Il ciclo dei vinti
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Il ciclo dei vinti
Di Fabrizio Corselli Di Fabrizio Corselli Impaginazione di Mauro Ghibaudo Testo I. Il Silenzio di Laocoonte Testo II. La Tempesta Testo III. Il Lamento di Orfeo Testo IV. Dodekadromos Testo V. Ode Febea Testo VI. Così di Ebe radiosa… Testo VII. Andromeda Testo VIII. Il canto delle Muse Testo IX. Arianna Testo X. La regina amazzone Testo XI. Morte di una Ninfa Testo XII. Il ritorno del grande Dio Arcade Testo XIII. Ganimede e l’odio di Ebe 1 L’Ultimo volo di Icaro, ovvero della scultoreità poetica si riferisce al relativo saggio di Estetica che in questa versione non è presente per volontà dello scrittore, lasciando alla lettura solo Il Ciclo dei Vinti. Esortazione di un poeta agonale A tutti voi poeti, io mi rivolgo, tra aurei serti ed elogi di bianco oleastro, come ben s'addice il tono ai cori ordinati e monodici plausi; ai soli intenditori io mi espongo, umile o forse cordiale, più di quanto manifestarlo possa un solo citaredo od auleta in tutta la patria, perché a lungo si conservi della gloria di Olimpia un solo stadio o metro di qualsivoglia specie, sia esso nel semplice conoscer il morso quadrigo dei furenti cavalli prossimi alla meta agognata, sia esso nel duro morder la polvere ed il gloios lucente di un pugile elleno dal robusto braccio, nella figura di Diagoras o Acusilao suo figlio. Del resto, miei valorosi opliti dall'ingegno armato, la cui cadente panoplia soggiace al proprio polso d'impavido astante in una guerra dalla falsa tregua, compito d'obliata sorte è il nostro canto agonale, perché dello sconfitto o del vile, mai s'accinga il digiuno tra le pieghe di un disonore agl'olimpi sì caro. Di Fabrizio Corselli IL SILENZIO DI LAOCOONTE Chiusa è la bocca oltre velenose spire avvolte al pugno paterno, mentre di Etrone e Melanto sublime il grido s’annoda al quieto silenzio di chi, muto, il dolore sopporta con nobiltà d’eroe. A lungo ritorte le membra e le nodose serpi nelle figure di Porcete e Caribea, serpenti, sì marini nell’arbitrio di colui il quale agita il vigor del roboante tridente presso la Troade. Così, tra le promache fondamenta del tempio nel quale una nascita, impura, il viso oltraggia di colei le cui gote son enfie a dispetto di un cervo, tardiva e lenta una sola lacrima di reo seguace scivola e s’incrosta lungo la piega marmorea ogniqualvolta di due creature immortali tace alla fine, come in tragedia, il luttuoso giro, poiché tra i lembi sottili e smossi di una pietra preziosa di ordita rugiada, l’anima s’attarda di un poeta, insensibile alla morte altresì ignara. Così il taciturno e fiero atleta si libra finanche al vento finché della meta agognata, bianco il veleno intorpidi il muscolo e altrettanto i polsi la spira offuschi della vittoria adorna ogni illusione, poiché quella stessa meta è anche stretta tra i volumi di due contendenti come viscidi cappi al collo, sì torto, ancor più divaricati al robusto braccio della contesa; né denti o mani affilate, avvinti alla carne nemica nel confortar dell'agone, l'eccellenza fisica e il primato su di un giovane imberbe, alla paura altresì ignaro, chino e in guardia, pronto a sferrare l'indomito attacco, né occhi ardenti fra i tralci vermigli del tramonto a nutrir con lancia scossa, la gloriosa fiamma, ma solo volteggi improvvisi e canti inattesi, nel lodare di uno spettatore l'amor patrio, al quale un dolore tanto lieve la compassione non mai funesta con pietà d'olimpio; e la corona di duro olivo ancor più le tempie stringe indurite dal venefico castigo di una sorte avversa tra i palmi di colei che le ali spiega sul nudo traguardo. Scolpisce un sospiro, tra gli sguardi di Laocoonte come trama silvestre allo scuoter della esile fronda, mentre avversa di Poseidon ciò che algido scuote la crosta lungo sentieri mai calcati da aurei cavalli. Oltre un tumulo, nella quiete sembianza di una statua, spoglio del proprio strumento, quale nudo scalpello, tre volte stringa e forgia, Polidoro, il crine adonio tra le armoniche note e sillabe della propria creta, come Policleto dal poderoso e stanco giavellotto, la benda discioglie al suo portatore tra ampie lodi; e seppure ad egli cede la gamba destra, la propria gloria non disperde tra gli spalti o le vie, ove pubblici i plausi e gli onori tengono per sempre in vita le gesta di un eroe; così nel volger la testa stravolta tra soli due corpi lungamente attoniti e del silenzioso oblio, paghi, di Penteleo la materia prima in loro prende forma. D’altronde anche del vincitore, il busto vien scolpito intero, qualora di un’ombra il fato pur sempre agiti nel cuore di una nike alata, l’inatteso stordimento. Oltre il traguardo e l’affannoso percorso, si eleva l’Aurora al di sopra delle proprie terga perché di Antifate e Timbreo ancora si propaghi l’effuso tormento, oh dolce virtù inespressa di uomo esemplare, dal quale ogni animo elleno, lento mai si disgiunga per paura di vedersi sul podio o sull’altare, sconfitto e vile. LA PARTENZA PARTE UNO Colui che di un’onda egea il flutto cadenza sul limite sabbioso di coste straniere, alle sponde iridate di Argo volge il carro quadrigo dai possenti cavalli, trainato col vigor dell’aureo crine ed il passo di bronzo; e ancora per zampillo infausto, colui che di un semplice fiotto l’odore dello Ionio osserva iracondo, le dune ambrate solca con taurico ardore di un’isola che i confini non tace, poiché di un giovane acheo, il fato perdura. Sedurla puoi, la nave, dal prosperoso ed ebbro manto con il sudore e con la cetra con l’ardore e l’incanto, finché la tenera Lighea, ninfa dalle piume iperboree, alle sue corde vocali annoda il mesto silenzio. DUPLICE DESTINO PARTE DUE Così come Odisseo, all’albero maestro vien cinto l’orgoglio d’ogni singolo marinaio da coloro i quali di una comune patria condivisero il nudo germoglio, mentre giù cade la chiglia e la lira mortale nello sperduto riflesso di un’orfica spuma; nelle loro orecchie adesso il tuono frastorna, adagiate su di un lembo di terra ove Artemide Agrotéra la solitaria Delo consola, poiché di Latona la disfatta avversa per non aver di due gemelli concesso il cammino alato. LA POLENA E I SERPENTI D’ACQUA Chiusa di Laocoonte2 la trepida bocca ormeggia al discinto scoglio di mare altresì spietato in corpo tra profondi declivi e buie strette abissali, poiché d'ogni lacera vela Egea finanche si plachi la cavità rigonfia e le sommità distorte. Più in alto ancora dello stesso cielo blu, la prua con travi ossute, la prima di codeste sei spire, egli scorge, tra lunghe e robuste braccia nude; svuotansi ora di codesta polena i fragili polmoni d'acqua ricolmi, finché nodose le perfide serpi avvinte ai propri pugni in triplice morsa, gravide, si quietino al rotear dell'ultima spira. Chi potrà allora dell'ingenua e vile Andromeda per la quale l'odio di Teti la sua vita tanto sotterra nei meandri di una spiaggia della nomea di Ioppe, e di Acantìllide spinosa i cui vasti campi incolti glorificano tuttora fiori dalle pieghe corinzie, arrestar di Tìmbreo ed Antifate l'atteso destino? Così, fronteggia il muscolo e di marmo l'addome gli zampilli di venefica fiamma, da Ares radiati come tenui stelle al sorger della prossima alba, mentre consola d'ogni mortale le vane illusioni di un ritorno che più non udrà le grida paterne. Dei suoi due figli il tetro ricordo, ora s'arresta fra indomiti flutti grigi, intrepidi e, sì, ritorti nelle sciolte figure eteree di Caribea e Porcete, infauste creature altresì acquatiche chimere. Stretto è il loro morso e gelido il cappio al collo presto rappresosi come ardente crosta di sale su di una ferita aperta appena con cinico odio quando d’un nemico la morte, celere, s’agogna. Cingesi al suo lato destro e al sinistro ancora al volto la serpe, poiché ratto è di ogni tendine ed osso, a lungo l'impareggiabile suo torpore. 2 In tale contesto, il termine Laocoonte si riferisce al nome dell’imbarcazione adoperata dal satiro Chelide per raggiungere l’Europa, dopo essere salpato dai porti dell’Elide. In essa vi è presente una polena raffigurante il sacerdote troiano avvinto ai due serpenti marini. INVOCAZIONE A CASTORE PARTE TRE Altrettanto, il pingue soffio di Zefiro gentile sospinge del domito legno e di quel marmo di duplice e sofferta prole, l'ostinata audacia; E benché Eolo, i mille volti inciti della tempesta fecondando dei suoi cari figli le enfie gote, e ancora allenti d'ogni prua i rami nervosi, al cieco Castore, un elegiaco canto invoca il fiero keleustes dalle monodiche corde appena stringate, perché naufraghi l'ultima vela in un lungimirante mar, ove Scylla e Cariddi, aspersero ad uno stretto il loro eterno amore. S'innalzano, così, quelle serpi all'albero maestro di Chelide cocendo l'impetuosa furia nel tacer d'ogni velo, lievemente ferito, il muto sospiro. LA TEMPESTA PARTE QUATTRO E d'ira forse malversa, ogni nembo si nutre mentre Zeus l'egida rivolta tra le ampie sale di un monte che sì tutti gl'olimpi accomuna, ora che d'acqua marina e vile odio sono enfie nel rincorrer di uno sperduto marinaio le rotte inquiete e la veglia dal sonno profondo. S'eleva ancor più in alto l'estremo orizzonte e con esso i grigi gabbiani dalle ampie ali ogniqualvolta s'attorcia la stretta e il nodo si scioglie nel mostrar dell’altissima poppa i profondi declivi, mutati all’incitar delle onde; ma poi la vista tra i bianchi flutti s'annebbia allorché di Poseidon, che la terra tutta scuote, l'aureo tridente, tra le sabbie fermo s'arresta. LA TEMPESTA PARTE QUATTRO Così, come di Penelope tessuto il filo sì tardo, ancora disfatto tra le proprie dita di offesa regina, nell'accoglier di stranieri i doni non voluti e gl'elogi nel disonore intinti, l’indugio affoga e s'arena tra le onde cerulee di un mar in tempesta, da uno strale acceso nelle orride fucine dell'olimpico Efesto, poiché fra i bianchi tralci di spume ostili la prua s'incunea e si flette all'eolico moto quando di ogni arcadica vela, si squarcia la speranza nei sottili lembi di un chitone egeo; e come ogni fluida piega di tale indumento il mare, a tratti impetuoso al di là di ornati nembi dai fasci vermigli e lingue di fuoco, incalzano di una dura polena le curve febee a condur lungo la scia di tormentata pioggia ambra, cenere e odor di bruma fluente. Ma delle nere onde, il proprio volteggio ferino i remi, esili scuote e all'albero un colpo assesta tra i continui lamenti sparsi e le trenodiche ire di coloro il cui fato ancor più lento s'avversa lungo le coste di una siffatta terra, a me ignota. LA TEMPESTA PARTE QUATTRO Adesso, oh Castore dal responso tardivo, che il canto ai numi dell’aria, grigio non si volga in elegia funesta al pari di sirene dalla muta voce, perché io, di codesta terra possa ancora calpestar la morsa sabbiosa e quell'infelice amore che tale creatura condanna a mirar due volte l'estremo orizzonte nel riflesso di chiome purpuree. Cariddi è il nome della sperduta costa nella quale io naufrago, mordo l'umida terra e le selve ferali, codesto il nome della terra nella quale il mio fato si consuma come faro tra le ombre disperso in un colle ove Aidoneo stesso pose eterna dimora. L'APPRODO Ceruleo di un libero stormo è il battito d'ali quando ancora alta in cielo l'ira si placa delle tiepide brezze del Sud, scaldate appena dai timidi raggi dell'Alba, con le sue falci d'oro e argentee spighe di accecante luce riflessa. Così d'Icaro il tetro ricordo più non naufraga, disceso come empio volo tra oscure ombre, al di là di quelle incantevoli coste sicanie ove d'un amor beato, memore è il pianto d'Alfeo e Aretusa, nel condividere una fonte le cui acque celano dei loro cuori distanti virtù altresì segreti fra gl'alvéi del Peloponneso. Ma nero lo scoglio, di Chelide presto saluta l'approdo finanche i muscoli contratti di Laocoonte, oh eterna e gloriosa polena, poiché, adesso, solamente sabbia e salsedine nutrono di quella bocca cheta, l'inatteso digiuno. IL LAMENTO DI ORFEO Di Euridice, l'illusione più non s'attarda tra le nere e oscure fosse al di là dell'Ade altresì obliata foce d'Averno profondo, poiché della mite Valle di Tempe, regina, tu fosti un tempo, in un dì non molto tardo nell'esser stata più volte sì cieca e stolta a non osservare tra i tuoi celeri passi la morsa e le fauci di un vile serpente, o ancor più di Aristeo lo sguardo feroce cieco pastore, del dono di Eros digiuno; Condanni me, per infausta sorte avversa, nel criticare un amore ch'io in eterno provo per una luce fioca, dispersa tra i primi raggi del sole, quali tetre e livide ombre grigie, paghe dell'attonito silenzio di una loro sorella maggiore che la vita quasi sempre oltraggia tra i nembi e i fasci di luminosa speranza. Altro non può che dannarsi, codesto cantore di tutti gli dei sempiterni avversi, e forse ancora come uomo, al di sopra dello stesso satiro Marsia, il cui vello è ancor più dimentico per diletta sorte e non ultimo, mi tacci il cielo, del divin Musagete, delle ninfe sommo patrono e di muse alate reo olimpio. ! DODEKADROMOS Tardo, suo aggioga il sereno drappeggio l'auriga valente, oltre una meta lontana d'acuto terrore ancor più d'ammansita gloria, ogniqualvolta, sciolte le briglie, all'aere dona sudore, polvere e tenera sabbia altresì morsa tra i docili ed indomiti spalti di un ippodromo ove funesti, gli spiriti maligni tutti avvelenano di Mirtilo, nobile automedonte, l'eredità crudele. Tarassippo, dei cavalli più che temibile orrore, egli è invocato tra lodi e canti di poeti agonali perché la propria terra mai si volga e si desti nel lasciare impuniti coloro che aspra contesa ad Enomao mossero per man della propria figlia. Ora, circonfuso dall'onda, il temibile scoglio con dodici giri avvinto altresì di bava circuìto dai prodi ippocampi nella sua più tetra tempesta al pari di spumeggianti creste di nero corallo, benevolo, scuote le placide membra e la veglia dei cavalli spartani finanche provati nel corpo e nell'amor di patria, tra fiere lusinghe ed elogi di coloro che il non oblio, sì a lungo venerano con auree parole e casti doni di muse eliconie, perché di ogni singolo atleta, lento si sfami il glorioso digiuno tra i fasti di un complice serto d'olivo, di apio forse ancor di mirto più audace. Con me non si accanisca allora, il divo Castore, di tempeste superbo paciere, a volte più vorace nell'innalzar tra polverosi turbini e pietre rosse i timori di ogni città greca, quando sul podio il proprio campione o alcuna bestia s'azzoppa, perché più nero ancora, il vessillo di una gara al di sopra si erge del garrese del fulvo Areion d'Heracles cavalcatura fidata altresì compagno di guerra, o di Xanto, devota guida d'Achille. Contratto è il muscolo e la mandibola possente del cavallo di Pelopion, dal vittorioso passato, quando la meta da vicino agogna come un dio greco, geloso e d'invidia ricolmo, contro ciò che ogni mortale, nemico eterno, reo possiede più d'ogni altra cosa splenda sulle alte cime. Contratta è la redine che lungamente avesti da Poseidon, di tutti gl'olimpi fiero scuotitor di terre e di rivi tra i bianchi recinti di Teti; così, a lungo del dio del mare l'ira non si placa tra piedi di bronzo ed auree criniere, più folte, dei propri destrieri, quando all'onda sussurra di ogni creatura marina il concitato passo. E a tal richiamo come alito di oscura tenebra emerge e s'innalza lungo quei campi ossidati dall'odor di arrugginiti scudi e solide lance, lo spirito di Seio, alquanto temibile creatura di mole mai udita, con incedere fiero e truce, e manto purpureo altresì splendida criniera, nel morder ferace dell'eroe imbelle i fianchi. Sotto gli sferzanti colpi di un morso ben reso, dapprima, levasi la cinghia da sotto il carro finché della propria ruota il distacco fugace presto, s'insinui e si elevi tra i solchi della terra come aratro avvinto allo sguardo di un'aquila, perché mai di Gordia, il nodo sempre stretto si disciolga attraverso profezie ed illusioni nell’acclamare l’atleta, re per un solo giorno. Per un solo attimo, il muso al dolore si torce e quantunque lo zoccolo, adusto s'infiammi nel doppiare una meta che il volo non assicura con chiara tenacia a chi le ali troppo innalza come Icaro sperduto tra gl'ampi fasci radiosi di una gloria a lui sempiterna convulsa, così con grande coraggio, tra mito e leggenda, al pari di Antiloco, e di Nestore suo padre, maneggia l'esperto auriga i suoi tre campioni nell'aggirar l'ultima sponda di codesto fiume in piena, nel ricordo di Crisopelea arcade. Ma, al volgere di un ultimo stadio equestre ove limpido si disvela il fato avverso, alla sinistra del carro, bifida la verga furente presto s'abbatte sul dorso reclino come saetta del cavallo udendo i sordi scalpitii e muti nitriti, mentre al vallo, il fuoco di un'olimpica vittoria erutta e fluido s'incendia come fiume fluendo nelle fosse del buio Tartaro, ciclico nel ravvivar dei morti l'insperato ritorno a quella luce fioca che i cantori all'ombra, come Orfeo condanna; Del resto, al solenne atleta più nulla è dovuto quand'egli sul campo di guerra per sempre giace disteso, con il cimiero da un fil di lama trafitto, poiché dopo la caduta, ineluttabile s'appresta il sole a sparir dal volto di colui che l’eccessiva vergogna consuma tra i fantasmi di una vile sconfitta. " # $ % &' ( ODE FEBEA Scende dalla corona di mirto e apio il crine della cipride Afrodite, mentr'ella di un nudo alloro le olimpiche fronde acquieta. Allora ad innevar nuovamente l'ombra di un rifiuto, la luce dirompe, ed ancor della pallida tela notturna si cinge la chioma, finché negando nell'oblio di un volto nascosto le nude sembianze, cede l'antica memoria che il cuor di un Olimpio come lancia trafigge. Tale estasi di odi e di carmi dispersero i Cronidi al mare, volgendo all'Erebo di Eros l'ultimo riflesso, cosicché mai volgesse alla terra, di Peneo la figlia, un solo guardo. Ratto è il cuore di una mortale agreste, la cui nomea, di Persefone ne porta l'ombra, allor di Morfeo le ali, tra le più belle per grandezza e ricamo, si chiudono a dar di rimando una leggiadra forma di cromatico respiro. Cala il sonno, mentre si desta delle ninfe sopite la voluttà febea a condur lungo le vie di Eros, le tinte lacrime di un giovane scultore. Come da un bosco olimpio un respiro si solleva, e di me d'amor cantore, la lode si prende gioco, sino a sfinir di quell'esile arbusto che di un dio le cure mai conobbe, le foglie più alte e l'ardor di Saffo. (Dalla Pergamena S2; stesura per il secondo classificato - Sezione Scultura - Mostra-Concorso Internazionale "L' Echange", organizzata dal Salone Internazionale di Parigi, Galleria BSMD la Découverte di Parigi e il Centre Multiculturel "Nicola Vella") ) *# + COSÌ DI EBE RADIOSA… Fulgidi il manto ed il vello, oltretomba dimessi, con far di chi semplice estingue della città d'Olimpia la fiamma ed il trionfo sul tripode sacro della pizia veggente, si logorano adesso tra le attente morse di colei che per metà, zefiro ancor seduce quando tetra la Notte, di Erebo incontra lo sviato cammino di stelle al tramonto. Tu, oh gelida Persefone, creatura eterea dell'oltremondo figlia altresì mite compagna, accogli di codesto satiro canuto e danzante il nodo stretto alla gola, nel solitario pianger di due soli amanti, il tanto atteso perdono. Così di Ebe radiosa, molto in alto si leva la docile mano, e ancor più non si posa sulla fronte di Euridice, ora lieve estinta, perché nel ricordo di quel reo Ganimede che tuttora la sua grande gioia incatena nelle piangenti vesti della propria madre Era, niente più ad un comune mortale o semidio è permesso, se non della giovinezza il triste ricordo, naufrago tra le redini del nulla. , INVOCAZIONE AD ANDROMEDA Avvinta fra convulse redini e docili catene di Cefeo e Cassiopea figlia, colei che porta ancora i segni di una bellezza al di sopra ordita delle stesse figlie di Poseidon altresì Teti appena lieve trainata dai possenti ippocampi, aggioga al tamburo di Cibele il proprio senno perché ora s'eterni quel tanto atteso dolore ch'ella condannò a mirar due volte e ancor più gl'indomiti scogli e le profondità del mare. Oh tu, casta e servile Andromeda, che scaldi finanche i cuori e i muscoli d'aurigena prole, così da infondere in tutti quanti sempiterna gloria al pari di colui che bionde frecce d'argento scuote lungo i sentieri alati, sviati al tramonto, quando del suo carro adagia stanco le ruote proprio tra i seni e il manto di sua sorella Eos, deponi il peplo della tua sprovveduta saggezza sopra gl'altari di Pallade Atena, affinché alleviata sia la dura colpa lungamente trafitta dagli Dei avversi, di un non lontano e prossimo mare ostile. Che mi tacci il cielo se io lasci fluire come onda quieta, tra i cerchi dispersa di una limpida fonte, al cospetto di ninfe boscose, il tuo vile coraggio, senza che per poco ne offuschi gl'immutati riflessi. Del resto, chi può della temibile Medusa il capo divellere oltremodo ergere a trofeo se non le mani di Perseo argivo, figlio di Zeus e di Danae secreta. $ IL CANTO DELLE MUSE ELEGIACA FORMA Dalla divina e sempiterna foggia di colei che il vanto accerchia, tenue si posa, la piega del peplo d’argento finché solamente vien carpita la forma di quella duttile materia che nei miei pensieri confondo. Di languida beltà l’aria circostante e i miei sogni sono pregni, ancor più di codesta armonia dei sensi, che dal solenne magdis tetracorde vien diffusa come mite alveare di api percosse: un’acustica evanescenza che vita ed energia infonde a qualsiasi essere o vegetale che esista nella valle del Parnaso, ove ogni cosa animata e inanimata ella ristora. In un contesto di magia e gravido incantamento, si svolge il corso della loro vita alla base della pietra fluente: partorite dal canto della luna, han vegliato per millenni sui regni di bianca ambrosia. Alta e snella, dalle forme sinuose, il suo corpo di olimpica fattura, sfiorato dalla luce lunare di colei che Egle il nome offusca, si erge agl’occhi di una ninfa agreste come lattiginoso nettare che nei fiumi di Olimpia scorre, degl’immortali una fertile foresta la cui chioma la natura adombra. Il viso, schivo e delicato appare, dolce nelle sue candide forme; le guance carnose e tonde, con la loro presunzione e d’impurità assenti, alle asperità lunari si elevano in cielo risembrar facendo la singola stella un effimero astro. I suoi occhi, verdi, come grani sabbiosi che dal piano elementale dell’Acqua al nudo scoglio, leggiadri si riversano, da due pupille verticali son traversati, naufragando, chete, in questo regno mortale. Le cetre, simili per forma alle albine felci della foresta che il fiume di notte lambisce, si arcuano in danza ipnotica e cadenzata, giù lungo le spalle cadendo come manto olimpio che la sua nobiltà d’animo attesta…. Ora si dimenano, ora si agitano con parsimonia ma un unico movimento che con soave canto di Selene la luna, accompagna. Le ali, tra le più belle per grandezza e ricamo, di una farfalla a simil cospetto, sono forate per dar di rimando una leggiadra fuga di altero vanto. All’interno dei gazebi corinzi, le ninfe danzanti, delle Muse eliconie serve ed ancelle aptere, stridono con atempore frequenza il voluttuoso gorgheggio per cui tanto obliano l’umano senno. Ad ogni nota emessa, un petalo vien rigenerato. Emette un flebile suono ed alcuni boccioli davanti la sua ibrida figura sbocciano, teneri e dolci. Su se stessa ripiegata, in ginocchio, all’interno della sontuosa cerchia, la triste e crepuscolare nenia inizia ad intonare: i corsi fluviali d’ambrato nettare son enfi, dalla loro sagoma evanescente gli alberi germogliano e gl’insetti i fiori popolano come orgia di baccanti in festa. Oh sì, com’è ipnotica ascoltarla di notte mentre soave un canto nel Parnaso aleggia, Colei che canta è la Calliope Musa, dalla bella voce, prima fra tutte le sorelle. E come per la Valle della Luna, il suo canto la circostante “natura” mantiene in vita e ristora. Vengono i fiori ogni notte, cullati, i rami spezzati adesso ricostruiti, le strutture cambiate a suo piacimento nelle forme e nei colori di cromatico diletto, condanna crudele e conoscenza infausta, le tue dolenti note sovvengono adesso, in quest’idillio, per lasciarmi solo satiro cantore, in un’angoscia, a me nota! , INVOCAZIONE AD ARIANNA Di una spuma albina, lo sperduto riflesso adagia i propri gonfi e turgidi seni sul ligneo bordo di una vela egea, poiché tale isola in Nasso, altresì celeste Dia, al quale diede Teseo l’ingiusto abbandono, adesso ai miei stanchi occhi mai più s’innalzi come possente colonna di Poseidon tritone. Scolpito tra cerulee e frastagliate onde s’ode di Ariagne luminosa, il puro lamento che con impeto di strale e vigor di tempesta le Cicladi avvince ed ancor più maledice col consenso di Afrodite, in stretta alleanza. Perpetuo tra i flutti del Mar Egeo, s’annida il suo nome come rete di pescatore errante, in fondo a quell’oceano la cui oscurità e parsimonia altresì consola di Urano il nebbioso indugio su chi degli déi olimpi possa levar come attenta nutrice il peso di un semplice sasso. Così gonfia le tele il trenodico pianto di colei che in Fedra ebbe sua simil progenie, e ancora a solcar d’indocili flutti le spume nervose la scia della nave, trapassa lo spazio marino con bianche lance dalla punta vermiglia e scudi scossi all’imperversar di un cambio di rotta, finché di un grido la quiete non s’assesti tra le placide membra di un satiro errabondo. ( PROEMIO Sbalzate le placche di un corpo di bronzo la quiete ed il lutto mai ritrovino in un campo di guerra, in toni di bianco e di grigio; Ne ricerco selvaggia la mélode nenia oltre i chiari di luna, quando di Endymion, sopito mortale, colse Selene albina il soffio notturno. Così d’una donna in cui alberga d’Athena Promachos, lo spirto guerriero, s’infiammi la panoplia morente. LA REGINA AMAZZONE Di elmi danzanti dalle tinte livree e di affilate torsioni dalla lama fugace, io canto, con la punta delle lance al terreno confitte, mentre la spada morir non può tra la feroce e tenace presa di un uomo che il destino maneggia al pari della propria arma, poiché delle lingue bronzee, i vermigli diademi, digiuni, alimenta. Così della loro non abusata virtù, ma più stringano un cuore di tenebra per destar dell’ombra di quell’Abisso, il male, che nel mio animo di aedo, lento, s’incarna. Cade verso il mattino, agile e senza vita la convulsa pioggia dalla clamide purpurea, ed ora sferza le vacue scintille come fiotti di sangue, e ancora, di ogni vessillo il moto non s’arresta come piega di seta, dai colpi del fertile vento smossa finché algida e sepolta la falange dinanzi le porte non si consuma, al nemico mostrando le lance imbrunite. Sibilano le aste, al di sopra della testa inerme per ferir di quelle orbite le cieche scaglie; e tacciano del proprio spirto le croste rapprese, così ruggendo da codesto ellenico tempio del popolo di Micene le venefiche colpe. Adombrano, sol taciuta adesso, dei cadaveri la lenta agonia, come d’un istmico atleta, poiché sofferta e d’amor beata è la prova mortale di lenire qualsivoglia forma di tanto atteso dolore: linfa or terrena che dei fiotti di nettare d’ambrosia, laute e copiose, ancor sussunte le danze saturnie di quelle muse guerriere, presto, fomenta. Per diritto di nascita, un sol vincitore impera, della nomea d’Achille, poiché come tiranno su quei corpi morti mantenne insonne ogni tua supplicata volontà di rimanere sveglia, Oh, Pentesilea! E adesso, Temiscira dal trono fluente osserva con delizia di vanità femminile del proprio popolo, la mitica assenza di una gloria che mai conobbe il giogo maschile. Così un fil di lama, presto, saetta della regina Ippolita, dal cinto ingiurioso, poiché Eracle mai sfinisca tra le terse spume di una fatica olimpia l’agone ancor più obliato dalla vittoria iraconda. Brandita è l’arma e lo scudo scosso tra i primi fior che un soldato non colse in un campo di vile e decaduta guerra; così scende e s’aggitta la lama al di sopra della spalla solenne, ove di ruggine e di sangue stilla la fremente ferita. Il fuoco ancora a ricucir non volle di codesta armatura, il tessuto appena morso, poiché immortale ma ancor più olimpio in corpo, d’Achille è il grido da implorar dei Cronidi Monti, l’atteso destino. Morsa è altresì la silente corda come acheo il cuore avvinto alla nuda pietra morente d’una città che la disfatta conobbe forse per sorte contraria; ancor più trenodica la speme, adesso soggiace nelle mani di colui che l’antico retaggio abbandonò come ultima sponda, poiché così il valor dell’umana sofferenza mai graffi di quelle mura il sacrificio mortale. $ - MORTE DI UNA NINFA Brulicano i bianchi germogli tra siepi di cinerea e dimentica solitudine riflessa in una grande quercia secolare; così, con note sideree e cromie albine carezza di una Ninfa agreste il puro volto, poiché, vermiglia la linfa presto abbandona di ogni creatura eterna, l'atteso rifugio. Screziato, ogni suo crine, adesso posa del proprio idilliaco male l'avida linfa sul fiero corpo e glabro addome di colei che molteplici ere, ignara, avversa. Così, ogni qualvolta un lamento sgorga dalle fitte radici ed aurei frutti stellati finanche avvinti all'antico nome di un fauno suo guardiano e mite pastore arcadico, altresì scosso è dell’albero il grigio tronco da un ricordo la cui gloriosa cadenza più non s’arresta tra foglie dimentiche del tempo in cui gl’aedi, di quel paradiso dimoravan fertili terre e laghi fluviali; tra montagne ostili e gelidi ghiacci, adesso, di Eleos, lo sguardo lungamente trafigge di ogni bestia selvatica lo spirito imbelle, affinché divenga, tale chioma un porto sicuro e ciclica tomba, ove il proprio alito ancor più si libra in volo, e per sempre tace. MORTE DI UNA NINFA SECONDA PARTE Tra i fluidi rivi di grigio smeraldo lento, si torce un digiuno diadema nel veder della creatura immortale la propria fine e nell'oblio il lutto; Al di sotto delle sue gote d'ebano tra la chiara e pallida luna di Egle con ciglia di fronde e dura corteccia scivola via una folta e mite lacrima, come viva rugiada in un reo giorno di gelido Inverno, del colore fosco di bruma fluente altresì plumbea. Di codesto ninnolo, tra le mie mani osservo il suo ammaliante potere forgiato e ancor più compiaciuto da quella razza che per simile fato ebbe dell'eterno imperitura nomea; ninfale discendenza e arcana natura legate tutte al più intimo intreccio con una semplice creatura silvestre. Cosmos, lo lodano tutti gli déi accresciuto dal trenodico pianto di una ninfa, mentre io, lì osservo di una sempiterna creatura eterea il cammino verso l'oblio più tetro. Così, ivi stridono le arterie e l'aura che ora promana dalle sue creste fluenti, come livrea altresì smossa dal caldo e libero alito di Borea; nessuna pace né refrigerio alcuno per tale incandescenza che mai s'arresta, impetuosa, tra i sottili strati di vetro del suo puro nucleo di accecante luce e buio digiuno; tale è il potere di codesta pietra in cui s'agita della ninfa ogni secreto che stringo con le mie stesse mani, lucente dai lembi e fregi agresti al pari di mantelli dai bei ricami, poiché nell'avvilupparne il corpo lo spirito d'ogni driade, sì presto, come volto innanzi s'acquieta ad un camino solingo e spento. Essa, vivida luce, più non irradia; esausto e morente sull'umida erba morde l'aria e gli zoccoli affonda nella terra, il sommo dono d'Artemis, i cui timidi venti sussurrano ancora il suo nome nell'effigie di Seiphoros indomito signore di tutti i cavalli istoriato da un lucido vello albino, e prossimo ad una morte funesta che a tal luogo pace non feconda, poiché esso, per natura, della Terra è dei mistici Guardiani, l'unico e solo. Scuote, adesso, il suo nitrito acuto il cuore e l'anima impetuosa di colei che lo cavalca ma ancor più di chi lo doma e finanche lo brama al pari di tutti quegl'interminabili e fulgidi doni divini, giacenti distesi sulle foglie di una fitta foresta che mai conobbe della mortalità umana ogni singolo ed immoto cenno o pausa che sia, come paura che nasce nel veder perire altresì risorgere un’anima rea tra tendinee lingue di rosso corallo. ( , IL RITORNO DEL GRANDE DIO ARCADE Così, tra fecondi prati, protervo e stanco, dagli scoscesi monti arcadi ridiscende colui che del mezzo dì favella ai pastori raminghi dai bianchi velli e doni spontanei; altrettanto tra segreti antri e roride fontane, ove attende ad esser cacciata una ninfa nel pieno diletto dei propri istinti procaci, i notturni tramonti, sempiterno, effonde. Con naso camuso e dimesse appendici, la verde Arcadia condanni tua unica patria ma reo abbandoni di un antro l'insonne rifugio nel consacrar, a lungo, di un ritroso canneto il non voluto amore di nome Siringa. Ebbro di fulgida cromia, ad Egle, la ninfa, un dono disiasti, e ora con frutti di bosco, eterno ozio risvegli nelle fulgide belve. Alla volontà del pitico Apollo, ora si piega del legno il suono stridente che d'ogni naiade incantata le voluttà olimpie nude fomenta al pari d'una limpida fonte appena smossa dalla dura pietra di chi la quiete scorda e disillude tra pieghe di fluida iridescenza. Fugge e altresì si rintana come preda ferita, la nota stonata quando in una caccia corale del segugio, il proprio istinto, presto scova: osservando come empi mastini i teneri amanti e le fuggevoli note di una citerea greca mentre predan del loro plauso il ninfale trionfo. Allorché di Egipan argenteo, grande dio arcade d'un tempo, risorga l'antica memoria nel prender con forza, tra gli déi tutti, l'usurpato trono, perché del padre Ermete ancora s'accenda il rimorso nell'aver ceduto all'odio, il proprio figlio. . *# GANIMEDE E L'ODIO DI EBE Tra i rubicondi fasci di un kantaros eleo appena smosso, di Ganimede, tetro riluce il volto, nel timido pensiero di una gioventù rapita, la cui disfatta il proprio reo silenzio, ora asserve alle auree foglie d'una feconda e paterna vite, altresì di Zeus incauto dono. Mesce di quel nettare adagiato sul fondo di una coppa, al re degli déi più non dedita gl'ultimi resti, con far di chi la cieca rotta al tramonto disperde tra i manti purpurei, poiché Ebe, invidiosa, per virtù contraria ai propri antichi precetti di servile ancella, adesso confina del giovane figlio di Calliroe ogni vana speranza e serena grandezza. Così, con serafico e quieto odio nel cuore, chi può al pari del leggiadro figlio di Dedalo il cui senno or sublima tra nuvole impervie, e di Nemesi, divinità dalle ombre profonde, che di un cronide rifiuta il tenero abbraccio, arrestar di quell'olimpio le accanite invidie? Solo nello sguardo di un'aquila, la sua grazia ancor più si redime, poiché “il più bello di tutti mortali” lo lodano con comune plauso nell'attesa che di un giovane nume iracondo s'acquieti quel tinto disonor dell’umana mente che trafigge d’ogni animo le sensibili corde. , ( Opera Scultorea Artista Testo associato Laocoonte Atanadoro, Polidoro, Agesandro Il Silenzio di Laocoonte Nettuno e Tritone Gian Lorenzo Bernini La Tempesta Euridice Antonio Canova Il Lamento di Orfeo Testa di Cavallo Fidia Dodekadromos Apollo e Dafne Gian Lorenzo Bernini Ode Febea Ebe Antonio Canova Così di Ebe radiosa… Andromeda Pierre Etienne Monnot Andromeda (Invocazione) Tersicore Antonio Canova Il Canto delle Muse Arianna - Arianna (Invocazione) Amazzone ferita Fidia La regina amazzone Venere Italica Antonio Canova Morte di una Ninfa Satiro Danzante Prassitele (?) Il grande Dio Arcade Ganimede Benvenuto Cellini Ganimede e l’odio di Ebe 1 I testi presenti in quest’opera provengono dall’opera inedita Satyros, fatta eccezione per Ode Febea.