Shéhérazade Shéhérazade
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Shéhérazade Grigie Ceneri – Memorie da un antico serraglio Di Fabrizio Corselli Shéhérazade Grigie Ceneri – Memorie da un antico serraglio A cura di Fabrizio Corselli “Il poeta opera come un pittore su di una tela carnale, in cui ogni linea, ogni curva ed elemento del corpo rievoca espressivamente il movimento che l’ha generata; il corpo è materia viva, linfatica, preposta all’accrescimento e allo sviluppo di una struttura adulta in rapporto alle proprie passioni, seppur fuggevoli nel loro vissuto ma intense… uno stimolo alla creazione, poiché la parola è ormone della crescita e la poesia ne rappresenta l’intimo processo metabolico col quale si trasforma una fanciulla in donna, e una donna in adultera, drenando a poco a poco tra i propri tessuti compositivi quella soluzione salina e amara che individua la maliziosa volontà di colui che scrive”. (da “Sublimis – Apologia dell’Estasi”) Opera non ai fini di lucro Le immagini sono di Jean Leon Gérome Copyright © Grigie Ceneri Epigrafe poetica Ogniqualvolta vibratile stride la mia carne al di sotto delle sue avvenenti cosce, esso riemerge dalle grigie ceneri di un amore non corrisposto, come un uccello di fuoco che della propria livrea ostenta le piume infuocate nel soffregare di ogni carezza e ruvida lascivia, le fiammeggianti passioni d'un tempo ardite, poiché la sua testa vermiglia adesso tutta ingoio lungo ombrosi squarci di una vita passata. Nella stanza dello Scirocco Nel periodo del tulipano, tutto intero il mio corpo ad ogni dolce nota emessa con flautata volta, danza e s'aggira quieto tra le stanze di un harem a me adesso ignoto, ove quella dignità di donna lenta si consuma, con tardivo passo al pari di un granello avvinto fra gl’emisferi d’una clessidra. Un piede dopo l'altro e una pallida carezza lungo il tuo vello bruno di servile eunuco, mentre attonito osservi delle mie rosee falangi lieve, ogni velo che denuda di tal movenza i desideri più oscuri altresì di voluttuosa libido. Servo, tu sei d'ogni mio semplice capriccio, illuso, e ancor più adulato dal fuoco della mia passione come alito di scirocco quando spira profondo e caldo tra i mosaici di codesto palazzo, in fattezze di gelida prigione. Sudo, e nel mentre agogno una libertà distante che all'odalisca esiliata più non è concessa, se non tra turchesi promesse e opulenti diademi, strappata dalla propria terra natia, ancora in fasce perché di un sultano ogni parola divenga legge; ma nel mio animo, ogni segreto o mistero che sia, rinchiuso in tale roccaforte dai tremuli orizzonti appena filtrati da stretti e soffocanti nidi di rondine e ancora profumi d'incenso, cosi esotici da incantar ogni creatura che della donna ambisca il suo nudo premio, ogni sera, quel vaso tu porti fra palpebre chiuse saturo del bianco veleno di un giovane amante, sconosciuto ai miei occhi, ancor più al mio cuore, cosicché io ne trangugi le profonde tinte amare, immune divenendo ad ogni suo lubrico artiglio. Ogni notte, tra i fumi dell’oppio e la cinica presa di quel bianco unguento, finalmente si consumi di ogni mio giro di danza, la forma ora estinta di ciò che io fui, un tempo, per diritto di nascita. Lubrica Rugiada Del tuo lacero imene, fin sopra le viscere sospingo con forza e con lode i tenui singulti poiché così sempre laido e crudele, il poeta, ogni tua emozione di pudico tormento deflora e disfa al pari di una folta ragnatela della stessa prolifica furia, divelta altresì ordita da colui che ingenuamente il proprio sesso invischia e sì cruento, condanna al giogo di ebbro nettare, colto con quello stesso calice di sangue che della tua verginità colse il muto assenso. Due e più dita, io caccio tra le tue umide labbra ancora tumefatte dalla mia verga furente, come rivoli di presta e sottile rugiada quando illude al mattino il petalo già smosso nell’accoglier del gelo la pungente morsa. Ne stacco uno solo da quel fiore violato appena, nel vedere appassire il tuo gambo ritorto, mentre chino si piega nudo e molle tra le possenti colonne del mio empio digiuno. Adesso, quella tua bocca livida e gonfia di adùltera spuma, infranta tra tenui scogli rosa e consunta nel recider tra i denti un lembo di carne, eiacula la lubrica rugiada come neve disciolta sulle inique radici sparse di dissoluto oratore. Così estorce, interminabile il pallido nettare tra i rivi sciolto d’un amore infedele, e l'orgoglio nel diradar di albini affluenti i molteplici dubbi; attende che lungo cascate d’inoculato silenzio, come amaro fiele intinto, fili di lascivi ricordi colino in tante piccole celle d’api operose, irrorate dalla calda cera di ogni fuco, lì presente. Del resto, di quel miele tanto dolce, il mio organo ancora si nutre con spasmi di vorace regina, affinché ogni tenero amante la propria operosità spossi tra seriche pareti di siffatta prigionia. Elogio dell’Estasi Mesci di quel mestruo come vino decantato sul fondo di un cratere greco, vischioso ed umido, i fluorescenti miasmi del colore del rubino, poiché così, negl'occhi tristi di un giovane efebo mai più si stemperi il focoso ardore della tua malizia; nel sincero sguardo riflesso di quel povero schiavo germina e attecchisce il seme di colui che libero pur sempre agogna della virtù soprusa la lieta pausa; fermenta ancor più di quella passione, il virginale fiotto sulle pareti di ebbra e prospera polpa ingorda cosicché ne raccolga finanche con la mia timida coppa dai lunghi manici purpurei e di rosato pallore, ogni frigida scheggia consunta, rimasta sul fondo. Vanno via, le croste rapprese, senza alcun pudore, tingendo di maculato rosso le tue timide ed enfie gote adesso vuote altresì paghe dell’oppio di Samarcanda. Fluiscono come vino diluito su quegli altari di pietra gl'ardori pagani e le danzanti lascivie, ora attorniate tra fluide verghe al di sopra dei nudi corpi ansimanti, per suggellar del mio orgoglio le vanità informi. Una volta per tutte, fa che io come il dio dell'Estasi tiranno di tutti gl'istinti e piaceri altrettanto più smodati, il tirso configga distorto tra le tue cosce in deliquio ferace. Del resto, tu, oh menade assisa su di un profuso piedistallo quale marmorea cinta contesa da fauni e satiri procaci, dolcemente arranchi ogni singola stilla di voluttuosa libido, ogniqualvolta il mio turgido e nutrito membro maschile, di quella eiaculatoria cupidigia alacramente soddisfa ogni secreto, celante pudiche minuzie e muti riverberi. La danza del ventre Ratto è il sonaglio al di là del morbido ventre fra convulse e indocili redini di un antico serraglio, la cui prigionia finanche infiamma lo scuro volto di colei che il cuore di pietra e di oro un peplo presto, libera dal giogo d'un prepotente sultano. Scivola via la spezia orientale sul suo turgido seno, screziato come rosa maculata, la cui rea fragranza il proprio sudore miscela ad un laido veleno bianco. Culminano le tremule braccia sul bel fianco distorto e ancor più ritorte, ella celebra i suoi artigli di ninfa nello stregare d'ogni uomo le voluttà di porpora attraverso il disincanto di chi osserva al di sopra di uno stagno, l'illuso riflesso d'una beltà sfuggente. Si dimena l'addome tra spiragli di digiuni diademi e altrettanto le minuscole perle dal manto albino, schiuse come gocce di rugiada tra caldi petali rosa. Giù il velo, e fameliche osano le sue tumide labbra mentre, molesta, la lingua s'immola a una colonna di grigio alabastro, il cui fremito, ogni giro di danza s'adopra nell'estirpar dall'antro saraceno, la serpe che infetta, si torce e si stringe al suo gravido collo. Muta adesso il respiro e finanche la sua anima inerte tra archi contorti e volteggi d'intempestiva lusinga ove incubi, affanni e chimere altrettanto pericolose, celeri si sciolgono al passar d'un granello di sabbia. Come impaurito e scosso da tanta lubrica ribellione si quieta l'ombelico al suono di un gong, e riprende il volto, perché tra oppio e unguenti di Samarcanda solo adesso, si liberi dell'aureo canto di un'odalisca non più serva, il soave gorgheggio, nell'arte padrona d'impietrir le altrui membra o gli sguardi incantati. Unico e semplice riscatto, concessole al pari di tigri ammaestrate, a lungo trattenute con docili catene; poiché nulla può il ruggito dell'ira, se non nutrire ora il silenzio di quella muta danza che tace entro le mura della propria esistenza, le paure più nascoste. Pensieri Carnali Le profonde larve del tuo livido sesso oramai scucito, e a piccoli tratti divelto con la stessa rabbia di chi patisce la fame in un giorno di compulsivo digiuno, di un angelo biondo, le cui nere piume in sé accolgono, con forza, l'alito del male altresì di bianco irrorate da quello sperma sul limite rappreso della tua dignità di donna, inondano il suo liscio e smunto vello di attiva ninfomane, quale tu risembri ogniqualvolta tra le tue madide cosce, di un paradiso artificiale si aprono i cancelli, oleati ed unti da quel liquido seminale che la donna nel proprio ventre cova con grande piacere, al pari di lubriche viscere dimentiche di ogni ritegno e vile pudore. Aggrappata la tua lingua sul bordo del letto ansima e singhiozza, ma ancor più le lacrime sul tuo nudo sterno asperse con getto caldo di chi la fucina delle intense passioni alimenta con ardori e carezze, con lascivie e penitenze, invoca ed ingoia al pari d'un longilineo strale di compiaciuta carne in un dì di tormentata tempesta, quando la marea i fiotti incalza affinché ne rimargini, la dura punta vermiglia, il torpore e la mente, il cuore e lo strumento d'amorosa arte, per di più saturo ed ebbro nel suo pieno fiorir d'eiaculatorio comporre; cosicché, io sola, amante e di verghe vorace rigurgiti di quel seme le voluttà nascoste, nell'ombra adagiate di un corpo a me naufrago. Del resto, tra le mie mani tesso ancora di quel filo albino, la trama sottile, in ogni sua maglia disfatta, perché ne divenga, una volta per tutte, abile sarta. Incontro notturno Tra docili unguenti sparsi lungo il mio corpo nudo e di nettare assopito, ogni sua parte, sia essa il ventre, la bocca, altresì l'addome ancor più agogna di un uomo il fluido seme, poiché tale brama divenga del mio più intimo piacere, timida corolla tra rovi e spine sfiorita. Né un illusorio amore greco o ignobile eunuco qui, a tenermi compagnia, in codesto harem, finanche scaldato dal timido disgusto di un amante, poiché cieco, osservi scendere sotto il mento il mio dito procace, quando lungamente attonito del pago silenzio di un interminabile desiderio, sfami di quel turgido muscolo i concitati spasmi. Ma adesso tra incensi e raffinate spezie orientali scuote una robusta mano le mie labbra tumide, avvinte a quei morbidi e voraci cuscini di seta, ove fiotti di linfa vermiglia, s'agitano e scorrono prosperi nell'attesa di un imminente arresto. Avvince prima il collo e poi la schiena distorta pronta a ricevere di quell'olio santo ogni goccia che s'ingrossa nel tempo, a inondar come flutti ogni tremulo anfratto della mia esistenza. Ne sono pregna e assisa come una rea schiava aggiogata al palo di legno, il cui sangue zampilla e s'innalza glorioso ad ogni colpo di umida verga. E così, ivi pianta una volta per tutte, nel cuore il mio notturno carnefice, una rosa dai neri petali, dell'oblio sposa altresì regina, perché me sola possa di quel gambo dissetarne le amorose radici. Maschera di Cera Tolgo da quel mio pallido viso una maschera di cera di albina impudicizia altresì tiepida e violenta nel suo lento incedere tra palpebre appena ricucite e strette da un sottile filo d’ingenua innocenza; Adulta sono io, adesso, coi capelli incatramati ancora da quello stesso male rappreso tra le anse più oscure del proprio corpo, laddove il piacere multiformi dedali dissotterra ed ingrossa al pari di lubrici alvei dagl’impetuosi ed irruenti fasci. Per me non c’è alcuna redenzione o ingiusta colpa adesso, nel provare vergogna per ciò che ho fatto ingoiando una sola goccia di quel virile flagello che scossa mi trattiene a lungo come rea in croce. Del resto, del titolo d'insulsa meretrice ancora fregia la mia carne tremula altresì convulsa quel rivolo di sangue, asperso con frenetico e gravido assenso, poiché schiava, me regge, come lontana esiliata entro i confini di un letto, costipato e freddo come la brezza d'autunno che le foglie scuote al loro ingiallire in un giorno di cinerea pioggia, quando osservo te raccogliere, oh tenero amante, di quell'insensibile scia di ardita passione, il maturo coagulo. La danza del serpente Morte di un'odalisca Si dimena d'una serpe orientale la bifida lingua fra arti oltraggiati con staffili crudeli e laide verghe in un harem, la cui tetra prigionia, sempre più i sensi soddisfa e oltremodo nutre di un'amante ora devota al proprio desiderio di cambiar le vestigia servili. Stretta a quel collo morente è la morsa che di tal viso non più offende altresì corrompe lo sguardo nemico col veleno di chi i denti serra innanzi al crudo pasto, poiché un solo assaggio di quel piacere violato appena presto ridona d'ogni passione, l'indomito appetito. Così, lubrico discende il sibilante e viscido ofidio di una coscia e dell'altra ancora, i profondi declivi per poi affilarne sulla pelle, digiune, le strette mortali. Si contraggono i muscoli e finanche il cuore ardente di colei che anela d'ogni serraglio il sogno proibito tra spasmi voraci e pause di concupita agonia; del resto, solo morte v'è come infausto dono nel rifiutare d'ogni tirannia quelle poche tracce di schiavitù redenta che libera d'ogni danzatrice il vuoto della propria anima.