Il ciclo dei vinti

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Il ciclo dei vinti
Di Fabrizio Corselli
Di Fabrizio Corselli
Impaginazione
di Mauro Ghibaudo
Testo I. Il Silenzio di Laocoonte
Testo II. La Tempesta
Testo III. Il Lamento di Orfeo
Testo IV. Dodekadromos
Testo V. Ode Febea
Testo VI. Così di Ebe radiosa…
Testo VII. Andromeda
Testo VIII. Il canto delle Muse
Testo IX. Arianna
Testo X. La regina amazzone
Testo XI. Morte di una Ninfa
Testo XII. Il ritorno del grande Dio Arcade
Testo XIII. Ganimede e l’odio di Ebe
1
L’Ultimo volo di Icaro, ovvero della scultoreità poetica si riferisce al relativo saggio di Estetica che in questa versione
non è presente per volontà dello scrittore, lasciando alla lettura solo Il Ciclo dei Vinti.
Esortazione di un poeta agonale
A tutti voi poeti, io mi rivolgo, tra aurei serti
ed elogi di bianco oleastro, come ben s'addice
il tono ai cori ordinati e monodici plausi;
ai soli intenditori io mi espongo, umile o forse
cordiale, più di quanto manifestarlo possa
un solo citaredo od auleta in tutta la patria,
perché a lungo si conservi della gloria di Olimpia
un solo stadio o metro di qualsivoglia specie,
sia esso nel semplice conoscer il morso quadrigo
dei furenti cavalli prossimi alla meta agognata,
sia esso nel duro morder la polvere ed il gloios
lucente di un pugile elleno dal robusto braccio,
nella figura di Diagoras o Acusilao suo figlio.
Del resto, miei valorosi opliti dall'ingegno armato,
la cui cadente panoplia soggiace al proprio polso
d'impavido astante in una guerra dalla falsa tregua,
compito d'obliata sorte è il nostro canto agonale,
perché dello sconfitto o del vile, mai s'accinga
il digiuno tra le pieghe di un disonore agl'olimpi sì caro.
Di Fabrizio Corselli
IL SILENZIO DI LAOCOONTE
Chiusa è la bocca oltre velenose spire
avvolte al pugno paterno, mentre di Etrone e Melanto
sublime il grido s’annoda al quieto silenzio
di chi, muto, il dolore sopporta con nobiltà d’eroe.
A lungo ritorte le membra e le nodose serpi
nelle figure di Porcete e Caribea, serpenti,
sì marini nell’arbitrio di colui il quale agita
il vigor del roboante tridente presso la Troade.
Così, tra le promache fondamenta del tempio
nel quale una nascita, impura, il viso oltraggia
di colei le cui gote son enfie a dispetto di un cervo,
tardiva e lenta una sola lacrima di reo seguace
scivola e s’incrosta lungo la piega marmorea
ogniqualvolta di due creature immortali
tace alla fine, come in tragedia, il luttuoso giro,
poiché tra i lembi sottili e smossi di una pietra
preziosa di ordita rugiada, l’anima s’attarda
di un poeta, insensibile alla morte altresì ignara.
Così il taciturno e fiero atleta si libra finanche
al vento finché della meta agognata, bianco il veleno
intorpidi il muscolo e altrettanto i polsi la spira
offuschi della vittoria adorna ogni illusione,
poiché quella stessa meta è anche stretta tra i volumi
di due contendenti come viscidi cappi al collo, sì torto,
ancor più divaricati al robusto braccio della contesa;
né denti o mani affilate, avvinti alla carne nemica
nel confortar dell'agone, l'eccellenza fisica e il primato
su di un giovane imberbe, alla paura altresì ignaro,
chino e in guardia, pronto a sferrare l'indomito attacco,
né occhi ardenti fra i tralci vermigli del tramonto
a nutrir con lancia scossa, la gloriosa fiamma,
ma solo volteggi improvvisi e canti inattesi, nel lodare
di uno spettatore l'amor patrio, al quale un dolore tanto lieve
la compassione non mai funesta con pietà d'olimpio;
e la corona di duro olivo ancor più le tempie stringe
indurite dal venefico castigo di una sorte avversa
tra i palmi di colei che le ali spiega sul nudo traguardo.
Scolpisce un sospiro, tra gli sguardi di Laocoonte
come trama silvestre allo scuoter della esile fronda,
mentre avversa di Poseidon ciò che algido scuote
la crosta lungo sentieri mai calcati da aurei cavalli.
Oltre un tumulo, nella quiete sembianza di una statua,
spoglio del proprio strumento, quale nudo scalpello,
tre volte stringa e forgia, Polidoro, il crine adonio
tra le armoniche note e sillabe della propria creta,
come Policleto dal poderoso e stanco giavellotto,
la benda discioglie al suo portatore tra ampie lodi;
e seppure ad egli cede la gamba destra, la propria gloria
non disperde tra gli spalti o le vie, ove pubblici i plausi
e gli onori tengono per sempre in vita le gesta di un eroe;
così nel volger la testa stravolta tra soli due corpi
lungamente attoniti e del silenzioso oblio, paghi,
di Penteleo la materia prima in loro prende forma.
D’altronde anche del vincitore, il busto vien scolpito
intero, qualora di un’ombra il fato pur sempre agiti
nel cuore di una nike alata, l’inatteso stordimento.
Oltre il traguardo e l’affannoso percorso,
si eleva l’Aurora al di sopra delle proprie terga
perché di Antifate e Timbreo ancora si propaghi l’effuso
tormento, oh dolce virtù inespressa di uomo esemplare,
dal quale ogni animo elleno, lento mai si disgiunga
per paura di vedersi sul podio o sull’altare, sconfitto e vile.
LA PARTENZA
PARTE UNO
Colui che di un’onda egea
il flutto cadenza sul limite
sabbioso di coste straniere,
alle sponde iridate di Argo volge
il carro quadrigo dai possenti cavalli,
trainato col vigor dell’aureo crine
ed il passo di bronzo;
e ancora per zampillo infausto,
colui che di un semplice fiotto
l’odore dello Ionio osserva iracondo,
le dune ambrate solca con taurico ardore
di un’isola che i confini non tace,
poiché di un giovane acheo, il fato perdura.
Sedurla puoi, la nave,
dal prosperoso ed ebbro manto
con il sudore e con la cetra
con l’ardore e l’incanto,
finché la tenera Lighea,
ninfa dalle piume iperboree,
alle sue corde vocali annoda il mesto silenzio.
DUPLICE DESTINO
PARTE DUE
Così come Odisseo,
all’albero maestro vien cinto
l’orgoglio d’ogni singolo marinaio
da coloro i quali di una comune patria
condivisero il nudo germoglio,
mentre giù cade la chiglia e la lira mortale
nello sperduto riflesso di un’orfica spuma;
nelle loro orecchie
adesso il tuono frastorna,
adagiate su di un lembo di terra
ove Artemide Agrotéra
la solitaria Delo consola,
poiché di Latona la disfatta avversa
per non aver di due gemelli
concesso il cammino alato.
LA POLENA E I SERPENTI D’ACQUA
Chiusa di Laocoonte2 la trepida bocca ormeggia
al discinto scoglio di mare altresì spietato in corpo
tra profondi declivi e buie strette abissali,
poiché d'ogni lacera vela Egea finanche si plachi
la cavità rigonfia e le sommità distorte.
Più in alto ancora dello stesso cielo blu, la prua
con travi ossute, la prima di codeste sei spire,
egli scorge, tra lunghe e robuste braccia nude;
svuotansi ora di codesta polena i fragili polmoni
d'acqua ricolmi, finché nodose le perfide serpi
avvinte ai propri pugni in triplice morsa,
gravide, si quietino al rotear dell'ultima spira.
Chi potrà allora dell'ingenua e vile Andromeda
per la quale l'odio di Teti la sua vita tanto sotterra
nei meandri di una spiaggia della nomea di Ioppe,
e di Acantìllide spinosa i cui vasti campi incolti
glorificano tuttora fiori dalle pieghe corinzie,
arrestar di Tìmbreo ed Antifate l'atteso destino?
Così, fronteggia il muscolo e di marmo l'addome
gli zampilli di venefica fiamma, da Ares radiati
come tenui stelle al sorger della prossima alba,
mentre consola d'ogni mortale le vane illusioni
di un ritorno che più non udrà le grida paterne.
Dei suoi due figli il tetro ricordo, ora s'arresta
fra indomiti flutti grigi, intrepidi e, sì, ritorti
nelle sciolte figure eteree di Caribea e Porcete,
infauste creature altresì acquatiche chimere.
Stretto è il loro morso e gelido il cappio al collo
presto rappresosi come ardente crosta di sale
su di una ferita aperta appena con cinico odio
quando d’un nemico la morte, celere, s’agogna.
Cingesi al suo lato destro e al sinistro ancora
al volto la serpe, poiché ratto è di ogni tendine
ed osso, a lungo l'impareggiabile suo torpore.
2
In tale contesto, il termine Laocoonte si riferisce al nome dell’imbarcazione adoperata dal satiro Chelide per
raggiungere l’Europa, dopo essere salpato dai porti dell’Elide. In essa vi è presente una polena raffigurante il sacerdote
troiano avvinto ai due serpenti marini.
INVOCAZIONE A CASTORE
PARTE TRE
Altrettanto, il pingue soffio di Zefiro gentile
sospinge del domito legno e di quel marmo
di duplice e sofferta prole, l'ostinata audacia;
E benché Eolo, i mille volti inciti della tempesta
fecondando dei suoi cari figli le enfie gote,
e ancora allenti d'ogni prua i rami nervosi,
al cieco Castore, un elegiaco canto invoca
il fiero keleustes dalle monodiche corde
appena stringate, perché naufraghi l'ultima vela
in un lungimirante mar, ove Scylla e Cariddi,
aspersero ad uno stretto il loro eterno amore.
S'innalzano, così, quelle serpi all'albero maestro
di Chelide cocendo l'impetuosa furia nel tacer
d'ogni velo, lievemente ferito, il muto sospiro.
LA TEMPESTA
PARTE QUATTRO
E d'ira forse malversa, ogni nembo si nutre
mentre Zeus l'egida rivolta tra le ampie sale
di un monte che sì tutti gl'olimpi accomuna,
ora che d'acqua marina e vile odio sono enfie
nel rincorrer di uno sperduto marinaio
le rotte inquiete e la veglia dal sonno profondo.
S'eleva ancor più in alto l'estremo orizzonte
e con esso i grigi gabbiani dalle ampie ali
ogniqualvolta s'attorcia la stretta e il nodo
si scioglie nel mostrar dell’altissima poppa
i profondi declivi, mutati all’incitar delle onde;
ma poi la vista tra i bianchi flutti s'annebbia
allorché di Poseidon, che la terra tutta scuote,
l'aureo tridente, tra le sabbie fermo s'arresta.
LA TEMPESTA
PARTE QUATTRO
Così, come di Penelope tessuto il filo
sì tardo, ancora disfatto tra le proprie dita
di offesa regina, nell'accoglier di stranieri
i doni non voluti e gl'elogi nel disonore intinti,
l’indugio affoga e s'arena tra le onde cerulee
di un mar in tempesta, da uno strale acceso
nelle orride fucine dell'olimpico Efesto,
poiché fra i bianchi tralci di spume ostili
la prua s'incunea e si flette all'eolico moto
quando di ogni arcadica vela, si squarcia
la speranza nei sottili lembi di un chitone egeo;
e come ogni fluida piega di tale indumento
il mare, a tratti impetuoso al di là di ornati
nembi dai fasci vermigli e lingue di fuoco,
incalzano di una dura polena le curve febee
a condur lungo la scia di tormentata pioggia
ambra, cenere e odor di bruma fluente.
Ma delle nere onde, il proprio volteggio ferino
i remi, esili scuote e all'albero un colpo assesta
tra i continui lamenti sparsi e le trenodiche ire
di coloro il cui fato ancor più lento s'avversa
lungo le coste di una siffatta terra, a me ignota.
LA TEMPESTA
PARTE QUATTRO
Adesso, oh Castore dal responso tardivo,
che il canto ai numi dell’aria, grigio non si volga
in elegia funesta al pari di sirene dalla muta voce,
perché io, di codesta terra possa ancora calpestar
la morsa sabbiosa e quell'infelice amore
che tale creatura condanna a mirar due volte
l'estremo orizzonte nel riflesso di chiome purpuree.
Cariddi è il nome della sperduta costa nella quale
io naufrago, mordo l'umida terra e le selve ferali,
codesto il nome della terra nella quale il mio fato
si consuma come faro tra le ombre disperso
in un colle ove Aidoneo stesso pose eterna dimora.
L'APPRODO
Ceruleo di un libero stormo è il battito d'ali
quando ancora alta in cielo l'ira si placa
delle tiepide brezze del Sud, scaldate appena
dai timidi raggi dell'Alba, con le sue falci d'oro
e argentee spighe di accecante luce riflessa.
Così d'Icaro il tetro ricordo più non naufraga,
disceso come empio volo tra oscure ombre,
al di là di quelle incantevoli coste sicanie
ove d'un amor beato, memore è il pianto
d'Alfeo e Aretusa, nel condividere una fonte
le cui acque celano dei loro cuori distanti
virtù altresì segreti fra gl'alvéi del Peloponneso.
Ma nero lo scoglio, di Chelide presto saluta
l'approdo finanche i muscoli contratti
di Laocoonte, oh eterna e gloriosa polena,
poiché, adesso, solamente sabbia e salsedine
nutrono di quella bocca cheta, l'inatteso digiuno.
IL LAMENTO DI ORFEO
Di Euridice, l'illusione più non s'attarda
tra le nere e oscure fosse al di là dell'Ade
altresì obliata foce d'Averno profondo,
poiché della mite Valle di Tempe, regina,
tu fosti un tempo, in un dì non molto tardo
nell'esser stata più volte sì cieca e stolta
a non osservare tra i tuoi celeri passi
la morsa e le fauci di un vile serpente,
o ancor più di Aristeo lo sguardo feroce
cieco pastore, del dono di Eros digiuno;
Condanni me, per infausta sorte avversa,
nel criticare un amore ch'io in eterno provo
per una luce fioca, dispersa tra i primi raggi
del sole, quali tetre e livide ombre grigie,
paghe dell'attonito silenzio di una loro sorella
maggiore che la vita quasi sempre oltraggia
tra i nembi e i fasci di luminosa speranza.
Altro non può che dannarsi, codesto cantore
di tutti gli dei sempiterni avversi, e forse ancora
come uomo, al di sopra dello stesso satiro Marsia,
il cui vello è ancor più dimentico per diletta sorte
e non ultimo, mi tacci il cielo, del divin Musagete,
delle ninfe sommo patrono e di muse alate reo olimpio.
!
DODEKADROMOS
Tardo, suo aggioga il sereno drappeggio
l'auriga valente, oltre una meta lontana
d'acuto terrore ancor più d'ammansita gloria,
ogniqualvolta, sciolte le briglie, all'aere dona
sudore, polvere e tenera sabbia altresì morsa
tra i docili ed indomiti spalti di un ippodromo
ove funesti, gli spiriti maligni tutti avvelenano
di Mirtilo, nobile automedonte, l'eredità crudele.
Tarassippo, dei cavalli più che temibile orrore,
egli è invocato tra lodi e canti di poeti agonali
perché la propria terra mai si volga e si desti
nel lasciare impuniti coloro che aspra contesa
ad Enomao mossero per man della propria figlia.
Ora, circonfuso dall'onda, il temibile scoglio
con dodici giri avvinto altresì di bava circuìto
dai prodi ippocampi nella sua più tetra tempesta
al pari di spumeggianti creste di nero corallo,
benevolo, scuote le placide membra e la veglia
dei cavalli spartani finanche provati nel corpo
e nell'amor di patria, tra fiere lusinghe ed elogi
di coloro che il non oblio, sì a lungo venerano
con auree parole e casti doni di muse eliconie,
perché di ogni singolo atleta, lento si sfami
il glorioso digiuno tra i fasti di un complice serto
d'olivo, di apio forse ancor di mirto più audace.
Con me non si accanisca allora, il divo Castore,
di tempeste superbo paciere, a volte più vorace
nell'innalzar tra polverosi turbini e pietre rosse
i timori di ogni città greca, quando sul podio
il proprio campione o alcuna bestia s'azzoppa,
perché più nero ancora, il vessillo di una gara
al di sopra si erge del garrese del fulvo Areion
d'Heracles cavalcatura fidata altresì compagno
di guerra, o di Xanto, devota guida d'Achille.
Contratto è il muscolo e la mandibola possente
del cavallo di Pelopion, dal vittorioso passato,
quando la meta da vicino agogna come un dio
greco, geloso e d'invidia ricolmo, contro ciò
che ogni mortale, nemico eterno, reo possiede
più d'ogni altra cosa splenda sulle alte cime.
Contratta è la redine che lungamente avesti
da Poseidon, di tutti gl'olimpi fiero scuotitor
di terre e di rivi tra i bianchi recinti di Teti;
così, a lungo del dio del mare l'ira non si placa
tra piedi di bronzo ed auree criniere, più folte,
dei propri destrieri, quando all'onda sussurra
di ogni creatura marina il concitato passo.
E a tal richiamo come alito di oscura tenebra
emerge e s'innalza lungo quei campi ossidati
dall'odor di arrugginiti scudi e solide lance,
lo spirito di Seio, alquanto temibile creatura
di mole mai udita, con incedere fiero e truce,
e manto purpureo altresì splendida criniera,
nel morder ferace dell'eroe imbelle i fianchi.
Sotto gli sferzanti colpi di un morso ben reso,
dapprima, levasi la cinghia da sotto il carro
finché della propria ruota il distacco fugace
presto, s'insinui e si elevi tra i solchi della terra
come aratro avvinto allo sguardo di un'aquila,
perché mai di Gordia, il nodo sempre stretto
si disciolga attraverso profezie ed illusioni
nell’acclamare l’atleta, re per un solo giorno.
Per un solo attimo, il muso al dolore si torce
e quantunque lo zoccolo, adusto s'infiammi
nel doppiare una meta che il volo non assicura
con chiara tenacia a chi le ali troppo innalza
come Icaro sperduto tra gl'ampi fasci radiosi
di una gloria a lui sempiterna convulsa,
così con grande coraggio, tra mito e leggenda,
al pari di Antiloco, e di Nestore suo padre,
maneggia l'esperto auriga i suoi tre campioni
nell'aggirar l'ultima sponda di codesto fiume
in piena, nel ricordo di Crisopelea arcade.
Ma, al volgere di un ultimo stadio equestre
ove limpido si disvela il fato avverso,
alla sinistra del carro, bifida la verga furente
presto s'abbatte sul dorso reclino come saetta
del cavallo udendo i sordi scalpitii e muti nitriti,
mentre al vallo, il fuoco di un'olimpica vittoria
erutta e fluido s'incendia come fiume fluendo
nelle fosse del buio Tartaro, ciclico nel ravvivar
dei morti l'insperato ritorno a quella luce fioca
che i cantori all'ombra, come Orfeo condanna;
Del resto, al solenne atleta più nulla è dovuto
quand'egli sul campo di guerra per sempre giace
disteso, con il cimiero da un fil di lama trafitto,
poiché dopo la caduta, ineluttabile s'appresta il sole
a sparir dal volto di colui che l’eccessiva vergogna
consuma tra i fantasmi di una vile sconfitta.
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ODE FEBEA
Scende dalla corona di mirto e apio
il crine della cipride Afrodite,
mentr'ella di un nudo alloro
le olimpiche fronde acquieta.
Allora ad innevar nuovamente
l'ombra di un rifiuto, la luce dirompe,
ed ancor della pallida tela notturna
si cinge la chioma, finché negando
nell'oblio di un volto nascosto
le nude sembianze, cede l'antica memoria
che il cuor di un Olimpio come lancia trafigge.
Tale estasi di odi e di carmi
dispersero i Cronidi al mare,
volgendo all'Erebo
di Eros l'ultimo riflesso,
cosicché mai volgesse alla terra,
di Peneo la figlia, un solo guardo.
Ratto è il cuore di una mortale agreste,
la cui nomea, di Persefone ne porta l'ombra,
allor di Morfeo le ali,
tra le più belle per grandezza e ricamo,
si chiudono a dar di rimando
una leggiadra forma di cromatico respiro.
Cala il sonno, mentre si desta delle ninfe sopite
la voluttà febea a condur lungo le vie di Eros,
le tinte lacrime di un giovane scultore.
Come da un bosco olimpio
un respiro si solleva, e di me d'amor cantore,
la lode si prende gioco, sino a sfinir di quell'esile arbusto
che di un dio le cure mai conobbe,
le foglie più alte e l'ardor di Saffo.
(Dalla Pergamena S2; stesura per il secondo classificato - Sezione Scultura - Mostra-Concorso Internazionale
"L'
Echange", organizzata dal Salone Internazionale di Parigi, Galleria BSMD la Découverte di Parigi e il Centre
Multiculturel "Nicola Vella")
)
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+
COSÌ DI EBE RADIOSA…
Fulgidi il manto ed il vello, oltretomba
dimessi, con far di chi semplice estingue
della città d'Olimpia la fiamma ed il trionfo
sul tripode sacro della pizia veggente,
si logorano adesso tra le attente morse
di colei che per metà, zefiro ancor seduce
quando tetra la Notte, di Erebo incontra
lo sviato cammino di stelle al tramonto.
Tu, oh gelida Persefone, creatura eterea
dell'oltremondo figlia altresì mite compagna,
accogli di codesto satiro canuto e danzante
il nodo stretto alla gola, nel solitario pianger
di due soli amanti, il tanto atteso perdono.
Così di Ebe radiosa, molto in alto si leva
la docile mano, e ancor più non si posa
sulla fronte di Euridice, ora lieve estinta,
perché nel ricordo di quel reo Ganimede
che tuttora la sua grande gioia incatena
nelle piangenti vesti della propria madre Era,
niente più ad un comune mortale o semidio
è permesso, se non della giovinezza il triste
ricordo, naufrago tra le redini del nulla.
,
INVOCAZIONE AD ANDROMEDA
Avvinta fra convulse redini e docili catene
di Cefeo e Cassiopea figlia, colei che porta
ancora i segni di una bellezza al di sopra
ordita delle stesse figlie di Poseidon altresì Teti
appena lieve trainata dai possenti ippocampi,
aggioga al tamburo di Cibele il proprio senno
perché ora s'eterni quel tanto atteso dolore
ch'ella condannò a mirar due volte e ancor
più gl'indomiti scogli e le profondità del mare.
Oh tu, casta e servile Andromeda, che scaldi
finanche i cuori e i muscoli d'aurigena prole,
così da infondere in tutti quanti sempiterna gloria
al pari di colui che bionde frecce d'argento
scuote lungo i sentieri alati, sviati al tramonto,
quando del suo carro adagia stanco le ruote
proprio tra i seni e il manto di sua sorella Eos,
deponi il peplo della tua sprovveduta saggezza
sopra gl'altari di Pallade Atena, affinché alleviata
sia la dura colpa lungamente trafitta dagli Dei
avversi, di un non lontano e prossimo mare ostile.
Che mi tacci il cielo se io lasci fluire come onda
quieta, tra i cerchi dispersa di una limpida fonte,
al cospetto di ninfe boscose, il tuo vile coraggio,
senza che per poco ne offuschi gl'immutati riflessi.
Del resto, chi può della temibile Medusa il capo
divellere oltremodo ergere a trofeo se non le mani
di Perseo argivo, figlio di Zeus e di Danae secreta.
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IL CANTO DELLE MUSE
ELEGIACA FORMA
Dalla divina e sempiterna foggia
di colei che il vanto accerchia,
tenue si posa, la piega del peplo d’argento
finché solamente vien carpita la forma
di quella duttile materia
che nei miei pensieri confondo.
Di languida beltà
l’aria circostante
e i miei sogni sono pregni,
ancor più di codesta armonia dei sensi,
che dal solenne magdis tetracorde
vien diffusa come mite alveare di api percosse:
un’acustica evanescenza
che vita ed energia infonde
a qualsiasi essere o vegetale
che esista nella valle del Parnaso,
ove ogni cosa animata
e inanimata ella ristora.
In un contesto di magia
e gravido incantamento,
si svolge il corso della loro vita
alla base della pietra fluente:
partorite dal canto della luna,
han vegliato per millenni
sui regni di bianca ambrosia.
Alta e snella,
dalle forme sinuose,
il suo corpo di olimpica fattura,
sfiorato dalla luce lunare
di colei che Egle il nome offusca,
si erge agl’occhi di una ninfa agreste
come lattiginoso nettare
che nei fiumi di Olimpia scorre,
degl’immortali una fertile foresta
la cui chioma la natura adombra.
Il viso, schivo e delicato appare,
dolce nelle sue candide forme;
le guance carnose e tonde,
con la loro presunzione
e d’impurità assenti,
alle asperità lunari si elevano in cielo
risembrar facendo la singola stella
un effimero astro.
I suoi occhi, verdi,
come grani sabbiosi
che dal piano elementale dell’Acqua
al nudo scoglio, leggiadri si riversano,
da due pupille verticali son traversati,
naufragando, chete, in questo regno mortale.
Le cetre, simili per forma
alle albine felci della foresta
che il fiume di notte lambisce,
si arcuano in danza ipnotica e cadenzata,
giù lungo le spalle cadendo
come manto olimpio
che la sua nobiltà d’animo attesta….
Ora si dimenano,
ora si agitano con parsimonia
ma un unico movimento
che con soave canto di Selene
la luna, accompagna.
Le ali, tra le più belle
per grandezza e ricamo,
di una farfalla a simil cospetto,
sono forate per dar di rimando
una leggiadra fuga di altero vanto.
All’interno dei gazebi corinzi,
le ninfe danzanti, delle Muse eliconie
serve ed ancelle aptere,
stridono con atempore frequenza
il voluttuoso gorgheggio
per cui tanto obliano l’umano senno.
Ad ogni nota emessa,
un petalo vien rigenerato.
Emette un flebile suono
ed alcuni boccioli
davanti la sua ibrida figura
sbocciano, teneri e dolci.
Su se stessa ripiegata, in ginocchio,
all’interno della sontuosa cerchia,
la triste e crepuscolare nenia
inizia ad intonare:
i corsi fluviali
d’ambrato nettare son enfi,
dalla loro sagoma evanescente
gli alberi germogliano
e gl’insetti i fiori popolano
come orgia di baccanti in festa.
Oh sì, com’è ipnotica
ascoltarla di notte
mentre soave un canto nel Parnaso aleggia,
Colei che canta è la Calliope Musa,
dalla bella voce, prima fra tutte le sorelle.
E come per la Valle della Luna,
il suo canto la circostante “natura”
mantiene in vita e ristora.
Vengono i fiori ogni notte, cullati,
i rami spezzati adesso ricostruiti,
le strutture cambiate a suo piacimento
nelle forme e nei colori di cromatico diletto,
condanna crudele e conoscenza infausta,
le tue dolenti note sovvengono adesso,
in quest’idillio, per lasciarmi solo
satiro cantore, in un’angoscia, a me nota!
,
INVOCAZIONE AD ARIANNA
Di una spuma albina, lo sperduto riflesso
adagia i propri gonfi e turgidi seni
sul ligneo bordo di una vela egea,
poiché tale isola in Nasso, altresì celeste Dia,
al quale diede Teseo l’ingiusto abbandono,
adesso ai miei stanchi occhi mai più s’innalzi
come possente colonna di Poseidon tritone.
Scolpito tra cerulee e frastagliate onde
s’ode di Ariagne luminosa, il puro lamento
che con impeto di strale e vigor di tempesta
le Cicladi avvince ed ancor più maledice
col consenso di Afrodite, in stretta alleanza.
Perpetuo tra i flutti del Mar Egeo, s’annida il suo nome
come rete di pescatore errante, in fondo a quell’oceano
la cui oscurità e parsimonia altresì consola di Urano
il nebbioso indugio su chi degli déi olimpi
possa levar come attenta nutrice il peso di un semplice sasso.
Così gonfia le tele il trenodico pianto
di colei che in Fedra ebbe sua simil progenie,
e ancora a solcar d’indocili flutti le spume nervose
la scia della nave, trapassa lo spazio marino
con bianche lance dalla punta vermiglia
e scudi scossi all’imperversar di un cambio di rotta,
finché di un grido la quiete non s’assesti
tra le placide membra di un satiro errabondo.
(
PROEMIO
Sbalzate le placche
di un corpo di bronzo
la quiete ed il lutto
mai ritrovino
in un campo di guerra,
in toni di bianco e di grigio;
Ne ricerco selvaggia la mélode nenia
oltre i chiari di luna,
quando di Endymion, sopito mortale,
colse Selene albina il soffio notturno.
Così d’una donna in cui alberga
d’Athena Promachos, lo spirto guerriero,
s’infiammi la panoplia morente.
LA REGINA AMAZZONE
Di elmi danzanti dalle tinte livree
e di affilate torsioni dalla lama fugace, io canto,
con la punta delle lance al terreno confitte,
mentre la spada morir non può tra la feroce
e tenace presa di un uomo che il destino
maneggia al pari della propria arma,
poiché delle lingue bronzee,
i vermigli diademi, digiuni, alimenta.
Così della loro non abusata virtù,
ma più stringano un cuore di tenebra
per destar dell’ombra di quell’Abisso, il male,
che nel mio animo di aedo, lento, s’incarna.
Cade verso il mattino, agile e senza vita
la convulsa pioggia dalla clamide purpurea,
ed ora sferza le vacue scintille come fiotti di sangue,
e ancora, di ogni vessillo il moto non s’arresta
come piega di seta, dai colpi del fertile vento smossa
finché algida e sepolta la falange dinanzi le porte
non si consuma, al nemico mostrando le lance imbrunite.
Sibilano le aste, al di sopra della testa inerme
per ferir di quelle orbite le cieche scaglie;
e tacciano del proprio spirto le croste rapprese,
così ruggendo da codesto ellenico tempio
del popolo di Micene le venefiche colpe.
Adombrano, sol taciuta adesso, dei cadaveri
la lenta agonia, come d’un istmico atleta,
poiché sofferta e d’amor beata è la prova mortale
di lenire qualsivoglia forma di tanto atteso dolore:
linfa or terrena che dei fiotti di nettare d’ambrosia,
laute e copiose, ancor sussunte le danze saturnie
di quelle muse guerriere, presto, fomenta.
Per diritto di nascita, un sol vincitore impera,
della nomea d’Achille,
poiché come tiranno su quei corpi morti
mantenne insonne ogni tua supplicata volontà
di rimanere sveglia,
Oh, Pentesilea!
E adesso, Temiscira dal trono fluente
osserva con delizia di vanità femminile
del proprio popolo, la mitica assenza
di una gloria che mai conobbe il giogo maschile.
Così un fil di lama, presto, saetta
della regina Ippolita, dal cinto ingiurioso,
poiché Eracle mai sfinisca
tra le terse spume di una fatica olimpia
l’agone ancor più obliato dalla vittoria iraconda.
Brandita è l’arma e lo scudo scosso
tra i primi fior che un soldato non colse
in un campo di vile e decaduta guerra;
così scende e s’aggitta la lama
al di sopra della spalla solenne,
ove di ruggine e di sangue
stilla la fremente ferita.
Il fuoco ancora a ricucir non volle
di codesta armatura, il tessuto appena morso,
poiché immortale ma ancor più olimpio in corpo,
d’Achille è il grido da implorar
dei Cronidi Monti, l’atteso destino.
Morsa è altresì la silente corda
come acheo il cuore avvinto
alla nuda pietra morente
d’una città che la disfatta
conobbe forse per sorte contraria;
ancor più trenodica la speme, adesso soggiace
nelle mani di colui che l’antico retaggio
abbandonò come ultima sponda,
poiché così il valor dell’umana sofferenza
mai graffi di quelle mura il sacrificio mortale.
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MORTE DI UNA NINFA
Brulicano i bianchi germogli tra siepi
di cinerea e dimentica solitudine
riflessa in una grande quercia secolare;
così, con note sideree e cromie albine
carezza di una Ninfa agreste il puro volto,
poiché, vermiglia la linfa presto abbandona
di ogni creatura eterna, l'atteso rifugio.
Screziato, ogni suo crine, adesso posa
del proprio idilliaco male l'avida linfa
sul fiero corpo e glabro addome di colei
che molteplici ere, ignara, avversa.
Così, ogni qualvolta un lamento sgorga
dalle fitte radici ed aurei frutti stellati
finanche avvinti all'antico nome di un fauno
suo guardiano e mite pastore arcadico,
altresì scosso è dell’albero il grigio tronco
da un ricordo la cui gloriosa cadenza
più non s’arresta tra foglie dimentiche
del tempo in cui gl’aedi, di quel paradiso
dimoravan fertili terre e laghi fluviali;
tra montagne ostili e gelidi ghiacci, adesso,
di Eleos, lo sguardo lungamente trafigge
di ogni bestia selvatica lo spirito imbelle,
affinché divenga, tale chioma un porto
sicuro e ciclica tomba, ove il proprio alito
ancor più si libra in volo, e per sempre tace.
MORTE DI UNA NINFA
SECONDA PARTE
Tra i fluidi rivi di grigio smeraldo
lento, si torce un digiuno diadema
nel veder della creatura immortale
la propria fine e nell'oblio il lutto;
Al di sotto delle sue gote d'ebano
tra la chiara e pallida luna di Egle
con ciglia di fronde e dura corteccia
scivola via una folta e mite lacrima,
come viva rugiada in un reo giorno
di gelido Inverno, del colore fosco
di bruma fluente altresì plumbea.
Di codesto ninnolo, tra le mie mani
osservo il suo ammaliante potere
forgiato e ancor più compiaciuto
da quella razza che per simile fato
ebbe dell'eterno imperitura nomea;
ninfale discendenza e arcana natura
legate tutte al più intimo intreccio
con una semplice creatura silvestre.
Cosmos, lo lodano tutti gli déi
accresciuto dal trenodico pianto
di una ninfa, mentre io, lì osservo
di una sempiterna creatura eterea
il cammino verso l'oblio più tetro.
Così, ivi stridono le arterie e l'aura
che ora promana dalle sue creste
fluenti, come livrea altresì smossa
dal caldo e libero alito di Borea;
nessuna pace né refrigerio alcuno
per tale incandescenza che mai
s'arresta, impetuosa, tra i sottili
strati di vetro del suo puro nucleo
di accecante luce e buio digiuno;
tale è il potere di codesta pietra
in cui s'agita della ninfa ogni secreto
che stringo con le mie stesse mani,
lucente dai lembi e fregi agresti
al pari di mantelli dai bei ricami,
poiché nell'avvilupparne il corpo
lo spirito d'ogni driade, sì presto,
come volto innanzi s'acquieta
ad un camino solingo e spento.
Essa, vivida luce, più non irradia;
esausto e morente sull'umida erba
morde l'aria e gli zoccoli affonda
nella terra, il sommo dono d'Artemis,
i cui timidi venti sussurrano ancora
il suo nome nell'effigie di Seiphoros
indomito signore di tutti i cavalli
istoriato da un lucido vello albino,
e prossimo ad una morte funesta
che a tal luogo pace non feconda,
poiché esso, per natura, della Terra
è dei mistici Guardiani, l'unico e solo.
Scuote, adesso, il suo nitrito acuto
il cuore e l'anima impetuosa di colei
che lo cavalca ma ancor più di chi
lo doma e finanche lo brama al pari
di tutti quegl'interminabili e fulgidi
doni divini, giacenti distesi sulle foglie
di una fitta foresta che mai conobbe
della mortalità umana ogni singolo
ed immoto cenno o pausa che sia,
come paura che nasce nel veder
perire altresì risorgere un’anima rea
tra tendinee lingue di rosso corallo.
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IL RITORNO DEL GRANDE DIO ARCADE
Così, tra fecondi prati, protervo e stanco,
dagli scoscesi monti arcadi ridiscende
colui che del mezzo dì favella ai pastori
raminghi dai bianchi velli e doni spontanei;
altrettanto tra segreti antri e roride fontane,
ove attende ad esser cacciata una ninfa
nel pieno diletto dei propri istinti procaci,
i notturni tramonti, sempiterno, effonde.
Con naso camuso e dimesse appendici,
la verde Arcadia condanni tua unica patria
ma reo abbandoni di un antro l'insonne rifugio
nel consacrar, a lungo, di un ritroso canneto
il non voluto amore di nome Siringa.
Ebbro di fulgida cromia, ad Egle, la ninfa,
un dono disiasti, e ora con frutti di bosco,
eterno ozio risvegli nelle fulgide belve.
Alla volontà del pitico Apollo, ora si piega
del legno il suono stridente che d'ogni naiade
incantata le voluttà olimpie nude fomenta
al pari d'una limpida fonte appena smossa
dalla dura pietra di chi la quiete scorda
e disillude tra pieghe di fluida iridescenza.
Fugge e altresì si rintana come preda ferita,
la nota stonata quando in una caccia corale
del segugio, il proprio istinto, presto scova:
osservando come empi mastini i teneri amanti
e le fuggevoli note di una citerea greca
mentre predan del loro plauso il ninfale trionfo.
Allorché di Egipan argenteo, grande dio arcade
d'un tempo, risorga l'antica memoria nel prender
con forza, tra gli déi tutti, l'usurpato trono,
perché del padre Ermete ancora s'accenda
il rimorso nell'aver ceduto all'odio, il proprio figlio.
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GANIMEDE E L'ODIO DI EBE
Tra i rubicondi fasci di un kantaros eleo
appena smosso, di Ganimede, tetro riluce
il volto, nel timido pensiero di una gioventù
rapita, la cui disfatta il proprio reo silenzio,
ora asserve alle auree foglie d'una feconda
e paterna vite, altresì di Zeus incauto dono.
Mesce di quel nettare adagiato sul fondo
di una coppa, al re degli déi più non dedita
gl'ultimi resti, con far di chi la cieca rotta
al tramonto disperde tra i manti purpurei,
poiché Ebe, invidiosa, per virtù contraria
ai propri antichi precetti di servile ancella,
adesso confina del giovane figlio di Calliroe
ogni vana speranza e serena grandezza.
Così, con serafico e quieto odio nel cuore,
chi può al pari del leggiadro figlio di Dedalo
il cui senno or sublima tra nuvole impervie,
e di Nemesi, divinità dalle ombre profonde,
che di un cronide rifiuta il tenero abbraccio,
arrestar di quell'olimpio le accanite invidie?
Solo nello sguardo di un'aquila, la sua grazia
ancor più si redime, poiché “il più bello
di tutti mortali” lo lodano con comune plauso
nell'attesa che di un giovane nume iracondo
s'acquieti quel tinto disonor dell’umana mente
che trafigge d’ogni animo le sensibili corde.
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Opera Scultorea
Artista
Testo associato
Laocoonte
Atanadoro, Polidoro, Agesandro
Il Silenzio di Laocoonte
Nettuno e Tritone
Gian Lorenzo Bernini
La Tempesta
Euridice
Antonio Canova
Il Lamento di Orfeo
Testa di Cavallo
Fidia
Dodekadromos
Apollo e Dafne
Gian Lorenzo Bernini
Ode Febea
Ebe
Antonio Canova
Così di Ebe radiosa…
Andromeda
Pierre Etienne Monnot
Andromeda (Invocazione)
Tersicore
Antonio Canova
Il Canto delle Muse
Arianna
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Arianna (Invocazione)
Amazzone ferita
Fidia
La regina amazzone
Venere Italica
Antonio Canova
Morte di una Ninfa
Satiro Danzante
Prassitele (?)
Il grande Dio Arcade
Ganimede
Benvenuto Cellini
Ganimede e l’odio di Ebe
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I testi presenti in quest’opera provengono dall’opera inedita Satyros, fatta eccezione per Ode Febea.