in publications, and a published
pooled analysis of otherwise inaccessible unpublished oseltamivir trials, which misleadingly concluded that the drug
prevented complications of flu. Internationally, regulators had full access to the data in each of these cases but did
not correct omissions or inaccuracies in publicly available information.
Also missing from the public domain is the totality of evidence required to accurately judge a drug’s effectiveness
and safety. Wieseler and colleagues compared 101 clinical study reports submitted to regulators with published articles on the same trials and found that many important outcomes were missing, including mortality, which was reported adequately in all clinical study reports measuring this outcome (n=92) but only 30% of corresponding articles
or 53% of articles and clinical trial registry reports combined. How can readers interpret trial results without knowing
how many people have died in each treatment arm?
The FDA’s judgments of trial misconduct are also inadequately reported in the published literature. If the FDA finds
serious misconduct when it inspects a clinical trial site, data from that site are usually excluded from drug reviews.
Among 71 published articles on 57 trials with serious infractions, however, 68 (96%) made no mention of the infraction and included no corrections, retractions, or omissions of data linked to infractions. In 39% of cases the infractions included uncorrected falsified results.
What is the solution? Lurie and colleagues’ analysis points to two much needed steps. The FDA should follow the
EMA’s lead and make non-approval decisions public. Commercial confidentiality has no place in the evaluation of
the health effects of medicines. Secondly, although hampered by lack of disclosure of specific product and manufacturer names, this study is a welcome first step by regulators towards analysing and publishing data about discrepan-
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cies between the information they have available in pre-market and post-market submissions and reports that are in
the public domain. Such engagement is welcome, must continue, and could contribute substantially to the quality
and accuracy of information available to doctors and patients on the benefits and harms of medicines.
References
Sacks LV, Shamsuddin HH, Yasinskaya YI, Bouri K, Lanthier ML, Sherman RE. Scientific and regulatory reasons for delay and denial of
FDA approval of initial applications for new drugs, 2000-2012. JAMA2014;311:378-84
Lurie P, Chahal H, Sigelman D, Stacy S, Sclar J, Ddamulira B. Comparison of content of FDA letters not approving applications for new
drugs and associated public announcements from sponsors: cross-sectional study. BMJ2015;350:h2758.
Society of Obstetricians and Gynecologists of Canada. Position statement: Diane 35 and the risk of venous thromboembolism. Feb 19,
2013.
Mintzes B, Morgan S, Wright JM. Twelve years’ experience with direct-to-consumer advertising of prescription drugs in Canada: a cautionary tale. PLoS ONE2009;4:e5699.
Hakala A, Kimmelman J, Carlisle B, Freeman G, Fergusson D. Accessibility of trial reports for drugs stalling in development: a systematic
assessment of registered trials. BMJ2015;350:h1116.
European Medicines Agency. Procedural advice on publication of information on withdrawals of applications related to the marketing authorisation of human medicinal products. 25 June 2013. EMA/599977/2012.
Juni P, Rutjes AWS, Dieppe P. Are selective COX 2 inhibitors superior to traditional non-steroidal anti-inflammatory drugs? Adequate analysis of the CLASS trial indicates that this may not be the case. BMJ2002;324:1287-8.
Turner EH, Matthews AM, Linardatos E, Tell RA, Rosenthal R. Selective publication of antidepressant trials and its influence on apparent
efficacy. N Engl J Med2008;258:252-60.
Doshi P, Jones M, Jefferson T. Rethinking credible evidence synthesis. BMJ2012;344:d7898.
Wieseler B, Wolfram N, McGauran N, Kerekes MF, Vervolgyi V, et al. Completeness of reporting of patient-relevant clinical trial outcomes:
comparison of unpublished clinical study reports with publicly available data. PLoS Med2013;10:e1001526.
Seife C. Research misconduct identified by the US Food and Drug Administration: out of sight, out of mind, out of the peer-reviewed literature. JAMA Intern Med2015;175:567-77
The BMJ requires data sharing on request for all trials
BMJ 2015; 350 doi: http://dx.doi.org/10.1136/bmj.h2373 (Published 07 May 2015)
The movement to make data from clinical trials widely accessible has achieved enormous success, and it is now
time for medical journals to play their part. From 1 July The BMJ will extend its requirements for data sharing to apply to all submitted clinical trials, not just those that test drugs or devices.1 The data transparency revolution is gathering pace.2 Last month, the World Health Organization (WHO) and the Nordic Trial Alliance released important
declarations about clinical trial transparency.3 4
These announcements come on the heels of the US Institute of Medicine’s (IOM) report on sharing clinical trial data,
which called for a transformation of existing scientific culture to one where “data sharing is the expected
norm.”5 The efforts of industry, too, must be acknowledged, some of which caught many people by surprise. In particular, Medtronic’s cooperation with the Yale University Open Data project and GlaxoSmithKline’s leadership on
data disclosure efforts stand out.6 7
WHO’s statement on public disclosure of clinical trial results and the accompanying rationale reiterate the organisation’s support for registration of clinical trials.8 WHO declares that the main results of clinical trials should be posted
on a clinical trial registry or other acceptable website and submitted for journal publication within a year of study
completion. The expectation is that results will be “made available publicly at most within 24 months of completion.”
The statement does not call for mandatory sharing of primary data from trials but instead “encourages” sharing of
research datasets “whenever appropriate.”
In a move that is particularly welcomed by Ben Goldacre, cofounder of the AllTrials campaign,2 WHO also recommends disclosure of previously conducted but unreported clinical trials in a searchable and free registry and says it
is “desirable” that these trials should be published in a peer reviewed journal. Goldacre notes that this is important
because “the overwhelming majority of prescriptions today are for treatments that came onto the market—and were
therefore researched—over the preceding decades rather than the past five years.”9
The Nordic Trial Alliance report is bolder and far more visionary than the WHO statement. Its authors declare their
ambition “to make clinical research conducted in the Nordic region the most trusted clinical research in the world.”
They outline the current state of data transparency in individual Nordic countries and then provide a detailed account of what needs to change. This includes “public upload of . . . individual participant data” after the report of the
clinical trial is published. The alliance envisages a “Nordic transparency council” to serve as a “central, trusted public
party” that would oversee the storage and dissemination of trial data.
Finally, it calls on a range of public, private, and academic institutions and citizens to “formulate clear laws, regulations, and guidelines.” Such regulations “must specify that lack of transparency and trial registration is a serious offense and that attempts to re-identify . . . participant data are a breach of law, with severe consequences.”4
Extending The BMJ’s data sharing policy to all clinical trials
The BMJ was one of the first medical journals to require sharing of individual patient data for trials of drugs or devices. That policy took effect in January 2013 and specified that such trials would be considered for publication only
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if the authors agreed to make the relevant anonymised patient level data available on reasonable request.10 We are
very pleased that, to date, all authors have agreed, and we have not rejected a single paper for non-compliance.
The Dryad data repository is an option for any authors who want a place to store their open, anonymised datasets.11
Our initial data sharing policy focused on trials of drug and devices because many high profile, serious allegations of
selective or non-reporting of trial results related to such products.12 13 Growing experience and evidence show,
though, that reporting problems are not limited to the corporate sector but affect academic and government sponsored trials as well.14 Additionally, tighter regulation of drugs and devices has produced an explosion of commercial
interest in more lightly regulated “apps” and other non-pharmacological treatments.15 It is difficult to argue that
these studies should be exempt from the imperative to share data.
Hoarding data and limiting access to them is inimical to the data sharing society envisioned in the IOM report. Making anonymised patient level data from clinical trials available for independent scrutiny allows other researchers to
replicate key analyses, reduces the possibility that studies will be unnecessarily duplicated, and maximises use of
the information from trials—an important moral obligation to trial participants. An initial investment of time and
money is needed to prepare trial data for sharing, but after the first use there are few additional costs; in essence,
the value of the data increases with each use.
References
1. Godlee F, Groves T. The new BMJ policy on sharing data from drug and device trials. BMJ2012;345:e7888.
2. AllTrials. Latest campaign updates. 2015. www.alltrials.net/news/.
3. WHO statement on public disclosure of clinical trial results. 2015.www.who.int/ictrp/results/
WHO_Statement_results_reporting_clinical_trials.pdf?ua=1.
4. Nordic Trial Alliance Working Group. Report on transparency and registration in clinical research in the Nordic Countries.
2015. http://nta.nordforsk.org/projects/FINALNTAWPG30032015.pdf.
5. Institute of Medicine. Sharing clinical trial data: maximizing benefits, minimizing risks. Accessed 17 April athttp://
www.iom.edu/Reports/2015/Sharing-Clinical-Trial-Data.aspx.
6. Yale University Open Data project. http://yoda.yale.edu/.
7. GSK clinical study data request site. www.clinicalstudydatarequest.com/.
8. Moorthy VS, Karam G, Vannice KS, Kieny M-P. Rationale for WHO’s new position calling for prompt reporting and public disclosure of interventional clinical trial results. PLoS Med2015;12:e1001819.
9. Goldacre B. how to get all trials reported: audit, better data, and individual accountability. PLoS Med2015;12:e1001821.
10. The BMJ’s policy on drugs and devices trials. 2015. www.bmj.com/about-bmj/resources-authors/article-types/research.
11. Khan K, Weeks AD. Example of retrospective dataset publication through Dryad. BMJ2015;350 :h1788.
12. Vedula SS, Bero L, Scherer R. Outcome reporting in industry sponsored trials of gabapentin for off-label use. N Engl J
Med2009;361:1963-71.
13. Jones CW, Handler L, Crowell KE, Keil LG, Weaver MA, Platts-Mills TF. Non-publication of large randomized clinical
trials: cross sectional analysis. BMJ2013;347:f6104.
14. Anderson ML, Chiswell K, Peterson ED, Tasneem A, Topping J, Califf RM. Compliance with results reporting at ClinicalTrials.gov. N Engl J Med2015;372:1031-9.
Husain I, Spence D. Can healthy people benefit from health apps? BMJ2015;350:h1887.
Le novità sulla malattia di Alzheimer suscitano sempre enorme interesse. Ecco un esempio di come una notizia
scientifica sia stata manipolata dai giornalisti inglesi.
Alzheimergate? When miscommunication met sensationalism
The Lancet http://dx.doi.org/10.1016/S0140-6736(15)00246-9
On Sept 5, The Lancet was alerted by a UK Government source to the impending publication of a
Nature paper allegedly about the possible transmission of Alzheimer's disease. The source was anxious about the likely media coverage and the potential for a public health scare. Although the UK's
Science Media Centre was involved in helping to communicate the findings reported in the paper accurately, our source urged us to consider what we might do to reduce further the risk of a scare. We
wrote to the Science Media Centre, explaining our understanding of the potential alarm and asking if
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we could help in some way. The Science Media Centre did not think the paper by John Collinge and
Sebastian Brandner was unduly alarmist. It noted that several highly experienced press officers were
working hard on the communication of the research findings to prevent any possibility of a scare. They
added that if there were alarmist headlines, it would not be for the want of trying to prevent them. On Sept
10, the UK newspapers took a very different angle than predicted, or hoped for, by our colleagues at the
Science Media Centre. Ranging from “Alzheimer's may be a transmissible infection” in The Independent to
“You can catch Alzheimer's” in The Daily Mirror or “Alzheimer's bombshell” in The Daily Express, the general tone of the headlines was indeed deeply alarmist. Some news sources tried to redress the harm done.
The BBC ran a story on its website saying there was “No evidence to support the headlines”. Meanwhile,
in many other countries, the story was either not covered at all, or news headlines at least included a
question mark. Question marks were wise and judicious additions, if one reads what the published study
actually showed (and did not show). The title promises “Evidence for human transmission of amyloid-ȕ pathology and cerebral amyloid angiopathy”. But the study does not provide evidence of human transmission, as the authors acknowledge themselves in their final paragraph—”there is no suggestion that Alzheimer's disease is a contagious disease and no supportive evidence from epidemiological studies that
Alzheimer's disease is transmissible.” What John Collinge and Sebastian Brandner's elegant autopsy
study of eight patients shows is that some patients treated with cadaveric human growth hormone who
subsequently developed iatrogenic Creutzfeldt-Jakob disease also showed evidence of amyloid ȕ deposition in their pituitary glands. The study does not show whether these patients would have actually developed Alzheimer's disease had they lived longer (they died from Creutzfeldt-Jakob disease and they had no
sign of tau protein pathology characteristic of Alzheimer's disease). The study does not demonstrate that
these patients' amyloid ȕ deposits were caused by growth hormone contaminated with “amyloid ȕ seeds”.
As the authors state in the paper, “Analysis of any residual archival batches of c-hGH [cadaveric-derived
human growth hormone] for both prions and Aȕ [amyloid ȕ] seeds might be informative in this regard”—
informative, and actually crucial to support their hypothesis. Controlled experiments injecting cadaveric
human growth hormone into animals to discover whether amyloid deposits develop as a consequence are
also needed to support their theory. The much overused phrase “paradigm shift” was quoted in some news
reports. But the findings, although certainly interesting, were a long way from a true “paradigm shift”. The
use of this phrase likely heightened the interest
and attention of journalists—and headline writers.
Was “Evidence for human transmission” an appropriate title for this paper? The report does not describe human transmission of amyloid pathology.
Rather, it reports amyloid pathology in patients
with iatrogenic Creutzfeldt-Jakob disease. Therefore, such a strong statement in a title also seems
misleading and potentially alarmist. Neuropathology experts, including those selected by the Science Media Centre, were left with the difficult task
of balancing plausible explanations against tenuous extrapolations. The public ended up being
warned about “Alzheimer's link to blood transfusions” or “You can catch Alzheimer's”, thereby
generating unnecessary anxiety and potentially
diminishing years of effort against patients' stigmatisation. Taking these events together, this episode
of scientific reporting was handled poorly. One
senior protagonist in this affair felt “upset and bewildered” by the outcome. Despite the best efforts
of some, the system in place to assist science journalists broke down through a mix of inattention and
perhaps even complacency. Preventive actions by
the UK's public health authorities were too weak
and too late. The lesson that might be learned
from this episode is that goodwill and hope are insufficient to prevent a public health scare.
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Societies can both grow old and lower dementia burden
The Lancet Neurology, http://dx.doi.org/10.1016/S1474-4422(15)00223-9
That long life might be worse than death—at least in terms of societal
burden of brain disease and its associated costs—could be the gloomy,
and wrong, interpretation from two highly anticipated reports. On Aug 25,
2015, Alzheimer's Disease International released their analysis of the
global impact of dementia in their World Alzheimer Report 2015; the next
day, the Global Burden of Disease Study 2013 (GBD 2013) collaborators
published their newest estimates. Any dismal conclusions from these two
sets of findings are mistaken. The reports not only provide useful global
health measures that highlight the scale of dementia burden, but also
pinpoint the areas for which further epidemiological research is needed to
guide public health policies. The World Alzheimer Report 2015 states
that the number of people with dementia “will almost double every 20
years”, which will translate into a staggering figure of over 130 million
patients with dementia worldwide by 2050 (a number roughly equivalent
to the entire population of today's Japan). But most people with dementia
will not live in a high-income country such as Japan, where dementia
care might be attainable; almost 70% of patients will dwell in low or middle income regions, where health systems might not be able to cope with
their needs. These dire estimates are based on the assumption that
changes in dementia prevalence (ie, the percentage of the population
with dementia) and its incidence (ie, new dementia cases per year) will directly reflect population growth and ageing.
Ageing is indeed the most important risk factor for dementia—and for other chronic, non-communicable diseases—
and this assumption is therefore at the core of most epidemiological projections. For instance, the Report assumes
that dementia incidence doubles with every 6·3 years of increase in age, regardless of years of education, diet,
physical activity, or other factors that can also influence dementia risk. Hence, the analysis predicts an enormous
upsurge of dementia cases over the next three decades, particularly in East Asia and Africa, driven by demographic
growth and increases in life expectancy.
The findings from the GBD 2013 study confirm that people worldwide are living longer: life expectancy at birth rose
by 6·2 years (95% uncertainty interval 5·6–6·6) from 1990 to 2013. However, in most regions, gains in life expectancy have been greater than those for healthy life expectancy, which rose globally by 5·4 years (4·9–5·8) and was
accompanied by an increase in years lived with non-communicable diseases. The burden of brain disorders, measured as years lived with disability, has also increased worldwide, and this higher burden seems to be linked with
higher sociodemographic status (an index including not only population age and fertility rates, but also income per
capita and years of schooling after age 15). In summary, the projections of the GBD 2013 findings suggest that
more of our old age will be stricken by disability and illness, including dementia. However, this global epidemiological sketch of an ageing world with extended years of disability becomes difficult to discern when digging into findings
at the country level. The measures of health loss reported in countries with comparable sociodeomographic status
can be substantially different (for instance, out of all high-income countries, only in Japan and Singapore had men
attained a healthy life expectancy of more than 70 years by 2013, when healthy life expectancy was about 66 years
in Finland), and further research is needed to understand the causes of this large variability. For such a complex
clinical syndrome as dementia, multiple factors beyond demographics must contribute to determine disease risk,
and more detailed epidemiological data are needed to guide policy and inform research priorities in every region. In
western Europe, only a few population-based studies have compared the number of people with dementia between
two time points using consistent methods (using the same diagnostic classification and study design is crucial to
obtain robust findings). Despite the ageing of their populations, data from these studies in the Netherlands, Spain,
Sweden, and the UK show that prevalence and incidence of dementia have either fallen or stabilised across generations in these regions. These remarkably encouraging findings challenge the notion of an inevitable future wave of
disability due to dementia in the elderly, and point towards changes in living conditions and lifestyle as modifiable
targets for interventions. According to this robust epidemiological evidence, tackling modifiable risk factors across
the life course will prevent or delay dementia in old age. Policies to improve cognitive reserve for populations will
have a substantial long term effect on reduction of dementia risk later in life, and also on population health more
generally.
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NUOVI SOCI
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SINTESI RESEARCH
BONOMELLI MARTA
INNOPHARMA
BONOMI ELENA
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BRUNO GIULIA ANTONIETTA
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BIOINDUSTRYPARK SILVANO FUMERO
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FRAZZETTO ANGELA MARIA
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ONCOLOGIA MEDICA OSPEDALE S.VINCENZO
GIORDANO GENNARO
CLINTEC
MARCON PAOLA
BIOGEN
MARINONI NADIA
SANOFI
MELEO PAOLA
BRISTOL MYERS SQUIBB
PANECALDO SIMONA
BRISTOL MYERS SQUIBB
LAVIERI ROSA
IRCCS SAN MARTINO IST
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STUDENTE
SAVOLDI LUISA
IRCCS ASMMO DI REGGIO EMILIA
SCARPARO GABRIELLA
MEDPACE ITALY
SIRESSI VITO
BRISTOL MYERS SQUIBB
VILLANI WALTER
SINTESI RESEARCH
Hanno collaborato a questo numero:
DOMENICO BARONE
RONALD BAUER
MARIA MERCEDE BRUNETTI
SERGIO CAROLI
ELISABETTA CERBAI
DANIELE COLOMBO
RAFFAELE COPPINI
CORSO BASE SULLA
SPERIMENTAZIONE
CLINICA
Milano, 29 - 30 settembre e 10 ottobre 2016
Il corso è indirizzato ai laureati che iniziano ad
occuparsi di studi clinici, o che hanno pochi anni di esperienza nella sperimentazione clinica.
Giunto alla sedicesima edizione, ha formato grazie alle competenze dei docenti SSFA oltre 500 professionisti della ricerca clinica.
Non perdete questa occasione!
DOMENICO CRISCUOLO
FRANCESCO DE TOMASI
LUCIANO M. FUCCELLA
LUIGI GODI
LUCA MEDINI
ALESSANDRO MUGELLI
MARCO ROMANO
VALENTINE A. SFORZA
ALFREDO VANNACCI
CONSIGLIO DIRETTIVO
Presidente: Marco Romano
Vice—presidente: Anna Piccolboni
Segretario: Salvatore Bianco
Tesoriere: Luigi Godi
Consiglieri: Giuseppe Assogna, Rossana Benetti, Marie-Georges Besse, Sergio
Caroli, Domenico Criscuolo, Gianni De Crescenzo, Paolo Primiero.
Direttore Responsabile: Domenico Criscuolo Comitato editoriale: Giovanni
Abramo, Salvatore Bianco, Sergio Caroli, Domenico Criscuolo, Luciano M.
Fuccella, Marco Romano
Segreteria editoriale: Sabrina Lucioni
Segreteria Organizzativa: Viale Abruzzi 32—20131 MILANO
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