Segreto e pubblicità degli atti nel procedime

Transcript

Segreto e pubblicità degli atti nel procedime
Formazione decentrata Corte d’Appello di Milano
Incontro di studi sul tema:
“ Segreto e pubblicità degli atti nel procedimento penale e diritto alla riservatezza”
Milano, 18 aprile 2013
La divulgazione degli atti e diritto alla riservatezza nelle indagini e nel processo
(iscrizione nel registro delle notizia di reato, atti di indagine, intercettazioni
telefoniche provvedimenti cautelari , riti alternativi e disciplina della udienza)
relatore: dr.ssa Lia Sava ( Procuratore della Repubblica Aggiunto Tribunale di Caltanissetta)
1. Il complesso rapporto fra i vari profili normativi in tema di segreto.
La complessità degli argomenti implica che questo mio intervento non può ( e non
vuole) avere alcuna pretesa di completezza. Ed anticipo che molte delle questioni che
affronterò costituiscono (proprio perché prive di soluzioni interpretative unitarie)
solo lo spunto per ulteriori riflessioni, magari in sede di dibattito.
Peraltro, si tratta di considerazioni che già da alcuni anni mi impegnano ed, a tale
proposito, mi pare importante evidenziare in premessa che la presente relazione
prende le mosse da
un precedente elaborato
da me redatto, quale relatore
dell’incontro di studi nr. 1974 organizzato dal CSM qualche anno fa, nel corso del
quale affrontavo alcune delle questioni delle quali discuteremo oggi.
Pertanto,
richiamerò di seguito, per quanto di interesse, anche alcuni passaggi del mio
pregresso scritto, integrandoli con le ulteriori tematiche oggetto della relazione
odierna che cercherà privilegiare, tenendo conto dell’obiettivo del corso, l’esame
delle questioni generali ed i problemi applicativi in materia, cercando di valorizzare
gli aspetti pratici delle delicate fattispecie sottoposte al nostro esame.
1
********************************
La tematica in oggetto deve essere analizzata tenendosi conto della molteplicità dei
piani di lettura ai quali essa si presta e che riflettono i diversi interessi, tutti
costituzionalmente garantiti, che entrano in gioco nelle diverse fasi (procedimentali
e processuali) che conducono all'accertamento della responsabilità penale.
Un dato è di immediata percezione: l'estrema delicatezza e la difficoltà del
bilanciamento che deve essere operato, nell'interesse della collettività nel suo
complesso, fra libertà di stampa (art. 21 Cost), il diritto di ognuno ad essere
considerato innocente fino a sentenza definitiva di condanna (art. 27 Cost), diritto
alla privacy - in senso lato ormai costituzionalmente protetto - e salvaguardia della
attività e delle funzioni istituzionali della magistratura
fin dal momento delle
indagini preliminari (artt. 101 - 110 Cost).
Il Legislatore, attraverso una serie di interventi normativi, il Consiglio Superiore
della Magistratura, attraverso diverse circolari e risoluzioni, la Corte Costituzionale,
attraverso alcuni significativi interventi, e la Corte di Cassazione, con diverse
pronunce, hanno ben delineato, nei rispettivi ambiti, già dagli anni ottanta, le corrette
linee di condotta che gli operatori del diritto e coloro che svolgono la professione
giornalistica devono seguire per salvaguardare gli interessi costituzionalmente
garantiti cui si è fatto sopra riferimento e che si attagliano, evidentemente,
complessivamente intesi, sia alla fase procedimentale che a quella processuale.
Proprio argomentando dalla significativa entità degli interventi che investono il
rapporto fra magistratura e stampa risulta evidente che trattasi, comunque, di
fattispecie che sottende a problemi che restano (a volte drammaticamente) irrisolti
nel quotidiano nostro vivere nelle aule di giustizia e, per quello che è la mia
esperienza, in maniera significativa, proprio nella fase delle indagini preliminari.
2
Invero, assistiamo (o meglio viviamo) una evidente contraddizione: spesso viene reso
pubblico ciò che, invece, deve rimanere segreto nell'interesse delle indagini, del
singolo indagato o di terzi comunque incappati nelle maglie delle investigazioni.
In generale, può affermarsi, dunque, che benché il sistema offra una serie di criteri
(alcuni cogenti: dalla cui violazione scaturiscono sanzioni penali o disciplinari ed altri
deontologici, cioè rispondenti all’etica professionale del magistrato e del giornalista)
da seguire nell’impostazione del complesso rapporto fra magistrati ed i mezzi di
comunicazione (e non solo in fase di indagini preliminari), i problemi, le storture e le
deviazioni pericolose di questo rapporto esistono e sembrano, nella prassi quotidiana,
ben lontani da trovare una soluzione. Specialmente in certe realtà giudiziarie. In
sostanza, la regola, non scritta, secondo la quale il magistrato dovrebbe “parlare nei
propri processi solo con provvedimenti,” negli ultimi venti anni e con l'avvento
progressivo della giustizia intesa anche come spettacolo, è stata via via trascurata fino
ai casi limite in cui appare dimenticata, specialmente dai pubblici ministeri che, per
primi, affrontano l'impatto fra vicenda criminale e conoscenza che della stessa deve
avere l'opinione pubblica.
Peraltro, proprio per le peculiarità della sua funzione, il Pubblico Ministero ha delle
potenzialità comunicative ben maggiori di quelle del giudice ma proprio per questo
motivo occorre essere particolarmente accorti! Invero, ogni intervento dell'organo
requirente, proprio nel delicato rapporto, a volte inevitabile, con gli organi di
informazione, deve essere improntato ai canoni dell'imparzialità e dell'equilibrio.
Nel prosieguo (e prima di entrare nel vivo degli aspetti problematici del rapporto fra
P.M. e mezzi d’informazione, in quella fase fisiologicamente coperta dal c.d. “segreto
investigativo”) appare opportuno fare cenno alle indicazioni normative e
giurisprudenziali che dovrebbero consentire (se esattamente applicate) di interpretare
correttamente i limiti del rapporto fra P.M. e mezzi d’informazione in fase di indagini
preliminari.
3
Nel vocabolario Zingarelli, alla voce “segreto”, troviamo differenti definizioni del
termine in oggetto, ed, a ben vedere, almeno due sembrano attagliarsi alla fase delle
indagini preliminari.
La prima fa riferimento al vincolo cui sono tenuti coloro (nel caso di specie il P.M. o
gli organi di P.G.) che,
preposti ad un ufficio (nel caso: ad una indagine), si
impegnano a non divulgare “notizie” apprese in ragione del loro incarico.
Ma il “segreto” è anche (leggo testualmente dal dizionario) “il mezzo, metodo
particolare per raggiungere determinati scopi, che viene tenuto nascosto agli altri o
divulgato solo a pochissimi”. Anche tale definizione si attaglia al segreto
investigativo che è, appunto, funzionale al raggiungimento di uno scopo ben preciso:
l’accertamento di un fatto e l’acquisizione di elementi di prova a carico (o a favore)
di un determinato soggetto rispetto ad una ipotesi di reato.
Ne consegue che, in astratto, il segreto (dal latino “secernere” cioè “separare”) ha una
varietà di significati che rispecchiano, in un certo senso, la radice latina e riflettono
le ragioni per le quali ne nasce l’esigenza: cioè
quella di “separare” (e cioè
discernere) ciò che può essere divulgato e conosciuto da tutti da ciò che, per ragioni
connesse alla tutela dell’indagato o alle finalità dell’indagine nel suo complesso, non
deve essere reso pubblico.
1.a) Le norme del codice di procedura penale e le tipologie di reato conseguenti alla
violazione del segreto.
Occorre premettere che nel prosieguo della trattazione svilupperò in parallelo due
tematiche che, in realtà, sono assolutamente distinte dal punto di vista concettuale e
cioè il segreto investigativo ed il divieto di pubblicazione degli atti e del contenuto
degli atti di un procedimento penale.
Invero, la violazione del segreto investigativo è qualcosa di ben più ampio (e
complesso) rispetto al divieto di pubblicazione delineato dall'art. 114 c.p.p. ma ho
4
scelto di trattare unitariamente i due aspetti perché gli stessi si intersecano in maniera
significativa.
Deve, inoltre, evidenziarsi che il segreto investigativo, che può essere violato con
svariate modalità e quindi, ovviamente, non solo attraverso la diffusione di notizie a
mezzo di organi di stampa, acquista sostanza proprio attraverso le norme che
regolano lo svolgimento del procedimento penale, mentre il divieto di pubblicazione
investe il versante dei complessi rapporti fra opinione pubblica e privacy e, in senso
lato, anche il tentativo di individuare il corretto metodo di comunicazione all'esterno
dei fatti di rilevanza penale.
Il legislatore del codice di procedura penale del 1989 ha inserito nel sistema una
serie di norme che regolano, nello specifico,
il "segreto investigativo" ed -
evidentemente nell'intento di bilanciare le esigenze di segretezza con altre istanze
(come quella della collettività di essere informata anche, ed in certi limiti, in fase di
indagini preliminari) - ha costruito la tematica in maniera differente rispetto al codice
ROCCO.
Invero, nel previgente sistema il segreto investigativo era "assoluto", cioè non vi
erano atti in ordine ai quali era ipotizzabile una conoscibilità all'esterno (nè dell'atto
in quanto tale né del suo contenuto), come disponeva l’art. 164 c.p.p.. Deve
evidenziarsi, a tale proposito, che la sentenza della Corte Costituzionale del 10
febbraio 1981 nr. 16 aveva, in maniera significativa, ritenuto che l’art. 164 c.p.p. del
codice 1930 era teso ad assicurare anche la dignità e la reputazione di quanti
partecipano al processo.
Merita, inoltre, menzione il fatto che nel sistema previgente non vi era alcuna deroga
all’assolutezza del divieto di pubblicazione di atti e documenti di un procedimento
penale nella delicatissima fase della istruzione, sia sommaria che formale.
Il Legislatore del 1989 ha, invece, optato per un sistema misto ove il segreto assoluto
sugli atti di indagine sussiste solo fino al momento in cui l'indagato non ha diritto ad
averne conoscenza. Invero, l'art. 329 c.p.p. recita:
5
Art. 329 (Obbligo del segreto)
1. Gli atti di indagine compiuti dal pubblico ministero (358 ss.) e dalla polizia
giudiziaria (55) sono coperti dal segreto (326 c.p.) fino a quando l'imputato non ne
possa avere conoscenza (117, 1181) e, comunque, non oltre la chiusura delle
indagini preliminari (405 ss., 554; art. 118).
2. Quando è necessario per la prosecuzione delle indagini, il pubblico ministero può,
in deroga a quanto previsto dall'art. 114, consentire, con decreto motivato (125), la
pubblicazione di singoli atti o di parti di essi. In tal caso, gli atti pubblicati sono
depositati presso la segreteria del pubblico ministero.
3. Anche quando gli atti non sono più coperti dal segreto a norma del comma 1, il
pubblico ministero, in caso di necessità per la prosecuzione delle indagini può
disporre con decreto motivato:
a) l'obbligo del segreto per singoli atti, quando l'imputato lo consente o quando la
conoscenza dell'atto può ostacolare le indagini riguardanti altre persone;
b) il divieto di pubblicare il contenuto di singoli atti o notizie specifiche relative a
determinate operazioni (114, 115).
L'opzione codicistica, dunque, pare finalizzata a collegare il segreto alle esigenze, da
un lato, dell'indagato e, dall'altro, dell'indagine nel suo complesso dato che è
consentito al P.M. (che delle indagini è il dominus)
di derogare (motivando
evidentemente in funzione di esigenze investigative di un certo rilievo) al dettato di
cui all'art. 114 c.p.p. rendendo pubblici anticipatamente (attraverso il deposito presso
la segreteria) atti o parti di essi.
Il primo e più significativo problema che si pone all'interprete è costituito dalla
necessità di capire cosa significa: "atti di indagine compiuti dal P.M. e dalla P.G.". Si
tratta solo degli atti tipici (sommarie informazioni testimoniali, perquisizioni e
sequestri, intercettazioni ambientali e telefoniche, consulenze ex art. 359 c.p.p.)
oppure devono rientrare nel concetto di segreto anche quegli atti che non sono
6
qualificabili come di indagine in senso tecnico ma sono, in qualche modo, strumentali
al compimento delle stesse? Si pensi, a titolo meramente esemplificativo, ad una
richiesta di proroga di intercettazione, ad una richiesta di proroga delle indagini per
un reato di criminalità organizzata (che non prevedono la notifica all'indagato). Si
tratta di atti che non sono di indagine in senso stretto ma se essi venissero conosciuti
(cioè se su di essi non vi fosse il segreto) a nulla varrebbe l'esistenza stessa del
dettato di cui all'art. 329 c.p.p.
Comunque, al di la di questi “dubbi interpretativi”, il dettato dell'art. 329 c.p.p.
consente di individuare due sfere di operatività del segreto investigativo assoluto. La
prima afferisce agli atti dei quali l'indagato non può avere conoscenza, cioè gli atti
non garantiti, e la seconda coincide con un limite procedimentale consistente con la
chiusura delle indagini preliminari (richiesta di archiviazione o emissione dell'avviso
ex art. 415 bis c.p.p.). E' ovvio, comunque, che anche quando non siamo più in
presenza del segreto in senso stretto, e come vedremo ampiamente in prosieguo, il
magistrato è, comunque, tenuto al riserbo nelle forme delle quali si accennerà.
Ma al Pubblico Ministero è consentito, sempre nel superiore interesse delle indagini
ed in vista di un esito favorevole dello sviluppo di una determinata ipotesi
investigativa, con l'obbligo di motivazione al fine di garantire da scelte arbitrarie,
rendere segreto e quindi posticipare la soglia di conoscibilità di un atto. Ciò che
pare significativo è che l'obbligo del segreto posticipato può essere imposto solo per
singoli atti, con il consenso dell'imputato o quando la conoscibilità valga a
pregiudicare, anche solo in potenza, l'acquisizione di elementi di prova riguardanti
altri soggetti.
Inoltre, al P.M. è consentito di imporre il divieto di pubblicazione del contenuto di
singoli atti o di notizie specifiche relative a determinate operazioni sempre
(ovviamente) attraverso decreto motivato da altrettante esigenze investigative.
Ciò che appare, in prima battuta, evidente è che il dettato normativo dell'art. 329
c.p.p. è strettamente collegato alla disposizione di cui all'art. 114 c.p.p. e che le due
norme paiono ispirarsi alla medesima ratio: il bilanciamento (almeno tendenziale)
7
fra il riserbo
essenziale al prosieguo delle indagini, l'interesse della persona
sottoposta ad indagini di conoscere atti che afferiscono alla sua sfera ed il diritto della
collettività a conoscere di un fatto che la investe in termini di rottura di quel patto
sociale su cui poggiano le fondamenta delle democrazie moderne.
Deve rammentarsi, prima di procedere, nello specifico, all'analisi dell' articolo 114
c.p.p., che qualsiasi forma di segreto sul contenuto degli atti di un processo penale, in
base a quanto disposto dall'art. 21 del D.P.R. 30 settembre 1963 n. 1409 - recante
norme in tema di ordinamento e personale degli archivi di Stato - viene meno
trascorsi settanta anni dalla data di conclusione del procedimento e da quel momento
i documenti dei processi penali sono comunque consultabili. Ne consegue che proprio
l'art. 114 c.p.p. deve considerarsi il nucleo essenziale del sistema dalla fase delle
indagini preliminari fino a quel lungo arco temporale che determina (trascorsi sette
decenni ) il libero accesso agli atti di un processo che, a quel punto, è oggetto di
interesse dello storico e non più del cronista.
In via preliminare, comunque, occorre evidenziare che:
• a differenza del sistema precedente, nel vigente codice di rito non vi è
completa coincidenza tra il regime di segretezza e quello di divulgazione degli
atti ed è stata creata una demarcazione fra segreto e divieto di pubblicazione;
• vi sono atti coperti dal cd. segreto assoluto (atti del P.M. e della polizia
giudiziaria fino a quando non siano conoscibili dall'indagato) in relazione ai
quali il
divieto di pubblicazione è
senza possibilità di deroghe, sia con
riferimento al testo che al contenuto, anche parziale o per riassunto;
• vi sono, poi, gli atti non coperti da segreto per i quali vige un divieto limitato di
pubblicazione che è circoscritto e viene meno man mano che, nelle diverse
fasi del procedimento, diviene più sfumata la ragion d'essere del divieto che,
come vedremo, è volta principalmente a garantire il sereno processo formativo
del convincimento del giudice del dibattimento;
• si è ritenuto, infatti, che il libero convincimento dell'organo giudicante si
realizza anche attraverso le norme che gli consentono di apprendere del
8
contenuto degli atti di indagine solo nei limiti (e quindi nel rispetto delle
regole) costituiti dai principi cardine del processo accusatorio;
• e' sempre consentita la pubblicazione del contenuto degli atti non coperti (o
non più coperti da segreto) a tutela e garanzia del diritto alla informazione.
Ne consegue che il sistema vigente opera un netto distinguo tra atto del procedimento
e contenuto dell'atto senza che vi sia coincidenza tra quanto diviene via via conoscibile all'interno del procedimento e la sua divulgabilità all'esterno.
Tuttavia, anche per quello che riguarda gli atti coperti dal cd. segreto assoluto,
occorre una attenta interpretazione dello spazio di operatività del divieto poiché l'atto
di indagine, per sua natura, non coincide con l'accadimento umano che ne costituisce
l'oggetto e pertanto non rientra nel divieto di pubblicazione la notizia dello
svolgimento di attività procedimentali che si sostanzino in fatti storici direttamente
percepibili all’esterno.
Ad esempio: non è pubblicabile il testo delle propalazioni rese al P.M. dal testimone
di un omicidio, ma il giornalista, ad esempio, potrà pubblicare quanto riferitogli
direttamente dalla stessa persona informata sui fatti, che in quanto tale, non è tenuta
al segreto. Per evitare conseguenze negative per le indagini derivanti da tali
evenienze, vedremo in seguito che il P.M. ha, in tali contesti, un (peraltro limitato)
potere di segretazione (art. 391 quinquies c.p.p.) che si inserisce, comunque,
nell'alveo delle cd. investigazioni difensive.
In particolare, l'art. 114 c.p.p. recita:
Art. 114 (Divieto di pubblicazione di atti e di immagini).
1. È vietata la pubblicazione, anche parziale o per riassunto, con il mezzo della
stampa o con altro mezzo di diffusione, degli atti coperti dal segreto o anche solo del
loro contenuto (329).
2. È vietata la pubblicazione, anche parziale, degli atti non più coperti dal segreto
fino a che non siano concluse le indagini preliminari (405 ss.) ovvero fino al termine
dell'udienza preliminare (424).
9
3. Se si procede al dibattimento, non è consentita la pubblicazione, anche parziale,
degli atti del fascicolo per il dibattimento (431), se non dopo la pronuncia della
sentenza di primo grado (545), e di quelli del fascicolo del pubblico ministero (433),
se non dopo la pronuncia della sentenza in grado di appello (605). È sempre
consentita la pubblicazione degli atti utilizzati per le contestazioni (500 - comma 1 ,
503 - comma 3 ).
4. È vietata la pubblicazione, anche parziale, degli atti del dibattimento celebrato a
porte chiuse nei casi previsti dall'art. 472 commi 1 e 2. In tali casi il giudice, sentite
le parti, può disporre il divieto di pubblicazione anche degli atti o di parte degli atti
utilizzati per le contestazioni. Il divieto di pubblicazione cessa comunque quando
sono trascorsi i termini stabiliti dalla legge sugli archivi di Stato ovvero è trascorso
il termine di dieci anni dalla sentenza irrevocabile (648) e la pubblicazione è
autorizzata dal Ministro di grazia e giustizia.
5. Se non si procede al dibattimento, il giudice, sentite le parti, può disporre il divieto
di pubblicazione di atti o di parte di atti quando la pubblicazione di essi può
offendere il buon costume o comportare la diffusione di notizie sulle quali la legge
prescrive di mantenere il segreto nell'interesse dello Stato ovvero causare
pregiudizio alla riservatezza dei testimoni o delle parti private. Si applica la
disposizione dell'ultimo periodo del comma 4.
6. È vietata la pubblicazione delle generalità e dell'immagine dei minorenni
testimoni, persone offese o danneggiati dal reato fino a quando non sono divenuti
maggiorenni. E' altresì vietata la pubblicazione di elementi che, anche
indirettamente, possano comunque portare all'identificazione dei suddetti minorenni.
Il tribunale per i minorenni, nell'interesse esclusivo del minorenne, o il minorenne
che ha compiuto i sedici anni, può consentire la pubblicazione .
6 bis. È vietata la pubblicazione dell'immagine di persona privata della libertà
personale ripresa mentre la stessa si trova sottoposta all'uso di manette ai polsi
ovvero ad altro mezzo di coercizione fisica, salvo che la persona vi consenta.
7. È sempre consentita la pubblicazione del contenuto di atti non coperti dal segreto.
10
Deve evidenziarsi, in primis, che la disposizione è stata oggetto di una modifica nella
rubrica con l'art. 14 comma 1 della L. 16 dicembre 1999 n. 479 che ha aggiunto il
termine immagini all'originario dettato che prevedeva solo il termine atti,
rispondendo,
attraverso
tale
innovazione,
alle
esigenze
di
arginare
la
spettacolarizzazione del processo con la pubblicizzazione di immagini non ritenute
funzionali al rispetto del diritto di cronaca. Peraltro, il divieto di pubblicazione e
divulgazione di notizie e immagini, con riguardo al processo penale a carico di
imputati minorenni, ove entrano in gioco una congerie complessa di interessi
delicatissimi afferenti alla tutela dei minori di età, comunque coinvolti in vicende
giudiziarie, è specificamente sancito dall'art. 13 del D.P.R. 22 settembre 1988 n.
448.
Come già sopra evidenziato, però, la ratio della disposizione in esame, nell'ottica del
Legislatore del 1989, ben evidente attraverso la distinzione prospettata fra
pubblicazione del contenuto di un atto e pubblicazione integrale dell'atto stesso, non è
stata, in prima battuta, quella di salvaguardare le investigazioni o tutelare, in qualche
modo, i soggetti coinvolti nel processo. Infatti, il Legislatore, ha inteso evitare che in un processo ove la prova deve formarsi nel contraddittorio delle parti - il Giudice
del dibattimento, prima della sentenza ove pronuncia nel merito di un fatto sottoposto
al suo esame, possa essere influenzato nel suo convincimento dalla pubblicazione
integrale di un atto del processo.
Si è ritenuto, infatti, che il contenuto di un atto investigativo semplicemente riportato
dalla stampa abbia, potenzialmente, una influenza minore sul giudice rispetto alla
pubblicazione dell'atto nella sua integralità. La relazione al progetto preliminare,
infatti, ha posto l'accento sul fatto che il giudice del dibattimento non può certo
fondare il proprio convincimento su notizie più o meno circostanziate mentre
potrebbe, almeno in astratto, essere influenzato dal riscontro documentale: cioè dalla
pubblicazione del documento. Ne consegue che, una volta cessato il segreto assoluto
sull'indagine, fino alla sentenza di primo grado per evitare qualsiasi influenza sul
11
libero convincimento del giudice, rimane il divieto di pubblicare l'atto ma, a tutela del
diritto di cronaca, è consentita la pubblicazione del contenuto dell'atto.
Deve evidenziarsi, ancora, che la Corte Costituzionale, con sentenza n. 59 del 24
febbraio 1995, è intervenuta con una significativa pronuncia a proposito del terzo
comma dell'art. 114 c.p.p., fornendo una serie di indicazioni in ordine ai principi
ispiratori della disciplina nel suo complesso.
In particolare, il Giudice Costituzionale ha ribadito che, in base alla ratio della
disposizione, il divieto di pubblicazione, per non compromettere il libero
convincimento del Giudice, deve riguardare solo gli atti contenuti nel fascicolo del
P.M. cioè gli atti di indagine che sono mere fonti di prove che, invece,
fisiologicamente, si formano nel dibattimento. Ne consegue che la disposizione
dell’art. 114 comma 3 c.p.p., sarebbe in contrasto con la direttiva n. 71 dell’art. 2
della legge di delega n. 81 del 1987 nella parte in cui non consente, invece, la
pubblicazione degli atti del fascicolo del dibattimento anteriormente alla pronuncia
della sentenza di primo grado. In sostanza, se i divieti di pubblicazione stabiliti in
tale direttiva avevano la finalità di contemperare, in maniera significativa,
gli
interessi dell’informazione con quelli delle investigazioni che, comunque, si
avvertono, in maniera significativa, proprio nella fase delle indagini preliminari ma
non più nel corso del dibattimento, il divieto non può ragionevolmente riferirsi alla
pubblicazione di quanto contenuto nel fascicolo per il dibattimento, che attiene, per
definizione, gli atti che il giudice deve conoscere.
Pertanto, la Corte Costituzionale, ritenuti assorbiti gli altri profili di incostituzionalità
dedotti in riferimento agli artt. 3 e 21 Cost. con riguardo all’art. 114 comma 3 c.p.p.,
ha dichiarato tale comma illegittimo, per violazione dell’art. 76 Cost., limitatamente
alle parole: del fascicolo per il dibattimento, se non dopo la pronuncia della sentenza
di primo grado con la conseguenza che
è
illegittimo costituzionalmente in
riferimento agli art. 3, 21 e 76 Cost, l'art. 114, terzo comma, del codice di procedura
penale nella parte in cui vieta la pubblicazione degli atti contenuti nel fascicolo del
dibattimento anteriormente alla pronuncia della sentenza di primo grado (Corte
12
Cost. 24 febbraio 1995 n. 59). In sostanza, in linea generale, deve affermarsi che,
proprio perché l’udienza dibattimentale è pubblica (art. 471 comma 1 c.p.p.), gli atti
compiuti in tale sede sono immediatamente pubblicabili. Tuttavia, vi sono eccezioni
al principio della pubblicità dell’udienza che vengono ad incidere sulla disciplina in
oggetto. Invero, nel caso di dibattimento celebrato a porte chiuse ex art. 472 comma
1 (quando, ad esempio, la pubblicità potrebbe, almeno in astratto, nuocere al buon
costume o ad interessi generali dello Stato) o quando ( cfr. art. 472 comma 2 cpp) la
pubblicità può pregiudicare la riservatezza dei testimoni o delle parti private, per
circostanze che non costituiscono oggetto della imputazione e vi è richiesta
dell’interessato, la pubblicazione, anche parziale, degli atti del dibattimento è vietata.
La disciplina risponde, in questo caso, non alla necessità di tutelare il libero
convincimento del giudice ma a quella di salvaguardare la privacy dei soggetti a
vario titolo coinvolti nel processo. Inoltre, il giudice ( dopo aver ascoltato le parti)
può disporre il divieto di pubblicazione degli atti ( o di parte di essi), anteriori al
dibattimento, già utilizzati per le contestazioni (nella parte in cui degli stessi non sia
stata data lettura nel contesto dibattimentale svoltosi a porte chiuse). Il divieto in
oggetto permane fino alla scadenza dei termini stabiliti dalle norme regolanti gli
archivi di Stato ovvero fino a che il Ministro della Giustizia, trascorsi dieci anni dalla
data in cui la sentenza è divenuta irrevocabile, autorizzi la pubblicazione. Trascorso
tale lasso temporale, infatti, le esigenze di tutela ( almeno in potenza) vengono meno
(art. 114 comma 4). Occorre, altresì, evidenziare che, anche nel caso di procedimento
definito con decreto di archiviazione, sentenza di non luogo a procedere, sentenza
anticipata di proscioglimento ex art. 469 o con i riti alternativi del giudizio
abbreviato, del patteggiamento o del giudizio per decreto, il giudice può intervenire
per tutelare gli interessi protetti dall’art. 114 comma 4 cpp. In sostanza, la regola
secondo la quale il segreto esterno viene meno ed opera il canone della piena
pubblicabilità degli atti compiuti dal pubblico ministero o dalla polizia giudiziaria
(desumibile dall’art. 114 comma 2 cpp) subisce una sostanziale deroga. Anche in
questo caso, il divieto viene meno allo scadere dei termini previsti dall’art. 114
13
comma 4 per gli atti del dibattimento celebrato a porte chiuse (art. 114 comma 5).
Può essere, inoltre, di un qualche interesse, in questa sede,
evidenziare
che,
nonostante le sentenze e gli altri provvedimenti giurisdizionali sono pubblicabili,
l’art. 52 d.lg. 30 giugno 2003 n. 196 (Codice in materia di protezione dei dati
personali) dispone che “l’interessato può chiedere per motivi legittimi, con richiesta
depositata nella cancelleria o segreteria dell’ufficio che procede prima che sia
definito il relativo grado di giudizio, che si apposta a cura della medesima
cancelleria o segreteria, sull’originale della sentenza o del provvedimento,
un’annotazione volta a precludere, in caso di riproduzione della sentenza o
provvedimento in qualsiasi forma, per finalità di informazione giuridica su riviste
giuridiche, supporti elettronici o mediante reti di comunicazione elettronica,
l’indicazione delle generalità o di altri dati identificativi del medesimo interessato
riportati sulla sentenza o provvedimento. Sulla richiesta provvede in calce con
decreto, senza ulteriori formalità, l’autorità che pronuncia la sentenza o adotta il
provvedimento e la medesima autorità può disporre d’ufficio che sia apposta
l’annotazione di cui sopra, a tutela dei diritti o della dignità degli interessati”.
In chiave di sintesi può, dunque, affermarsi che, con riguardo specifico alla fase delle
indagini preliminari, la finalità ispiratrice del dettato normativo è la tutela del corretto
convincimento del giudice. Invero, come già sopra evidenziato, gli atti delle indagini
preliminari compiuti dal pubblico ministero o dalla polizia giudiziaria non coperti (o
non più coperti) da segreto non sono (o non divengono) divulgabili, per il solo fatto
del venir meno del carattere di segretezza. Nei loro confronti sussiste, infatti, un
divieto limitato di pubblicazione, destinato a scemare, sino alla scomparsa. Ciò
avviene progressivamente, per effetto dello sviluppo del procedimento, quando si
attenuano le ragioni del divieto, finalizzato a preservare il convincimento del giudice
dibattimentale da interferenze, anche solo potenziali. Ne consegue che, ai sensi
dell’art. 114 comma 2 c.p.p., ove non si proceda a dibattimento, il divieto di
pubblicazione, anche in forma parziale (ma non per riassunto), degli atti conoscibili
dall’indagato sin dalla loro origine o divenuti tali successivamente, permane fino alla
14
chiusura delle indagini preliminari. Nei
procedimenti non instaurati mediante
citazione diretta il divieto permane fino al termine dell’udienza preliminare e sussiste
fino all’emissione dei provvedimenti che escludono l’instaurazione del processo
(decreto di archiviazione) o lo concludono anticipatamente (sentenza di non luogo a
procedere, sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti, sentenza
emessa a seguito di giudizio abbreviato, decreto penale di condanna divenuto
esecutivo). Appare, dunque, evidente che non possono essere pubblicati atti che
potrebbero essere inseriti nel fascicolo del pubblico ministero ed essere, quindi,
conosciuti dal giudice dibattimentale solo mediante il meccanismo delle
contestazioni. Ma se questa è la ratio del sistema, pare condivisibile l’orientamento
dottrinale secondo il quale il divieto si ripristina automaticamente nel caso di
riapertura delle indagini preliminari dopo l’archiviazione (art. 414 cpp) e nel caso di
revoca della sentenza di non luogo a procedere (art. 436 comma 2), sempre al fine di
salvaguardare la terzietà del giudice dibattimentale e ciò fermo restando che, ex art.
114 comma 7 cpp, il contenuto degli atti non coperti o non più coperti dal segreto è
pubblicabile (salvo che sia intervenuto un apposito provvedimento di segregazione
del pubblico ministero).
Deve sottolinearsi, inoltre, che il comma 6 bis dell'art. 114 c.p.p. (cioè il divieto di
pubblicare l'immagine della persona privata della libertà personale ripresa mentre la
stessa si trova in manette, salvo il suo consenso) è stato inserito dal già richiamato
art. 14 comma secondo della l. 16 dicembre 1999 nr. 479 ed è stato frutto di un
dibattito particolarmente acceso, peraltro non del tutto sopito, cui si farà riferimento
anche in proseguo.
Altro dato di interesse generale, e che è utile a delimitare il concetto di segretezza,
afferisce alla possibilità di pubblicare la sentenza di non luogo a procedere per
estinzione del reato a seguito di amnistia. In questo caso, infatti, non sussiste il
divieto di pubblicare i relativi atti in quanto la pronuncia scaturisce all'esito
dell'udienza preliminare, ne viene data immediata lettura e le parti presenti hanno
diritto ad ottenere copia del provvedimento che deve essere depositato
15
immediatamente in cancelleria. Siamo, quindi, in presenza di un caso in cui (in base
all'elaborazione giurisprudenziale) può affermarsi che il divieto di pubblicazione di
un atto del procedimento cessa nel momento stesso della sua formazione.
E' interessante richiamare, inoltre, a proposito e con riguardo specifico al problema
del libero convincimento del giudice, che potrebbe essere scalfito dalla pubblicazione
integrale sulla stampa di un atto del procedimento, il dettato dell'art. 45 c.p.p. in tema
di rimessione del processo.
Art. 45 (Casi di rimessione).
1. In ogni stato e grado del processo di merito, quando la sicurezza o l'incolumità
pubblica ovvero la libertà di determinazione delle persone che partecipano al
processo sono pregiudicate da gravi situazioni locali tali da turbare lo svolgimento
del processo e non altrimenti eliminabili, la Corte di cassazione, su richiesta
motivata del procuratore generale presso la corte di appello o del pubblico ministero
presso il giudice che procede o dell'imputato (60, 61), rimette il processo ad altro
giudice, designato a norma dell'art. 11.
In particolare, si è verificato qualche anno fa, nel distretto di Palermo, il caso di atti
delle indagini preliminari (in particolare, il contenuto di verbali di trascrizione di
intercettazioni telefoniche) pubblicati integralmente su un quotidiano mentre, nella
stessa giornata, le registrazioni di quelle conversazioni venivano, addirittura,
trasmesse in diretta nel corso di un telegiornale da una televisione locale e ciò a pochi
giorni dall'inizio dell'udienza preliminare. Le difese, proprio nel corso dell'udienza
preliminare, hanno sollevato la questione della sussistenza, nel caso in esame, di un
grave pregiudizio nella libertà di determinazione del giudice che, proprio per le
notizie apparse sui mezzi di comunicazione, sarebbe stata pregiudicata. Chiedevano,
pertanto, integrando (a loro dire) la situazione i gravi motivi di ordine pubblico di cui
all'art. 45 c.p.p., la rimessione del processo ad altro Giudice. Al di là della soluzione
del caso di specie, ove la pronuncia della Suprema Corte ritenne insussistenti i
presupposti dell’art. 45 cpp, e dove, comunque, il giudice GUP già conosceva ed
16
aveva a disposizione gli atti, la vicenda mi pare interessante perché evidenzia come
confliggono (a volte con costi non indifferenti per la collettività nel suo complesso)
l'interesse alla informazione e quello del rispetto dei principi cardine del codice di
procedura penale, con riguardo non solo alla segretezza delle indagini preliminari ma,
anche, alla necessità che il meccanismo fisiologico di formazione del convincimento
del Giudicante non sia inquinato da fattori esterni.
E' significativo, peraltro, che la Suprema Corte, proprio a proposito dell'art. 45 c.p.p.,
ha elaborato alcuni criteri utili a districarsi nelle situazioni, non infrequenti, di
campagne di stampa che possono inserirsi in delicate fasi del processo. In particolare,
con la sentenza Sez. I del 2 febbraio 1994 - 1 aprile 1994 nr. 682, la Cassazione
evidenziava che una campagna di stampa avversa all'inquisito, può essere causa di
rimessione del procedimento ad altro Ufficio giudiziario, se ricorrono due condizioni:
1) deve esserne dimostrata l'esistenza; 2) deve essere dimostrata la concreta
incidenza delle notizie di stampa sulla capacità del giudice ad assolvere con
obiettività al compito demandatogli. Ne consegue che, anche nelle ipotesi ove sia
pubblicato non l'atto nella sua integrità ma solo il contenuto dell'atto, se tale
pubblicazione si inserisce in un circuito mediatico di commenti trasmessi dai mezzi
di informazione, almeno in astratto, sarebbe possibile configurare (se ricorrono le due
condizioni di cui sopra) una causa di rimessione del processo!
Ma è altrettanto significativo che la Suprema Corte, con la sentenza sez. I del 9
gennaio 1996 - 7 marzo 1996 nr. 56, ha ben evidenziato (ancora una volta nell'ottica
del bilanciamento fra esigenze processuali e libera espressione del pensiero a
proposito di vicende socialmente rilevanti) che anche la diffusione di notizie (e
commenti) su processi in corso non può far sorgere pericoli effettivi per la capacità
di determinazione del giudice, tenuto anche conto delle qualità morali, psicologiche e
di esperienza che normalmente corredano le persone di coloro che sono chiamati al
disimpegno di funzioni giurisdizionali.
In sostanza, di fronte alla sempre più frequente diffusione di notizie sul processo, sul
contenuto degli atti e attraverso la pubblicazione del loro contenuto, evidentemente
17
anche (e frequentemente) in violazione dei criteri fissati dall' art.114 c.p.p., ci si
affida alla capacità (ed al complesso delle qualità professionali) del giudice perché il
sistema regga senza che venga intaccato in radice il principio del contraddittorio
nella formazione della prova.
Sempre a proposito dell'art. 114 c.p.p. e delle innumerevoli questioni interpretative
che sottendono alla stessa disposizione, deve evidenziarsi che, in quanto espressione
della libertà di manifestazione del pensiero, è sempre consentita (e ne abbiamo già
fatto cenno in precedenza) la divulgazione delle notizie attinte direttamente da
persona che abbia assistito (e quindi vissuto) o sia a conoscenza di un “fatto o di un
avvenimento” anche quando lo stesso sia oggetto di investigazioni da parte del
Pubblico Ministero e della Polizia Giudiziaria. Ne consegue che una notizia fornita al
giornalista direttamente da un testimone oculare di un accadimento (che riveste
interesse investigativo), non è segreta, ma è liberamente divulgabile con il mezzo
della stampa. Diversamente, se la notizia è costituita proprio dalle dichiarazioni rese
dal soggetto testimone del fatto agli investigatori, la sua divulgazione con il mezzo
della stampa in violazione del dettato di cui all'art. 114 c.p.p., integra il reato, di cui
tratteremo in seguito, previsto dall'art. 684 cp. E' significativo, a tale proposito, che il
Legislatore abbia introdotto, con l'art. 11 l. 7 dicembre 2000 nr. 397, a proposito di
indagini difensive, una norma, cioè l'art. 391 quinquies c.p.p. cui si è già fatto cenno,
che pare immediatamente finalizzata ad evitare che la diffusione di notizie fornite dai
soggetti escussi possa creare pregiudizio alle investigazioni nel loro complesso.
Art. 391 quinquies (Potere di segretazione del Pubblico Ministero).
1. Se sussistono specifiche esigenze attinenti all'attività di indagine, il pubblico
ministero può, con decreto motivato, vietare alle persone sentite di comunicare i fatti
e le circostanze oggetto dell'indagine di cui hanno conoscenza. Il divieto non può
avere una durata superiore a due mesi.
2. Il pubblico ministero, nel comunicare il divieto di cui al comma 1 alle persone che
hanno rilasciato le dichiarazioni, le avverte delle responsabilità penali conseguenti
all'indebita rivelazione delle notizie.
18
E' significativo, comunque, che anche tale potere di secretazione (proprio perché
costituisce una limitazione della libera manifestazione del pensiero) è stato costruito
con un limite temporale (fino ad una durata massima di due mesi) ed è fondato su un
provvedimento motivato attraverso il quale il Pubblico Ministero deve dare contezza
delle ragioni (attinenti nello specifico, e non solo in senso lato, alle indagini in corso)
che lo giustificano. La violazione del segreto, in questo caso, comporta l'integrazione
del reato, introdotto dall'art. 21 della stessa legge 7 dicembre 2000 nr. 397:
Art. 379 bis cp: Rivelazione di segreti inerenti a un procedimento penale
Salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque rivela indebitamente notizie
segrete concernenti un procedimento penale, da lui apprese per aver partecipato o
assistito ad un atto del procedimento stesso, è punito con la reclusione fino ad un
anno. La stessa pena si applica alla persona che, dopo aver rilasciato dichiarazioni
nel corso delle indagini preliminari non osserva il divieto imposto dal Pubblico
Ministero ai sensi dell'art. 391 quinquies del codice di procedura penale.
E' significativo evidenziare, inoltre, che il Pubblico Ministero, quando impone il
divieto, deve avvertire il dichiarante delle conseguenze penali dell'inosservanza
dell'obbligo e ciò costituisce ulteriore dimostrazione degli sforzi del Legislatore di
salvaguardare il più possibile la sfera della libera manifestazione del pensiero anche
dei soggetti, terzi rispetto all'ipotesi delittuosa, che si trovano, comunque, coinvolti
nei complessi meccanismi di acquisizione delle fonti di prova (non solo a carico ma
anche a favore dell'indagato).
Ma il dettato dell' art. 114 c.p.p. ha costituito spunto di riflessione anche sotto altri
profili che sono stati oggetto di significative pronunce della Suprema Corte.
In particolare, in tema di arbitraria divulgazione degli atti di un procedimento penale,
in violazione delle regole fissate dalla disposizione in oggetto, la già avvenuta
diffusione di notizie di atti d’indagine coperti da segreto, secondo la Cassazione Sez.
I 11 luglio 1994 - 24 settembre 1994 nr. 10135, non fa cessare in re ipsa l'obbligo di
segretezza e quindi il divieto di pubblicazione in quanto, una successiva ed ulteriore
19
divulgazione attraverso i mass media, determina che venga dato all’atto in oggetto un
ancora più significativo risalto e diffusione. Peraltro, su tali concetti, si avrà modo di
tornare in prosieguo a proposito dell’analisi dell’art. 684 c.p.p..
Un'altra disposizione del codice di procedura penale che ha rilievo nel sistema con
riguardo specifico al rapporto fra Pubblico Ministero ed organi di stampa nel corso
delle indagini preliminari è l'art. 335 c.p.p..
Art. 335 (Registro delle notizie di reato)
1. Il pubblico ministero iscrive immediatamente, nell'apposito registro custodito
presso l'ufficio, ogni notizia di reato che gli perviene o che ha acquisito di propria
iniziativa
nonché, contestualmente o dal momento in cui risulta, il nome della
persona alla quale il reato stesso è attribuito (att. 109, 110; reg. 2, 5).
2. Se nel corso delle indagini preliminari muta la qualificazione giuridica del fatto
ovvero questo risulta diversamente circostanziato, il pubblico ministero cura
l'aggiornamento delle iscrizioni previste dal comma 1 senza procedere a nuove
iscrizioni .
3. Ad esclusione dei casi in cui si procede per uno dei delitti di cui all'art. 407,
comma 2, lett. a), le iscrizioni previste dai commi 1 e 2 sono comunicate alla persona
alla quale il reato è attribuito, alla persona offesa e ai rispettivi difensori, ove ne
facciano richiesta .
3 bis. Se sussistono specifiche esigenze attinenti all'attività di indagine, il pubblico
ministero, nel decidere sulla richiesta, può disporre, con decreto motivato, il segreto
sulle iscrizioni per un periodo non superiore a tre mesi e non rinnovabili .
E' di tutta evidenza l'importanza della disposizione con riferimento specifico ai
diversi aspetti per i quali la stessa si interseca con la tematica del segreto
investigativo.
Invero, l'iscrizione nel registro degli indagati è un atto dovuto, conseguente ad un
minus (una notizia di reato) che deve essere verificata nella sua fondatezza attraverso
le indagini che possono essere svolte in un arco temporale massimo (diciotto mesi o
20
due anni) decorrenti, appunto, dall'iscrizione a Mod. 21. L'iscrizione è, dunque, un
atto importante perché da essa decorrono i termini per le indagini preliminari ed è
altrettanto evidente che una conoscenza dell'iscrizione da parte dell'indagato può
determinare notevolissimi (ed irrimediabili ) pregiudizi per il buon esito della fase di
acquisizione delle fonti di prova. Ma il Legislatore ha riconosciuto (disciplinandolo al
terzo comma della disposizione) il diritto dell'indagato, della persona offesa dal reato
e dei loro difensori, ove ne facciano richiesta, di ricevere notizia delle iscrizioni nel
registro Mod. 21, con la sola eccezione dei delitti di cui all'art. 407 comma secondo
lettera a) c.p.p., cioè fattispecie criminose di notevole allarme sociale e dove la non
conoscibilità è collegata alla complessità che contraddistingue, nella normalità, tali
indagini.
Proprio in considerazione di esigenze investigative particolari (che sono costituite,
nella maggior parte dei casi, dalla notorietà del soggetto che viene iscritto nel
Registro delle notizie di reato) il Legislatore al comma tre bis dell'art. 335 c.p.p. ha
previsto che il Pubblico Ministero, nel decidere sulla richiesta da parte dei soggetti
legittimati ad avere notizie dell'iscrizione, può disporre il segreto sull'iscrizione stessa
per un periodo non superiore a tre mesi, non rinnovabili. L'obbligo di motivare tale
provvedimento è volto, evidentemente, a salvaguardare (e quindi a non comprimere)
il diritto degli interessati a conoscere dell'iscrizione.
Invero, nella pratica degli Uffici di Procura il momento della iscrizione a notizia di
reato è uno dei più delicati e con riferimento al quale le fughe di notizie, e quindi la
diffusione del contenuto dell'atto sui mezzi di informazione, determina conseguenze
negative sotto più profili: per l'indagato, per la riuscita delle indagini, per lo stesso
Pubblico Ministero. Pensiamo, ad esempio, all'arbitraria pubblicazione su di un
organo di stampa (e nella normalità la stessa notizia viene riportata dalle televisioni
locali e nazionali) dell'iscrizione a Mod. 21 di un uomo politico (ma in realtà di un
qualsiasi cittadino) per un ipotesi corruttiva o per concorso esterno in associazione
mafiosa (artt. 110 - 416 bis cp). L'uomo politico (escludendo che abbia dato egli
stesso la notizia ai giornalisti) sarà pregiudicato perché, essendo l'iscrizione a Mod.
21
21 un atto dovuto, essa spesso è conseguenza di una notizia (ad esempio:
dichiarazioni di collaboratori di giustizia) che deve essere attentamente riscontrata e
non è detto che, all'esito della verifica, consentirà l'esercizio dell'azione penale. Ma
per l'uomo politico il danno all'immagine pubblica si è realizzato già nel momento in
cui, ad esempio, il suo nome è associato ad una determinata famiglia mafiosa ed alle
vicende oggetto del procedimento in corso.
Il danno scaturente dalla diffusione della notizia riguarda anche, come è ovvio, il
prosieguo delle indagini, perché qualsiasi possibilità di riuscita di un atto
investigativo a sorpresa (si pensi a perquisizioni, sequestri, accesso ai luoghi) o di
buon esito per attività tecniche (intercettazioni ambientali o telefoniche) è pressoché
azzerato dopo che viene resa pubblica la notizia dell'iscrizione.
Ma vi è pregiudizio (in termini anche di stress emotivo) per il Pubblico Ministero che
si trova, inevitabilmente, dopo la arbitraria diffusione della notizia, al centro di
polemiche che possono arrivare ad investire non solo atti investigativi rientranti nella
sua sfera discrezionale, ma anche un atto dovuto come, appunto, l'iscrizione a Mod.
21. E' proprio dalla diffusione arbitraria delle notizie sulle iscrizioni a Mod. 21 che
scaturiscono, nella maggior parte dei casi, le campagne di stampa e gli attacchi nei
confronti dei Pubblici Ministeri.
Ma la diffusione arbitraria su organi di informazione di iscrizioni di notizie di reato
può determinare conseguenze significative (e negative) in campo economico e mi
riferisco, ovviamente, alle possibilità di speculazioni su titoli azionari. Il Legislatore
ha previsto, evidentemente, tali evenienze ed in questa direzione si inserisce il
comma primo dell' art. 185 D.L.vo 24 febbraio 1998 n. 58 che impone al Pubblico
Ministero, quando ha notizia di un delitto di abuso di informazioni privilegiate o di
aggiotaggio finanziario (che può essere conseguente, evidentemente, proprio alla
diffusione illegittima di notizie in ordine a iscrizioni sul registro degli indagati di
determinati soggetti) di informare, senza ritardo, il presidente della CONSOB.
22
Vediamo, adesso, concentrando la nostra attenzione sulla fase delle indagini
preliminari, quali sono le reazioni del sistema nel suo complesso conseguenti alla
violazione del segreto per come disciplinato dagli artt. 329
e 114 c.p.p.
evidenziando, già in prima battuta, che i profili che investono tale tematica sono
molteplici: penali, disciplinari ed etici ed investono la sfera del magistrato,
dell'investigatore, del difensore, del funzionario di segreteria del P.M. e del
giornalista, cioè tutti i soggetti che hanno, almeno in potenza, una continua
interazione con atti di indagine coperti dal segreto.
La prima norma che entra in gioco nella disamina che riguarda le conseguenze penali
della violazione del segreto, come sopra delineata, è l'art. 115 del c.p.p. che disciplina
le conseguenze scaturenti dalla violazione del divieto di pubblicazione di atti
delineato dagli artt. 329 e 114 c.p.p. e che costituisce, in un certo senso, uno
strumento utile a dividere, almeno per grandi linee, il profilo penale e quello
disciplinare della violazione.
Art. 115 (Violazione del divieto di pubblicazione)
1. Salve le sanzioni previste dalla legge penale (684 c.p.) la violazione del divieto di
pubblicazione previsto dagli artt. 114 e 329 comma 3 lett. B) costituisce illecito
disciplinare quando il fatto è commesso da impiegati dello Stato o di altri enti
pubblici ovvero da persone esercenti una professione per la quale è richiesta una
speciale abilitazione dello stato.
2. Di ogni violazione del divieto di pubblicazione commessa dalle persone indicate
nel comma 1
il pubblico ministero (51) informa l’organo titolare del potere
disciplinare.
L'articolo in esame, dunque, ci fornisce una prima indicazione chiara: la
pubblicazione integrale di un atto, che non deve essere pubblicato perché coperto dal
segreto assoluto, costituisce illecito penale sanzionato dall'art. 684 cp, sostituito nel
23
testo che di seguito si riporta dall'art. 45 della L. 24 novembre 1981. n. 689, in tema
di depenalizzazione. Rimane aperto, inoltre, il problema di pubblicazioni solo parziali
del contenuto di un atto. Che accade in tali evenienze? A mio parere il divieto
dovrebbe ricomprendere anche la pubblicazione parziale del contenuto dell'atto nelle
ipotesi in cui si tratti di parti significative ed in grado di vanificare la ratio
dell'articolo 114 c.p.p..
Ma la norma ci consente di riflettere, ancora una volta, su di un dato di grande
rilievo: il divieto di pubblicazione esiste anche per atti non più coperti dal segreto
istruttorio, quindi non vi è completa coincidenza fra segretezza e ambito di
divulgazione.
Art. 684 Pubblicazione arbitraria di atti di un procedimento penale.
Chiunque pubblica (57, 58), in tutto o in parte, anche per riassunto o a guisa
d'informazione, atti o documenti di un procedimento penale, di cui sia vietata per
legge la pubblicazione (114, 115, 329 c.p.p.), è punito con l'arresto fino a trenta
giorni o con l'ammenda da € 51 a € 258 (162 bis).
La fattispecie in oggetto non integra un reato di stampa perché la pubblicazione può
avvenire, almeno in astratto, con qualsiasi mezzo, ad esempio, nel corso di un
comizio o di un dibattito.
Invero, il dettato normativo è chiaro: la contravvenzione in esame si realizza con la
pubblicazione, per intero o per riassunto, di atti per i quali è vietata per legge la
pubblicazione. Viene, dunque, perseguita la condotta di chiunque pubblica, in tutto o
in parte, anche per riassunto, e a guisa di informazione, atti o documenti di un
processo penale di cui sia vietata la pubblicazione. Ne consegue che l'elemento
oggettivo del reato è costituito dalla divulgazione di atti o documenti oggetto di
indagine penale fino a quando la legge ne tutela (imponendola) la segretezza. Il reato,
invece, non sussiste quando viene pubblicata una notizia assolutamente generica,
senza alcun collegamento immediato e diretto con un atto del procedimento.
24
Meritano, a questo punto, menzione alcune pronunce della Suprema Corte a proposito
della sussistenza del reato di pubblicazione arbitraria di atti di un procedimento
penale.
In particolare, è significativo che, ai fini della sussistenza del reato di pubblicazione
arbitraria di atti di un procedimento penale, già una risalente pronuncia della Suprema
Corte (Cass pen. sez. V - 27 settembre 1984 - n. 7674) evidenziava che, per integrarsi
la fattispecie in esame, è irrilevante che la notizia sia stata già diffusa da altra fonte di
informazione e non desunta direttamente dagli atti processuali, perché, attraverso la
successiva pubblicazione, viene data all'atto medesimo maggiore diffusione e
propagazione. Peraltro, il principio è stato confermato dalla sentenza della Cass. pen.
sez. I. 24 settembre 1994 n. 10135 (cui abbiamo già fatto riferimento in precedenza a
proposito dell’art. 114 c.p.p.) che ha ribadito il principio secondo cui l’avvenuta
diffusione da parte di altri di notizie di atti di indagine coperte da segreto non fa venir
meno la segretezza e, quindi, il divieto di pubblicazione.
Le pronunce sono interessanti, con riguardo specifico alla fase delle indagini
preliminari, perché appaiono in sintonia più con il regime di segretezza assoluta che
vigeva nel vecchio codice di procedura penale (art. 164 c.p.p.) che con il “sistema
misto” adottato nel 1989.
Deve evidenziarsi, inoltre, che il Legislatore con il dettato dell'art. 13 del D.P.R. 22
settembre 1988 n. 448, con riguardo specifico alle fattispecie procedimentali nelle
quali risultano coinvolti soggetti di minore età (come indagati, come testimoni, come
parti offese) ha individuato con precisione una tipologia di atti coperti dal segreto ed
ha specificato le modalità attraverso le quali si integra il divieto di pubblicazione del
contenuto degli stessi atti.
In questo caso, in realtà, il divieto assoluto di pubblicare immagini che a qualsiasi
titolo possono collegare il minore all'indagine penale in corso è ben delineato anche
dalla giurisprudenza che ha sottolineato l'assolutezza del divieto di pubblicazione, e
quindi la sussistenza del reato di cui all' art. 684 cp, anche quando il nome del minore
era già conosciuto all'opinione pubblica. Si è ritenuto, infatti, che la notorietà di una
25
vicenda procedimentale nella quale è coinvolto un minore non può essere da sola
sufficiente ad escludere il reato nel caso di diffusione dell'immagine, poiché la
pubblicazione in se conferisce alla notizia una più ampia diffusione e maggior risalto
(cfr. Cass. pen., sez. VI, 30 maggio 1994, n. 6338) con conseguente pregiudizio alla
sfera dell' individuo (debole anche se indagato).
A questo punto occorre evidenziare che alcune questioni di ordine interpretativo
afferiscono al rapporto intercorrente fra la disposizione di cui all’art. 684 cp ed il
reato di rivelazione di segreto d'ufficio che, invece, è reato proprio, che può essere
commesso non da chiunque ma solo dal pubblico ufficiale o da persona incaricata di
pubblico servizio.
Art. 326 Rivelazione ed utilizzazione di segreti di ufficio.
Il pubblico ufficiale (357), o la persona incaricata di un pubblico servizio (358), che,
violando i doveri inerenti alle funzioni o al servizio, o comunque abusando della sua
qualità, (323, 325) rivela notizie di ufficio, le quali debbano rimanere segrete (201
c.p.p.), o ne agevola in qualsiasi modo la conoscenza, è punito con la reclusione da
sei mesi a tre anni.
Se l'agevolazione è soltanto colposa (43). si applica la reclusione fino a un anno .
Il pubblico ufficiale (357) o la persona incaricata di un pubblico servizio, (358) che,
per procurare a sé o ad altri un indebito profitto patrimoniale, si avvale
illegittimamente di notizie di ufficio, le quali debbano rimanere segrete, è punito con
la reclusione da due a cinque anni. Se il fatto è commesso al fine di procurare a sé o
ad altri un ingiusto profitto non patrimoniale o di cagionare ad altri un danno
ingiusto, si applica la pena della reclusione fino a due anni.
L'articolo in esame è stato sostituito con il testo vigente dall'art. 15 della L. 26 aprile
1990 n. 86 recante modifiche in tema di delitti dei pubblici ufficiali contro la
pubblica amministrazione.
Il testo precedente disponeva:
26
«326. (Rivelazione di segreti di ufficio). Il pubblico ufficiale. o la persona incaricata
di un pubblico servizio. che, violando i doveri inerenti alle funzioni o al servizio, o
comunque abusando della sua qualità rivela notizie di ufficio le quali debbano
rimanere segrete o ne agevola in qualsiasi modo la conoscenza è punito con la
reclusione da sei mesi a tre anni.
Se l'agevolazione è soltanto colposa, si applica la reclusione fino a un anno.
Nel 1990, dunque, il Legislatore ha delineato la condotta di reato descritta dall'ultimo
comma dell'art. 326 c.p.p. vigente, che punisce l'utilizzo strumentale ed illegittimo da
parte del pubblico ufficiale (o dell'incaricato di pubblico servizio) di notizie che
devono rimanere segrete, se divulgate al fine di procurare a se o ad altri un indebito
profitto patrimoniale. Se il fine perseguito è la realizzazione di un ingiusto profitto
non patrimoniale la pena è diminuita. Si tratta di un reato di pericolo effettivo e non
presunto (perché dalla rivelazione del segreto deriva ipso facto un danno alla P.A. o
alla sfera di un terzo) che, nell'ipotesi specifica della rivelazione, è plurisoggettivo in
via eventuale, a forma anomala e condotte eterogenee, ove è incriminabile,
ovviamente, anche l'istigazione alla rivelazione.
La rivelazione può, dunque, assumere svariate forme ed è di tutta evidenza che la
disposizione ha un ambito applicativo più ampio rispetto alla divulgazione arbitraria,
in senso stretto, di atti di indagine.
Invero, l’art. 326 c.p. richiama anche la nozione di segreto d'ufficio delineata dall'art.
201 c.p.p. e la legislazione speciale relativa alla medesima tematica (come, ad
esempio, l'art. 21 della L. 22 maggio 1978 n. 194, sull'interruzione volontaria della
gravidanza; l' art. 9 del D.L. 31 luglio 1987 n. 320, recante interventi in materia di
riforma del processo penale, convertito, con modificazioni, nella L. 3 ottobre 1987 n.
401 l' art. 6 della L. 17 maggio 1988 n. 172, recante istituzione di una commissione
parlamentare di inchiesta sul terrorismo in Italia; l' art. 3 della L. 25 febbraio 1992 n.
210, a riguardo dell' indennizzo a favore dei soggetti danneggiati da complicanze di
tipo irreversibile a causa di vaccinazioni obbligatorie, trasfusioni e somministrazione
di emoderivati).
27
Tale puntualizzazione consente di affermare che l'art. 326 cp è volto a sanzionare
qualsiasi violazione ed utilizzazione di segreto di ufficio, anche al di fuori dell'ambito
di un processo penale, mentre l'art. 684 cp si attaglia alla violazione dei divieti
tracciati dalle disposizioni degli artt. 329 e 114 c.p.p..
Per tale ragione, la giurisprudenza, in maniera uniforme, ha cristallizzato il principio
in base al quale non vi è assorbimento della contravvenzione di cui all'art. 684 c.p.
nel delitto di rivelazione dei segreti di ufficio previsto dall'art. 326 cp.
Peraltro, benché almeno in senso lato vi è identità dell'interesse tutelato dalle
disposizioni in esame, in realtà si tratta, nella maggior parte delle situazioni che nella
pratica si realizzano, di azioni differenti (e distinte anche temporalmente) che
integrano le due ipotesi di reato. Ad esempio, nel momento in cui il magistrato o il
funzionario di segreteria comunicano all'estraneo -al giornalista- la notizia
investigativa, cioè l'atto di indagine, che doveva rimanere segreto, essi commettono
il reato di cui all'art. 326 cp. Successivamente, con la pubblicazione degli atti, si
consuma la contravvenzione di cui all'art. 684 cp, con la possibilità di configurare il
concorso fra le due ipotesi delittuose (secondo le regole generali di cui agli artt. 110 e
seg. c.p.p. la cui applicabilità sarà verificata caso per caso).
Deve richiamarsi, a questo proposito, la giurisprudenza che si è formata, in materia di
rivelazione di segreto di ufficio, proprio in ordine alla cd. plurisoggettività anomala
della condotta incriminata.
Deve sottolinearsi, infatti, con riferimento al concorso dell’estraneus nel reato di cui
all’art.326 cp, che la Suprema Corte (Cass. pen. sez. I 28 aprile 1994 n. 4831) ha
ritenuto responsabile del reato di cui agli artt. 110 – 326 cp, in concorso con una
funzionaria della Procura della Repubblica, il privato che aveva riferito notizie
riguardanti una indagine giudiziaria sul conto di un terzo apprese durante rapporti
sessuali con la predetta funzionaria. Nel caso in esame, dunque, si è ritenuta la
sussistenza, in capo all’estraneus, di un contributo causale efficiente alla
divulgazione del segreto di ufficio.
28
La riflessione sottende, evidentemente, per quanto qui interessa, a situazioni che si
verificano frequentemente ed è volta ad individuare, nella pratica giudiziaria,
soluzioni volte, in qualche modo, ad arginare le cd fughe di notizie. Invero, la
disposizione dell’art. 326 cp prevede la punizione nei confronti del solo autore della
rivelazione (ad esempio, il magistrato del P.M.) mentre il mero recettore della notizia
(il giornalista) non potrebbe essere assoggettato a pena in conformità del principio di
legalità. Tuttavia, proprio i principi generali in tema di concorso di persone nel reato
consentono di non poter escludere la partecipazione morale al reato del destinatario
della rivelazione (nel caso di specie il giornalista). Per questo motivo, può verificarsi
che, di fronte alla fuga di notizie, si proceda all’iscrizione del giornalista a Mod. 21
per gli artt. 110 – 326 cp ipotizzando (quando vi siano, ovviamente, le condizioni del
caso concreto per farlo) un concorso (nelle forme della istigazione) con l’ignoto
pubblico ufficiale che ha rivelato la notizia.
Si tratta di casi limite ove può ipotizzarsi, oltre alle tradizionali forme della
determinazione e dell'istigazione, anche la sussistenza di un vero e proprio accordo
criminoso fra giornalista e pubblico ufficiale, che può estrinsecarsi nei modi più
svariati senza che vi sia alcuna possibilità di tipizzazione (Cfr. Cass. Pen. Sezioni
Unite 19 gennaio 1982 n. 420).
Deve, comunque, sottolinearsi che trattasi, nella maggior parte dei casi, di situazioni
nelle quali all’iscrizione a modello 21 del giornalista in concorso con l’ignoto
pubblico ufficiale, come pure avviene nel caso dell’iscrizione a modello 44 a carico
di soli ignoti, non segue alcuna possibilità di battere piste investigative produttive di
un qualche risultato per l’individuazione dell’autore della rivelazione. Infatti, il
giornalista, in entrambe le ipotesi, si avvale dell'opponibilità ai terzi del segreto in
ordine alla fonte della notizia oppure fornisce tesi evidentemente fasulle ma non
contestabili sul piano pratico come, ad esempio, l'aver avuto la notizia attraverso
l'invio di un anonimo. Peraltro, deve sottolinearsi che l'ultimo comma dell'art. 200
del codice di procedura penale prevede che, di fronte all'opposizione del segreto
professionale da parte del giornalista in ordine ai nomi delle cd . fonti, tuttavia se le
29
notizie sono indispensabili ai fini della prova del reato per cui si procede e la loro
veridicità può essere accertata solo attraverso l'identificazione della fonte della
notizia, il giudice ordina al giornalista di indicare la fonte delle sue informazioni. Si
tratta, per quanto mi consta, comunque, di una norma di scarsa applicazione pratica ,
che afferisce, in senso stretto, all'esame testimoniale innanzi al giudice del
dibattimento. Con riguardo, invece, alla fase delle indagini preliminari, la Cass.
Sez.VI con la sentenza 21 gennaio 2004 - 11 maggio 2004 nr.22397 ha ribadito il
principio secondo il quale il giornalista che si astiene dal deporre innanzi al Pubblico
Ministero - opponendo il segreto professionale in ordine all'indicazione di
informazioni
(nella
specie
utenze
telefoniche)
che
possono
condurre
all'identificazione di coloro che gli hanno fornito fiduciariamente la notizia - non
commette il reato di cui all'art.371 bis cp ( false dichiarazioni al Pubblico Ministero).
Può, dunque, affermarsi, senza timore di smentite, che dimostrare che il giornalista ha
istigato il Pubblico Ufficiale a dargli la notizia è pressoché impossibile.
Né valgono i tentativi, che pure nella pratica vengono svolti, di risalire alla fonte della
violazione del segreto attraverso l’acquisizione dei tabulati telefonici del giornalista,
specie nei casi più gravi (non infrequenti nella pratica) di rivelazione del segreto di
ufficio ove sorge il sospetto di un qualche sotteso intento di favorire la criminalità
organizzata, condotta che integra l’aggravante di cui all’art.7 l. 203/91.
A tale proposito, può essere interessante considerare che, in astratto, è possibile
ipotizzare, che la diffusione sugli organi di stampa di notizie coperte dal segreto
assoluto, oltre a pregiudicare le indagini, favorisca una organizzazione criminale, con
la conseguente configurabilità del reato di favoreggiamento personale che concorre
con quello di rivelazione di segreto di ufficio. Invero, le due figure criminose si
distinguono per la diversità del bene giuridico che tutelano e per le condotte che le
sostanziano.
In particolare, il reato di cui all’art. 378 cp, essendo a forma libera, abbraccia ogni
condotta che consente all’autore di un reato di eludere le indagini o di sottrarsi alle
sue ricerche, mentre l’art. 326 cp si caratterizza per la condotta specifica consistente
30
nella diffusione di notizie di ufficio che devono rimane segrete e dalla effettiva
conoscenza dell’atto da parte del terzo.
Per quanto qui interessa, dunque, può ipotizzarsi, in astratto, che il magistrato, il
funzionario di segreteria, l’appartenente alla Polizia Giudiziaria che rivelano al
giornalista un atto investigativo coperto dal segreto cd. assoluto (ad esempio: il
contenuto di una intercettazione disposta per la cattura di un esponente di spicco
della criminalità organizzata locale) possano realizzare il reato di cui all’art. 326 cp
proprio per favorire l’esponente mafioso, con conseguente sussistenza di un ipotesi di
concorso dei due reati.
Deve sottolinearsi, inoltre, che anche la giurisprudenza che si è formata con
riferimento alla disposizione dell’art. 326 cp presenta altri spunti di riflessione di un
qualche interesse e che richiamano alcuni concetti già sopra esposti.
In particolare, si è ritenuto che in tema di rivelazione di segreti di ufficio, il dovere di
segretezza in capo al pubblico ufficiale (nel caso di specie: magistrato del Pubblico
Ministero, organo di P.G., funzionario di segreteria) è escluso soltanto se la notizia di
ufficio sia divenuta, per causa non imputabile al predetto soggetto, di dominio
pubblico. Ma affinché si integri il cd. dominio pubblico non è sufficiente la
precedente pubblicazione della notizia su un numero limitato di quotidiani a
diffusione nazionale ma occorre qualcosa in più.
Invero, nel caso in cui questo quid pluris è deficitario è proprio la conferma da parte
del pubblico ufficiale che attribuisce alla notizia il crisma della credibilità (cfr. Cass.
pen. sez. VI 26 agosto 1997 n. 7960). Ciò, a ben vedere, sottende ad una situazione
che si verifica davvero frequentemente negli uffici di Procura. Molte volte, infatti,
appare su qualche quotidiano una indiscrezione (più o meno generica) in ordine ad un
atto di indagine coperto da segreto assoluto (ad esempio: sull’iscrizione di più
soggetti a Mod.21). Ebbene, il giornalista, ad esempio di altra testata, chiede agli
inquirenti conferma della veridicità della notizia stessa: stando alla giurisprudenza
31
sopra prospettata l’assenso da parte del Pubblico Ministero (o dell’organo di P.G. o
del funzionario di segreteria) costituisce violazione del segreto d’ufficio (art. 326 cp).
Ancora, deve evidenziarsi che il reato di cui all’art. 326 cp è configurabile anche
nell’ipotesi in cui si verifica, ex post, una sostanziale infondatezza della notizia.
Invero, in materia di notizie coperte dal segreto istruttorio, la rivelazione è
penalmente irrilevante solo nel caso sopra prospettato di informazioni già di pubblico
dominio, o palesemente ed assolutamente false, o prive di alcun significato, e non già
di fatti che si rivelino infondati dopo il giudizio valutativo del Pubblico Ministero,
possibile, nella maggior parte dei casi, solo a seguito di ulteriori e progressivi
accertamenti investigativi.
In sostanza, l'accertata infondatezza delle notizie oggetto di violazione del segreto
investigativo non fa venir meno, ab inizio, ogni interesse a che le stesse restino
assolutamente segrete e quindi permane la punibilità della rivelazione (Cass. pen.
sez. VI. 20 gennaio 1992 n. 3986).
Altra considerazione di un qualche interesse scaturisce dal fatto che l’art. 326 cp si
configura come reato di pericolo effettivo e non meramente presunto, tanto è vero che
la rivelazione del segreto è punibile, non già in se e per sé, ma in quanto suscettibile
di produrre un qualche nocumento agli interessi tutelati a mezzo della notizia da
tenere segreta. Ne consegue che il reato non sussiste, non solo nella generale ipotesi,
già sopra descritta nei suoi limiti, della notizia divenuta di dominio pubblico, ma
anche nel caso in cui, trattandosi di notizie di ufficio ancora segrete, le stesse siano
rivelate a persone autorizzate a riceverle cioè che debbono necessariamente esserne
informate per la realizzazione dei fini istituzionali connessi al segreto.
Si pensi, a titolo esemplificativo, all’ipotesi del tecnico della Telecom che, per
attivare una intercettazione telefonica od ambientale, benché estraneo ai meccanismi
del procedimento penale, conosce, proprio per il suo lavoro, l’esistenza delle attività
di captazione. Deve, però, sottolinearsi che, ovviamente, l’impiegato della Telecom
non potrà conoscere l'evoluzione della notizia oltre i termini dell'apporto specifico da
lui stesso fornito all’indagine.
32
La Corte di Cassazione ha ritenuto, inoltre, che sono ricompresi in questa categoria di
soggetti che possono conoscere un certo frammento del procedimento investigativo
senza che si realizzi il reato di cui all’art. 326 cp, le parti offese di un delitto di
estorsione e i loro familiari che abbiano chiesto (ed ottenuto) dal Pubblico Ministero
il controllo dei loro apparecchi telefonici (cfr. Cass. pen. sez. VI 26 agosto 1994 n.
9306).
Deve evidenziarsi, inoltre, che nel reato di rivelazione e utilizzazione di segreti di
ufficio di cui all'art. 326 c.p. persona offesa è solo la pubblica amministrazione e non
il soggetto in potenza pregiudicato dalla rivelazione - nel caso che qui interessa dalla
pubblicazione a mezzo stampa - della notizia di un atto di indagine a suo carico
coperto dal cd. segreto assoluto. Infatti, la Suprema Corte (cfr. Cass. pen. sez. VI
ord. 9 ottobre 1998 n. 2675), nel caso di notizie pubblicate da un giornale inerenti ad
indagini nei confronti di un esponente politico a seguito delle quali quest’ultimo
presentava denuncia, ritenendosi parte offesa del reato di cui all’art. 326 cp,
procedimento successivamente archiviato, ha dichiarato inammissibile il ricorso per
cassazione del denunciante avverso il provvedimento di archiviazione.
Va solo accennato, a conclusione di questa disamina, che i pubblici ufficiali (e i
pubblici funzionari) che, in ragione della loro professione, sono a conoscenza
(devono venire a conoscenza) di atti coperti dal segreto sono numerosissimi, specie
in fase di indagini preliminari. Ad esempio, di una attività di intercettazione sono a
conoscenza, oltre che il P.M. che l’ha richiesta ed il GIP che l'ha autorizzata, anche:
l'organo di P.G. che ha fornito gli elementi investigativi a supporto della richiesta,
composto, necessariamente, da più soggetti deputati anche alla successiva fase di
ascolto e trascrizione, il funzionario addetto alla segreteria del P.M. ed alla
cancelleria del GIP che provvedono all'inoltro delle richieste di proroga, il personale
tecnico delle compagnie telefoniche che curano la fase attuativa della messa a
disposizione delle linee.
Di fronte a queste considerazioni meramente numeriche è davvero possibile
ipotizzare situazioni ove (almeno in astratto) non possano aprirsi falle
33
pericolosissime? E soprattutto, nel caso in cui si realizza la cd. fuga di notizie, si
comprende quali sono le difficoltà enormi in cui si trovano i soggetti che, a loro volta,
sono chiamati ad individuare gli autori della violazione di cui all'art. 326 cp.
2) Le diverse tipologie di indagini preliminari ed il rapporto fra Pubblico Ministero
(e organi di Polizia Giudiziaria) e mass media nelle differenti ipotesi.
Si tratta di una materia nella quale è necessario muoversi con estrema cautela perché
(pur senza alcuna pretesa di completezza) è molto difficile districarsi, in concreto, fra
i diversi piani (penale, disciplinare e deontologico dei quali si è innanzi riferito) che,
proprio nella fase delle indagini preliminari, si sovrappongono (e vengono, spesso, a
confliggere) in ordine ai rapporti fra Pubblico Ministero e mezzi di informazione.
Un dato è, comunque, certo: è auspicabile individuare delle linee di condotta comuni
al fine di evitare modalità comportamentali affidate alla discrezionalità del singolo
sostituto con ricadute negative per l'intero sistema, fino al gravissimo rischio di creare
canali di informazione privilegiati con singoli giornalisti solo in ragione di rapporti
personali con l'Ufficio del Pubblico Ministero.
In sostanza, la necessità che nella delicata fase delle indagini preliminari, negli Uffici
di Procura, si seguano linee comportamentali unitarie è volta proprio alla
salvaguardia, nella loro essenza, di quei diritti, costituzionalmente garantiti, ai quali
abbiamo fatto più volte riferimento, e fra questi, primo fra tutti, vi è sicuramente il
diritto della collettività ad una informazione obiettiva.
Ma l'altro interesse che nella fase delle indagini preliminari viene in gioco è quello
che sottende all'art. 27 della Costituzione. Infatti, se ognuno deve essere presunto
innocente fino a sentenza definitiva di condanna deve essere salvaguardata, in
qualche modo (e bilanciata con il diritto della collettività ad essere informata), la
dignità e la reputazione degli indagati. Come, peraltro, deve salvaguardarsi la sfera
dei soggetti (non indagati) coinvolti, magari per puro caso, nelle attività investigative
34
(ad esempio, l'amante dell'indagato sottoposto ad intercettazione o agli intestatari di
utenze telefoniche risultanti da acquisizioni di tabulati): si tratta di soggetti che non
hanno tenuto condotte penalmente rilevanti ed hanno il diritto che vicende afferenti
alla loro sfera privata non vengano messe in piazza anche perché non vi è, al
contrario, alcun interesse generale alla divulgazione dei loro affari.
Anche con riguardo alle tematiche che di seguito accennerò, molto spesso ( e ve lo
segnalo in anticipo) opererò una sovrapposizione fra gli effetti negativi della
violazione del segreto investigativo e quelli della violazione del divieto di
pubblicazione. La giustificazione della modalità di trattazione, anche in questo caso,
deve essere individuata nel tentativo di fornire, peraltro in maniera sintetica, una
prospettazione delle conseguenze pratiche della violazione del segreto investigativo
che si realizza, frequentemente e per quel che in questa sede ci occupa, proprio
attraverso l'utilizzo di un metodo errato di comunicazione di fatti che rivestono
rilievo penale.
Occorre, in primo luogo, evidenziare che vi sono indagini ove il segreto investigativo,
in senso lato, non è mai assoluto. Si pensi, ad esempio, all'omicidio, quando il P.M.
interviene pressoché nell'immediatezza del fatto e la collettività è subito informata
dell'evento che, ovviamente, è per sua natura di interesse generale.
Si tratta di quelle situazioni nelle quali il Pubblico Ministero, che interviene sulla
scena del crimine appena informato dalla P.G. operante, molto frequentemente già
trova, sul posto, giornalisti e telecamere, nonostante le precauzioni, di carattere
tecnico, che vengono disposte per la salvaguardia dello stato dei luoghi. Si tratta, in
sostanza, di situazioni, tutte di estrema delicatezza, nelle quali il P.M. spesso compie
direttamente (o dà comunque impulso) alle prime indagini quasi in diretta. Ed è
evidente che proprio l'accesso immediato dei mezzi di informazione alla notizia del
fatto illecito e delle indagini svolte per accertarne gli autori rende frequente il
verificarsi di un divario, pericolosissimo in una fase così delicata, fra ciò che viene
35
(faticosamente) acquisito nei primi incartamenti e quanto, invece, viene riferito dagli
organi di informazione.
In sostanza, si può verificare che le notizie diffuse sulle indagini siano, per lo stesso
P.M. (e per la P.G. operante) qualcosa di estraneo (cioè di altro) rispetto alla sostanza
degli effettivi accertamenti in corso. Si hanno, in questo caso, almeno tre
conseguenze negative. La prima è che all'opinione pubblica giungono notizie che non
rispecchiano (in molti casi) l'effettiva situazione delle indagini. In secondo luogo, si
verifica il rischio di irrimediabili compromissioni di piste investigative che pure
potrebbero essere fruttuose se non vi fosse eccessivo clamore sui fatti. In terzo luogo,
per lo stesso Pubblico Ministero la rappresentazione mediatica del fatto umano
sottoposto alle sue cure diviene qualcosa di diverso (addirittura a lui estraneo)
rispetto all'indagine in corso di svolgimento, con la conseguenza che solo il richiamo
a doti personali di equilibrio e riservatezza del singolo magistrato consentono di
gestire, in concreto, lo stress del rapporto continuo, rispetto ad un fatto eclatante, con
gli organi di informazione.
Purtroppo, però, si tratta di situazioni nelle quali l'impatto mediatico immediato non è
in nessun modo evitabile e dove tutto è affidato (ancora una volta) al buon senso del
Pubblico Ministero e dei suoi collaboratori ed al rispetto, da parte dei cronisti, delle
regole deontologiche che pure improntano quella professione.
Vi sono, invece, tipologie di indagini ove il segreto investigativo è assoluto (o
dovrebbe esserlo in mancanza di situazioni patologiche che vengono, comunque, ad
integrare l'ipotesi delittuosa dell'art.326 c.p.) fino alla fase della esecuzione della
eventuale misura cautelare o, comunque, del primo atto cui il difensore ha diritto di
assistere.
Si tratta di situazioni nelle quali, se non vi è richiesta di misura cautelare e non si
procede al compimento di un atto garantito, qualora non vengono acquisiti elementi a
sostegno dell'ipotesi investigativa originaria, il procedimento si può concludere con
la richiesta di archiviazione ed il segreto, almeno in astratto, non viene mai meno.
36
Anche se, in queste ipotesi, vi è la possibilità che il soggetto che è stato indagato,
appreso in qualche modo del procedimento a suo carico, chieda di conoscere le
motivazioni della richiesta di archiviazione, accompagnando tale istanza con la
richiesta di copie degli atti del procedimento (art. 116 c.p.p.). Trattasi, però, di
situazioni nelle quali non sussiste alcun diritto a conoscere di questi atti e dove il
Giudice che ha emanato il decreto di archiviazione deciderà sentito il P.M.
Deve considerarsi, inoltre, che per alcune tipologie investigative, ad esempio
nell'accertamento relativo a reati contro la P.A., il pericolo che si diffondano,
illegittimamente, notizie sull'indagine, fin dal momento dell'iscrizione a Mod. 21,
determina danni (per la buona riuscita dell'indagine e per l'immagine dell'indagato,
che spesso è uomo pubblico) che appaiono immediatamente percepibili. E sono danni
che non possono essere giustificati neppure dall'interesse generale a conoscere dei
fatti in quanto non è infrequente che l'iscrizione a Mod. 21 si atteggi come atto
dovuto e presupposto necessario per il compimento di altri atti di indagine (ad
esempio: una perquisizione) che potrebbero non confortare l'ipotesi investigativa e
condurre ad una richiesta di archiviazione. In questi casi, in sostanza, il danno
all'immagine dell'indagato, che riveste una funzione pubblica, è davvero notevole (ed,
ingiustificato) proprio perché l'ipotesi investigativa non trova conferma negli
elementi di prova raccolti a suo carico. Ma anche in questa evenienza non sono
individuabili correttivi diversi oltre alla necessaria cautela con cui devono essere
gestite dai depositari le notizie in questione.
Ma la diffusione indiscriminata di notizie su una indagine crea danni davvero
notevoli quando si tratti di ipotesi delittuose di criminalità organizzata.
Si pensi, a titolo meramente esemplificativo, ai danni che può creare la diffusione
della notizia del pentimento di un capo cosca nella prima fase dell'iter collaborativo.
Si crea, infatti, nel momento della divulgazione della notizia del pentimento, un
pericolo concreto per l'incolumità del neo collaboratore e del suo nucleo familiare
37
(prima ancora che siano stati predisposti i meccanismi previsti dalla legge sui pentiti
volti a salvaguardarla).
Ma la diffusione arbitraria della notizia di un pentimento danneggia, davvero
irrimediabilmente, la possibilità di sfruttare al massimo le potenzialità e l'utilità della
collaborazione stessa, sia per quanto concerne la cattura di latitanti che
l'individuazione, ad esempio, di armi a disposizione dell'organizzazione criminale.
In sostanza, una fuga di notizie sulla collaborazione può pregiudicare, in maniera
irreversibile, la delicata fase delle indagini a riscontro dell'attendibilità del neo
pentito.
Ne consegue che, in tali tipologie delittuose, il segreto assoluto (e la particolare
vigilanza nel mantenerlo da parte dei depositari delle notizie) è strumento
indispensabile ed inderogabile per conseguire - o sperare di conseguire - un risultato
investigativo utile.
In un secondo momento, quando viene resa nota (ad esempio, a seguito
dell'emissione di una ordinanza di custodia cautelare basata sulle dichiarazioni del
neo pentito) la notizia della collaborazione, l'opinione pubblica, attraverso l'esercizio
del diritto di cronaca, acquisisce legittimamente consapevolezza della nuova realtà,
ma a ben vedere, anche in questo momento, si annidano rischi di inquinamento
scaturenti dalla ipotizzabile difformità fra verità del fatto e la sua rappresentazione
mediatica.
Invero, la dilatazione enorme che i mass media tendono a dare ai racconti dei pentiti
produce come effetto la percezione (errata, fino a sentenza definitiva di condanna con
riguardo al singolo indagato) di tali dichiarazioni come verità assolute, pur in
mancanza dei riscontri cui si è già fatto riferimento.
D'altra parte, e sotto un profilo diverso, deve considerarsi che la violazione del
segreto investigativo in tema di indagini di criminalità organizzata, può determinare
(in senso lato, ovviamente) un beneficio per l'organizzazione criminale. Invero, in
diverse occasioni, immediatamente dopo la cattura di pericolosi latitanti appartenenti
38
a Cosa Nostra, in sede di perquisizione dei luoghi ove gli stessi avevano trovato
rifugio, abbiamo sequestrato numerosi giornali nella disponibilità del boss ove
venivano riportati articoli dettagliati su indagini in corso.
Evidentemente, anche l'organizzazione criminale è interessata alle notizie, per altre
ed opposte finalità di autotutela! Ne consegue che la mancata osservanza dei criteri
normativi in tema di segreto (e delle norme deontologiche in tema di dovere di
riserbo) può indirettamente favorire dinamiche interne alla criminalità organizzata!
Anche in tali casi, al di là dell'osservanza delle regole cui tutti siamo chiamati, però,
non sussistono, ovviamente, rimedi per impedire che i mafiosi leggano i giornali!
Sempre in tema di criminalità organizzata, le fughe di notizie possono creare, ancor
di più che in altre tipologie investigative, preoccupazioni - e quindi pericolo concreto
di inquinamento - delle persone informate sui fatti e sui consulenti tecnici. Invero,
questi soggetti, dopo aver conosciuto la rappresentazione mediatica di una
determinata vicenda di mafia, potrebbero incontrare grosse difficoltà a svincolarsi
dalla rappresentazione prospettata dall'organo di stampa e, quindi, a ricostruire
l'essenza della vicenda di cui sono stati testimoni o, comunque, sottoposta al loro
giudizio valutativo di tipo tecnico.
Inoltre, l'indiscriminata diffusione di notizie in ordine ad indagini di criminalità
organizzata può determinare che dalla violazione del segreto istruttorio scaturiscano
altri reati o diversi e concreti pericoli per tutti i soggetti coinvolti nel circuito
mediatico. Penso, ad esempio, ai rischi di avvicinamento, con conseguenti minacce
più o meno esplicite, per il testimone quando se ne diffonde l'identità, ed alla
eccessiva sovraesposizione per il magistrato inquirente con i rischi conseguenti per la
sua incolumità, ed alle faide fra gruppi criminali contrapposti che pure possono
originare da sconsiderate fughe di notizie, integrate anche attraverso la diffusione
sugli organi di stampa.
Deve considerarsi, infine, che la necessità di salvaguardare il più possibile il segreto
investigativo su indagini di criminalità organizzata ispira, in maniera significativa,
39
due istituti. Invero, se il reato rientra fra quelli di criminalità organizzata, ai sensi
dell'art. 335 comma terzo c.p.p., l’indagato non ha il diritto di sapere dell’iscrizione a
suo carico (ne abbiamo già fatto cenno in precedenza). Inoltre, per questa tipologia di
reati non è prevista la notifica all'indagato del decreto di proroga del termine per lo
svolgimento delle indagini emesso dal GIP su richiesta del P.M.
Con riferimento alle indagini in materia di riciclaggio e a fattispecie riguardanti reati
societari e, più in generale, in tutte le ipotesi delittuose riconducibili all'alveo del
diritto penale commerciale, abbiamo già fatto cenno ai pericoli che scaturiscono dalla
violazione del segreto investigativo che può determinare danni gravissimi sul piano
economico e pregiudicare (almeno in potenza) la stessa sopravvivenza dei gruppi
societari. Invero, il rischio concreto è costituito dalla compromissione dell'immagine,
anche all'estero, del gruppo societario coinvolto nell'indagine, con conseguenti
refluenze negative sul mercato azionario e, qualora le indagini dovessero concludersi
con una richiesta di archiviazione, tali effetti negativi sul sistema economico nel suo
complesso appaiono ingiustificati.
Ma, ovviamente, anche con riferimento a tali evenienze, non vi sono rimedi se non,
ancora una volta, l'applicazione rigorosa delle norme del codice di procedura penale
sopra delineate e confidare
nella professionalità di quanti, per ragione del loro
ufficio, si trovano a gestire notizie di indagini così delicate.
Deve farsi cenno, inoltre, ad altre situazioni nelle quali la diffusione della notizia
dell'indagine può compromettere, in maniera davvero significativa, la sfera psichica
delle vittime del reato e degli stessi indagati.
Il riferimento è, principalmente, alle investigazioni in materia di reati sessuali, ai
danni, ad esempio, di minori, ove (nonostante le cautele ed i limiti significativi
introdotti dal Legislatore in materia di diffusione dell'immagine, cui si è già fatto
cenno) la cassa di risonanza mediatica determina, comunque, riflessi negativi sulla
sfera emozionale dei soggetti deboli. Peraltro, si tratta di tipologie investigative nelle
40
quali le delicatissime indagini dovrebbero essere svolte lontano il più possibile dal
clamore giornalistico, anche nell'interesse degli indagati che (spesso legati da vincoli
stretti anche parentali con i minori) potrebbero subire, ingiustificatamente, se l'ipotesi
investigativa non trova riscontri, gli effetti negativi della riprovazione collettiva che
anticipa un giudizio che potrebbe non celebrarsi mai.
Inoltre, nelle indagini in materia di usura e di estorsione, che spesso poggiano sulle
dichiarazioni delle vittime di tali reati, è di tutta evidenza che le fughe di notizie
realizzate a mezzo stampa in ordine all'esistenza degli accertamenti in corso
determinano pericoli concreti per l'incolumità fisica delle stesse parti offese e
inducono, in molti casi, a ritrattazioni delle propalazioni accusatorie nella stessa fase
delle indagini preliminari e senza che sia sufficiente, per evitare tali evenienze e
salvare gli elementi di prova acquisiti, il tempestivo ricorso all'istituto dell'incidente
probatorio.
E' opportuno, a questo punto, fare un cenno agli strumenti che, quotidianamente,
utilizza il P.M. con l'intento di evitare le conseguenze gravissime scaturenti dalla
violazione del segreto investigativo.
Oltre alla secretazione dell'iscrizione per un periodo che, comunque, non può essere
superiore a tre mesi e non è rinnovabile, alla possibilità (limitata, come si è già
accennato in precedenza) di far ricorso alla secretazione del contenuto dell'atto, uno
strumento significativo è costituito dagli omissis.
Il termine atecnico richiama, invero, una attività che impegna molto gli uffici del
Pubblico Ministero.
Si pensi, ad esempio, ad atti di una indagine di criminalità organizzata nel corso della
quale, nel corso di intercettazioni ambientali o telefoniche, emergono riferimenti al
coinvolgimento in attività delittuose di uomini politici o di soggetti del mondo dello
spettacolo, cioè di personaggi, in qualche modo, noti all'opinione pubblica. Con
riferimento a tali spunti investigativi, ovviamente, si aprono altrettanti fascicoli per
41
riscontrare e supportare gli spunti provenienti dall'intercettazione cui si è fatto sopra
cenno. Ed è evidente che i due procedimenti avranno (almeno nella maggior
frequenza dei casi) tempi diversi. Pertanto, può accadere che la stessa intercettazione
venga utilizzata prima per richiedere una ordinanza di custodia cautelare, ad esempio,
per partecipazione a Cosa Nostra, mentre è ancora in corso la fase delle indagini
(coperta dal segreto assoluto) nei confronti dei soggetti dei quali si assumono contatti
con l'organizzazione criminale. In questo caso si procede ad un attenta attività di
omissatura di ogni riferimento all'identità dell'indagato che è volta a non bruciare gli
accertamenti investigativi in corso. In sostanza, il criterio guida è costituito dalla
necessità di non pregiudicare, attraverso il deposito di atti in un certo procedimento,
filoni di altre indagini. Ed è chiaro che l'operazione è delicatissima perché, da un lato,
il Pubblico Ministero ha l'obbligo di depositare alle difese, in certe fasi, come ad
esempio, innanzi a Tribunale del Riesame, tutti gli elementi di prova (a carico ed a
favore dell'indagato) ma, dall'altro, esiste (e deve essere salvaguardato) il segreto
investigativo su indagini parallele e, comunque, vi è anche, sullo sfondo, l'interesse
dello stesso politico o amministratore "incappato" nei contatti con il mafioso a non
vedere il suo nome associato agli esponenti di una certa cosca, almeno fino al
compimento del primo atto garantito che costituisce il limite delineato dall'art. 329
c.p.p..
Ho già detto che l'attività di omissatura è molto delicata ed impegna il Pubblico
Ministero per numerosi momenti dell'attività investigativa, nel corso delle indagini
preliminari. Ad esempio, e per dare una idea di come si tratta di una operazione
estremamente complessa, pensiamo ai verbali resi dai collaboratori di giustizia nel
corso dei 180 giorni fissati dalla legge nr. 45 del 2001 per l'acquisizione delle
dichiarazioni.
In ogni verbale (spesso gli interrogatori, anche in considerazione della brevità del
termine, durano intere giornate) vengono acquisiti spunti investigativi nei confronti di
soggetti diversi e per contesti differenti che verranno utilizzati, di conseguenza, in
altrettanti procedimenti (dopo, ovviamente, l'attività di riscontro) con momenti di
42
ostensibilità (cioè di deposito alle difese) altrettanto diversi. Proprio la divergenza
temporale del deposito del contenuto dello stesso verbale determina quella capillare
(necessariamente attenta, a volte estenuante) attività di omissatura cui ho fatto
riferimento.
3) Problematiche afferenti al momento dell'emissione dell'informazione di garanzia,
dell'interrogatorio
dell'indagato,
dell'emissione
dell'ordinanza
di
custodia
cautelare, del deposito degli atti al Tribunale del Riesame.
a) L'emissione dell'informazione di garanzia (che coincide con il momento in cui
deve essere compiuto un atto cui il difensore ha diritto di assistere, come modificato
dall'art. 19 l. 8 agosto 1995 nr. 332) è atto delicatissimo.
La stessa modifica intervenuta nel 1995, ed in particolare tutte le cautele che devono
osservarsi per la trasmissione (per posta, in piego chiuso raccomandato con ricevuta
di ritorno), sono chiaramente ispirate alla necessità di salvaguardare la privacy
dell'indagato.
Si è subito compreso, infatti, dopo l'entrata in vigore del codice di procedura penale
del 1989, che proprio in questo invio dell'informazione di garanzia si annidano
pericolosi equivoci che hanno determinato non poche storture nell'auspicato
bilanciamento di interessi costituzionali che vengono a confliggere.
Se l'informazione di garanzia è un atto che fisiologicamente deve servire all'indagato
a prendere coscienza dell'esistenza dell'indagine a suo carico (con l'indicazione delle
norme di legge che si assumono violate, della data e del luogo del fatto) in una
prospettiva che è a garanzia del suo diritto di difesa (con l'invito ad esercitare la
facoltà di nomina di un difensore di fiducia) essa è diventata, nella pratica, nel
momento della diffusione sugli organi di informazione, lo spunto per campagne di
stampa che, in molti casi, hanno compromesso non solo la sfera dell'indagato ma
anche quella del P.M. spesso accusato ingiustamente (benché avesse compiuto solo
un atto cui è tenuto per legge) di finalità extra processuali.
43
Rimane, comunque, irrisolto, in sede giurisprudenziale, il problema se l'informazione
di garanzia è o meno oggetto di segreto mentre è di tutta evidenza che sulla sua
emissione il P.M. deve mantenere il più assoluto riserbo.
b) L'interrogatorio dell'indagato costituisce ulteriore atto con riferimento al quale
possono confliggere il diritto di cronaca, tutela della privacy ed esigenze di
segretezza delle indagini.
E' frequentissimo, infatti, che dopo l'interrogatorio l'indagato ed il suo difensore
rilascino agli organi di stampa notizie sul contenuto dell'atto ed, a ben vedere,
possono avere un qualche interesse a farlo per rafforzare (anche attraverso la cassa di
risonanza dei mezzi di informazione) le loro tesi difensive.
Ma può trattarsi di notizie non rispondenti al vero, addirittura di notizie che travisano
la realtà, con conseguenze pregiudizievoli per la collettività che deve avere una
corretta informazione!
Ancora, in questi casi, che possibilità ha l'Ufficio del P.M. (anche in considerazione
della ridefinizione dei rapporti con la stampa prevista dal nuovo ordinamento di
giudiziario) di ristabilire (senza incorrere in altrettante ipotesi di illecito disciplinare)
la verità dei fatti (che è, comunque, verità relativa perché in fase di indagini
preliminari si valutano gli elementi a sostegno di una ipotesi investigativa ma non vi
sono certezze)? Il problema resta senza soluzione e dà, comunque, conto delle
difficoltà del bilanciamento dei molteplici interessi in gioco ai quali abbiamo fatto
riferimento molte volte in questo intervento.
c) Con la diffusione sui mezzi di comunicazione delle notizie in ordine all'esecuzione
di una ordinanza di custodia cautelare, l'opinione pubblica ha piena contezza
dell'esistenza di una indagine e della sussistenza, a carico di alcuni fra i soggetti
indagati, di gravi indizi di colpevolezza in ordine ad una determinata ipotesi
delittuosa.
44
Normalmente, attraverso le conferenze stampa, gli investigatori, frequentemente
insieme al Pubblico Ministero, come si è già detto in precedenza, illustrano (a
garanzia, in questo caso, della correttezza dell'informazione) le linee guida delle
indagini ma è di tutta evidenza che questa parentesi pubblica può costituire occasione
(o tentazione!) della violazione del dovere di riserbo cui il magistrato è tenuto e,
dall'altro, può incidere negativamente sugli interessi dei soggetti attinti dalla misura.
Se alle tentazioni di protagonismo del P.M. in questa fase si può porre rimedio con un
continuo richiamo ai principi deontologici cui si è fatto ampio richiamo in
precedenza, mi pare interessante accennare ai rimedi legislativi che, invece, sono stati
attuati a tutela dell'arrestato. Mi riferisco, principalmente, al divieto di diffondere
l'immagine delle persone in vinculis che, come si è già detto in precedenza, è stato
introdotto dalla l. nr. 477 del 1999 e che costituisce un significativo (e giustificato)
limite al diritto di cronaca. Si è, così, inteso porre un argine a prassi seguite in spregio
di ogni principio volto alla tutela della dignità personale.
Ne consegue che, anche quando nel corso di una conferenza stampa si illustrano i
risultati investigativi, non può diffondersi l'immagine del soggetto in manette.
Verosimilmente (anche se la pratica quotidiana disattende il divieto) dovrebbe
rientrare nella previsione normativa anche la pubblicazione dell'immagine
dell'arrestato a braccetto con gli ufficiali di P.G. che hanno proceduto all'operazione.
d) Altro momento centrale e delicato del tentativo di bilanciare i diversi interessi in
gioco in fase di indagini preliminari è costituito dal deposito al Tribunale del Riesame
di tutti gli atti che hanno costituito il presupposto dell'emissione di un provvedimento
cautelare.
Invero, l'art. 309 comma 5 c.p.p. recita: "Il presidente cura che sia dato immediato
avviso all'autorità procedente la quale, entro il giorno successivo, e comunque non
oltre il quinto giorno, trasmette al tribunale gli atti presentati a norma dell'art.291
comma primo nonché tutti gli elementi sopravvenuti a favore della persona
sottoposta ad indagine"
45
L'assolutezza del dettato normativo e le conseguenze, in termini di inefficacia della
misura, in caso di mancato inoltro, impongono al Pubblico Ministero una particolare
attenzione a questa fase del procedimento.
Purtroppo, però, il momento del deposito al Tribunale del Riesame frequentemente
coincide non solo con la conoscibilità all'esterno del contenuto degli atti di indagine
ma anche con la violazione del divieto di pubblicazione del contenuto degli stessi.
E' frequentissimo, infatti, che proprio in questo momento (a distanza di pochi giorni
o, addirittura, di poche ore) vengano pubblicati su quotidiani proprio gli atti di
indagine presupposti della misura ( fermo restando che la diffusione del contenuto di
atti afferenti all'indagine si verifica frequentemente già con la notifica dell'ordinanza
di custodia cautelare ).
Anche in questo caso il pregiudizio investe sia la sfera dell'indagato, rispetto al
diritto alla riservatezza, che quella del P.M. rispetto alle possibilità di sviluppare con
successo ulteriori piste investigative dopo che è stato reso pubblico, ad esempio, il
contenuto di un atto di indagine (spesso delicatissimo) che ne è il presupposto ed il
Pubblico Ministero deve tenerne conto nella sua tempistica.
4) I dati sensibili contenuti nelle trascrizioni delle intercettazioni.
L’art. 15 della Costituzione dispone che ogni limitazione alla inviolabilità delle
comunicazioni deve ritenersi eccezionale e va strettamente attuata con le garanzie e
nei limiti stabiliti dalla legge. Può accadere che il contenuto di intercettazioni entri
illegittimamente negli atti giudiziari, in modo particolare nelle richieste e nelle
ordinanze applicative di misure cautelari. Tale eventualità integra una lesione
significativa dell’art. 15 della Costituzione.
Gli artt. 326, 55 e 327 del codice di procedura penale delineano il quadro normativo
di riferimento in base al quale le intercettazioni devono essere necessarie per le
determinazioni inerenti all’esercizio dell’azione penale, con la conseguenza che, se
46
non necessarie,
non possono essere svolte e se lo sono non devono essere
documentate.
Il concetto è rafforzato dall’art. 267 del codice di procedura penale, secondo il quale
l’intercettazione di conversazioni telefoniche è possibile solo se è assolutamente
indispensabile ai fini della prosecuzione delle indagini. L’ art. 267 c.p.p. è stato
integrato dagli articoli 11 e 15 del decreto legislativo 196 del 30 giugno 2003 ( cd.
codice sulla privacy), applicabili in ambito giudiziario, secondo cui i dati personali
oggetto di trattamento devono essere, tra l’altro, pertinenti, completi e non eccedenti
rispetto alle finalità per le quali sono raccolti o successivamente trattati (art. 11 ),
con la previsione che chiunque cagiona danno ad altri per effetto del trattamento di
dati personali è tenuto al risarcimento ai sensi dell’art. 2050 del codice civile ( vedi
successo art. 15 ), che tratta della responsabilità per l’esercizio di attività pericolose.
La conseguenza immediata e diretta della legge sopra richiamata è che la Polizia
Giudiziaria, il Pubblico Ministero o il Giudice che maneggiano dati sensibili acquisiti
attraverso le attività di intercettazione ambientale o telefonica sono responsabili
civilmente. Invero, in caso di violazione del divieto di utilizzazione di dati non
pertinenti o eccedenti, come sono sicuramente i dati personali riguardanti terzi
estranei e privi di rilevanza penale, scaturisce l’obbligo del risarcimento del danno
anche non patrimoniale. Può, dunque, affermarsi che, al fine di salvaguardare il
principio di cui all’art. 15 della Costituzione, può essere acquisito agli atti solo il
materiale probatorio rilevante per il giudizio, con la esclusione del materiale non
pertinente sia dell'imputato che di terzi. Peraltro, già dal 1973 , con la sentenza nr. 34
del 6 aprile, la Corte Costituzionale ha affermato che “la puntuale osservanza degli
artt. 2 e 15 della Costituzione è essenziale e che violerebbe gravemente entrambe le
norme costituzionali un sistema che, senza soddisfare gli interessi di giustizia, in
funzione dei quali è consentita la limitazione della libertà e della segretezza delle
comunicazioni, autorizzasse la divulgazione in pubblico dibattimento del contenuto
di comunicazioni telefoniche non pertinenti al processo”. Si può, dunque, affermare
che la tutela della privacy nelle comunicazioni, specie se di terzi estranei, non può
47
subire pregiudizio. Possiamo, dunque, affermare che i cd dati sensibili devono essere
manovrati con estrema cura, come si ricava, in via immediata e diretta dal tenore del
comma 2 dell’art. 269 c.p.p. , ove è previsto che gli interessati ( anche se estranei alle
indagini), quando la documentazione non è necessaria per il procedimento, possono
chiederne la distruzione, a tutela della riservatezza.
Inoltre, proprio la delicatezza nella gestione dei dati sensibili, secondo quanto
previsto dal codice sulla privacy, riconosce al garante poteri di intervento nell’ambito
giudiziario. Si tratta di poteri di carattere residuale ma che appaiono di una certa
rilevanza. A titolo meramente esemplificativo, possiamo richiamare la presa di
posizione assunta dal garante con provvedimento del 2 dicembre 1998, ove si
invitavano le Forze dell’Ordine ed i Procuratori della Repubblica ad “ operare in un
quadro di maggiore attenzione per i diritti della personalità tutelati dalla legge
stessa ed impone di non arrecare pregiudizi ingiustificati alle persone, specie
qualora si tratti di terzi estranei alle vicende giudiziarie e che la valutazione delle
condotte alle quali si riferiva la segnalazione ricevuta andava effettuata tenendo
conto di questo quadro normativo”.
Deve evidenziarsi, altresì, che gli articoli 8, commi 2 e 3, e 160, comma 2, del
codice sulla privacy attribuiscono alla persona oggetto di trattamento dati, per
esigenza di giustizia , il diritto di farne segnalazione al garante, mentre a quest’ultimo
conferiscono il potere di verificare e richiedere la conformità del trattamento alla
normativa vigente.
La tesi esposta trova autorevole conferma anche nella giurisprudenza della corte
europea dei diritti dell’uomo (cfr. sentenza del 17 luglio 2003) che invita lo Stato ad
apprestare le garanzie indispensabili per evitare il trattamento ( e quindi la
divulgazione),di dati sensibili non influenti sul processo.
In chiave di sintesi può dunque affermarsi che la gestione dei dati sensibili deve
ancorarsi ai seguenti criteri che seguono le linee guida dell’art. 15 della Costituzione
dell’art. 8 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo:
48
1) non sono ammissibili intercettazioni telefoniche o ambientali che non siano
assolutamente indispensabili per la prosecuzione delle indagini;
2) Le trascrizioni non devono contenere dati non pertinenti o eccedenti e la
violazione di tale regola implica la responsabilità civile dell’operatore del
diritto ai sensi dell’art. 2050 cc ( con presunzione di colpa) ;
3) In questi casi lo Stato diventa responsabile a livello internazionale
per la
violazione.
Pertanto, la P.G. non può registrare e verbalizzare conversazioni non indispensabili,
non pertinenti ed il pubblico ministero dovrà vigilare sull’attività di intercettazione
delegata. Peraltro, se Sezioni unite della Suprema Corte (sentenza n. 318/1999) hanno
già statuito che il fatto di avere inserito all'interno di un provvedimento giudiziario
circostanze non pertinenti e relative a terzi estranei è idoneo a configurare un illecito
disciplinare a carico del magistrato. De iure condendo potrebbe avere una qualche
utilità obbligare il P.M. a richiedere ed il giudice a disporre, anche d’ufficio, in ogni
stato e grado del procedimento, la distruzione delle registrazioni non conformi ai
requisiti previsti dalla lettera d) dell’art. 11, comma 1, del codice sulla privacy, ad
integrazione di quanto già previsto dall’art. 269 c.p.p.
5) Le intercettazioni illegali
Il d.l. n. 259 del 2006 , al fine di scongiurare indebite ingerenze nella vita privata,
particolarmente avvertita dopo l'inchiesta della Procura di Milano sulla rete di
spionaggio in Telecom, disponeva la distruzione del materiale abusivamente
intercettato (dossier, tabulati, dischetti, registrazioni, conversazioni illegalmente
intercettate per via telefonica o telematica), anche se contenenti una notizia di reato,
con severe sanzioni (da 6 mesi a 4 anni di carcere, da uno a cinque anni se si tratta di
un pubblico ufficiale o di un incaricato di pubblico servizio). L’impostazione, però,
evidenziava il limite di non essere coordinata con le disposizioni sulle intercettazioni.
Peraltro, la rivisitazione attuata dal Parlamento, con la legge di conversione n. 281,
49
non era riuscita a bilanciare l’esigenza di pervenire all'immediata distruzione dei
dossier con le prerogative della parti processuali, prima tra tutte il diritto a non
vedere disperse, senza un preventivo effettivo contraddittorio, le fonti di prova
raccolte ed il corpo del reato. Invero, la legge di conversione, pur adottando qualche
accorgimento per rimediare alle più evidenti disfunzioni introdotte con il
provvedimento di urgenza, recuperava il contraddittorio, rafforzava il principio di
obbligatorietà dell'azione penale e riduceva l'ambito di inutilizzabilità del contenuto
dei documenti, dei supporti e degli atti. Si costruiva, dunque, un meccanismo bifasico
incentrato sull’ art. 240 c.p.p. ( riformulato appunto dalla legge n. 281 del 2006)
secondo il quale, qualora il pubblico ministero acquisisca documenti, supporti e atti
«concernenti dati e contenuti di conversazioni relativi a traffico telefonico e
telematico, illegalmente formati o acquisiti» ovvero «documenti formati attraverso la
raccolta illegale di informazioni», deve chiederne entro quarantotto ore, dopo averne
disposto la immediata secretazione e custodia in luogo protetto, la distruzione al
giudice per le indagini preliminari. Attraverso una sequenza procedimentale
velocissima, il giudice deve fissare un'udienza da celebrare in camera di consiglio ai
sensi dell'art. 127 c.p.p., all'esito della quale, dopo aver sentito le parti interessate,
solo se queste siano comparse, disporre la distruzione dei documenti qualora se ne
riconosca l'illegale formazione. Delle operazioni viene redatto un verbale nel quale
deve essere dato atto solo delle modalità e dei mezzi utilizzati oltre che dei soggetti
interessati, senza alcuna menzione del contenuto dei documenti. Tale verbale, grazie
ad un "arricchimento" del contenuto dispositivo dell'art. 512 c.p.p., può essere
utilizzato, tramite sua lettura, quale prova nel dibattimento e finisce con il sostituire il
corpo del reato che viene distrutto.
La versione definitiva della disciplina, modificata dalla legge di conversione,
consentirebbe, infine, di utilizzare tali informazioni
come notizia di reato. Ne
consegue una disciplina dove viene meno la distinzione fra intercettazioni illegali e
quelle effettuate fuori dai casi previsti dalla legge o in assenza dei presupposti che ne
legittimino l'effettuazione. Si ricorderà come queste ultime, anche se processualmente
50
inutilizzabili nel procedimento in cui sono state effettuate, possono pur sempre
costituire autonoma notizia di reato, dando impulso a indagini ulteriori e fondando
l'adozione di provvedimenti autorizzativi di ulteriori intercettazioni.
Il divieto di riproduzione e utilizzazione, nonché l'obbligo di secretazione, di
documenti formati attraverso la raccolta illegale di informazioni, intende riferirsi al
loro contenuto e non esclude, pertanto, che la loro accertata esistenza possa costituire
notizia di reato e dare luogo, così, ad attività investigativa ai fini dell'eventuale
esercizio dell'azione penale. Così come previsto anche per la regolamentazione dei
documenti anonimi, non sembrerebbe potersi escludere che lo stesso contenuto di
quanto illegalmente raccolto possa costituire lo spunto da cui gli organi inquirenti
possano intraprendere un'attività investigativa volta alla ricerca di altra notizia di
reato. Invero tale innovazione potrebbe risultare più apparente che reale. I tempi assai
esigui entro i quali provvedere alla distruzione e l'impossibilità di estrarre copia del
materiale da eliminare, renderebbe di fatto assai ostica la costruzione di un'ipotesi
investigativa che traesse spunto dal contenuto di tale documentazione. Oltre tutto, la
partecipazione all'udienza camerale delle parti interessate e, possibilmente, anche
dell'autore di un altro reato ipotizzabile dal contenuto dell'illegale captazione,
neutralizzerebbe ab origine la segretezza su cui si dovrebbe fondare soprattutto la
prima fase delle indagini. A tale conclusione è possibile pervenire in quanto la
dizione normativa estremamente perentoria contenuta nel decreto legge «il loro
contenuto non costituisce in alcun modo notizia di reato» non è stata riprodotta dalla
legge di conversione che, anzi, ha adeguato il regime di utilizzabilità a quello
previsto, al comma 1 dell'art. 240 c.p.p., in relazione all'anonimo.
Già dal tipo di sanzione comminata in relazione al materiale illegale è agevole
ricavare i beni giuridici tutelati dalla disciplina in esame. E’ stato notato come
l’obbligo processuale di distruzione costituisce una derivazione forse non automatica
ma certo molto coerente con gli scopi della nuova fattispecie incriminatrice di
detenzione di documenti illegali. Quest’ultima ha per oggetto il rischio insito nella
circolazione ed accumulo di notizie illecite, capace di produrre gravi alterazioni e
51
distorsioni delle condizioni di vita sociale, a prescindere dalla lesione alla
riservatezza di singole persone.
Sotto un primo profilo, la norma tutela la privacy intesa come diritto in negativo alla
non ingerenza di terzi nella propria sfera intima, sotto un secondo profilo,
quell’ulteriore aspetto della riservatezza che viene denominato “libertà di
autodeterminazione informativa” e che consiste, tra l’altro, nel diritto di impedire che
notizie inerenti alla propria vita privata, ancorché legittimamente raccolte, siano
diffuse contro la volontà del titolare. La riservatezza come diritto alla non ingerenza,
come limite probatorio nei confronti dell’Autorità, è tutelata dalla inutilizzabilità
processuale delle informazioni e la volontà di proteggere la libertà di
autodeterminazione informativa emerge dalla prevista distruzione dei dati.
La regolamentazione appena illustrata, pur condivisibile negli scopi di tutela, è stata
oggetto di un fuoco incrociato di critiche, culminato in una serie di questioni di
costituzionalità. Anzitutto, si evidenziava l’insufficienza di un procedimento
incidentale che prevedeva il contraddittorio soltanto eventuale tra le parti e che si
connotava per la rapidità di svolgimento e per la sommarietà della cognizione, dal
momento che non era espressamente contemplata alcuna attività istruttoria. Il
procedimento camerale era congegnato in modo da compromettere simultaneamente
il diritto di difesa degli interessati e l’accertamento del reato. In secondo luogo, e
questo era considerato il difetto più grave, la distruzione dei materiali illegali era
disposta senza contemplare alcuna eccezione per il corpo del reato. Viceversa, in base
al sistema del codice, il corpo del reato
è sempre fatto salvo e acquisito al
procedimento. Una simile disciplina comportava l’irrimediabile perdita di una prova
e ciò avrebbe costituito un potenziale pregiudizio nei confronti di tutte le parti
processuali. Infatti, l’imputato non avrebbe potuto provare la propria innocenza
dimostrando, se del caso, che i documenti in realtà non erano il frutto di una
acquisizione illecita o che la notizia raccolta non aveva carattere segreto. Il pubblico
ministero sarebbe stato ostacolato nel provare la fondatezza dell’imputazione o,
comunque, la gravità del fatto anche ai fini della commisurazione della pena;
52
l’eventuale parte civile non avrebbe potuto dimostrare né la reità dell’imputato, né
l’entità del risarcimento richiesto, il cui ammontare, all’evidenza, avrebbe dovuto
determinarsi anche in ragione del contenuto dei documenti illecitamente formati o
acquisiti. Infine, si metteva in evidenza che la distruzione del corpo del reato
generava un verbale nel quale si dava atto addirittura della “illiceità” della condotta;
la necessaria descrizione nel verbale della illegalità delle condotte imponeva al
pubblico ministero di chiedere la distruzione dopo aver acquisito effettiva certezza
sulla natura illegale del materiale e dopo aver accertato compiutamente modalità e
mezzi della sua formazione ed acquisizione. In altre parole, l’udienza camerale a
contraddittorio facoltativo conduceva ad un accertamento incidentale e sommario con
esiti irreversibili e pericolosamente vicini ad una condanna per l’autore
dell’acquisizione. Anche la decisione in merito alla distruzione del materiale sarebbe
stata difficilmente impugnabile. La possibilità di presentare ricorso per cassazione si
sarebbe potuta ricavare dall’art. 127 c.p.p., relativo all’udienza in camera di
consiglio. Tale norma, richiamata dall’art. 240, comma 4 c.p.p., si applicherebbe in
quanto compatibile con la disciplina espressa dettata da quest’ultima disposizione. La
Corte Costituzionale è intervenuta con la sentenza 11 giugno 2009 nr. 173
dichiarando costituzionalmente illegittimo i commi 4 e 5 che recitano: “ Il giudice
per le indagini preliminari entro le successive 48 ore fissa l’udienza da tenersi entro
dieci giorni, ai sensi dell’art. 127, dando avviso a tutte le parti interessate, che
potranno nominare un difensore di fiducia, almeno tre giorni prima della data
dell’udienza (4 comma).
Sentite le parti comparse, il giudice per le indagini preliminari legge il
provvedimento in udienza e, nel caso ritenga sussistenti i presupposti di cui al
comma 2, dispone la distruzione dei documenti, dei supporti e degli atti di cui al
medesimo comma due e vi da esecuzione subito dopo alla presenza del pubblico
ministero e dei difensori delle parti ( 5 comma)”
Questi due commi sono stati dichiarati illegittimi nella parte in cui non prevedono,
per la disciplina del contraddittorio, l’applicazione dell’art. 401 commi 1 e 2 cpp.
53
L’udienza si svolge in camera di consiglio con la partecipazione necessaria del
pubblico ministero e del difensore della persona sottoposta alle indagini. Ha altresì
diritto di parteciparvi il difensore della persona offesa ( 1 comma). In caso di mancata
comparizione del difensore della persona sottoposta alle indagini, il giudice designa
altro difensore a norma dell’art. 97 comma cpp ( 2 comma).
La Corte Costituzionale ha, altresì, dichiarato illegittimo il 6 comma dell’art. 240
cpp che recita: “ Delle operazioni di distruzione è redatto apposito verbale, nel quale
si dà atto dell’avvenuta intercettazione o detenzione o acquisizione illecita dei
documenti, dei supporti e degli atti di cui al comma 2, nonché delle modalità e dei
mezzi usati oltre che dei soggetti interessati, senza alcun riferimento al contenuto
degli stessi documenti, supporti e atti” ( comma 6).
Il presente comma è stato dichiarato illegittimo con la medesima sentenza nella parte
in cui non esclude dal divieto di fare riferimento al contenuto dei documenti, supporti
ed atti, nella redazione del verbale previsto dalla stessa norma, le circostanze inerenti
l’attività di formazione, acquisizione e raccolta degli stessi documenti, supporti ed
atti.
6) I limiti di accesso dei dati telefonici ricavabili dai tabulati.
I tabulati telefonici sono uno strumento investigativo di eccezionale utilità pratica che
presenta una qualche affinità con l’ attività di ‘tracciamento’ delle conversazioni in
corso di svolgimento, che consiste nell’acquisizione dei dati esterni di comunicazioni
telefoniche non già avvenute, ma in corso di svolgimento e che viene, di norma,
autorizzato dal giudice contemporaneamente all’autorizzazione delle intercettazioni
telefoniche.
Nell’ultimo decennio una serie di pronunce della Corte Costituzionale ( anni 1993 e
1998), della Corte di Cassazione (anno 2000) e diversi interventi legislativi ( 2003 2005 e 2008) hanno inciso sulla materia in oggetto cercando, evidentemente, di
54
individuare una soluzione accettabile alla apparente contrapposizione fra utilità
investigativa dello strumento e tutela della riservatezza.
Il punto di equilibrio da ricercare ha riguardato due aspetti fondamentali:
- La procedura da seguire per l’acquisizione;
- Il termine di durata della conservazione dei dati di traffico;
Con riferimento alla procedura da seguire, in passato, si era ritenuto che, per
l’acquisizione dei tabulati telefonici fosse sufficiente un decreto del pubblico
ministero che indicava le ragioni di giustizia che la giustificavano, evidentemente
prevalenti sull’interesse garantito dalla disciplina sulla tutela della privacy. Questa,
peraltro, è la disciplina attualmente vigente. Ma, nelle fasi intermedie, la procedura
acquisitiva è stata anche differente. Invero, se la Corte Costituzionale aveva escluso
che a tale forma di acquisizione fosse applicabile la disciplina codicistica delle
intercettazioni di comunicazioni, atteso che gli artt. 266 e 271 c.p.p. riguardano solo
le tecniche che consentono di apprendere il contenuto di una comunicazione o
conversazione e non aspetti afferenti ( in via immediata e diretta) all’ utilizzo dei
meri dati esteriori delle conversazioni, con il d.lg. 30.6.2003, n. 196 (contenente il
“Codice in materia di protezione dei dati personali”) il legislatore, nel regolare le
modalità di conservazione dei dati relativi al traffico telefonico per finalità di
accertamento e repressione dei reati, con l’art. 132 aveva delineato un sistema binario
nella cui struttura veniva ad essere inserito il ruolo del giudice per l’acquisizione dei
flussi di comunicazioni. In particolare, nel caso di reati ordinari, l’acquisizione
riferibile solamente ai dati conservati negli ultimi ventiquattro mesi, poteva avvenire
in esecuzione di un decreto motivato del giudice (emesso su istanza del pubblico
ministero o del difensore dell’imputato, dell’indagato, della persona offesa o di altra
parte privata) oppure a seguito di richiesta inoltrata dal difensore a mente dell’art.
391 quater c.p.p. Nel caso di reati di all’art. 407, 2° co., lett. a), c.p.p. e di delitti in
danno di sistemi informatici o telematici, l’acquisizione riferibile ai dati conservati
55
negli ultimi quarantotto mesi poteva avvenire esclusivamente in base ad un decreto
con cui il giudice avesse riconosciuto l’esistenza di sufficienti indizi di reità.
L’ art. 132 è stato poi modificato dall’art. 6 del d.l. 27.7.2005, n. 144, convertito
nella l. 31.7.2005, n. 155 (in materia di misure contro il terrorismo internazionale),
che ha restituito al pubblico ministero la competenza a disporre, in via ordinaria,
l’acquisizione dei tabulati telefonici (3° co.). Inoltre, conservava la facoltà per il
difensore dell’indagato o dell’imputato di domandare, a mente dell’art. 391 quater
c.p.p., i tabulati telefonici relativi però solo alle utenze intestate al proprio assistito e
lasciava al giudice il compito di emettere l'autorizzazione (o convalidare, entro
quarantotto ore, il provvedimento adottato in via d'urgenza dalla pubblica accusa, nei
casi in cui dal ritardo possa derivare un grave pregiudizio per le indagini) nei
procedimenti relativi ai reati più gravi ed in relazione ai dati del traffico custoditi da
oltre ventiquattro mesi (4° e 4° bis co.). Disciplina, questa, che la Consulta (nel
2000) dichiarava
non in contrasto con i principi della Carta fondamentale,
considerato che non è censurabile la scelta del legislatore di differenziare la maggiore
o minore tutela del diritto alla riservatezza, e, dunque, le discipline del tempo di
accessibilità dei dati a seconda della gravità dei reati da perseguire. Nel 2008, però, è
intervenuta una ulteriore modifica legislativa con il dl 30 maggio nr. 109 ed in
conseguenza l’art. 136, con delle modifiche di carattere soppressivo che di seguito
indico in parentesi quadra, oggi recita:
“ Fermo restando quanto previsto dall'articolo 123, comma 2, i dati relativi al
traffico telefonico, sono conservati dal fornitore per ventiquattro mesi dalla data
della comunicazione, per finalità di accertamento e repressione di reati, mentre, per
le medesime finalità, i dati relativi al traffico telematico, esclusi comunque i
contenuti delle comunicazioni, sono conservati dal fornitore per dodici mesi dalla
data della comunicazione.
1-bis. I dati relativi alle chiamate senza risposta, trattati temporaneamente da parte
dei fornitori di servizi di comunicazione elettronica accessibili al pubblico oppure di
56
una rete pubblica di comunicazione, sono conservati per trenta giorni.
[2. SOPPRESSO : Decorso il termine di cui al comma 1, i dati relativi al traffico
telefonico, inclusi quelli concernenti le chiamate senza risposta, sono conservati dal
fornitore per ulteriori ventiquattro mesi e quelli relativi al traffico telematico, esclusi
comunque i contenuti delle comunicazioni, sono conservati per ulteriori sei mesi per
esclusive finalità di accertamento e repressione dei delitti di cui all'articolo 407,
comma 2, lettera a) del codice di procedura penale, nonché dei delitti in danno di
sistemi informatici o telematici.]
3. Entro il termine di cui al comma 1, i dati sono acquisiti presso il fornitore con
decreto motivato del pubblico ministero anche su istanza del difensore dell'imputato,
della persona sottoposta alle indagini, della persona offesa e delle altre parti private.
Il difensore dell'imputato o della persona sottoposta alle indagini può richiedere,
direttamente al fornitore i dati relativi alle utenze intestate al proprio assistito con le
modalità indicate dall'articolo 391-quater del codice di procedura penale, ferme
restando le condizioni di cui all'articolo 8, comma 2, lettera f), per il traffico
entrante.
[4. SOPPRESSO : Dopo la scadenza del termine indicato al comma 1, il giudice
autorizza l'acquisizione dei dati, con decreto motivato, se ritiene che sussistano
sufficienti indizi dei delitti di cui all'articolo 407, comma 2, lettera a), del codice di
procedura penale, nonché dei delitti in danno di sistemi informatici o telematici.]
[4-bis. SOPPRESSO: Nei casi di urgenza, quando vi è fondato motivo di ritenere che
dal ritardo possa derivare grave pregiudizio alle indagini, il pubblico ministero
dispone la acquisizione dei dati relativi al traffico telefonico con decreto motivato
che è comunicato immediatamente, e comunque non oltre ventiquattro ore, al giudice
competente per il rilascio dell'autorizzazione in via ordinaria. Il giudice, entro
quarantotto ore dal provvedimento, decide sulla convalida con decreto motivato. Se
il decreto del pubblico ministero non è convalidato nel termine stabilito, i dati
acquisiti non possono essere utilizzati.]
57
4-ter. Il Ministro dell'interno o, su sua delega, i responsabili degli uffici centrali
specialistici in materia informatica o telematica della Polizia di Stato, dell'Arma dei
carabinieri e del Corpo della guardia di finanza, nonché gli altri soggetti indicati nel
comma 1 dell'articolo 226 delle norme di attuazione, di coordinamento e transitorie
del codice di procedura penale, di cui al decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271,
possono ordinare, anche in relazione alle eventuali richieste avanzate da autorità
investigative straniere, ai fornitori e agli operatori di servizi informatici o telematici
di conservare e proteggere, secondo le modalità indicate e per un periodo non
superiore a novanta giorni, i dati relativi al traffico telematico, esclusi comunque i
contenuti delle comunicazioni, ai fini dello svolgimento delle investigazioni
preventive previste dal citato articolo 226 delle norme di cui al decreto legislativo n.
271 del 1989, ovvero per finalità di accertamento e repressione di specifici reati. Il
provvedimento, prorogabile, per motivate esigenze, per una durata complessiva non
superiore a sei mesi, può prevedere particolari modalità di custodia dei dati e
l'eventuale indisponibilità dei dati stessi da parte dei fornitori e degli operatori di
servizi informatici o telematici ovvero di terzi.
4-quater. Il fornitore o l'operatore di servizi informatici o telematici cui è rivolto
l'ordine previsto dal comma 4-ter deve ottemperarvi senza ritardo, fornendo
immediatamente all'autorità richiedente l'assicurazione dell'adempimento. Il
fornitore o l'operatore di servizi informatici o telematici è tenuto a mantenere il
segreto relativamente all'ordine ricevuto e alle attività conseguentemente svolte per
il periodo indicato dall'autorità. In caso di violazione dell'obbligo si applicano, salvo
che il fatto costituisca più grave reato, le disposizioni dell'articolo 326 del codice
penale.
4-quinquies. I provvedimenti adottati ai sensi del comma 4-ter sono comunicati per
iscritto, senza ritardo e comunque entro quarantotto ore dalla notifica al
destinatario, al pubblico ministero del luogo di esecuzione il quale, se ne ricorrono i
presupposti, li convalida. In caso di mancata convalida, i provvedimenti assunti
perdono efficacia.
58
5. Il trattamento dei dati per le finalità di cui al comma 1 è effettuato nel rispetto
delle misure e degli accorgimenti a garanzia dell'interessato prescritti ai sensi
dell'articolo 17, volti a garantire che i dati conservati possiedano i medesimi
requisiti di qualita', sicurezza e protezione dei dati in rete, nonché a:
a)
prevedere in ogni caso specifici sistemi di autenticazione informatica e di
autorizzazione
degli
incaricati
del
trattamento
di
cui
all'allegato
b);
[b) SOPPRESSO: disciplinare le modalità di conservazione separata dei dati una
volta decorso il termine di cui al comma 1;]
[c)SOPPRESSO: individuare le modalità di trattamento dei dati da parte di specifici
incaricati del trattamento in modo tale che, decorso il termine di cui al comma 1,
l'utilizzazione dei dati sia consentita solo nei casi di cui al comma 4 e all'articolo 7;]
d) indicare le modalità tecniche per la periodica distruzione dei dati, decorsi i
termini di cui al comma 1.
In chiave di sintesi può, dunque, affermarsi che oggi la materia dell’acquisizione dei
tabulati ha trovato un punto di equilibrio fra i principi fondamentali coinvolti che può
essere così riassunto:
1) E’ sufficiente il decreto motivato del Pubblico Ministero per l’acquisizione dei
tabulati;
2) E’ stata cancellata, dalla modifica del 2008, l’opzione del cd. doppio binario
con la conseguenza che le regole operative sono identiche senza distinzione fra
reati ordinari e reati più gravi;
3) I dati di traffico telefonico sono conservati 24 mesi per finalità di accertamento
di reati;
4) I dati di traffico telematico sono conservati dal fornitore per 12 mesi per le
stesse finalità;
5) I dati relativi alle chiamate senza risposta sono conservati per 30 giorni ( a far
data dal 31 dicembre 2008) . Sino a tale data i dati relativi alle chiamate senza
risposta sono conservati per 24 mesi.
59
Se questo è il punto di arrivo di un iter complesso, merita di essere evidenziato che il
dibattito in dottrina e giurisprudenza appare tutt’altro che sopito e che è verosimile il
verificarsi di ulteriori mutamenti di indirizzo.
7) L’utilizzabilità delle intercettazioni indirette dei parlamentari.
L’analisi delle molteplici questioni problematiche sottese alle intercettazioni
indirette dei parlamentari, non può che prendere le mosse dal quadro normativo di
riferimento. Si tratta, in particolare, degli artt. 4 e 6 della legge n. 140/2003, attuativa
del disposto dell'art. 68 Cost. modificato dalla legge cost. 29/10/1993 n. 3. Con la
disposizione in esame, è stata eliminata dal sistema la figura dell'autorizzazione a
procedere ed è stata prevista l'autorizzazione ad acta, necessaria al fine di sottoporre
i parlamentari ad una serie di atti processuali, comprese le intercettazioni.
Le situazioni che possono verificarsi sono, alla luce della legge nr. 140 del
2003, le seguenti:
1)
Autorizzazione preventiva, da richiedere quando occorra "eseguire "
un'intercettazione "nei confronti di un membro del parlamento " (art. 4, co. 1).
Deve evidenziarsi che l'autorizzazione preventiva
deve richiedersi per le
intercettazioni dirette, in qualsiasi forma, di conversazioni o comunicazioni e
per il sequestro di corrispondenza
2)
Autorizzazione successiva, che opera "fuori dalle ipotesi previste
dall'art. 4"
quando è "necessario utilizzare" nel procedimento penale
conversazioni o comunicazioni cui abbiano "preso parte" parlamentari, ma che
sono siano state captate nell'ambito di "procedimenti riguardanti terzi" (art. 6,
co. 1). In sostanza, ed è frequente nella pratica, può accadere che conversazioni
di un parlamentare vengano intercettate nel corso di attività d'indagine. In tali
evenienze,
l'art. 6 della medesima legge n. 140 del 2003 prevede
un'autorizzazione successiva. In particolare, spetta al giudice per le indagini
preliminari, se una delle parti processuali intende utilizzare le intercettazioni
(o i tabulati telefonici), fissare un'udienza camerale nelle forme di cui all’art.
60
268, co. 6, c.p.p. Nell’udienza in questione, sentite le parti, il giudice, se reputa
necessario l'impiego processuale delle conversazioni captate in modo fortuito o
casuale, richiede l'autorizzazione della Camera alla quale il membro del
Parlamento appartiene (o apparteneva) al momento in cui le conversazioni o le
comunicazioni sono state intercettate.
Ma il vero problema interpretativo della tematica in oggetto è costituito dal
confine fra le due ipotesi, in situazioni che, almeno in apparenza, non rientrano nella
sfera di operatività dell’ar. 68 Costituzione. Si tratta delle cd intercettazioni indirette
che sono disposte nei confronti di terzi, che hanno la disponibilità di una utenza o di
un luogo, ma tendono a registrare le conversazioni e le comunicazioni del
parlamentare. La preoccupazione principale, è evidente, risulta essere l’aggiramento
delle garanzie costituzionali intercettando, di fatto, il parlamentare, non in via
occasionale, attraverso captazioni disposte su luoghi o su utenze nella disponibilità di
soggetti terzi.
La Corte Costituzionale, nella sentenza ( 23 novembre 2007 nr. 390) è
intervenuta sul punto cercando di delineare la sfera
applicativa della legge n.
140/2003 così disponendo: "la disciplina dell'autorizzazione preventiva deve ritenersi
destinata a trovare applicazione tutte le volte in cui il parlamentare, sia individuato
in anticipo quale destinatario dell'attività dì captazione, ancorché questa abbia luogo
monitorando utenze di diversi soggetti". In sostanza, la finalità dell’atto di indagine,
mirato, sarà la chiave di volta interpretativa delle situazioni in esame. Invero, la
finalità di un atto investigativo ( intercettazione telefonica o ambientale, nel caso di
specie) può essere rivolta verso il soggetto titolare di garanzie costituzionali anche se
il procedimento riguarda, in prima battuta, terzi ovvero se le utenze sottoposte a
controllo concernano terzi. Ne consegue che non si tratta di distinguere fra
intercettazioni dirette e intercettazioni indirette ma fra intercettazione casuale e
intercettazione mirata ( a prescindere dal fatto che l’utenza ed il luogo dove si
svolgono siano nella disponibilità del parlamentare). E’ chiaro che, nella pratica, la
61
distinzione fra le due figure è estremamente complessa. I vari interventi della Corte
Costituzionale sul punto hanno consentito il formarsi di un indirizzo che sembra
ormai consolidato. Invero, la sentenza nr. 113 del 2010 ha evidenziato che la
autorizzazione preventiva di cui all'art. 4 della legge n. 140 del 2003 deve essere
richiesta, a prescindere dall'intestatario dell'utenza, che ben può essere persona
diversa dal parlamentare, se la captazione è indirizzata alla ricerca della prova nei
confronti del
parlamentare. Secondo la Corte Costituzionale, dunque, occorre
guardare alle modalità complessive della attività investigativa svolta. E’ chiaro che,
nella pratica, può verificarsi "un mutamento di obiettivi" da parte dell'autorità
giudiziaria, qualora le captazioni verso un terzo diventano utili anche per accertare
l'eventuale responsabilità penale del parlamentare. In questo caso si verifica una
trasformazione e diviene necessaria l’autorizzazione ex ante ai sensi dell'art. 4 della
legge n. 140 del 2003.
E' poi intervenuta un'altra sentenza della Corte Costituzionale ( nr.114 del 25
marzo 2010)
che ha ribadito come la disciplina dell'autorizzazione successiva,
prevista dall'art. 6 L. n. 2140 del 2003 si riferisca unicamente alle intercettazioni
fortuite,
rispetto
alle
quali
cioè
"proprio
per
il
carattere
imprevisto
dell'interlocuzione del parlamentare", "l'autorità giudiziaria non potrebbe, neanche
volendo, munirsi preventivamente del placet della Camera di appartenenza". Ancora
una volta, inoltre, la Corte ha affermato che la casualità della intercettazione deve
essere dedotta dall'esame "dei rapporti intercorrenti tra parlamentare e terzo
sottoposto a intercettazione, avuto riguardo al tipo di attività criminosa oggetto di
indagine; del numero delle conversazioni intercorse fra il terzo e il parlamentare;
dell' arco di tempo durante il quale tale attività di captazione è avvenuta, anche
rispetto ad eventuali proroghe delle autorizzazioni e al momento in cui sono sorti
indizi a carico del parlamentare.” E’ di tutta evidenza, dunque, che nella pratica
occorre, in base a quando stabilito dalla Corte Costituzionale, far ricorso ad una serie
di indici sintomatici per distinguere le intercettazioni indirette da quelle fortuite,
affrontando questioni interpretative che divengono particolarmente complesse quando
62
il parlamentare, benchè non intercettato direttamente, era già indagato prima della
conversazione che lo riguarda direttamente.
E’ evidente ( e pronunce della Corte di Cassazione sono in questo senso) che la
valutazione sulla natura delle intercettazioni dovrà essere, in questi casi, compiuta nel
corso delle indagini preliminari, dopo i primi ascolti e dopo un certo lasso temporale,
elementi indispensabili affinchè si determini il mutamento di obiettivi dell'atto
investigativo che potrebbe, di fatto, essere rivolto verso il parlamentare. Ne consegue
che la determinazione del momento in cui sono emersi indizi a carico del membro del
Parlamento diviene un importante discrimine e, quindi, comportare la necessità
dell’autorizzazione di cui art. 4 della l. n. 140/2003. E’ di tutta evidenza, quindi, che
queste interpretazioni giurisprudenziali riducono, in maniera significativa, l’ambito di
operatività dell'art. 6 della stessa legge n.140/2003. Invero, nelle ipotesi in cui sono
indagati per i medesimi fatti o per vicende collegate parlamentari e persone che tali
non sono, la necessità di chiedere l’ autorizzazione preventiva all'esecuzione delle
operazioni, finisce per impedire l'impiego dello strumento investigativo non solo nei
confronti del parlamentare, ma anche nei riguardi del terzo indagato. D’altra parte, se
non viene chiesta l’autorizzazione, i risultati comunque scaturenti dalla
intercettazione sono inutilizzabili. Alcuni interpreti ( cfr. Ercole APRLE nel suo
ultimo e prezioso lavoro sulle intercettazioni) ha parlato di una di una sorta di
immunità da contagio rispetto allo strumento delle intercettazioni di cui verrebbero a
godere i terzi che frequentano stabilmente un parlamentare e ciò appare,
evidentemente, in contrasto con l’obbligo di perseguire i reati. La soluzione potrebbe
essere quella di proseguire, in questi casi, l’intercettazione che sta dando buoni frutti
nei confronti del terzo in contatto con il parlamentare, disponendo che
l’autorizzazione volta a salvaguardare le prerogative parlamentari sia richiesta a
posteriori. E’ verosimile, comunque, che della questione si dibatta ancora a lungo in
dottrina e giurisprudenza.
63
8) La ordinanza
nr. 255/12 della Corte Costituzionale sulla riservatezza nella
procedura di selezione delle conversazioni intercettate da trascrivere.
Mi sembra utile richiamare, di seguito, integralmente, il testo della recentissima
ordinanza della Corte Costituzionale nr. 255/2012 che ha affrontato il problema del
delicato rapporto fra diritto alla riservatezza e procedura di selezione delle
conversazioni intercettate da trascrivere:
“Nel giudizio di legittimità costituzionale dell’articolo 224 del codice di procedura penale,
promosso dal Tribunale di Roma nel procedimento a carico di T.L. ed altri, con ordinanza del 10
aprile 2012, iscritta al n. 100 del registro ordinanze 2012 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale
della Repubblica n. 22, rima serie speciale, dell’anno 2012.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 24 ottobre 2012 il Giudice relatore Giuseppe Frigo.
Ritenuto che, con ordinanza del 10 aprile 2012, il Tribunale di Roma ha sollevato, in riferimento
agli articoli 2 e 15 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’articolo 224 del
codice di procedura penale, «nella parte in cui prevede che il giudice del dibattimento disponga
perizia avente ad oggetto la trascrizione di conversazioni o comunicazioni telefoniche intercettate
ai sensi degli articoli 266 e seguenti» del medesimo codice;
che il giudice a quo riferisce di essere investito del processo penale nei confronti di persone
imputate del delitto di associazione per delinquere finalizzata a consentire l’illegale permanenza di
stranieri nel territorio dello Stato e di numerosi altri reati connessi;
che, in sede di ammissione delle prove, il pubblico ministero aveva chiesto, tra l’altro, la
trascrizione, mediante perizia, delle comunicazioni telefoniche intercettate nel corso delle indagini
preliminari, riservandosi di produrre un elenco delle comunicazioni ritenute rilevanti: ciò, peraltro,
senza addurre alcun elemento da cui desumere che la mancata attivazione della procedura di
selezione prevista dall’art. 268 cod. proc. pen. rispondesse ad un «interesse di giustizia»;
che, nella successiva udienza, cui il processo era stato a tal fine rinviato, il pubblico ministero
aveva depositato l’elenco preannunciato, recante l’indicazione di circa centotrenta comunicazioni
telefoniche, non corredato, peraltro, da alcun elemento utile a stabilire la rilevanza di ciascuna di
esse;
che i difensori degli imputati avevano, quindi, chiesto di essere posti a conoscenza, in dibattimento,
delle comunicazioni in questione e dei documenti ad esse relativi;
64
che, ciò premesso, il Tribunale rimettente osserva come la Corte costituzionale, con la sentenza n.
34 del 1973 – dopo aver ricordato che è connaturale alla finalità stessa del processo il principio
secondo il quale non può essere acquisito agli atti se non il materiale probatorio rilevante per il
giudizio – abbia rilevato che «l’applicazione del suddetto principio non solo garantisce la
segretezza di tutte quelle comunicazioni telefoniche dell’imputato che non siano rilevanti ai fini del
relativo processo, ma garantisce altresì la segretezza delle comunicazioni non pertinenti a quel
processo che terzi, allo stesso estranei, abbiano fatto attraverso l’apparecchio telefonico sottoposto
a controllo di intercettazione ovvero in collegamento con questo»;
che, nella medesima sentenza, la Corte ha quindi rimarcato come «il rigoroso rispetto di questo
principio sia essenziale per la puntuale osservanza degli artt. 2 e 15 della Costituzione: violerebbe
gravemente entrambe le norme costituzionali un sistema che, senza soddisfare gli interessi di
giustizia, in funzione dei quali è consentita la limitazione della libertà e segretezza delle
comunicazioni, autorizzasse la divulgazione in pubblico dibattimento del contenuto di
comunicazioni telefoniche non pertinenti al processo»;
che, proprio per non incorrere nella violazione segnalata dalla Corte costituzionale, il legislatore
avrebbe previsto la speciale procedura di cui all’art. 268 cod. proc. pen., collocandola «in un’area
estranea al dibattimento e alla sua pubblicità»;
che la citata disposizione demanda, infatti, al giudice per le indagini preliminari il compito di
individuare, «in un riservato contraddittorio», quali, fra le comunicazioni captate e indicate dalle
parti, siano «non manifestamente irrilevanti», stabilendo, altresì, che solo le trascrizioni di tali
ultime comunicazioni debbano essere inserite nel fascicolo per il dibattimento (art. 268, commi 6 e
7, cod. proc. pen.);
che, in questa prospettiva, una interpretazione «costituzionalmente orientata» della vigente
disciplina indurrebbe a ritenere che rientri nella competenza «non solo funzionale, ma anche
esclusiva» del giudice per le indagini preliminari disporre, con le forme e nei limiti di cui al citato
art. 268, commi 6 e 7, cod. proc. pen., la trascrizione delle intercettazioni;
che una simile interpretazione risulterebbe, nondimeno, preclusa dal corrente orientamento della
giurisprudenza di legittimità – qualificabile come «diritto vivente» – secondo il quale il momento in
cui disporre la perizia per la trascrizione delle intercettazioni può dipendere dai più vari
accadimenti processuali, senza che il codice di rito autorizzi la deduzione di particolari
conseguenze dalla circostanza che vi si provveda nel dibattimento, anziché davanti al giudice per le
indagini preliminari: e ciò, anche in ragione del fatto che, nel caso delle intercettazioni, la prova è
costituita dalle registrazioni e non dalle trascrizioni, intese soltanto a convertire in segni grafici le
espressioni vocali;
65
che, a fronte di tale orientamento – il quale attribuirebbe alle parti una sorta di «diritto potestativo
processuale» a far trascrivere le intercettazioni in sede dibattimentale – il giudice a quo si
troverebbe, quindi, a dover fare applicazione dell’art. 224 cod. proc. pen., in tema di perizia,
avendo la giurisprudenza di legittimità chiarito che l’atto richiesto ha, per l’appunto, tale natura;
che una perizia quale quella indicata verrebbe, peraltro, inevitabilmente a determinare il risultato
che la Corte costituzionale ha ritenuto incompatibile con gli artt. 2 e 15 Cost.: vale a dire, la
divulgazione in dibattimento anche di eventuali comunicazioni non pertinenti al processo;
che, per individuare l’oggetto stesso della perizia, sarebbe, infatti, necessario stabilire, nella
pubblicità propria dell’udienza dibattimentale, quali comunicazioni siano rilevanti ai fini della
decisione e quali non lo siano: valutazione, questa, ineludibile tanto ove la si voglia radicare nel
disposto dell’art. 268, comma 6, cod. proc. pen. (secondo il quale il giudice dispone l’acquisizione
delle comunicazioni indicate dalle parti che non appaiano manifestamente irrilevanti), quanto ove
la si voglia basare sulla generale previsione dell’art. 190 cod. proc. pen. (in forza della quale il
giudice provvede sulle richieste probatorie delle parti escludendo le prove vietate dalla legge e
quelle che risultino manifestamente superflue o irrilevanti);
che la verifica della rilevanza delle comunicazioni non potrebbe prescindere, a sua volta,
dall’enunciazione in dibattimento del loro contenuto, col conseguente rischio di rendere di
pubblico dominio anche messaggi comunicativi destinati a rivelarsi non pertinenti all’oggetto del
giudizio: e ciò, tanto più quando, come nella specie, le parti abbiano specificamente chiesto
l’esibizione della documentazione relativa alle intercettazioni;
che, alla luce di tali considerazioni, il rimettente chiede, quindi, alla Corte di dichiarare
costituzionalmente illegittimo l’art. 224 cod. proc. pen., per violazione degli artt. 2 e 15 Cost., nella
parte in cui prevede che il giudice del dibattimento disponga perizia ai fini della trascrizione delle
conversazioni o comunicazioni telefoniche intercettate;
che, al riguardo, il giudice a quo rimarca come la pronuncia auspicata produrrebbe effetti
coincidenti con quelli dell’interpretazione reputata «costituzionalmente conforme»: in particolare,
nel caso oggetto del giudizio principale, detta pronuncia non comporterebbe la regressione del
processo, ma si limiterebbe a collocare davanti al giudice per le indagini preliminari le operazioni
di selezione e trascrizione delle comunicazioni rilevanti, secondo la procedura prevista dall’art.
268 cod. proc. pen.; operazioni all’esito delle quali le trascrizioni sarebbero inserite nel fascicolo
per il dibattimento pendente innanzi al Tribunale rimettente, in applicazione di quanto stabilito dal
comma 7 del medesimo articolo;
66
che nel giudizio di legittimità costituzionale è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri,
rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione
sia
dichiarata non fondata:
Considerato che, con la questione sollevata, il Tribunale di Roma denuncia la lesione del diritto
alla libertà e segretezza delle comunicazioni che discenderebbe, in assunto, dalla dominante
interpretazione della giurisprudenza di legittimità – qualificata come «diritto vivente» – in tema di
acquisizione e trascrizione delle intercettazioni di conversazioni o comunicazioni telefoniche:
interpretazione stando alla quale – malgrado la previsione, nell’articolo 268 del codice di
procedura penale, di una apposita procedura davanti al giudice per le indagini preliminari,
finalizzata ad evitare la divulgazione in dibattimento delle comunicazioni prive di rilievo ai fini del
processo – le suddette operazioni di acquisizione e trascrizione potrebbero avere luogo anche in
fasi successive a quella delle indagini preliminari, ivi compresa la fase dibattimentale, senza che ne
derivi alcun vizio processuale;
che la questione è manifestamente inammissibile per un triplice ordine di ragioni;
che, in primo luogo, il giudice a quo sottopone a scrutinio una norma inconferente rispetto
all’oggetto delle sue doglianze (sull’inammissibilità della questione in simili casi, ex plurimis,
ordinanze n. 120 del 2011, n. 256 e n. 92 del 2009);
che il rimettente censura, infatti, per asserito contrasto con gli artt. 2 e 15 della Costituzione, l’art.
224 cod. proc. pen. – ossia la norma generale concernente i provvedimenti del giudice in tema di
perizia – nella parte in cui, alla stregua del predetto orientamento giurisprudenziale, prevederebbe
che il giudice del dibattimento disponga perizia ai fini della trascrizione delle intercettazioni;
che la norma da colpire risulta, peraltro, non correttamente individuata, posto che – a prescindere
dalla presenza di altra specifica disposizione, relativa alla perizia disposta in dibattimento (art.
508 cod. proc. pen.) – il vulnus costituzionale lamentato non deriva comunque, secondo la stessa
prospettazione del rimettente, dall’ordinanza che dispone la perizia in discorso, quanto piuttosto
dalle attività che la precedono;
che, nell’ambito della procedura complessa delineata dall’art. 268 cod. proc. pen., risultano, in
effetti, chiaramente distinti due momenti, non a caso regolati in altrettanti diversi commi;
che il comma 6 del citato articolo stabilisce anzitutto che, dopo il deposito dei verbali e delle
registrazioni, il giudice provveda – in apposita udienza, che si presuppone camerale, e dunque non
pubblica (la cosiddetta “udienza stralcio”) – all’acquisizione delle conversazioni indicate dalle
parti che «non appaiano manifestamente irrilevanti», stralciando, altresì, anche d’ufficio, il
materiale di cui è vietata l’utilizzazione;
67
che, ai sensi del successivo comma 7, il giudice dispone, all’esito, la trascrizione, con le forme
della perizia, delle comunicazioni da acquisire; le trascrizioni sono, quindi, inserite nel fascicolo
per il dibattimento;
che, ciò posto, secondo le deduzioni del giudice a quo, quello che può ledere ingiustificatamente il
diritto alla riservatezza delle persone coinvolte, allorché le operazioni in questione siano svolte in
dibattimento, non è la trascrizione delle comunicazioni (la quale ha ad oggetto le sole
comunicazioni già ritenute non manifestamente irrilevanti dal giudice), quanto piuttosto la
circostanza che la selezione preliminare del materiale da trascrivere abbia luogo con la pubblicità
propria delle udienze dibattimentali (con il conseguente rischio che, nell’ambito del contraddittorio
sul punto, si divulghino anche i contenuti di comunicazioni prive di rilievo e che, pertanto, non
verranno trascritte);
che la lesione lamentata si colloca, dunque, nel momento dell’acquisizione delle comunicazioni,
non in quello successivo in cui viene disposta, tramite perizia, la loro trascrizione: donde
l’inconferenza della norma censurata;
che, in secondo luogo, il giudice a quo invoca una pronuncia a carattere manipolativo i cui
contenuti appaiono non soltanto non costituzionalmente obbligati, ma addirittura fortemente
“creativi”, in quanto derogatori rispetto alle coordinate generali del vigente sistema processuale
(sulla inammissibilità delle questioni che richiedano interventi additivi o manipolativi in materia
riservata alla discrezionalità del legislatore, in assenza di una soluzione costituzionalmente
obbligata, ex plurimis, sentenze n. 134 e n. 36 del 2012, ordinanze n. 138 e n. 113 del 2012; sulla
inammissibilità di questioni che richiedano interventi “creativi”, ex plurimis, ordinanze n. 77 del
2010, n. 182 del 2009 e n. 83 del 2007);
che, al di là della formulazione del petitum, il risultato cui mira il giudice a quo – e che
deriverebbe, a suo avviso, dalla pronuncia richiesta – è inequivocamente quello di devolvere al
giudice per le indagini preliminari, anche a dibattimento in corso, le operazioni di selezione e
trascrizione delle intercettazioni nei modi previsti dall’art. 268 cod. proc. pen., senza, peraltro, che
ciò determini la regressione del procedimento;
che, in tal modo, si verrebbe, peraltro, ad introdurre una competenza funzionale specifica del
giudice per le indagini preliminari in materia di acquisizioni probatorie, destinata ad operare
anche dopo che la fase delle indagini preliminari si è conclusa, la quale concorrerebbe,
intersecandola, con quella “generale” del giudice del dibattimento: regime, questo, privo di
riscontro nella sistematica del codice di rito;
che, in terzo luogo e da ultimo, il rimettente ha omesso di prendere in considerazione – anche al
solo fine di escluderne eventualmente la praticabilità – la soluzione interpretativa da più parti
68
prospettata proprio allo scopo di superare i dubbi di legittimità costituzionale sollevati, ed alla
quale accenna anche l’Avvocatura dello Stato nelle sue difese: vale a dire, la possibilità, per il
giudice, di disporre che – limitatamente al momento di acquisizione delle intercettazioni (ossia alla
selezione delle comunicazioni utilizzabili e non manifestamente irrilevanti, destinate alla
trascrizione mediante perizia, con stralcio delle rimanenti) – il dibattimento si svolga a porte
chiuse, in applicazione (se del caso, estensiva) dell’art. 472, comma 2, cod. proc. pen. (sulla
inammissibilità della questione per omessa sperimentazione dell’interpretazione secundum
Constitutionem, ex plurimis, ordinanze n. 15 del 2011, n. 233, n. 110 e n. 55 del 2010);
che, per l’evidenziato complesso di ragioni, la questione va dunque dichiarata manifestamente
inammissibile.
Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme
integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’articolo 224
del codice di procedura penale, sollevata, in riferimento agli articoli 2 e 15 della Costituzione, dal
Tribunale di Roma con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Secondo la Corte Costituzionale, dunque, deve essere salvaguardata la riservatezza
della procedura di selezione delle conversazioni intercettate anche quando condotta
nell’ambito del dibattimento. La questione di costituzionalità era stata sollevata dal
Tribunale di Roma riguardo all’art. 224 c.p.p, la norma che consentendo “che il
giudice del dibattimento disponga perizia
avente ad oggetto la trascrizione di
conversazioni o comunicazioni telefoniche intercettate ai sensi degli articoli 266 e
seguenti “del codice di rito”, violerebbe gli artt. 2 e 15 della Costituzione,
pregiudicando il diritto fondamentale
alla riservatezza delle persone coinvolte
nell’indagine. In sostanza, “il rinvio” della procedura di selezione delle conversazioni
rilevanti ad una sede caratterizzata dalla pubblicità degli atti e degli adempimenti,
69
quale è appunto il dibattimento, comporterebbe la deroga al principio per il quale la
“pubblicazione” delle conversazioni intercettate si giustifica solo alla luce della loro
utilità per l’accertamento di un fatto penalmente rilevante.
La Corte costituzionale ha dichiarato la questione inammissibile, rilevando quanto
segue:
1) Si è detto che la norma produttrice della lesione non sarebbe l’art. 224 cpp (che
riguarda ogni genere di perizia)
mentre avrebbe dovuto farsi riferimento
all’art. 508 cpp ( provvedimenti conseguenti alla ammissione della perizia in
dibattimento). Inoltre,
non è l’affidamento al perito dell’incarico di
trascrizione delle conversazioni rilevanti ed utilizzabili che comporta la pretesa
pubblicazione delle comunicazioni irrilevanti o inutilizzabili. L’effetto si deve,
semmai, alla procedura preliminare di selezione, che resta regolata in tutto e
per tutto dall’art. 268 c.p.p.
2) La soluzione proposta per recuperare “segretezza” alla procedura, e cioè una
prorogatio della competenza funzionale del giudice per le indagini preliminari
anche dopo l’avvio del dibattimento esce fuori dal sistema di regole
codicistiche che scandiscono le varie fasi del procedimento penale.
3) La Corte ha rimproverato al giudice rimettente di non aver valutato, anche solo
per escluderla, la possibilità che la procedura di selezione delle comunicazioni
intercettate, debba tenersi a porte chiuse, “in applicazione estensiva dell’art.
472, comma 2, cod. proc. pen.”.
Anche in questo caso, non è verosimile che la pronuncia in oggetto non sia il punto
di arrivo definitivo della delicata questione ed è molto probabile attendersi nuove
pronunce sul punto.
70
9) La sentenza della Corte Costituzionale sul conflitto di attribuzioni con la Procura
della Repubblica di Palermo.
Anche in questo caso, può essere utile richiamare integralmente il testo del
provvedimento della Corte Costituzionale sul conflitto di attribuzioni fra la
Presidenza della Repubblica e la Procura di Palermo:
“1.– Il Presidente della Repubblica ha sollevato conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato, «per
violazione degli articoli 90 e 3 della Costituzione e delle disposizioni di legge ordinaria che ne
costituiscono attuazione» – segnatamente, l’art. 7 della legge 5 giugno 1989, n. 219 (Nuove norme
in tema di reati ministeriali e di reati previsti dall’articolo 90 della Costituzione), «anche con
riferimento all’art. 271 del codice di procedura penale» – nei confronti del Procuratore della
Repubblica presso il Tribunale ordinario di Palermo, in relazione all’attività di intercettazione
telefonica, svolta riguardo alle utenze di persona diversa nell’ambito di un procedimento penale
pendente a Palermo, nel corso della quale sono state captate conversazioni intrattenute dallo stesso
Presidente della Repubblica.
2.– Giova preliminarmente riepilogare, nei suoi termini essenziali, la vicenda che ha dato origine
al conflitto, quale emerge dalle deduzioni e dalle produzioni documentali delle parti.
Le intercettazioni per le quali si controverte sono state effettuate su utenze telefoniche in uso al
senatore – non più in carica – Nicola Mancino, sottoposto ad indagini, assieme a numerose altre
persone, nell’ambito del procedimento penale n. 11609/08, concernente la cosiddetta “trattativa”
tra Stato e mafia negli anni tra il 1992 e il 1994, in rapporto alla quale è stato ipotizzato il reato di
violenza o minaccia aggravata ad un Corpo politico, amministrativo o giudiziario.
Nel periodo compreso tra il 7 novembre 2011 e il 9 maggio 2012, in particolare, sono state
intercettate sulle utenze in uso al sen. Mancino, in forza di due distinti decreti di autorizzazione (e
di successive proroghe per il secondo tra essi), 9.295 telefonate, quattro delle quali, della
complessiva durata di diciotto minuti, hanno avuto come interlocutore il Capo dello Stato: le prime
due effettuate ad iniziativa della persona sottoposta alle indagini, le altre su chiamata del
Presidente.
Alla luce delle risultanze investigative, la Procura di Palermo ha deciso di esercitare l’azione
penale solo nei confronti di alcuni degli indagati e per alcune delle incolpazioni, e di proseguire le
indagini quanto agli altri indagati ed alle residue ipotesi di reato, con riserva di ulteriori
valutazioni. Il 1° giugno 2012, di conseguenza, è stata disposta la separazione del procedimento
relativo ai soggetti per i quali si è stabilito di esercitare l’azione penale, tra i quali il sen. Mancino.
Nel fascicolo relativo al procedimento separato – che ha preso il n. 117919/02 e in relazione al
quale è stata formulata richiesta di rinvio a giudizio degli imputati, con conseguente fissazione
dell’udienza preliminare – la Procura ha inserito le sole intercettazioni ritenute utili per
l’instaurando giudizio, non comprendendovi i colloqui cui ha preso parte il Capo dello Stato.
Pertanto la documentazione concernente tali colloqui, rimasta nel fascicolo del procedimento
originario n. 11609/08, non ha sinora formato oggetto di deposito, idoneo a renderla conoscibile
alle parti processuali.
71
Alla stregua di quanto dedotto nell’atto introduttivo del giudizio, la Presidenza della Repubblica ha
appreso dell’avvenuta registrazione a seguito di un’intervista rilasciata al quotidiano «La
Repubblica» dal sostituto Procuratore dott. Antonino Di Matteo, pubblicata il 22 giugno 2012.
Nell’occasione, rispondendo a una domanda che introduceva il tema, l’intervistato aveva affermato
che «negli atti depositati non c’è traccia di conversazioni del Capo dello Stato e questo significa
che non sono minimamente rilevanti», aggiungendo poi – in risposta all’ulteriore domanda se ciò
preludesse alla loro distruzione – che la Procura palermitana avrebbe applicato «la legge in
vigore»: «quelle che dovranno essere distrutte con l’instaurazione di un procedimento davanti al
[Giudice per le indagini preliminari] saranno distrutte, quelle che riguardano altri fatti da
sviluppare saranno utilizzate in altri procedimenti».
Con nota del 27 giugno 2012, l’Avvocato generale dello Stato, su mandato della Presidenza, ha
quindi chiesto al Procuratore della Repubblica di Palermo «una conferma o una smentita» di
quanto sembrava emergere da tali dichiarazioni: ossia «che sarebbero state intercettate
conversazioni telefoniche del Presidente della Repubblica, allo stato considerate irrilevanti ma che
la Procura di Palermo si [sarebbe riservata] di utilizzare».
In risposta all’interpello, il Procuratore della Repubblica, con nota del 6 luglio 2012 – allegando
una missiva del dott. Di Matteo del giorno precedente – ha comunicato che la Procura di Palermo,
«avendo già valutato come irrilevante ai fini del procedimento qualsivoglia eventuale
comunicazione telefonica in atti diretta al Capo dello Stato, non ne prevede[va] alcuna
utilizzazione investigativa o processuale, ma esclusivamente la distruzione da effettuare con
l’osservanza delle formalità di legge».
Con successiva nota, diffusa da agenzie di stampa il 9 luglio 2012, il dott. Messineo ha
ulteriormente affermato che «nell’ordinamento attuale nessuna norma prescrive o anche soltanto
autorizza l’immediata cessazione dell’ascolto e della registrazione, quando, nel corso di una
intercettazione telefonica legittimamente autorizzata, venga casualmente ascoltata una
conversazione fra il soggetto sottoposto ad intercettazione ed altra persona nei cui confronti non
poteva essere disposta alcuna intercettazione»; aggiungendo che, «in tali casi, alla successiva
distruzione della conversazione legittimamente ascoltata e registrata si procede esclusivamente,
previa valutazione della irrilevanza della conversazione stessa ai fini del procedimento e con la
autorizzazione del Giudice per le indagini preliminari, sentite le parti». Da ultimo, in una lettera
diretta al quotidiano «La Repubblica», pubblicata l’11 luglio 2012, il Procuratore della
Repubblica ha ribadito che «la procedura di distruzione delle intercettazioni ritenute non rilevanti»
sarebbe stata «attivata nei modi e nei termini di legge».
3.– Ad avviso del ricorrente, la tesi espressa dalla Procura palermitana non sarebbe condivisibile,
dovendosi ritenere, al contrario, che le intercettazioni, anche indirette o casuali, di conversazioni
del Capo dello Stato siano radicalmente vietate dalla legge.
Tale divieto risulterebbe insito nella garanzia dell’irresponsabilità per gli atti compiuti
nell’esercizio delle funzioni (salvi i casi di alto tradimento e attentato alla Costituzione), assicurata
al Presidente della Repubblica dall’art. 90 Cost. in vista dell’espletamento degli altissimi compiti
di cui è investito, e troverebbe conferma nell’interpretazione sistematica delle norme di legge
ordinaria intese a dare attuazione a detta garanzia.
L’art. 7, comma 3, della legge n. 219 del 1989 vieta infatti, in modo assoluto, di disporre
intercettazioni telefoniche nei confronti del Presidente della Repubblica, se non dopo che la Corte
costituzionale ne abbia disposto la sospensione dalla carica (nel qual caso, competente a disporle è
solo il Comitato parlamentare per i giudizi d’accusa). Il divieto è sancito in rapporto ai reati per i
72
quali, in base all’art. 90 Cost., il Presidente può essere messo in stato di accusa, e con riguardo
alle intercettazioni «dirette» delle sue comunicazioni. La preclusione dovrebbe ritenersi, tuttavia,
logicamente estesa, per un verso, anche alle intercettazioni «indirette» o «casuali», egualmente
idonee a ledere la sfera di immunità del Capo dello Stato, e, per altro verso, anche ai procedimenti
aventi ad oggetto altre ipotesi di reato che coinvolgano il Presidente. A maggior ragione, poi,
dovrebbe ritenersi inammissibile l’utilizzazione di conversazioni del Capo dello Stato
occasionalmente intercettate nell’ambito di indagini concernenti reati addebitabili a diversi
soggetti, come quelle che hanno originato l’odierno conflitto.
Alle intercettazioni indicate da ultimo non sarebbe applicabile neppure la disciplina dettata
dall’art. 6 della legge 20 giugno 2003, n. 140 (Disposizioni per l’attuazione dell’articolo 68 della
Costituzione nonché in materia di processi penali nei confronti delle alte cariche dello Stato), avuto
riguardo alla captazione casuale di conversazioni o comunicazioni di membri del Parlamento, non
essendo la posizione del Capo dello Stato assimilabile a quella del parlamentare.
Di conseguenza, le registrazioni di cui si discute non potrebbero essere in alcun modo valutate,
utilizzate o trascritte, e se ne dovrebbe piuttosto chiedere al giudice l’immediata distruzione ai
sensi dell’art. 271 cod. proc. pen., in quanto eseguite «fuori dei casi consentiti dalla legge».
Su queste premesse, il ricorrente ritiene che la Procura della Repubblica di Palermo abbia
menomato, sotto più profili, le proprie prerogative costituzionali, facendo un uso non corretto dei
suoi poteri. Dette prerogative risulterebbero lese, in specie, dall’avvenuta registrazione dei
colloqui; dalla permanenza della relativa documentazione tra gli atti del procedimento; dal fatto
che ne sia stata valutata la rilevanza ai fini di una eventuale utilizzazione investigativa o
processuale e, soprattutto, dal manifestato intento della Procura di attivare un’udienza secondo le
modalità indicate dall’art. 268 cod. proc. pen., per ottenerne l’acquisizione o la distruzione:
procedura che – anche in ragione dell’instaurazione di un contraddittorio sul punto –
aggraverebbe gli effetti lesivi delle precedenti condotte, rendendoli definitivi.
Con l’atto introduttivo del giudizio, il ricorrente ha chiesto, pertanto, alla Corte di dichiarare che
non spetta alla Procura della Repubblica presso il Tribunale ordinario di Palermo «omettere
l’immediata distruzione delle intercettazioni telefoniche casuali di conversazioni del Presidente
della Repubblica», delle quali si discute, né valutarne la «(ir)rilevanza», offrendole all’«udienza
stralcio» disciplinata dall’art. 268 cod. proc. pen.
4.– Va confermata, anzitutto, l’ammissibilità del conflitto – già dichiarata da questa Corte, in sede
di prima e sommaria delibazione, con l’ordinanza n. 218 del 2012 – sussistendone i presupposti
soggettivi e oggettivi.
Con riguardo all’aspetto soggettivo, la natura di potere dello Stato e la conseguente legittimazione
del Presidente della Repubblica ad avvalersi dello strumento del conflitto a tutela delle proprie
attribuzioni costituzionali sono pacifiche nella giurisprudenza di questa Corte (sentenze n. 200 del
2006 e n. 129 del 1981, ordinanza n. 354 del 2005). Si tratta, infatti, di organo titolare di un
complesso di attribuzioni, non inquadrabili nella tradizionale tripartizione dei poteri dello Stato ed
esercitabili in posizione di piena indipendenza e autonomia, costituzionalmente garantita
(ordinanza n. 150 del 1980).
Egualmente costante è la giurisprudenza della Corte nel riconoscere la natura di potere dello Stato
al pubblico ministero. Gli organi inquirenti sono infatti investiti dell’attribuzione, essa pure
costituzionalmente garantita, inerente all’esercizio obbligatorio dell’azione penale (art. 112 Cost.),
cui si connette la titolarità diretta ed esclusiva delle indagini ad esso finalizzate (tra le molte,
73
sentenze n. 88 e n. 87 del 2012, ordinanze n. 241 e n. 104 del 2011). A fronte del riparto di detta
attribuzione fra i diversi uffici giudiziari territorialmente e funzionalmente competenti, ma, al
tempo stesso, della organizzazione gerarchica interna ai singoli uffici, quello requirente si presenta
come un potere “parzialmente diffuso”: legittimato ad agire e a resistere nei giudizi per conflitto di
attribuzione è il capo dell’ufficio interessato – in particolare, il Procuratore della Repubblica
presso il Tribunale – in quanto competente a dichiarare definitivamente, nell’assolvimento della
ricordata funzione, la volontà del potere cui appartiene (ordinanza n. 60 del 1999).
Riguardo, poi, al profilo oggettivo, il ricorso è proposto a salvaguardia di prerogative del
Presidente della Repubblica che si deducono insite nella garanzia dell’immunità prevista dall’art.
90 Cost., in correlazione alle altre norme costituzionali che definiscono il ruolo e le funzioni del
Capo dello Stato (il richiamo all’art. 3 Cost. è puramente collaterale), nonché nelle disposizioni di
legge ordinaria collegate a detta garanzia, a fronte di lesioni in assunto realizzate o prefigurate
dalla Procura di Palermo nello svolgimento dei propri compiti.
5.– Risulta d’altra parte infondata l’eccezione di inammissibilità, formulata dalla difesa della
Procura resistente nella propria memoria illustrativa, riguardo ad un preteso carattere
“prematuro” del conflitto, che si assume volto a censurare una semplice “manifestazione
d’intenti”, in carenza di una lesione attuale e concreta. Il riferimento concerne segnatamente
l’intenzione della Procura palermitana – espressa nella nota del 6 luglio 2012, in risposta
all’interpello dell’Avvocato generale dello Stato – di procedere alla distruzione delle
intercettazioni di cui si discute «con l’osservanza delle formalità di legge»: formula che il
ricorrente – anche alla luce di quanto affermato nella successiva nota del Procuratore della
Repubblica del 9 luglio 2012, diffusa a mezzo di agenzie di stampa – considera evocativa della
procedura disciplinata dall’art. 268, commi 4 e seguenti, cod. proc. pen.
Va rilevato, in via preliminare, che l’eccezione non copre nella loro interezza i contenuti del
ricorso, il quale investe anche comportamenti già tenuti dalla Procura palermitana, come ad
esempio la compiuta valutazione di rilevanza delle comunicazioni intercettate.
Quanto agli adempimenti non ancora posti in essere, costituisce in effetti affermazione ripetuta,
nella giurisprudenza costituzionale, che la Corte, «come regolatrice dei conflitti, è chiamata a
giudicare su conflitti non astratti e ipotetici, ma attuali e concreti» (sentenza n. 106 del 2009,
ordinanza n. 404 del 2005). Ciò in applicazione del generale principio per cui non è consentito
chiedere al giudice che sia accertato un proprio diritto (in questo caso: una attribuzione) se non
quando quel diritto (quella attribuzione) è leso o minacciato. Proprio in tale prospettiva, peraltro,
questa Corte ha ritenuto sufficiente, ai fini della configurabilità dell’interesse a ricorrere, anche la
sola minaccia di lesione, purché attuale e concreta, e non meramente congetturale. Il conflitto di
attribuzione è inammissibile quando si verta in una situazione di contrasto solo ipotetica, ossia
quando il conflitto venga proposto «senza che siano sorte in concreto contestazioni relative alla
“delimitazione della sfera di attribuzioni determinata per i vari poteri da norme costituzionali”»
(ordinanza n. 84 del 1978), non potendo la Corte essere adita «a scopo meramente consultivo»;
tuttavia, ai fini dell’ammissibilità dei conflitti di attribuzione, è richiesto solo «l’interesse ad agire,
la cui sussistenza è necessaria e sufficiente a conferire al conflitto gli indispensabili caratteri della
concretezza e dell’attualità» (sentenze n. 379 del 1996 e n. 420 del 1995).
In quest’ordine d’idee, si è quindi ritenuto – avendo riguardo ai conflitti di attribuzione tra enti, ma
con affermazione senz’altro estensibile ai conflitti interorganici – che costituisce atto idoneo ad
innescare un conflitto «qualsiasi comportamento significante», dotato di rilevanza esterna, anche
se preparatorio o non definitivo, che appaia comunque diretto «ad esprimere in modo chiaro ed
inequivoco la pretesa di esercitare una data competenza, il cui svolgimento possa determinare una
74
invasione nella altrui sfera di attribuzioni o, comunque, una menomazione altrettanto attuale della
possibilità di esercizio della medesima» (tra le molte, sentenze n. 332 del 2011, n. 235 del 2007 e n.
382 del 2006).
Nel caso in esame, benché negli atti a firma del Procuratore della Repubblica di Palermo allegati
al ricorso non vengano richiamate in modo espresso né la procedura di cui all’art. 268, commi 4 e
seguenti, né quella di cui all’art. 269, comma 2, cod. proc. pen., risulta incontestabile – e le difese
svolte dalla resistente nell’odierno giudizio ne costituiscono eloquente riprova – che, alla luce del
modus operandi seguito dalla Procura, la distruzione delle intercettazioni dovrebbe passare
attraverso le procedure suindicate, e non già tramite quella delineata dall’art. 271 cod. proc. pen.,
la cui applicazione è invece pretesa dal ricorrente (sul presupposto che si tratti di procedura “non
partecipata”). La Procura fa conseguire, infatti, la “prognosi” di distruzione del materiale
dall’avvenuta valutazione della sua irrilevanza ai fini del procedimento – valutazione destinata, per
affermazione della Procura stessa, ad essere sottoposta alla verifica del giudice nel contraddittorio
fra le parti, le quali potrebbero essere latrici di differenti apprezzamenti – e non già dalla
inutilizzabilità dei colloqui intercettati, in quanto acquisiti contra legem.
Il comportamento della Procura, in conclusione, risulta inequivocamente espressivo della
rivendicazione del potere-dovere di attivare la procedura di selezione prevista dall’art. 268,
all’esito della quale soltanto potrebbe essere disposta, ai sensi dell’art. 269, comma 2, cod. proc.
pen. – ma esclusivamente su istanza degli «interessati» (ossia, nella specie, dello stesso Presidente
della Repubblica) e passando attraverso una ulteriore udienza camerale – la distruzione del
materiale in questione «a tutela della riservatezza».
In tale contesto, appare evidente come non possa essere condiviso l’assunto della resistente,
secondo il quale il Presidente della Repubblica dovrebbe attendere, prima di sollevare il conflitto,
la decisione del giudice che eventualmente neghi la distruzione del materiale (e, di conseguenza,
proporre il conflitto stesso contro l’autorità giudicante, anziché contro quella inquirente). Il vulnus
paventato dal ricorrente non si connette, infatti, solo all’eventualità che, a seguito delle indicazioni
delle parti private, il giudice vada in contrario avviso rispetto alla Procura sul punto della
irrilevanza delle conversazioni e ne disponga, quindi, l’acquisizione in vista di una loro
utilizzazione processuale. La lesione temuta – e che l’odierno conflitto mira a scongiurare – si
connette anche, e prima di tutto, alla rivelazione del contenuto dei colloqui presidenziali ad
ulteriori soggetti (e, in particolare, a soggetti privati, quali i difensori delle parti) che
inevitabilmente deriverebbe dal ricorso alle procedure di cui agli artt. 268 e 269 cod. proc. pen.,
con il conseguente rischio di una loro generale propalazione. Per questo aspetto, la reazione
successiva al provvedimento del giudice risulterebbe, nella prospettiva del ricorrente, chiaramente
tardiva, essendosi la lesione ormai irreparabilmente prodotta.
6.– Parimenti infondata è l’altra eccezione di inammissibilità, essa pure formulata dalla resistente
nella memoria illustrativa, in base alla quale il ricorrente si sarebbe impropriamente avvalso dello
strumento del conflitto di attribuzione per censurare un mero errore in procedendo da parte
dell’autorità giudiziaria – quello in ipotesi derivante dal (preconizzato) ricorso ad una certa
procedura anziché ad un’altra, al fine di pervenire alla distruzione del materiale – ponendo, di
conseguenza, una questione che attiene esclusivamente all’interpretazione e all’applicazione delle
norme processuali.
A suffragio di tale eccezione, la difesa della Procura palermitana evoca la giurisprudenza di questa
Corte in ordine ai limiti di ammissibilità dei conflitti di attribuzione nei confronti di atti
giurisdizionali: giurisprudenza secondo la quale il conflitto non può essere utilizzato per sindacare
75
semplicemente presunti errores in iudicando o in procedendo nell’esercizio della funzione
giudiziaria, col risultato di trasformarlo in un improprio mezzo di impugnazione.
Al riguardo, va anzitutto osservato che nel presente caso non si discute di atti giurisdizionali, non
venendo in considerazione alcun provvedimento del giudice, ma solo attività giudiziarie poste in
essere dall’organo inquirente.
Ad ogni modo, l’orientamento della giurisprudenza costituzionale richiamato dalla stessa Procura
palermitana è nel senso che gli atti giurisdizionali sono suscettibili di essere posti a base di un
conflitto di attribuzione, tanto interorganico che intersoggettivo, quando sia contestata
radicalmente la riconducibilità dell’atto che determina il conflitto alla funzione giurisdizionale,
ovvero quando sia messa in discussione l’esistenza stessa del potere giurisdizionale nei confronti
del soggetto ricorrente, o, più in generale, si lamenti il superamento dei limiti, diversi dal generale
vincolo (anche costituzionale) di soggezione del giudice alla legge, che detta funzione incontra
nell’ordinamento a garanzia di altre attribuzioni costituzionali (in materia di conflitto tra poteri,
sentenza n. 359 del 1999, ordinanze n. 285 del 2011, n. 334 e n. 284 del 2008; in materia di
conflitto tra enti, sentenze n. 195 e n. 39 del 2007, n. 326 e n. 276 del 2003).
Nella specie, il ricorso del Presidente della Repubblica è volto propriamente a contestare la stessa
esistenza nei confronti del ricorrente, in ragione delle sue prerogative costituzionali, del potere che
la Procura riterrebbe invece competerle: quello, cioè, di intercettare i colloqui del Capo del Stato,
almeno quando si tratti di captazioni «occasionali», e di utilizzare le conversazioni presidenziali
così intercettate ai fini del procedimento (potere, quest’ultimo, la cui esistenza rappresenta, come
già accennato, il presupposto logico della valutazione di «irrilevanza» delle conversazioni, operata
dalla Procura, e della manifestata convinzione che la loro distruzione debba transitare attraverso
la cosiddetta udienza stralcio, di cui all’art. 268 cod. proc. pen.).
Questa Corte, del resto, ha più volte ritenuto ammissibili conflitti di attribuzione promossi in
relazione ad atti od omissioni del pubblico ministero strutturalmente analoghi, sotto il profilo in
esame, a quelli che formano oggetto delle odierne censure (ad esempio, sentenze n. 88 e n. 87 del
2012, n. 106 del 2009; ordinanze n. 241 e n. 104 del 2011).
7.– Neppure ha fondamento l’ulteriore eccezione – prospettata dalla difesa della resistente nell’atto
di costituzione in giudizio – di inammissibilità del ricorso «per impossibilità giuridica del petitum».
Deve, infatti, escludersi che la Presidenza della Repubblica abbia postulato un dovere della
Procura di distruggere essa stessa, omisso medio, la documentazione delle intercettazioni di cui si
discute: comportamento – secondo la resistente – «non esigibile» in base alla disciplina
processuale vigente, posto che, tanto nell’ipotesi prevista dagli artt. 268, comma 6, e 269, comma
2, quanto in quella regolata dall’art. 271, comma 3, cod. proc. pen., la distruzione può essere
disposta esclusivamente dal giudice.
In senso contrario va osservato che, per costante giurisprudenza di questa Corte, l’oggetto del
conflitto di attribuzione deve essere individuato sulla base di una lettura complessiva dell’atto di
promovimento, la quale può bene valere a precisare o ad integrare la formale enunciazione del
petitum (tra le molte, sentenze n. 334 del 2011, n. 223 del 2009, n. 286 del 2006 e n. 137 del 2001).
Nella specie – anche a prescindere dalle inequivoche puntualizzazioni successivamente fornite
dall’Avvocatura dello Stato nella memoria illustrativa – appare in effetti evidente, alla luce del
tenore complessivo del ricorso introduttivo, come la locuzione che figura nelle relative conclusioni
(«chiede che l’Ecc.ma Corte adita dichiari che non spetta alla Procura della Repubblica presso il
76
Tribunale Ordinario di Palermo omettere l’immediata distruzione delle intercettazioni telefoniche
casuali del Presidente della Repubblica») assuma un carattere ellittico, non disconoscendo il
ricorrente, in realtà, che la distruzione del materiale probatorio debba passare attraverso il vaglio
del giudice. Depone in tal senso non solo l’esplicito richiamo, quale “parametro integrativo”,
all’art. 271 cod. proc. pen. – il cui comma 3 prevede che la distruzione è disposta per ordine del
giudice – ma anche la specifica affermazione, fatta a pagina 3 del ricorso, secondo cui il pubblico
ministero dovrebbe immediatamente «chiedere al giudice» la distruzione delle intercettazioni delle
conversazioni presidenziali, ancorché «indirette od occasionali» (affermazione che figura, peraltro,
anche nel decreto del Presidente della Repubblica del 16 luglio 2012, recante la determinazione di
proporre il conflitto e l’affidamento della difesa all’Avvocatura dello Stato: decreto richiamato nel
ricorso e allo stesso allegato).
Riguardo poi alla richiesta che sia riconosciuto l’obbligo della Procura palermitana di procedere
«immediatamente» alla distruzione del materiale acquisito, risulta chiaro, alla luce del tenore
complessivo dell’atto di promovimento, come la scelta dell’avverbio non evochi affatto un ruolo
diretto ed esclusivo del pubblico ministero nella procedura. Il termine vale piuttosto a significare,
al fianco di una connotazione di urgenza dell’atto, come il ricorrente ritenga che la distruzione non
debba essere preceduta da quegli adempimenti “intermedi” che la Procura palermitana intende
compiere, cioè la cosiddetta «udienza stralcio» e, inoltre, la procedura camerale partecipata di cui
all’art. 269 cod. proc. pen.
In definitiva il ricorrente – come confermato dall’Avvocatura dello Stato nella propria memoria –
ha inteso dolersi del fatto che la resistente non abbia prontamente promosso la distruzione del
materiale, facendone istanza al giudice.
Cade automaticamente, con ciò, anche la correlata e conclusiva eccezione di inammissibilità
sollevata dalla Procura, inerente alla pretesa contraddizione tra il petitum e le ragioni addotte in
suo sostegno, dovendo il primo essere identificato proprio alla luce delle seconde.
8.– Nel merito, il ricorso è fondato.
8.1.– Al fine di decidere il presente conflitto di attribuzione, non è sufficiente una mera esegesi
testuale di disposizioni normative, costituzionali od ordinarie, ma è necessario far riferimento
all’insieme dei principi costituzionali, da cui emergono la figura ed il ruolo del Presidente della
Repubblica nel sistema costituzionale italiano.
È appena il caso di osservare, inoltre, che in tutte le sedi giurisdizionali (e quindi non solo in
quella costituzionale) occorre interpretare le leggi ordinarie alla luce della Costituzione, e non
viceversa. La Carta fondamentale contiene in sé principi e regole, che non soltanto si impongono
sulle altre fonti e condizionano pertanto la legislazione ordinaria – determinandone la illegittimità
in caso di contrasto – ma contribuiscono a conformare tale legislazione, mediante il dovere del
giudice di attribuire ad ogni singola disposizione normativa il significato più aderente alle norme
costituzionali, sollevando la questione di legittimità davanti a questa Corte solo quando sia
impossibile, per insuperabili barriere testuali, individuare una interpretazione conforme (sentenza
n. 356 del 1996). Naturalmente allo stesso principio deve ispirarsi il giudice delle leggi.
La conformità a Costituzione dell’interpretazione giudiziale non può peraltro limitarsi ad una
comparazione testuale e meramente letterale tra la disposizione legislativa da interpretare e la
norma costituzionale di riferimento. La Costituzione è fatta soprattutto di principi e questi ultimi
sono in stretto collegamento tra loro, bilanciandosi vicendevolmente, di modo che la valutazione di
conformità alla Costituzione stessa deve essere operata con riferimento al sistema, e non a singole
77
norme, isolatamente considerate. Un’interpretazione frammentaria delle disposizioni normative,
sia costituzionali che ordinarie, rischia di condurre, in molti casi, ad esiti paradossali, che
finirebbero per contraddire le stesse loro finalità di tutela.
8.2.– Poste le premesse metodologiche di cui sopra, la ricostruzione del complesso delle
attribuzioni del Presidente della Repubblica nel sistema costituzionale italiano mette in rilievo che
lo stesso è stato collocato dalla Costituzione al di fuori dei tradizionali poteri dello Stato e,
naturalmente, al di sopra di tutte le parti politiche. Egli dispone pertanto di competenze che
incidono su ognuno dei citati poteri, allo scopo di salvaguardare, ad un tempo, sia la loro
separazione che il loro equilibrio. Tale singolare caratteristica della posizione del Presidente si
riflette sulla natura delle sue attribuzioni, che non implicano il potere di adottare decisioni nel
merito di specifiche materie, ma danno allo stesso gli strumenti per indurre gli altri poteri
costituzionali a svolgere correttamente le proprie funzioni, da cui devono scaturire le relative
decisioni di merito. La specificità della posizione del Capo dello Stato si fonda sulla descritta
natura delle sue attribuzioni, che lo differenziano dagli altri organi costituzionali, senza incidere,
tuttavia, sul principio di parità tra gli stessi.
Alla luce di quanto detto, il Presidente della Repubblica «rappresenta l’unità nazionale» (art. 87,
primo comma, Cost.) non soltanto nel senso dell’unità territoriale dello Stato, ma anche, e
soprattutto, nel senso della coesione e dell’armonico funzionamento dei poteri, politici e di
garanzia, che compongono l’assetto costituzionale della Repubblica. Si tratta di organo di
moderazione e di stimolo nei confronti di altri poteri, in ipotesi tendenti ad esorbitanze o ad
inerzia.
Tutti i poteri del Presidente della Repubblica hanno dunque lo scopo di consentire allo stesso di
indirizzare gli appropriati impulsi ai titolari degli organi che devono assumere decisioni di merito,
senza mai sostituirsi a questi, ma avviando e assecondando il loro funzionamento, oppure, in
ipotesi di stasi o di blocco, adottando provvedimenti intesi a riavviare il normale ciclo di
svolgimento delle funzioni costituzionali. Tali sono, ad esempio, il potere di sciogliere le Camere,
per consentire al corpo elettorale di indicare la soluzione politica di uno stato di crisi, che non
permette la formazione di un Governo o incide in modo grave sulla rappresentatività del
Parlamento; la nomina del Presidente del Consiglio e, su proposta di questi, dei ministri, per
consentire l’operatività del vertice del potere esecutivo; l’assunzione, nella sua qualità di
Presidente del Consiglio superiore della magistratura, di iniziative volte a garantire le condizioni
esterne per un indipendente e coerente esercizio della funzione giurisdizionale.
8.3.– Per svolgere efficacemente il proprio ruolo di garante dell’equilibrio costituzionale e di
“magistratura di influenza”, il Presidente deve tessere costantemente una rete di raccordi allo
scopo di armonizzare eventuali posizioni in conflitto ed asprezze polemiche, indicare ai vari titolari
di organi costituzionali i principi in base ai quali possono e devono essere ricercate soluzioni il più
possibile condivise dei diversi problemi che via via si pongono.
È indispensabile, in questo quadro, che il Presidente affianchi continuamente ai propri poteri
formali, che si estrinsecano nell’emanazione di atti determinati e puntuali, espressamente previsti
dalla Costituzione, un uso discreto di quello che è stato definito il “potere di persuasione”,
essenzialmente composto di attività informali, che possono precedere o seguire l’adozione, da parte
propria o di altri organi costituzionali, di specifici provvedimenti, sia per valutare, in via
preventiva, la loro opportunità istituzionale, sia per saggiarne, in via successiva, l’impatto sul
sistema delle relazioni tra i poteri dello Stato. Le attività informali sono pertanto inestricabilmente
connesse a quelle formali.
78
Le suddette attività informali, fatte di incontri, comunicazioni e raffronti dialettici, implicano
necessariamente considerazioni e giudizi parziali e provvisori da parte del Presidente e dei suoi
interlocutori. Le attività di raccordo e di influenza possono e devono essere valutate e giudicate,
positivamente o negativamente, in base ai loro risultati, non già in modo frammentario ed
episodico, a seguito di estrapolazioni parziali ed indebite. L’efficacia, e la stessa praticabilità, delle
funzioni di raccordo e di persuasione, sarebbero inevitabilmente compromesse dalla indiscriminata
e casuale pubblicizzazione dei contenuti dei singoli atti comunicativi. Non occorrono molte parole
per dimostrare che un’attività informale di stimolo, moderazione e persuasione – che costituisce il
cuore del ruolo presidenziale nella forma di governo italiana – sarebbe destinata a sicuro
fallimento, se si dovesse esercitare mediante dichiarazioni pubbliche. La discrezione, e quindi la
riservatezza, delle comunicazioni del Presidente della Repubblica sono pertanto coessenziali al suo
ruolo nell’ordinamento costituzionale. Non solo le stesse non si pongono in contrasto con la
generale eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, ma costituiscono modalità imprescindibili di
esercizio della funzione di equilibrio costituzionale – derivanti direttamente dalla Costituzione e
non da altre fonti normative – dal cui mantenimento dipende la concreta possibilità di tutelare gli
stessi diritti fondamentali, che in quell’equilibrio trovano la loro garanzia generale e preliminare.
9.– Dalle considerazioni svolte consegue che il Presidente della Repubblica deve poter contare
sulla riservatezza assoluta delle proprie comunicazioni, non in rapporto ad una specifica funzione,
ma per l’efficace esercizio di tutte. Anche le funzioni che implicano decisioni molto incisive, che si
concretizzano in solenni atti formali, come lo scioglimento anticipato delle assemblee legislative
(art. 88 Cost.), presuppongono che il Presidente intrattenga, nel periodo che precede l’assunzione
della decisione, intensi contatti con le forze politiche rappresentate in Parlamento e con altri
soggetti, esponenti della società civile e delle istituzioni, allo scopo di valutare tutte le alternative
costituzionalmente possibili, sia per consentire alla legislatura di giungere alla sua naturale
scadenza, sia per troncare, con l’appello agli elettori, situazioni di stallo e di ingovernabilità. La
propalazione del contenuto di tali colloqui, nel corso dei quali ciascuno degli interlocutori può
esprimere apprezzamenti non definitivi e valutazioni di parte su persone e formazioni politiche,
sarebbe estremamente dannosa non solo per la figura e per le funzioni del Capo dello Stato, ma
anche, e soprattutto, per il sistema costituzionale complessivo, che dovrebbe sopportare le
conseguenze dell’acuirsi delle contrapposizioni e degli scontri.
Le stesse considerazioni è possibile fare a proposito dei contatti necessari per un efficace
svolgimento del ruolo di Presidente del Consiglio superiore della magistratura, che non si riduce ai
discorsi ufficiali in occasione delle sedute solenni di quest’organo o alla firma dei provvedimenti
dallo stesso deliberati, ma implica la conoscenza di specifiche situazioni e particolari problemi, che
attengono all’esercizio della giurisdizione a tutti i livelli, senza ovviamente alcuna interferenza con
il merito degli orientamenti, processuali e sostanziali, dei giudici nell’esercizio delle loro funzioni.
Ancora va ricordato come il Capo dello Stato presieda il Consiglio supremo di difesa ed abbia il
comando delle Forze armate, e come sia chiamato ad intrattenere, anche nelle vesti indicate,
rapporti e comunicazioni del cui carattere riservato non occorre dare particolare dimostrazione.
Dagli esempi testé prospettati si può dedurre in quale misura, nel campo delle prerogative
costituzionali, vengano in rilievo le esigenze intrinseche del sistema, che non sempre sono
enunciate dalla Costituzione in norme esplicite, e che risultano peraltro del tutto evidenti, se si
adotta un punto di vista sensibile alla tenuta dell’equilibrio tra i poteri. Questa Corte ha
reiteratamente affermato che le prerogative degli organi costituzionali – in quanto derogatorie del
principio della parità di trattamento davanti alla giurisdizione, posto alle origini della formazione
dello Stato di diritto (sentenza n. 24 del 2004) – trovano fondamento nel dettato costituzionale, al
quale il legislatore ordinario può dare solo stretta attuazione (sentenza n. 262 del 2009), senza
79
aggiungere alcuna nuova deroga al diritto comune. Tale esigenza, peraltro, è soddisfatta anche
quando quel fondamento, pur nell’assenza di una enunciazione formale ed espressa, emerga in
modo univoco dal sistema costituzionale (sentenza n. 148 del 1983).
È evidente altresì che tutti gli organi costituzionali hanno necessità di disporre di una garanzia di
riservatezza particolarmente intensa, in relazione alle rispettive comunicazioni inerenti ad attività
informali, sul presupposto che tale garanzia – principio generale valevole per tutti i cittadini, ai
sensi dell’art. 15 Cost. – assume contorni e finalità specifiche, se vengono in rilievo ulteriori
interessi costituzionalmente meritevoli di protezione, quale l’efficace e libero svolgimento, ad
esempio, dell’attività parlamentare e di governo.
Si inquadra in questa prospettiva la disposizione di cui all’art. 68, terzo comma, Cost., riguardante
i membri delle due Camere, la quale stabilisce che non si possa ricorrere, nei confronti di tali
soggetti, ad intercettazioni telefoniche o ad altri mezzi invasivi di ricerca della prova, se non a
seguito di autorizzazione concessa dalla Camera competente. Specifiche limitazioni all’esercizio di
poteri di indagine mediante atti invasivi, quali le intercettazioni telefoniche, sono previste da norme
di rango costituzionale anche per i componenti del Governo (art. 10 della legge cost. 16 gennaio
1989, n. 1, recante « Modifiche degli articoli 96, 134 e 135 della Costituzione e della legge
costituzionale 11 marzo 1953, n. 1, e norme in materia di procedimenti per i reati di cui all’articolo
96 della Costituzione»).
La posizione dei soggetti appena indicati e quella del Presidente della Repubblica divergono
tuttavia per due distinti profili. In primo luogo, il Presidente possiede soltanto funzioni di raccordo
e di equilibrio, che non implicano l’assunzione, nella sua quotidiana attività, di decisioni politiche
– delle quali debba rispondere ai suoi elettori o a chi abbia accordato la fiducia – ma richiedono
che ponga in collegamento tutti i titolari delle istituzioni di vertice, esercitando quei poteri di
impulso, di persuasione e di moderazione, di cui si diceva prima, richiedenti necessariamente
discrezione e riservatezza. Per altro verso, e non a caso, la Costituzione non prevede alcuno
strumento per rimuovere la preclusione all’utilizzazione, nei confronti del Presidente, di mezzi di
ricerca della prova invasivi, a differenza di quel che concerne i parlamentari ed i componenti del
Governo, per i quali è possibile procedere a tali forme di controllo se la Camera competente,
secondo le diverse discipline della materia, concede la prescritta autorizzazione.
Nel quadro normativo fa difetto, del resto, ogni riferimento ai soggetti istituzionali cui sarebbe
possibile chiedere, da parte dell’autorità giudiziaria, una autorizzazione concernente il Presidente
della Repubblica. L’assenza di una previsione non potrebbe essere superata in via interpretativa,
neanche da parte di questa Corte, poiché manca in modo evidente una soluzione costituzionalmente
obbligata. L’individuazione di un soggetto competente a rilasciare un’autorizzazione del genere
potrebbe essere operata soltanto da una norma di rango costituzionale, non surrogabile da alcun
altro tipo di fonte né, tanto meno, da una pronuncia del giudice costituzionale.
La mancata previsione di atti autorizzatori simili a quelli contemplati per i parlamentari ed i
ministri, e la carenza inoltre di limitazioni esplicite per categorie di reati stabilite da norme
costituzionali, non possono portare alla paradossale conseguenza che le comunicazioni del
Presidente della Repubblica godano di una tutela inferiore a quella degli altri soggetti istituzionali
menzionati, ma alla più coerente conclusione che il silenzio della Costituzione sul punto sia
espressivo della inderogabilità – in linea di principio e con l’eccezione costituzionalmente
necessaria di cui si dirà poco oltre – della riservatezza della sfera delle comunicazioni
presidenziali.
80
Tale inderogabilità discende dalla posizione e dal ruolo del Capo dello Stato nel sistema
costituzionale italiano e non può essere riferita ad una norma specifica ed esplicita, poiché non
esiste una disposizione che individui un soggetto istituzionale competente ad autorizzare il
superamento della prerogativa. Non si tratta quindi di una lacuna, ma, al contrario, della
presupposizione logica, di natura giuridico-costituzionale, dell’intangibilità della sfera di
comunicazioni del supremo garante dell’equilibrio tra i poteri dello Stato.
Da quanto sinora detto si deduce l’improponibilità di qualunque analogia, nella disciplina della
prerogativa di riservatezza delle comunicazioni del Capo dello Stato, sia in funzione estensiva che
restrittiva, con le norme contenute nella legge 20 giugno 2003, n. 140 (Disposizioni per
l’attuazione dell’articolo 68 della Costituzione nonché in materia di processi penali nei confronti
delle alte cariche dello Stato), da considerare attuative – specie dopo la sentenza di questa Corte n.
24 del 2004 – di una previsione costituzionale riguardante soltanto i membri del Parlamento. È
proprio dallo stesso art. 68 Cost., e non dalle norme di legge ordinaria che vi hanno dato
attuazione, che si può invece muovere, sulla base di una logica argomentazione a fortiori, per dare
un significato, nella direzione indicata, al silenzio della Costituzione in tema di intercettazione
delle comunicazioni del Presidente della Repubblica.
10.– Non sarebbe, in effetti, rispondente ad un corretto metodo interpretativo della Costituzione
trarre conclusioni negative sull’esistenza di una tutela generale della riservatezza delle
comunicazioni del Presidente della Repubblica dall’assenza di una esplicita disposizione
costituzionale in proposito.
Nessuno, ad esempio, potrebbe dubitare della sussistenza delle immunità riconosciute alle sedi
degli organi costituzionali, sol perché non è prevista in Costituzione e rimane affidata
esclusivamente all’efficacia dei regolamenti di tali organi, ove invece è sancita in modo esplicito.
Questa Corte ha già chiarito che alle disposizioni contenute nella Costituzione, volte a
salvaguardare l’assoluta indipendenza del Parlamento, «si aggiungono poi, svolgendone ed
applicandone i principi, quelle dei regolamenti parlamentari», da cui «si suole trarre la regola
della così detta “immunità della sede” (valevole anche per gli altri supremi organi dello Stato) in
forza della quale nessuna estranea autorità potrebbe far eseguire coattivamente propri
provvedimenti rivolti al Parlamento ed ai suoi organi. Di guisa che, ove gli organi parlamentari
non vi ottemperassero, sarebbe unicamente possibile provocare l’intervento di questa Corte, in
sede di conflitto di attribuzione […]» (sentenza n. 231 del 1975). In definitiva, e per giurisprudenza
risalente, la legge e i regolamenti degli organi costituzionali non possono creare nuove
prerogative, ma possono tuttavia esprimere prerogative implicite alla particolare struttura ed alle
specifiche funzioni dei medesimi organi.
La immunità delle sedi è legata all’esistenza stessa dello Stato di diritto democratico, che verrebbe
posta certamente in pericolo dall’esercizio non contrastabile dei poteri repressivi, anche nei luoghi
ove si esercitano le massime funzioni di rappresentanza e di garanzia. La violazione delle sedi degli
organi costituzionali potrebbe avvenire solo in uno Stato autoritario di polizia, che ovviamente
costituisce l’opposto dello Stato costituzionale delineato dalla Carta del 1948.
L’interpretazione meramente letterale delle disposizioni normative, metodo primitivo sempre, lo è
ancor più se oggetto della ricostruzione ermeneutica sono le disposizioni costituzionali, che
contengono norme basate su principi fondamentali indispensabili per il regolare funzionamento
delle istituzioni della Repubblica democratica. La natura derogatoria del principio di uguaglianza,
propria delle norme che sanciscono le prerogative degli organi costituzionali, impone – come
questa Corte ha costantemente affermato – una stretta interpretazione delle relative disposizioni.
Sono pertanto escluse sia l’interpretazione estensiva che quella analogica, ma resta possibile ed
81
anzi necessaria l’interpretazione sistematica, che consente una ricostruzione coerente
dell’ordinamento costituzionale.
Non sarebbe ragionevole dire, d’altra parte, che l’immunità delle sedi costituisca un inaccettabile
privilegio degli organi costituzionali, contrario all’art. 3 Cost., perché uguale immunità non è
prevista per le abitazioni dei cittadini. Le norme regolamentari in discorso esplicitano una
garanzia funzionale presente nella Costituzione, e per questa ragione sono con essa perfettamente
compatibili.
Si consideri ancora che, una volta stabilita l’inviolabilità della sede degli organi costituzionali
rispetto all’esercizio di poteri coercitivi dell’autorità giudiziaria o di polizia, sarebbe davvero
irragionevole ammettere la possibilità di una intrusione sulle linee telefoniche in uso ai titolari
degli organi stessi, per di più installate proprio nelle sedi protette da immunità. Se si rileva poi che,
oltre alle intercettazioni telefoniche, sono possibili – in relazione a determinate fattispecie – anche
intercettazioni ambientali, si dovrebbe assurdamente concludere che sia consentito collocare,
previa autorizzazione del giudice, apparecchi trasmittenti nelle sedi delle Camere, del Governo,
della Corte costituzionale, sol perché non esiste un esplicito divieto costituzionale di compiere tali
atti investigativi.
Il paradosso legato ad una ricerca solo testuale delle prerogative potrebbe spingersi fino a
conseguenze ancor più estreme. Norme di rango costituzionale pongono limiti espressi alla
possibilità che i componenti delle Camere o del Governo siano assoggettati a provvedimenti
coercitivi della libertà personale, oltre che a mezzi di indagine lesivi dell’inviolabilità delle
comunicazioni e del domicilio (rispettivamente, art. 68 Cost. e art. 10 della legge cost. n. 1 del
1989). Nell’assenza di analoghe previsioni che lo riguardano, dovrebbe ritenersi, secondo il
metodo qui disatteso, che il Presidente della Repubblica possa essere indiscriminatamente
assoggettato a provvedimenti coercitivi – perfino eseguibili attraverso la restrizione in carcere –
anche ad iniziativa della polizia giudiziaria. E ciò qualunque sia la natura del reato in ipotesi
perseguito. L’inaccettabilità della conseguenza, com’è ovvio, invalida il metodo. Ed infatti non
mancano, nell’ordinamento, norme sintomatiche dell’incoercibilità della libertà personale del
Capo dello Stato. Si pensi ad esempio all’esclusione per quest’ultimo della possibilità di procedere
nelle forme ordinarie (e dunque anche mediante l’eventuale accompagnamento coattivo)
all’assunzione della testimonianza (art. 205, comma 3, cod. proc. pen., in relazione al comma 1
della stessa norma): lungi dal costituire una eccezione (in questo senso irragionevole) nell’ambito
di una generalizzata possibilità di coercizione, la disposizione rappresenta piuttosto la regola
applicativa, sul piano particolare, del più generale regime di tutela della funzione presidenziale.
11.– L’art. 90 Cost. prevede che il Presidente della Repubblica non è responsabile degli atti
compiuti nell’esercizio delle sue funzioni, tranne che per alto tradimento o attentato alla
Costituzione. È opinione pacifica che l’immunità di cui alla citata norma costituzionale sia
onnicomprensiva, copra cioè i settori penale, civile, amministrativo e politico. Tuttavia la
perseguibilità del Capo dello Stato per i delitti di alto tradimento e di attentato alla Costituzione
rende necessario che, allo scopo di accertare così gravi illeciti penali, di rilevanza non solo
personale, ma istituzionale, possano essere utilizzati anche mezzi di ricerca della prova
particolarmente invasivi, come le intercettazioni telefoniche. Si tratta di una limitazione logica ed
implicita alla statuizione costituzionale che assoggetta il Presidente della Repubblica alla
giurisdizione penale – sia pure con forme e procedimenti peculiari – in vista dell’accertamento
della sua responsabilità per il compimento di uno dei suddetti reati funzionali.
La ritenuta necessità di consentire l’esercizio di poteri investigativi particolarmente penetranti,
come (per quanto qui interessa) le intercettazioni telefoniche, ha indotto il legislatore ordinario a
82
dare stretta attuazione al disposto costituzionale, mediante l’art. 7, commi 2 e 3, della legge n. 219
del 1989. Tale disciplina attribuisce al Comitato parlamentare, di cui all’art. 12 della legge
costituzionale 11 marzo 1953, n. 1 (Norme integrative della Costituzione concernenti la Corte
costituzionale), il potere di deliberare i provvedimenti che dispongono intercettazioni telefoniche
nei confronti del Presidente della Repubblica, sempre dopo che la Corte costituzionale abbia
sospeso lo stesso dalla carica: un’eccezione, stabilita con legge ordinaria, al generale divieto,
desumibile dal sistema costituzionale, di intercettare le comunicazioni del Capo dello Stato. La
norma eccezionale si contiene nei limiti strettamente necessari all’attuazione processuale dell’art.
90 Cost. – che costituisce, a sua volta, norma derogatoria – disponendo, per di più, che, finanche
nell’ipotesi di indagini volte all’accertamento dei più gravi delitti contro le istituzioni della
Repubblica previsti dall’ordinamento costituzionale, siano interdette agli investigatori
intercettazioni telefoniche nei confronti del Presidente in carica.
Lo stesso argomento a fortiori, che consente di dare un significato coerente con il sistema al
silenzio della Costituzione sulle garanzie di riservatezza delle comunicazioni del Capo dello Stato,
deve essere utilizzato per dedurre dalla rigorosa previsione dell’art. 7, commi 2 e 3, della legge n.
219 del 1989, la conclusione che la garanzia prevista perfino per le indagini concernenti i delitti
più gravi sul piano istituzionale implica che, per tutte le altre fattispecie, non si possa ipotizzare un
livello di tutela inferiore. Ciò, del resto, è esplicitamente riconosciuto anche da quella parte della
dottrina che circoscrive nel modo più restrittivo le prerogative presidenziali. La stessa Procura
della Repubblica di Palermo, odierna resistente, non contesta che sia inibita qualunque forma di
intercettazione telefonica nei confronti del Presidente della Repubblica ed ha piuttosto incentrato le
sue difese – come si vedrà poco più avanti – sull’asserita impossibilità di riferire tale divieto alle
intercettazioni «casuali».
12.– Sulla base delle considerazioni sinora esposte, si deve affermare altresì che, al fine di
determinare l’ampiezza della tutela della riservatezza delle comunicazioni del Presidente della
Repubblica, non assume alcuna rilevanza la distinzione tra reati funzionali ed extrafunzionali,
giacché l’interesse costituzionalmente protetto non è la salvaguardia della persona del titolare
della carica, ma l’efficace svolgimento delle funzioni di equilibrio e raccordo tipiche del ruolo del
Presidente della Repubblica nel sistema costituzionale italiano, fondato sulla separazione e
sull’integrazione dei poteri dello Stato.
Si deve inoltre sottolineare che tutta la discussione sulla distinzione tra i reati ascrivibili al Capo
dello Stato, sviluppata anche nell’ambito del presente giudizio, risulta invece ad esso estranea,
giacché nel procedimento penale da cui origina il conflitto non è mai emersa alcuna contestazione
di natura penale nei confronti del Presidente.
13.– Ugualmente fuor di luogo sono tutte le discussioni sviluppate in questo giudizio sulla
responsabilità penale del Presidente della Repubblica per reati extrafunzionali. È noto infatti come
questa Corte abbia stabilito che «l’art. 90 della Costituzione sancisce la irresponsabilità del
Presidente – salve le ipotesi estreme dell’alto tradimento e dell’attentato alla Costituzione – solo
per gli “atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni”». La medesima pronuncia ha concluso sul
punto con chiarezza: «È dunque necessario tenere ferma la distinzione fra atti e dichiarazioni
inerenti all’esercizio delle funzioni, e atti e dichiarazioni che, per non essere esplicazione di tali
funzioni restano addebitabili, ove forieri di responsabilità, alla persona fisica del titolare della
carica» (sentenza n. 154 del 2004).
Allo scopo di fugare ogni ulteriore equivoco sul punto, va riaffermato che il Presidente, per
eventuali reati commessi al di fuori dell’esercizio delle sue funzioni, è assoggettato alla medesima
responsabilità penale che grava su tutti i cittadini. Ciò che invece non è ammissibile è
83
l’utilizzazione di strumenti invasivi di ricerca della prova, quali sono le intercettazioni telefoniche,
che finirebbero per coinvolgere, in modo inevitabile e indistinto, non solo le private conversazioni
del Presidente, ma tutte le comunicazioni, comprese quelle necessarie per lo svolgimento delle sue
essenziali funzioni istituzionali, per le quali, giova ripeterlo, si determina un intreccio continuo tra
aspetti personali e funzionali, non preventivabile, e quindi non calcolabile ex ante da parte delle
autorità che compiono le indagini. In tali frangenti, la ricerca della prova riguardo ad eventuali
reati extrafunzionali deve avvenire con mezzi diversi (documenti, testimonianze ed altro), tali da
non arrecare una lesione alla sfera di comunicazione costituzionalmente protetta del Presidente.
In definitiva, nella materia su cui incide il presente conflitto si deve procedere tenendo conto del
necessario bilanciamento tra le esigenze di giustizia e gli interessi supremi delle istituzioni, senza
giungere al sacrificio né delle prime né dei secondi. Va ribadito peraltro, anche a questo proposito,
che il tema della responsabilità penale del Presidente della Repubblica resta estraneo all’odierno
giudizio.
Questa Corte deve fornire le precisazioni di cui sopra in ragione della trattazione di tale
argomento negli atti difensivi delle parti, le quali – anche per giungere ad opposte conclusioni –
hanno ritenuto di collegare il problema dell’ammissibilità delle intercettazioni nei confronti del
Presidente della Repubblica a quello della sua soggezione alla giurisdizione penale, della quale,
come appena ricordato, questa Corte ha da tempo affermato la sussistenza, e che oggi deve essere
ribadita.
14.– Contrariamente a quanto sostiene la resistente, non assume neppure rilevanza – se non per il
profilo che appresso si indicherà – la distinzione (tuttora oggetto di controversie nei casi concreti)
tra intercettazioni dirette, indirette e casuali.
In via preliminare va ricordato come, secondo la giurisprudenza costituzionale formatasi a
proposito delle indagini riguardanti parlamentari o membri del Governo, occorra distinguere tra
controlli mirati all’ascolto delle comunicazioni del soggetto munito della prerogativa, e controlli
casuali od occasionali, cioè intervenuti accidentalmente in forza dell’intercettazione disposta a
carico di un soggetto non immune. Nella prima delle due categorie sono comprese anche le
intercettazioni “indirette”, cioè quelle indagini che, pur non riguardando (a differenza delle
intercettazioni “dirette”) le utenze in uso al soggetto immune, siano comunque mirate a captarne le
comunicazioni, a causa del suo rapporto personale o professionale con la persona assoggettata al
controllo (si vedano, in proposito, le sentenze n. 114 e n. 113 del 2010, n. 390 del 2007, nonché le
ordinanze n. 171 del 2011 e n. 263 del 2010).
Nel caso in esame, l’occasionalità delle intercettazioni effettuate non è in contestazione fra le parti.
Sia nell’atto introduttivo del giudizio che nella successiva memoria, lo stesso ricorrente muove,
infatti, dall’esplicito presupposto che le captazioni dei colloqui presidenziali siano state operate
accidentalmente, non prospettando, neppure in via di ipotesi, un intento surrettizio degli inquirenti
di accedere alla sfera delle comunicazioni del Capo dello Stato tramite il monitoraggio delle utenze
in uso all’indagato.
Tuttavia, anche aderendo alla concorde qualificazione operata dalle parti, ciò non comporta che le
intercettazioni in questione debbano ritenersi consentite e suscettibili di utilizzazione processuale,
sulla base dell’argomento che quanto è fortuito non può formare oggetto di divieto. Difatti, se il
fondamento della tutela della riservatezza delle comunicazioni presidenziali non è l’espressione di
una presunta – e inesistente – immunità del Presidente per i reati extrafunzionali, ma consiste
nell’essenziale protezione delle attività informali di equilibrio e raccordo tra poteri dello Stato,
ossia tra soggetti che svolgono funzioni, politiche o di garanzia, costituzionalmente rilevanti, allora
84
si deve riconoscere che il livello di tutela non si abbassa per effetto della circostanza, non prevista
dagli inquirenti e non conosciuta ovviamente dallo stesso Presidente, che l’intercettazione non
riguardi una utenza in uso al Capo dello Stato, ma quella di un terzo destinatario di indagini
giudiziarie. Si verificherebbe, secondo l’opposta opinione, la singolare situazione di una tutela
costituzionale che degrada in seguito a circostanze casuali, imprevedibili anche da parte degli
stessi inquirenti.
Semmai la distinzione di cui sopra potrebbe assumere rilevanza per valutare la responsabilità di
chi dispone le intercettazioni, giacché diversa è la posizione di chi deliberatamente interferisce in
modo illegittimo nella sfera di riservatezza di un organo costituzionale e di chi si trovi
occasionalmente di fronte ad una conversazione captata nel corso di una attività di controllo
legittimamente mirata verso un altro soggetto.
Se l’intercettazione è stata casuale, cioè non prevedibile né evitabile, il problema non è quello di
affermare il suo divieto preventivo, che, in via generale, esiste, ma non è applicabile nella
fattispecie – anche per le modalità tecniche della relativa esecuzione – proprio per la casualità e
l’imprevedibilità della captazione (considerazione che priva, tra l’altro, della sua necessaria
premessa logica la richiesta del ricorrente di dichiarare che non spettava agli inquirenti non
interrompere la registrazione delle conversazioni). La funzione di tutela del divieto si trasferisce
dalla fase anteriore all’intercettazione, in cui rileva la direzione impressa all’atto di indagine
dall’autorità procedente, a quella posteriore, giacché si impone alle autorità che hanno disposto ed
effettuato le captazioni l’obbligo di non aggravare il vulnus alla sfera di riservatezza delle
comunicazioni presidenziali, adottando tutte le misure necessarie e utili per impedire la diffusione
del contenuto delle intercettazioni.
Si tratta di conclusioni perfettamente compatibili con la logica dei divieti probatori nel processo
penale, cui si connette la sanzione dell’inutilizzabilità della prova (art. 191 cod. proc. pen.). Tale
sanzione processuale opera a garanzia dell’interesse presidiato dal divieto, a prescindere dalla
responsabilità dell’inquirente per la violazione di regole procedurali nell’attività di acquisizione. Il
carattere casuale di una captazione non consentita (si pensi all’episodico contatto, da parte di una
persona legittimamente sottoposta ad intercettazione, con un soggetto tenuto al segreto
professionale) non incide sulla necessità di tutela della riservatezza del relativo colloquio.
È chiaro dunque come, specie ai livelli di protezione assoluta che si sono riscontrati riguardo alle
comunicazioni del Presidente della Repubblica, già la semplice rivelazione ai mezzi di
informazione dell’esistenza delle registrazioni costituisca un vulnus che deve essere evitato. Se poi
si arrivasse ad intraprendere iniziative processuali suscettibili di sfociare nella divulgazione dei
contenuti delle stesse comunicazioni, la tutela costituzionale, di cui sinora si è trattato, sarebbe
irrimediabilmente e totalmente compromessa. Dovere dei giudici – soggetti alla legge, e quindi, in
primo luogo, alla Costituzione – è quello di evitare che ciò possa accadere e, quando ciò
casualmente accada, di non portare ad ulteriori conseguenze la lesione involontariamente recata
alla sfera di riservatezza costituzionalmente protetta.
15.– La soluzione del presente conflitto non può che fondarsi – in base a quanto detto sinora –
sull’affermazione dell’obbligo per l’autorità giudiziaria procedente di distruggere, nel più breve
tempo, le registrazioni casualmente effettuate di conversazioni telefoniche del Presidente della
Repubblica, che nel caso di specie risultano essere quattro, peraltro intrattenute mediante linee
telefoniche del Palazzo del Quirinale.
Lo strumento processuale per giungere a tale risultato, costituzionalmente imposto, non può essere
quello previsto dagli artt. 268 e 269 cod. proc. pen., giacché tali norme richiedono la fissazione di
85
un’udienza camerale, con la partecipazione di tutte le parti del giudizio, i cui difensori, secondo
quanto prevede il comma 6 del citato art. 268, «hanno facoltà di esaminare gli atti e ascoltare le
registrazioni», previamente depositati a tale fine. Anche la procedura di distruzione regolata dai
commi 2 e 3 del citato art. 269 è incentrata, come questa Corte ha ribadito a suo tempo con la
sentenza n. 463 del 1994, sull’adozione del rito camerale e dei connessi strumenti di garanzia del
contraddittorio.
Un duplice ordine di motivi conduce ad escludere la legittimità del ricorso agli istituti processuali
in questione.
In primo luogo, la cosiddetta «udienza di stralcio», di cui al sesto comma dell’art. 268 cod. proc.
pen., è inconferente rispetto al caso che ha dato origine al conflitto, essendo strutturalmente
destinata alla selezione dei colloqui che le parti giudicano rilevanti ai fini dell’accertamento dei
fatti per cui è processo. Nel caso di specie nessuna valutazione di rilevanza è possibile, alla luce
del riscontrato divieto di divulgare, ed a maggior ragione di utilizzare in chiave probatoria,
riguardo ai fatti oggetto di investigazione, colloqui casualmente intercettati del Presidente della
Repubblica. Quanto alla procedura partecipata di distruzione, essa riguarda per definizione
conversazioni prive di rilevanza ma astrattamente utilizzabili, come risulta dalla clausola di
esclusione inserita, riguardo alle intercettazioni delle quali sia vietata l’utilizzazione, in apertura
del secondo comma dell’art. 269 cod. proc. pen.
È evidente d’altra parte, nella dimensione propria e prevalente delle tutele costituzionali, che
l’adozione delle procedure indicate vanificherebbe totalmente e irrimediabilmente la garanzia della
riservatezza delle comunicazioni del Presidente della Repubblica.
Esiste piuttosto un’altra norma processuale – cioè l’art. 271, comma 3, cod. proc. pen., invocato
dal ricorrente – che prevede che il giudice disponga la distruzione della documentazione delle
intercettazioni di cui è vietata l’utilizzazione ai sensi dei precedenti commi dello stesso articolo, in
particolare e anzitutto perché «eseguite fuori dei casi consentiti dalla legge», salvo che essa
costituisca corpo di reato. Per le ragioni fin qui illustrate, le intercettazioni delle conversazioni del
Presidente della Repubblica ricadono in tale ampia previsione, ancorché effettuate in modo
occasionale.
Quanto alla procedura da seguire, nella citata disposizione non sono contenuti rinvii ad altre
norme del codice di rito, e manca in particolare il richiamo all’art. 127, che invece è operato nella
contigua previsione dell’art. 269 cod. proc. pen. Dunque, la norma processuale in questione non
impone la fissazione di una udienza camerale “partecipata”, e neppure la esclude.
La soluzione è coerente con l’eterogeneità delle fattispecie regolate dallo stesso art. 271 cod. proc.
pen., consentendo di tener conto delle diverse ragioni che sono alla base delle singole ipotesi di
inutilizzabilità. Questa può derivare, per un verso, dall’inosservanza di regole procedurali, che
prescindono dalla qualità dei soggetti coinvolti e dal contenuto delle comunicazioni captate: tali, in
particolare, le prescrizioni degli artt. 267 e 268, commi 1 e 3, specificamente richiamate dal
comma 1 dell’art. 271 cod. proc. pen., in materia di presupposti e modalità di esecuzione delle
operazioni. Ma l’inutilizzabilità può connettersi anche a ragioni di ordine sostanziale, espressive di
un’esigenza di tutela “rafforzata” di determinati colloqui in funzione di salvaguardia di valori e
diritti di rilievo costituzionale che si affiancano al generale interesse alla segretezza delle
comunicazioni (quali la libertà di religione, il diritto di difesa, la tutela della riservatezza su dati
sensibili ed altro). È questo il caso, specificamente previsto dal successivo comma 2, delle
intercettazioni di comunicazioni o conversazioni dei soggetti indicati dall’art. 200, comma 1, cod.
proc. pen. (ministri di confessioni religiose, avvocati, investigatori privati, medici ed altro),
86
allorché abbiano ad oggetto fatti conosciuti per ragione del loro ministero, ufficio o professione.
Ma è questo ovviamente anche il caso dell’intercettazione, benché casuale, di colloqui del Capo
dello Stato, riconducibile, come detto, all’ipotesi delle intercettazioni «eseguite fuori dei casi
consentiti dalla legge», cui è preliminare e distinto riferimento (come univocamente emerge
dall’impiego della particella disgiuntiva «o») nel comma 1 dell’art. 271: previsione che si presta a
svolgere un ruolo “di chiusura” della disciplina dell’inutilizzabilità, abbracciando fattispecie
preclusive diverse e ulteriori rispetto a quelle dianzi indicate, ricavabili anche, e in primo luogo,
dalla Costituzione.
A proposito delle regole da seguire ai fini della distruzione del materiale inutilizzabile, il
trattamento delle due categorie di intercettazioni deve essere diverso. Le intercettazioni
inutilizzabili per vizi di ordine procedurale attengono a comunicazioni di per sé non inconoscibili, e
che avrebbero potuto essere legittimamente captate se fosse stata seguita la procedura corretta. La
loro distruzione può pertanto seguire l’ordinaria procedura camerale, nel contraddittorio fra le
parti. Nel caso invece si tratti di intercettazioni non utilizzabili per ragioni sostanziali, derivanti
dalla violazione di una protezione “assoluta” del colloquio per la qualità degli interlocutori o per
la pertinenza del suo oggetto, la medesima soluzione risulterebbe antitetica rispetto alla ratio della
tutela. L’accesso delle altre parti del giudizio, con rischio concreto di divulgazione dei contenuti
del colloquio anche al di fuori del processo, vanificherebbe l’obiettivo perseguito, sacrificando i
principi e i diritti di rilievo costituzionale che si intende salvaguardare. Basti pensare alla
conoscenza da parte dei terzi – o, peggio, alla diffusione mediatica – dei contenuti di una
confessione resa ad un ministro del culto, ovvero all’ostensione al difensore della parte civile del
colloquio riservato tra l’imputato e il suo difensore (possibile ove la procedura di cui all’art. 271,
comma 3, cod. proc. pen. fosse avviata dopo l’esercizio dell’azione penale).
Nelle ipotesi ora indicate – e dunque anche, a maggior ragione (stante il rango degli interessi
coinvolti), in quella dell’intercettazione di colloqui presidenziali – deve ritenersi che i principi
tutelati dalla Costituzione non possano essere sacrificati in nome di una astratta simmetria
processuale, peraltro non espressamente richiesta dall’art. 271, comma 3, cod. proc. pen. Né
gioverebbe richiamare, in senso contrario, la sentenza di questa Corte n. 173 del 2009, che ha
stabilito la necessità dell’udienza camerale, nel contraddittorio delle parti, per procedere alla
distruzione dei documenti, supporti o atti recanti dati illegalmente acquisiti inerenti a
comunicazioni telefoniche o telematiche, ovvero ad informazioni illegalmente raccolte. A
prescindere da ogni altro possibile rilievo, si discuteva, nel caso che ha dato origine alla questione
decisa con la suddetta pronuncia, di documenti che costituivano essi stessi corpo di reato,
esplicitamente esclusi dalla previsione di distruzione di cui al comma 3 dell’art. 271 cod. proc.
pen., palesemente inapplicabile dunque a quelle fattispecie.
16.– Le intercettazioni oggetto dell’odierno conflitto devono essere distrutte, in ogni caso, sotto il
controllo del giudice, non essendo ammissibile, né richiesto dallo stesso ricorrente, che alla
distruzione proceda unilateralmente il pubblico ministero. Tale controllo è garanzia di legalità con
riguardo anzitutto alla effettiva riferibilità delle conversazioni intercettate al Capo dello Stato, e
quindi, più in generale, quanto alla loro inutilizzabilità, in forza delle norme costituzionali ed
ordinarie fin qui citate.
Ferma restando la assoluta inutilizzabilità, nel procedimento da cui trae origine il conflitto, delle
intercettazioni del Presidente della Repubblica, e, in ogni caso, l’esclusione della procedura
camerale “partecipata”, l’Autorità giudiziaria dovrà tenere conto della eventuale esigenza di
evitare il sacrificio di interessi riferibili a principi costituzionali supremi: tutela della vita e della
libertà personale e salvaguardia dell’integrità costituzionale delle istituzioni della Repubblica (art.
87
90 Cost.). In tali estreme ipotesi, la stessa Autorità adotterà le iniziative consentite
dall’ordinamento.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara che non spettava alla Procura della Repubblica presso il Tribunale ordinario di Palermo
di valutare la rilevanza delle intercettazioni di conversazioni telefoniche del Presidente della
Repubblica, operate nell’ambito del procedimento penale n. 11609/08;
dichiara che non spettava alla stessa Procura della Repubblica di omettere di chiedere al giudice
l’immediata distruzione della documentazione relativa alle intercettazioni indicate, ai sensi dell’art.
271, comma 3, del codice di procedura penale, senza sottoposizione della stessa al contraddittorio
tra le parti e con modalità idonee ad assicurare la segretezza del contenuto delle conversazioni
intercettate.
Il 15 gennaio 2013 è stata depositata la sentenza della Consulta che ha risolto in
senso favorevole al Presidente Napolitano il conflitto di attribuzione da lui promosso
nei confronti della Procura di Palermo in relazione alle intercettazioni effettuate su
conversazioni intercorse tra lo stesso Presidente e l'ex senatore Nicola Mancino, al
tempo indagato nell'ambito del procedimento riguardante la cosiddetta “trattativa
Stato-mafia”.
E’ particolarmente importante richiamare, per punti, le questioni
sottese al conflitto, al fine di formulare alcune riflessioni di carattere generale sulla
pronuncia. Invero, l’oggetto del conflitto ha riguardato:
1) la ammissibilità delle intercettazioni di conversazioni del Capo dello Stato
effettuate casualmente. E precisamente, secondo la Procura, in mancanza di
previsioni espresse sul punto, sarebbero ammissibili le captazioni occasionali.
Invero, secondo il Presidente della Repubblica, vi sarebbe divieto assoluto
circa la loro esecuzione e utilizzabilità.
2) se la distruzione dei dati acquisiti debba avvenire o meno nel contraddittorio
delle parti interessate.
Il dispositivo della Corte Costituzione ( del 4 dicembre 2012) recita
"non spettava alla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Palermo di
valutare la rilevanza delle intercettazioni di conversazioni telefoniche del Presidente
della Repubblica, operate nell’ambito del procedimento penale n. 11609/08, e che
88
"non spettava alla stessa Procura della Repubblica di omettere di chiedere al giudice
l’immediata distruzione della documentazione relativa alle intercettazioni indicate, ai
sensi dell’art. 271, comma 3, del codice di procedura penale, senza sottoposizione
della stessa al contraddittorio tra le parti e con modalità idonee ad assicurare la
segretezza del contenuto delle conversazioni intercettate".
Con riferimento al primo profilo, cioè l’ammissibilità o meno delle intercettazioni
casuali nei confronti del Presidente della Repubblica, la Corte ha analizzato, ad
ampio raggio, la ammissibilità di strumenti invasivi della riservatezza presidenziale,
prendendo le mosse dal profilo di immunità di cui gode il Capo dello Stato. In
sostanza,
si è preso spunto dalle attribuzioni funzionali connesse al ruolo
istituzionale per far derivare le conseguenze sul piano processuale. In sostanza,
secondo la Corte Costituzionale, è il sistema complessivo costruito attorno al
Presidente della Repubblica che costituisce la fonte da cui ricavare le risposte al
quesito, al di là ed a prescindere da qualsiasi regola espressa. In sostanza, non può
guardarsi puramente e semplicemente al tessuto normativo ma occorre guardare al
complesso di garanzie a tutela del Capo dello Stato per argomentare la sussistenza del
divieto delle intercettazioni casuali. Il Capo dello Stato ha necessità di garanzie
speciali nel suo ruolo comunicativo e tali garanzie devono essere principalmente
salvaguardate. Nella sentenza vi è un esplicito richiamo all'art. 7 comma 3 della l.
219/1989 che, nel disciplinare i procedimenti per i reati di cui all'art. 90 Cost.,
stabilisce dei precisi limiti alla adozione di provvedimenti di natura coercitiva o
restrittiva della libertà personale e di comunicazione nei confronti del Capo dello
Stato, tra cui, in particolare, le "intercettazioni telefoniche o di altre forme di
comunicazione" (art. 7 comma 2 l. 219/1989). Le ragioni giustificative della tutela
del profilo comunicativo del Capo dello Stato, finiscono per ammettere le intrusioni
solo per i reati di cui all'art. 90 Cost. e non per altre tipologie delittuose, e non prima
che l'articolato iter accertativo conduca alla sospensione cautelare del Presidente
(artt.5 ss. l. 219/1989).
89
In sostanza, il complesso delle prerogative presidenziali, implica che deve essere
salvaguardata la riservatezza assoluta delle comunicazioni del Capo dello Stato, con
la conseguenza che sono inammissibili le intercettazioni casuali nei suoi confronti.
Invero, il campo comunicativo presidenziale non può essere in alcun modo limitato e
l' assenza di una specifica previsione preclusiva non è significativa della insussistenza
del divieto che, invece, si ricava dal sistema. Ne consegue che la regola di esclusione
di cui all'art. 7 si conferma a tutela delle intercettazioni occasionali delle
comunicazioni del Capo dello Stato, che devono ritenersi vietate perché il divieto si
ricava dal sistema articolato delle prerogative presidenziali. Occorre evidenziare,
altresì, che il divieto primario è assoluto, con la conseguenza che deve ritenersi
vietata ( la cd. inutilizzabilità alternativa) la testimonianza dell’operatore di P.G. sul
contenuto delle conversazioni ( e della loro esistenza) perché altrimenti si violerebbe
il divieto tassativo desumibile dal sistema delle immunità presidenziali.
Con riguardo, poi, alle forme di distruzione delle
risultanze acquisite con le
intercettazioni casuali ( inammissibili) la Corte ha imposto un facere al giudice su
richiesta del pubblico ministero ed, accogliendo la tesi avanzata dalla Presidenza
della Repubblica, ha escluso il rito camerale che "vanificherebbe totalmente e
irrimediabilmente la garanzia della riservatezza delle comunicazioni del Presidente
della Repubblica". Anche in questo caso, si è adottato l’approccio sostanzialistico e
si è individuato nell’art. 271 comma 3 c.p.p. (che prevede la distruzione della
documentazione delle intercettazioni "eseguite fuori dei casi consentiti dalla legge")
il riferimento normativo dal quale argomentare e farvi ricadere le intercettazioni
presidenziali. In sostanza, secondo la Corte Costituzionale, le intercettazioni
illegittime per vizi procedurali (artt. 267 e 268 commi 1 e 3 c.p.p.) devono essere
distrutte con la procedura camerale mentre le intercettazioni invalide per
inosservanza di "ragioni sostanziali, derivanti dalla violazione di una 'protezione
assoluta' del colloquio per la qualità degli interlocutori o per la pertinenza del suo
oggetto"
non devono essere distrutte in contraddittorio, non devono essere
90
conosciute, perchè deve prevalere l’esigenza di tutela rafforzata della riservatezza dei
colloqui del Capo dello Stato, con la conseguenza che la loro distruzione deve
avvenire in forma non partecipata. Merita, comunque, riflessione attenta anche
l’affermazione ( che potrebbe sembrare contraddittoria) della Consulta nella parte
finale della sentenza: "l’Autorità giudiziaria dovrà tenere conto della eventuale
esigenza di evitare il sacrificio di interessi riferibili a principi costituzionali supremi:
tutela della vita e della libertà personale e salvaguardia dell’integrità costituzionale
delle istituzioni della Repubblica (art. 90 Cost.). In tali estreme ipotesi, la stessa
Autorità adotterà le iniziative consentite dall’ordinamento".
In sostanza, viene lasciata al Giudice una sorta di valutazione discrezionale sulla
distruzione nei casi di seguito descritti:
1) qualora si debba procedere nei confronti dello stesso Presidente per i reati di
cui all'art. 90 Cost. o nei confronti di concorrenti negli stessi reati (art. 9 l.
219/1989) ;
2) qualora si necessario non disperdere prove di contenuto favorevole all'indagato
o imputato.
In chiave di sintesi, può dunque affermarsi che la Corte Costituzionale, confermando
il suo ruolo di garante dei diritti della persona, con la sentenza in oggetto, ha mirato a
salvaguardare, in primo luogo, la riservatezza delle comunicazioni del Presidente a
tutela primaria del suo ruolo istituzionale ma ha mostrato, altresì, di salvaguardare
anche il diritto di difesa degli imputati.
10) Le intercettazioni fra diritto di cronaca, dovere di corretta informazione ed il
problema della privacy (riferimento al codice deontologico dei giornalisti).
Le
intercettazioni
telefoniche
ed
ambientali
sono
strumento
investigativo
indispensabile per alcune tipologie di indagini e di assoluta (ed indiscussa!) utilità.
Ma la captazione di conversazioni, pur utilissima quale mezzo per la acquisizione di
91
elementi di prova, è per sua natura strumento che, potenzialmente, viene a ledere la
sfera della privacy dello stesso indagato e di terzi rispetto a fatti o vicende di carattere
personale e che nulla hanno a che vedere con l'ipotesi di reato per cui si procede.
A ben vedere, una riflessione sulle conseguenze negative che la diffusione arbitraria
del contenuto di intercettazioni ambientali e telefoniche può comportare nel sistema
dei diritti costituzionalmente garantiti, afferenti alla sfera della personalità, può
costituire l'occasione per ipotizzare nuovi strumenti per meglio salvaguardare, da un
lato, la presunzione di non colpevolezza e, dall'altro, le libertà fondamentali di tutti i
cittadini, che sono, in potenza, messe a rischio dalla diffusione indiscriminata del
contenuto delle loro comunicazioni.
In via preliminare, appare di interesse evidenziare che l'entrata in vigore della legge
sulla privacy non ha interferito sulla disciplina, in generale, del segreto investigativo
ed, in modo particolare, in materia di intercettazioni. Ne consegue che, nell'approccio
alla tematica, e per evitare che la diffusione del contenuto di intercettazioni leda, in
concreto, la dignità del singolo, dobbiamo tener conto, oltre che delle norme del
codice di procedura penale che di seguito richiameremo, anche di alcune direttive, di
carattere deontologico, che devono regolamentare l'attività giornalistica.
A questo proposito, è bene sottolineare che il giornalista deve rispettare la regola
dell'interesse pubblico nel momento in cui riporta una notizia. Ne consegue che non
dovrebbe essere consentita la diffusione di notizie che non presentano alcun profilo di
interesse pubblico ma afferiscono esclusivamente alla sfera privata di un determinato
soggetto.
Appare opportuno, a questo proposito, richiamare, di seguito, integralmente, l'art. 6
del codice deontologico dei giornalisti (art. 25 legge 675/96)
Art. 6
1. La divulgazione di notizie di rilevante interesse pubblico o sociale non contrasta
con il rispetto della sfera privata quando l’informazione, anche dettagliata, sia
92
indispensabile in ragione dell’originalità del fatto o della relativa descrizione dei
modi particolari in cui è avvenuto, nonché della qualificazione dei protagonisti.
2. La sfera privata delle persone note o che esercitano funzioni pubbliche deve
essere rispettata se le notizie o i dati non hanno alcun rilievo sul loro ruolo o sulla
loro vita pubblica.
3. Commenti e opinioni del giornalista appartengono alla libertà di informazione
nonché alla libertà di parola e di pensiero costituzionalmente garantita a tutti.
In base a tale disposizione, il giornalista non potrebbe pubblicare, ad esempio, il
contenuto di intercettazioni aventi ad oggetto abitudini sessuali dell'indagato, prive di
qualsiasi riferimento all'ipotesi delittuosa. Ma spesso il precetto deontologico non
viene rispettato e il gossip giudiziario, tratto proprio dalle risultanze di attività di
intercettazione indebitamente diffuse, costituisce oggetto di numerosi articoli di
stampa e di servizi televisivi!
Ed è interessante, a questo proposito, richiamare il tenore di una sentenza del
Tribunale di Milano ( 13 aprile 2000 - Tannini c. R.C.S. Editori ed altri in Foro
Italiano 2000 I. 3004) ove si è ritenuta non essenziale ( e quindi non giustificata da
alcuna finalità informativa ) l'indicazione, nella pagina di un quotidiano interamente
dedicata ad una indagine giudiziaria, dell'indirizzo di un soggetto estraneo
all'indagine e senza che quel dato avesse alcun rilievo nel contesto della vicenda. La
pronuncia è di interesse perché mette ben in evidenza che è proprio il concetto di
essenzialità della notizia che costituisce il requisito della corretta informazione.
Un dato, comunque, appare indiscutibile : l'individuazione di un punto di equilibrio
fra diritto alla privacy, esigenze delle indagini penali e libertà di stampa è ancora
tutto da ricercare.
E qui sovviene la necessità (al fine di evitare l'arbitraria diffusione a pregiudizio della
privacy) che il P.M. ed il GIP applichino, nell'ambito delle rispettive sfere di
competenza delineate dal codice di procedura penale (e osservando scrupolosamente
93
il dovere di riserbo e tutti i principi deontologici ben delineati nelle pronunce del
CSM), le norme in materia di intercettazioni.
Invero, il principio cardine del sistema è che il contenuto di intercettazioni non
rilevanti per le indagini deve essere distrutto.
Al contrario, se il contenuto di queste intercettazioni, non utili al processo, viene reso
pubblico si potrebbe recare, almeno in potenza, un danno all’immagine degli
individui coinvolti, pur non indagati e non responsabili di alcun reato.
Si riporta, di seguito, il testo dell'art. 269 c.p.p. che, già nella rubrica, fornisce chiare
indicazioni per la sua interpretazione
Art. 269 c.p.p. (Conservazione della documentazione)
I verbali e le registrazioni sono conservate integralmente presso il pubblico ministero
che ha disposto l'intercettazione.
Salvo quanto previsto dall'art. 271 comma terzo, le registrazioni sono conservate fino
alla sentenza non più soggetta ad impugnazione. Tuttavia gli interessati , quando la
documentazione non è necessaria per il procedimento, possono chiederne
la
distruzione, a tutela della riservatezza, al giudice che ha autorizzato o convalidato
l'intercettazione . Il giudice decide in camera di consiglio a norma dell'art. 127
c.p.p..
La distruzione, nei casi in cui è prevista, viene eseguita sotto controllo del giudice.
Dell'operazione è redatto verbale.
E' significativo che la richiesta di distruzione delle conversazioni non di interesse per
il processo è dettata espressamente a tutela della riservatezza, e la necessità di
salvaguardare, con questo meccanismo, tale fondamentale diritto del singolo è ben
evidente dando un sguardo alla elaborazione giurisprudenziale che si è formata sul
punto.
Invero, proprio perché si è ritenuto indispensabile (e non derogabile) il momento del
controllo del Giudice sul contenuto di intercettazioni inutili per il processo e dannose
per la privacy, la Cassazione Sez. V 26 gennaio 1994 ha ritenuto abnorme il
94
provvedimento con cui il giudice per le indagini preliminari, richiesto dal P.M. della
procedura camerale per la distruzione di registrazioni telefoniche ritenute non
pertinenti, rifiuta l'adempimento, adducendo che non ricorrono i presupposti di cui
all'art. 269 comma secondo c.p.p..
In sostanza, la Suprema Corte ha ben evidenziato che il Giudice (terzo rispetto alle
parti interessate), non può rifiutare la prevista procedura camerale sottraendosi alla
funzione di controllo, essenziale perché funzionale alla salvaguardia del diritto alla
riservatezza.
Peraltro, la Corte Costituzionale con sentenza del 30 dicembre 1994 nr. 463, ha
osservato che, nel caso di specie, l'applicazione del rito camerale assicura alle parti
il diritto di essere sentite in relazione alla eventuale utilità di uno strumento
probatorio, acquisito con sacrificio della propria sfera di riservatezza, nel quale in
futuro, in caso di riapertura delle indagini, potrebbe fondarsi ad avviso delle parti
medesime, un giudizio di non colpevolezza a proprio vantaggio.
Ciò consente, dunque, in concreto, un significativo bilanciamento fra tutela della
riservatezza ed interesse alla salvaguardia di elementi di prova, anche a favore degli
indagati, che, in futuro, potrebbero essere messi in discussione a seguito di una
richiesta di riapertura delle indagini.
E' ovvio, inoltre, che prima di decidere sulla richiesta di distruzione, è necessario che
sia esaurita la procedura prevista dall'art. 268 c.p.p. che prevede il deposito degli atti
e la conseguente possibilità, da parte degli indagati, di prendere visione e di ascoltare
il testo delle conversazioni.
Ed è proprio il momento dell'avviso di deposito, con cui si avvia la procedura di cui
all'art. 268 c.p.p., che può costituire occasione di fughe di notizie a danno non solo
della privacy ma anche del buon esito delle indagini e, per tali motivi, può essere
ritardato fino alla chiusura delle indagini preliminari.
A tale proposito, è interessante riportare di seguito il sesto comma dell'art. 268 c.p.p.:
Ai difensori delle parti è immediatamente dato avviso che, entro il termine fissato a
norma dei commi 4 e 5, hanno facoltà di esaminare gli atti e ascoltare le
95
registrazioni ovvero prendere cognizione dei flussi di comunicazioni informatiche o
telematiche. Scaduto il termine, il Giudice dispone l'acquisizione delle conversazioni
o dei flussi di comunicazioni informatiche o telematiche indicati dalle parti, che non
appaiono manifestamente irrilevanti, procedendo anche di ufficio allo stralcio delle
registrazioni e dei verbali dei quali è vietata l'utilizzazione (art. 271 c.p.p.) . Il
pubblico ministero e i difensori hanno diritto di partecipare allo stralcio e sono
avvisati almeno venti quattro ore prima.
Nella disposizione in esame, e per quel che qui interessa, è l'espressione non
manifestamente irrilevanti, riferita alla comunicazioni ed ai flussi informatici che
appare significativa: e' evidente, infatti, che, a tutela delle stesse ragioni di tutela della
riservatezza cui si riferisce espressamente l'art. 271 c.p.p., anche se una o entrambe le
parti lo richiedono, non possono essere acquisite comunicazioni che appaiono, in via
immediata e diretta, non rilevanti per il processo in fieri.
Si tratta, quindi, di un intervento estremamente significativo del Giudice delle
indagini preliminari che vigila, in questo caso, al di là di qualsiasi possibilità di
accordo fra le parti, affinché non vengano acquisite proprio quelle conversazioni che,
se diffuse arbitrariamente, determinerebbero la lesione di diritti fondamentali
dell'individuo.
Sotto questo profilo mi pare interessante richiamare, ovviamente solo
sinteticamente perché trattasi di tematica suscettibile di ben altri e significativi
approfondimenti, una decisione della Corte Europea dei diritti dell'uomo ( 17 luglio
2003, CRAXI v. Italia) ove si sono affrontate alcune delle tematiche in esame. In
particolare, nel corso di un dibattimento che volgeva al termine il Pubblico Ministero
aveva depositato in Segreteria la trascrizione di intercettazioni telefoniche autorizzate
dal Giudice nel corso del dibattimento (anche ai sensi dell'art.295 c.3 c.p.p. essendo
l'imputato latitante) e aveva dato in aula lettura di alcuni passaggi proprio al fine di
giustificare la richiesta di ammissione (negata successivamente dal Tribunale
ritenendola non rilevante ai fini del giudizio). Nei giorni successivi all'udienza,
diversi organi di stampa riportarono testualmente il contenuto di diverse
96
conversazioni depositate in Segreteria, ed anche di alcune delle quali non si era data
lettura nel corso del dibattimento aventi carattere personale e che riguardavano
soggetti estranei al processo (amici, familiari e colleghi dell'imputato). Ebbene, i
giudici di Strasburgo, investiti della vicenda, hanno ritenuto sussistente, nel caso in
esame, la violazione dell'art.8 della Convenzione Europea dei diritti dell'uomo
enucleando tre ordini di ragioni.
In primo luogo la Corte affermava il principio che:
<<mentre l'oggetto essenziale dell'art.8 è proteggere la persona contro
interferenze arbitrarie da parte delle pubbliche autorità, esso non si limita ad
obbligare lo Stato ad astenersi da tali interferenze: in aggiunta a questo
comportamento negativo, ci possono essere obblighi positivi per (assicurare) un
effettivo rispetto della vita privata>>, e ha quindi statuito che:
<<Nel caso in esame…vi sono state rivelazioni di natura riservata
incompatibili con l'Articolo 8 della Convenzione.
Ne consegue che una volta che le trascrizioni erano state depositate sotto la
responsabilità dell'Ufficio, le Autorità sono venute meno al loro obbligo di
assicurare una custodia tale da garantire il diritto del ricorrente al rispetto della sua
vita privata. Inoltre, la Corte osserva che non risulta che nel caso in esame sia stata
espletata una indagine effettiva per scoprire le circostanze in cui i giornalisti hanno
avuto accesso alle trascrizioni delle conversazioni del ricorrente e, se necessario, per
punire i responsabili>>, e anche sotto questo profilo vi è stata una violazione dell'art.
8 della Convenzione.
La Corte ha poi ravvisato una terza violazione nella mancata applicazione della
procedura prevista dall'art. 268, comma 6 c.p.p., che prevede l'esame in camera di
consiglio delle intercettazioni e per lo stralcio di quelle non rilevanti o inutilizzabili,
ma che il Tribunale aveva ritenuto potesse trovare applicazione solo nella fase delle
indagini preliminari.
La Corte ha affermato che in questo modo il ricorrente <<era stato privato
delle garanzie procedurali essenziali previste dalla legge nazionale per la protezione
97
dei suoi diritti in relazione all'art.8 della Convenzione, senza che venisse data dal
Tribunale competente una spiegazione adeguata.
In questa circostanza, non si può giungere alla conclusione (sostenuta dal
Governo italiano, n.d.r.) che le interferenze lamentate siano avvenute "nel rispetto
della legge", dato che le Autorità Italiane non hanno seguito, prima che le
intercettazioni venissero lette all'udienza del 29.9.95, le procedure prescritte dalla
legge>>.
<<Inoltre, la Corte rileva che l'interpretazione della normativa nazionale data dal
Giudice di Milano equivale al riconoscimento dell'assenza, nel sistema normativo
relativo alle intercettazioni, di garanzie idonee a proteggere i diritti tutelati dall'art.8
della Convenzione. Tale interpretazione susciterebbe perciò in ogni caso serie
preoccupazioni in ordine al rispetto, da parte dello Stato, dei suoi obblighi positivi
per assicurare la tutela effettiva di questi diritti>>
Il dato che mi pare significativo evidenziare, a questo proposito, è che la Corte ha
delineato una forma di responsabilità per la diffusione di atti regolarmente depositati
in Segreteria e per la insufficienza delle indagini che sarebbero, invece, state utili ad
individuare tempi e modi attraverso i quali i giornalisti erano venuti in possesso delle
conversazioni in oggetto.
Inoltre, la pronuncia, potrebbe costituire lo spunto per una diversa interpretazione
dell'art. 268 comma 6 c.p.p.. Potrebbe, infatti, proprio argomentandosi dal tenore
delle riflessioni suggerite dal percorso logico operato dalla Corte Europea, ritenersi
che anche dopo il termine delle indagini preliminari e nella fase dibattimentale
l'esame delle conversazioni captate e l'eventuale stralcio di quelle irrilevanti possa
avvenire in camera di consiglio e non in udienza pubblica proprio al fine di evitare
pregiudizio alla privacy.
98
11) L'esigenza di evitare la personalizzazione dell'indagine.
Il problema del rapporto fra P.M. ed organi di stampa non solo è enorme ma rischia
di rimanere, per molti versi, irrisolto e lasciato (pur in presenza del quadro normativo
sopra delineato) alla onestà intellettuale ed all’equilibrio di tutti i soggetti che si
trovano (in ragione del loro Ufficio) a possedere notizie che devono rimanere
riservate (da un lato) e dall’altro formano oggetto (proprio nei limiti in cui non sono
segrete) del diritto di cronaca (e del diritto della collettività di essere informata).
E le proporzioni del problema assumono ancora maggior rilievo (fino a creare un
senso di impotenza) nei casi in cui non sussiste il limite del segreto investigativo
(perché viene meno) e residuano solo ragioni di opportunità e di tutela della privacy.
Pensiamo, per un attimo, a quello che avviene quando all’Ufficio del P.M. arriva una
notizia che, in astratto, potrebbe rivestire rilievo penale: è solo un fatto umano sporco
di terra, che potrebbe non essere di interesse penale ma che di sicuro investe la sfera
di un individuo (pensiamo al noto professionista indagato per mafia o al padre
indagato di violenza sessuale a danno del figlio o al sacerdote indagato per pedofilia).
Se non si rispettano le norme sul segreto investigativo e se non si gestisce con
coscienza la notizia e quando, con il compimento degli atti investigativi che fanno
cessare il segreto, la notizia stessa dell’indagine diviene di dominio pubblico,
l’individuo ed il suo nucleo familiare possono subirne un danno notevolissimo
(irrimediabile: pensiamo ai casi di suicidio perché non si regge allo scandalo).
Ed il danno è notevolissimo sia se c’è violazione del segreto istruttorio sia se la
notizia è frutto della violazione del dovere di riserbo cui il magistrato è
deontologicamente tenuto ed anche se l'atto, per sua natura, è conoscibile all’esterno!
E spessissimo la notizia dell’indagine viene fuori a quattro colonne (magari il giorno
dopo l’interrogatorio dell’indagato o il giorno stesso delle perquisizioni nella sua
abitazione!) mentre l’archiviazione è solo accennata dagli organi di stampa (o peggio
ancora, l’assoluzione, che avviene anche molti anni dopo non ha, a volte, neppure il
valore di notizia perché il tempo ha cancellato lo stesso ricordo del fatto).
99
Occorre domandarsi, a questo punto, se l’aver concentrato nella persona del
procuratore (o di un magistrato da lui delegato) i rapporti con la stampa è stato
rimedio sufficiente per evitare fughe di notizie, pregiudizio alle indagini e reiterate
violazioni della privacy. E’ evidente, dopo alcuni anni di applicazione della nuova
disciplina, che il rimedio appare in sé insufficiente in quanto alcuni Pubblici
Ministeri, continuano a "civettare con i giornalisti", specie con quelli più invadenti o,
semplicemente, più presenti nei corridoi dell'Ufficio, con la conseguenza di un
permanere delle fughe di notizie di contrabbando, cioè diverse da quelle ufficiali e,
quindi, ancora più deleterie per il sistema nel suo complesso.
Inoltre, quando la notizia che ha pregiudicato la privacy o l’immagine dell’indagato o
di un terzo non ha costituito violazione, in senso stretto, del segreto istruttorio non c’è
pressoché rimedio (al di là del valore delle smentite, delle precisazioni effettuate con
lo stesso mezzo di diffusione della notizia) ed anche una smentita ufficiale da parte
dell'addetto all'Ufficio Stampa appare assolutamente insufficiente a bilanciare il
vulnus alla sfera del singolo.
Peraltro, spesso è la stessa indagine che è irrimediabilmente danneggiata dalla fuga di
notizie (c’è un momento, infatti, in cui il P.M. e gli organi investigativi devono
riflettere sulle piste investigative e valutarne i risultati in un clima che impone il
silenzio rispetto agli organi di stampa) e di fronte a questo danno, ovviamente,
l'esistenza dell'Ufficio Stampa non modifica certo la gravità della situazione.
Ed allora: come si deve gestire (al di là delle norme che devono essere sempre
rispettate del codice penale e sull'illecito disciplinare) in concreto il rapporto fra P.M.
e i mass media?
Al di là di ogni ipocrisia è noto che i giornalisti sono sempre in tutte le procure, a
caccia di notizie su attività di indagine di questo o quel magistrato e, nel corso degli
anni, proprio la reiterata diffusione di queste notizie ha contribuito a creare,
nell’immaginario collettivo (sia in ambiti locali che nazionali), l’idea di una
personalizzazione dell’Ufficio del P.M., con effetti, ovviamente, deleteri.
100
Il P.M., allora, nell’esercizio della sua funzione, nel momento in cui inevitabilmente
si rapporta con i mass media, deve saper controllare e saper frenare ogni spinta
emozionale (che magari scaturisce dal suo vissuto) e ogni tentazione di protagonismo
al fine di gestire, al di là ed a prescindere dall'istituzione dell'Ufficio Stampa, il suo
rapporto con i mass media con equilibrio e buon senso, a volte anche sforzandosi di
non far trapelare conferme a notizie da un semplice sguardo d'assenso conseguente ad
una domanda del giornalista che pure resta senza risposta.
E ciò, si badi bene, senza alcun intento di limitare il diritto di cronaca (o la libertà di
stampa) ma solo affinché il P.M. (che auspichiamo tutti rimanga nell'alveo della
giurisdizione) tenga sempre presente, in ogni momento del suo agire, un interessante
monito del FERRAJOLI (a proposito dell'utilità di una sorta di galateo della nostra
professione): e cioè il rispetto del canone di "prudenza dei giudici" insita nel termine
giurisprudenza.
101