6. GIOVANNI SOLINAS, Il mito senza fine. Poetica dell`immagine e

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6. GIOVANNI SOLINAS, Il mito senza fine. Poetica dell`immagine e
§
PARAGRAFO
RIVISTA DI LETTERATURA & IMMAGINARI
Paragrafo
Rivista di Letteratura & Immaginari
pubblicazione semestrale
Redazione
FABIO CLETO ([email protected]), DANIELE GIGLIOLI ([email protected]),
MERCEDES GONZÁLEZ DE SANDE ([email protected]),
FRANCESCO LO MONACO ([email protected]),
STEFANO ROSSO ([email protected]), AMELIA VALTOLINA ([email protected])
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Università degli Studi di Bergamo
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Questo numero è stato stampato con il contributo del
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Stampato da Stamperia Stefanoni - Bergamo
Paragrafo
I (2006)
Sommario
PRESENTAZIONE
5
FORME
§1. STEFANIA CONSONNI, Disegni e realtà. Le finzioni di Don DeLillo
9
§2. LUCA BERTA, Il neon di David Foster Wallace e il punto di vista
dell’aldilà
31
§3. LAURA OREGGIONI, La punta dell’iceberg. Sten Nadolny e il senso
della possibilità
53
GENERI
§4. NICCOLÒ SCAFFAI, Altri canzonieri. Sulle antologie della poesia
italiana (1903-2005)
75
§5. GABRIELE BUGADA, Lo specchio del sogno. Lo statuto della rappresentazione in Mulholland Drive di David Lynch
99
§6. GIOVANNI SOLINAS, Il mito senza fine. Poetica dell’immagine e
concezione mitica in André Breton - Una proposta d’analisi
123
TEMI
§7. ANDREA GIARDINA, Il viaggio interrotto. Il tema del cane fedele
nella letteratura italiana del Novecento
145
§8. MICHELA GARDINI, Derive urbane fin de siècle
167
§9. GRETA PERLETTI, Dal mal sottile al mal gentile. La malattia
polmonare e il morboso ‘interessante’ nella cultura dell’Ottocento
179
I COLLABORATORI DI QUESTO NUMERO
199
§
6
Giovanni Solinas
Il mito senza fine
Poetica dell’immagine e concezione mitica in André Breton
Una proposta d’analisi
Nella riflessione del surrealismo storico convivono paradossalmente l’esaltazione per l’universo mitico ed una visione del linguaggio basata sul rigetto delle forme codificate. La pratica della scrittura automatica, ed ancor
più il procedimento di costruzione dell’immagine poetica (nell’accezione
che il Manifesto riprende dalla formula originaria di Reverdy),1 corrispondono al tentativo di obliterare lo stesso ordine concettuale della conservazione, garante della riutilizzabilità infinita di una riserva di identità e di significati fissati. Il surrealismo – lo si sa – aspira all’assurdo logico di una
lingua che non è codice, ed in cui tutto si dà come per la prima volta. In
che modo un simile orientamento può essere compatibile con il funzionamento di quel linguaggio mitico che è invece, teoricamente, figlio della
conservazione? Un linguaggio che prevede la cristallizzazione dei suoi contenuti in forme prototipiche, in motivi e schemi che, per quanto sottoposti a variazioni costanti, fanno della riconoscibilità il proprio carattere specifico, tanto da costituirsi come luoghi di una memoria condivisa.
In realtà credo che un’analisi approfondita dei termini di questo paradosso possa portare, in parte, a chiarire i motivi per cui essi non vengono
concepiti come incompossibili dal pensiero surrealista. Ciò che queste pagine dovranno proporsi di fare sarà dunque mettere in evidenza come
(per quanto negli effetti la contraddittorietà tra i due ambiti non possa
essere abolita) le motivazioni che portano il surrealismo a coltivarli en1
Notissima la definizione di Reverdy: “L’immagine è una creazione pura dello spirito.
Non può nascere da un paragone, ma dall’accostamento di due realtà più o meno distanti.
Più i rapporti delle due realtà accostate saranno lontani e giusti, più l’immagine sarà forte”.
Pierre Reverdy in Nord-Sud, marzo 1918, cit. in André Breton, Manifeste du surréalisme
(1924), trad. it. di Guido Neri, Manifesti del Surrealismo, Torino: Einaudi, 1987, p. 26.
PARAGRAFO I (2006), pp. 123-41
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GIOVANNI SOLINAS
trambi siano da ascrivere ad un medesimo orizzonte teorico. Si prenderà
in considerazione in particolare la riflessione di André Breton, sia quella
– di area linguistica – relativa alla questione dell’‘immagine’ surrealista,
sia quella che interessa, invece, il tema del mito; ciò nel tentativo di mostrare come la logica che presiede alla visione bretoniana della sfera mitica, considerata nella sua natura di complesso di forme simboliche che interagiscono con la mentalità collettiva, sia apparentabile a quell’attitudine
vitalistica che anima la sua concezione del linguaggio poetico.
Il senso sospeso
Per mettere in chiaro da subito l’angolo di approdo che si intende assumere nell’avvicinare la complessa questione dell’immagine surrealista, potrà
essere fruttuoso ricorrere ad una sorta di gioco di sponde tutto interno al
macrotesto di Breton. Si può partire, cioè, dalle pagine di Nadja in cui il
poeta introduce la nozione di signal.2 Il signal è l’avvenimento casuale, fortuito, che si pone di fronte al soggetto con una profonda forza di sollecitazione. Un evento che chiama dall’esterno, e che si fa portatore – per chi
lo sa recepire e si dispone a farlo – di un significato rivelativo. Manifestazioni di questo particolare fenomeno sono i deliri onirici di Desnos, capace di far sgorgare dallo stato di semiveglia cui si abbandonava immagini
ed analogie sorprendenti per precisione e potenza invocativa,3 o (per citare
un altro celebre caso) la permanenza insistente, nella memoria visiva del
Breton flâneur, della scritta di un’insegna parigina (il famoso Bois-Charbons ricordato in Nadja).4 Il signal verbale, apparentemente insensato, del
tutto autoreferenziale, racchiude il potere di indurre, o quantomeno di
annunciare degli eventi rivelatori. Alla sua apparizione, come di fronte ad
una formula magica, si attende la risposta di un accadimento.
2
André Breton, Nadja (1928), Paris: Gallimard, 1964, p. 21. Dove non altrimenti indicato, la traduzione è mia.
3
Sostiene l’autore che chi non abbia assistito di persona a questo impressionante fiotto
di “sbalorditive equazioni poetiche” (ivi, p. 35) non avrà mai la possibilità di comprendere
quale fosse l’impatto di quelle parole nuove, in che cosa consistesse “il valore assoluto di
oracolo” (ibidem) assunto dal linguaggio in quell’occasione.
4
Racconta Breton: “Le parole Bois-Charbons, che si dispiegano nell’ultima pagina di
Champs Magnetiques, mi hanno consentito, per un’intera domenica durante la quale ho
passeggiato con Soupault, di poter esercitare uno strano talento di prospezione nei confronti di tutti i negozi che esse servono ad indicare. Ho l’impressione che potessi dire a
quale altezza sulla destra, sulla sinistra questi negozi sarebbero apparsi nelle strade che imboccavamo” (ivi, p. 29).
IL MITO SENZA FINE
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Ora, se si considera la particolare natura dei signals tralasciando l’aspetto più propriamente letterale del loro potere oracolare, e concentrandosi sulla dimensione della sospensione implicita nell’idea dell’annuncio,
dell’anticipazione-induzione che essi sono detti attuare, si riesce ad ottenere un modello descrittivo direttamente applicabile all’immagine. Così
come il potere pragmatico del signal, la natura linguistica dell’immagine
surrealista, è anch’essa dotata, infatti, di una natura liminale, sospesa.
L’immagine si colloca in una sorta di terra di nessuno, al di là dell’ordinarietà denotativa del linguaggio, ma allo stesso tempo distante dal potere
semantico di secondo grado della metafora, il tropo che più le si avvicina.
Vediamo di spiegare. Le svariate proposte d’interpretazione del meccanismo metaforico, al di là dell’eterogeneità teorica delle loro prospettive,
sono comunque accomunate dal considerare il processo di generazione di
senso della figura come un’azione scandita su due tempi successivi: ad
un’impennata iniziale, con cui il discorso sembra smarcarsi improvvisamente da ogni regola di coerenza, segue il momento interpretativo, che
consente al lettore di decifrare l’immagine. Dunque tensione e rilascio,
rottura traumatica della coerenza semantica, corrispondente all’esplosione
dell’immagine, e momento interpretativo immediatamente susseguente,
che riporta lo scarto entro l’alveo del senso; un senso, naturalmente, più
o meno complesso, più o meno rivelatore nel suo apporto cognitivo, ma
la cui apparizione assume comunque una valenza propositiva, capace di
subordinare a sé il gesto della negazione iniziale.
Ora, lo spazio di sospensione entro cui si colloca l’immagine surrealista
sembra coincidere esattamente con lo iato che separa questi due momenti.
A detta di gran parte dei teorici che hanno commentato il problema, infatti, l’immagine, nonostante sia esteriormente identica, nella struttura, al
nesso metaforico, non può essere ricondotta all’ambito della figuralità;5 la
5
Per questa prospettiva si può vedere, ad esempio, Groupe m, Rhétorique de la poésie
(1977), trad. it. di Alfredo Luzi, Retorica della poesia, Milano: Mursia, 1985, p. 185. Interessanti anche: Monroe Beardsley, “La metafora come tensione categoriale”, in Mariano
Cristaldi (a cura di), La metafora e lo stato. Saggi di retorica e politica, Cassino: Garigliano,
1979, p. 194; Lucio Gabellone, L’oggetto surrealista, Torino, Einaudi, 1977, p. 27. La posizione più estrema, in questo senso, è però quella che si trova in Michel Riffaterre, La
production du texte (1979), trad. it. di Giorgio Zanetti, La produzione del testo, Bologna: Il
Mulino, 1989, p. 296. Un caso opposto è rappresentato dalla visione di Lotman, che invece considera gli accostamenti fra realtà apparentemente incomunicabili introdotti dalle
avanguardie, come esempi emblematici del funzionamento dei tropi, e del loro potere di
rinnovamento linguistico-conoscitivo.
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GIOVANNI SOLINAS
distanza fra le realtà che essa collega è tale da non consentire alcuna interpretazione a posteriori capace di gettare la luce rigenerante del senso sul
plesso verbale. Quest’ultimo, si potrebbe dunque concludere, attua la prima delle due fasi analizzate, gettandosi con un deciso gesto di rottura fuori
dallo spazio cartografato della cogenza semantica, ma non accede al secondo momento, e resta imprigionato nella regione interlocutoria dello stato
tensionale con cui si identifica l’evento del suo darsi.
In un saggio del 1978, Michel Deguy fa precedere l’analisi della poesia di Breton Sphynx Vertebral dal confronto con le pagine di Signe ascendant, uno degli scritti teorici in cui lo stesso Breton si è soffermato sul
problema dell’analogia all’interno dell’immagine e sulle questioni riguardanti la sua definibilità e la sua funzione espressiva ed estetica. Il testo di
Breton, ed ancor più il filtro interpretativo attraverso cui Deguy fa scorrere i suoi argomenti, risulta – mi sembra – illuminante per l’ottica che qui
cerco di sviluppare. Breton sembra voler rielaborare la sua originaria definizione di ‘immagine’, fornendo certe chiarificazioni, ma soprattutto introducendo alcuni nuovi, significativi concetti: “L’immagine analogica
[…] si muove, tra le due realtà in presenza, in un senso determinato che
non è in alcun modo reversibile. Dalla prima di queste due realtà alla seconda, essa segna una tensione vitale rivolta il più possibile verso la salute, il piacere, la quiete, la grazia resa, gli usi consentiti”.6
Ad un primo livello di lettura l’enunciato può essere inteso come
un’indicazione di ordine espressivo. Per innescare la scintilla dell’immagine non basta semplicemente accostare due termini qualunque, purché
drasticamente distanti. Il secondo termine è chiamato ad elevare il primo,
a potenziarlo, si dovrebbe dire, esteticamente, a portarlo insomma verso
la luce.7 Il saggio di Deguy prospetta, però, un ulteriore piano interpretativo. A questo livello il termine decisivo è quello di irreversibilità, l’irreversibilità di un movimento di ascesa, dunque l’abbandono di una condizione originaria. Il passaggio dal primo al secondo dei termini presi nell’immagine segna una sorta di salto, di elevazione improvvisa rispetto alla
6
André Breton, Signe ascendant (1947), in Id, Œuvres complètes, vol. 3, Paris: Gallimard, 1992, p. 769. Alle Œuvres di Breton si rimanderà d’ora in poi nel testo con la sigla
O, seguita dal numero di volume e di pagina.
7
A conclusione del saggio Breton riporta questo ‘apologo zen’: “Per bontà buddistica
Bashô modificò un giorno, con ingegnosità, un haikaï crudele composto dal suo umoristico
discepolo Kikakou. Avendo questi detto: ‘Una libellula rossa – strappatele le ali – un peperoncino’, Bashô vi sostituì: ‘Un peperoncino – mettetegli delle ali – una libellula rossa’”
(O, 3, p. 769).
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quale non è possibile tornare indietro. Deguy considera la “tensione
ascendente, siderante”8 che caratterizza il percorso univettoriale del rapporto analogico fra le due realtà linguistiche, come una ‘risalita’, un remonter. Ma qual è l’elemento che fa da resistenza al remonter del linguaggio? ‘Contro cosa’ il linguaggio risale?
“In contro-pendenza, controcorrente… di che cosa? Se non di se stesso?” (ibid.). Il linguaggio si dà svolgendosi contro se stesso. Ancora una
volta siamo nell’ambito dell’opposizione fra la ‘normalità’ del discorso denotativo, letterale, e la capacità della lingua di infrangere quest’ordinarietà per confondere il rapporto biunivoco fra parole e cose.
Secondo Deguy è unicamente attraverso questa dinamica di autocontraddizione della parola che il logos può aspirare a palesarsi nella sua forma più autonoma, più pura. Il linguaggio nega la propria natura elementarmente nominativa, cerca di inibire la propria vocazione indicale, la sua
tendenza ad aggrapparsi a dei sensi riconoscibili. Crea così una sorta di
corto circuito interno al proprio funzionamento, grazie al quale ciò che è
‘al di sopra del visibile’, il logos, appunto, inteso come qualcosa di non
nominabile, di ‘indicible’, trova lo spazio attraverso cui mostrarsi. Dunque: “Il dire assume il contraddirsi”, e “nell’intenzione che le interdice, le
‘parole’, negate, possono dire ‘l’indicibile’ a dirsi” (ibid.).
Mi sembra che questa lettura, svincolata dal suo versante più marcatamente idealista, dal riferimento ad un indefinibile pneuma al quale il carattere autocontraddittorio del linguaggio sarebbe in grado di dare accesso, metta in rilievo un dato molto importante. Deguy sembra suggerire,
cioè, che il linguaggio dell’immagine trovi la sua qualità essenziale in una
sorta di stato tensionale costante. Qual è il senso di quella ascensione siderante di cui Deguy parla? Probabilmente è proprio la dinamica per cui
ognuno dei due termini del plesso verbale fa decollare l’altro, lo strappa
dalle radici che lo tengono ancorato alla significazione, vale a dire al riferimento. Credo che la descrizione si applichi soprattutto alle immagini
più astratte, meno legate ad un carattere allucinatamente visivo. Si pensi
soltanto, per esempio, al titolo di uno dei componimenti di Revolver à
cheveux blancs: “Noeud de miroirs”. Dal punto di vista linguistico ciò che
avviene è facilmente spiegabile. Le due realtà, una volta accostate secondo
un vincolo assolutamente arbitrario, perdono la nettezza dei confini altrimenti appartenente al proprio campo di senso. Si genera così un effetto
8
Michel Deguy, “Du Signe ascendant au Sphinx vertébral”, Poétique, 34, 1978, p. 231.
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GIOVANNI SOLINAS
di sovrapposizione, di indebolimento dei discrimini. Un annebbiamento
che (per dirla con gli strutturalisti) mette in discussione la certezza delle
differenze. C’è però qualcosa di più del semplice spaesamento provocato
dall’assurdità del legame.
Ciascuno dei significati originari viene letteralmente rapito dall’altro
(tensione siderante), e condotto in una sorta di illocalizzabile regione dell’assenza in cui non è più se stesso, ma neanche, in realtà, qualcosa di
nuovo (autoannullamento del linguaggio). Il plesso linguistico così formato, trasfigurati i termini che lo compongono, si innalza verso uno stato
d’astrazione dal quale non ridiscende, dal momento che l’impertinenza
rifiuta di essere sciolta in un senso metaforico di secondo grado. Il linguaggio dunque fugge dalla dinamica di riferimento in cui la significazione consiste. Riferirsi, applicarsi a un significato, ad un concetto, anche
nel momento in cui questo concetto fosse del tutto nuovo (è il caso delle
metafore non scontate) significherebbe ricadere, essere riportato nell’ambito di ciò che trova luogo, che accetta la propria collocabilità.
Oppure, se la si vuole vedere da un’altra angolazione, è il suo senso ad
essere preso in una sorta di indecidibilità. Esso tende costantemente verso
un nuovo che non realizza, e vive di questo stato di tensione, che gli consente di non depositarsi, cioè di non determinarsi, e dunque di non essere
fissato.
Sarà proprio la ricerca di un simile stato di fluidità, la propensione anti-determinativa coincidente con la promozione di una condizione tensiva che non conosce rilascio, e che fugge la localizzazione definitiva, a ripresentarsi entro l’idea di mito coltivata da Breton.
Un nuovo mito collettivo
A ben guardare l’interesse del surrealismo per la dimensione del mito può
essere indagato secondo due differenti angolazioni d’approccio, corrispondenti, se si vuole, alle due principali modalità attraverso le quali gli
esponenti del gruppo hanno percepito ed elaborato il loro rapporto con
l’universo mitologico. La prima nasce contestualmente al sorgere stesso
del movimento, ed è ampiamente condivisa dai suoi membri storici, per i
quali, da subito, il mito assume la valenza del vero e proprio ideale collettivo. Istituendo un gioco d’abîme fra l’oggetto ed i modi della sua considerazione si dovrebbe dire che la questione è sviluppata proprio nei modi
della produzione e dell’esaltazione fideistica di un contenuto mitico. A
IL MITO SENZA FINE
/ 129
trovare alimento è, insomma, una sorta di mitologia del mitico, basti
pensare alle forme in cui si esprime l’interesse per il tema in questione: se
la lingua dei miti è per definizione sovrapersonale, se la leggenda si vuole
racconto non riconducibile ad un’origine, una storia che non deriva da
nessuno ed appartiene a tutti, allo stesso modo la celebrazione surrealista
della sfera mitica tende a trasmettersi attraverso il mezzo di una sorta di
voce collettiva. I temi, i concetti, il linguaggio dei luoghi della produzione surrealista in cui il tema appare, paiono confondersi, divengono quasi
interscambiabili.
In questa accezione il piano di interesse prioritario è costituito dalla
naturale affinità che avvicina il dominio della libera immaginazione allo
spazio mitico. Al mito appartiene un orizzonte conoscitivo che ignora in
parte le norme costrittive del pensiero positivo, della logica diurna; un
orizzonte in cui trova posto il meraviglioso, onnipresente idolo del pensiero surrealista. In questo senso, ne Le Paysan de Paris Aragon istituisce
un rapporto pressoché identificativo fra la nuova mitologia di cui registra
la nascita e la dimensione del ‘meraviglioso quotidiano’.9 I due domini
vengono considerati dall’autore quasi indistinguibili, il che contribuisce
non poco a gettare luce su questo primo livello della visione surrealista
del mito. Nelle pagine del testo il mito – la natura sovrannaturale di ciò
che appartiene al mito – è associato alla potenza rivelativa cui assurgono
gli incontri con gli esseri animati e inanimati dei passages parigini, una
volta che agli stessi si applica il détournement immaginativo del flâneur. Si
pensi alle pagine che descrivono il venditore di canne.10 Colto dallo
sguardo deformante di Aragon il dato reale è investito di un’energia auratica, che gli assegna la valenza epifanica dell’evento straordinario. La sua
apparenza ordinaria esplode per rivelare la meraviglia di un fuoco d’artificio. Lo schema sembra chiaro: la nuova mitologia professata dal surrealismo corrisponde ad una percezione del quotidiano cui è restituita la com9
Andrà ricordato che Le Paysan de Paris è introdotto da una breve “Prefazione a una
mitologia moderna”. Aragon vi si esprime in questo modo: “Dei miti nuovi nascono sotto
ciascuno dei nostri passi. Là dove l’uomo ha vissuto comincia la leggenda, là dove vive.
Voglio rivolgere la mie mente soltanto a queste disprezzate trasformazioni. Ogni giorno si
modifica il sentimento moderno dell’esistenza. Una mitologia si annoda e si snoda. È una
scienza delle vita che appartiene soltanto a coloro che non ne hanno esperienza”. Louis
Aragon, Le Paysan de Paris (1926), Paris: Gallimard, 1981, p. 15.
10
La visione delle canne è l’occasione che consente al nastro delle trasformazioni immaginarie di innescarsi: la devanture del venditore si metamorfizza in una sorta di paesaggio
sottomarino, rischiarato da un luce soprannaturale, ed abitato da una sirena (ivi, p. 31).
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GIOVANNI SOLINAS
ponente magica, incantata, la meraviglia, appunto. Una percezione che si
riappropria del sacro, per dirla con Leiris. Il contributo offerto da quest’ultimo alle riflessioni del Collège de sociologie è rappresentato da un testo intitolato proprio Le sacré dans la vie quotidienne;11 qui Leiris dà vita
ad una sorta di immersione nel ricordo che, per quanto egli tenesse a distinguere (perché più vicina all’autoetnografia) dalle operazioni esplicitamente autobiografiche de L’âge d’homme (1939) o di Biffures (1948), assume una connotazione marcatamente letteraria. Leiris ritrova nelle sensazioni dell’infanzia la traccia di una visione miticizzante del reale. Il sacro è identificato proprio con l’esito di una dinamica di deformazione dilatante che il Leiris bambino esercitava su realtà men che ordinarie ad
uno sguardo adulto (la stufa, le stanze della casa, i prati vicini). Il meraviglioso, il sacro corrispondono dunque alla possibilità di riconquistare alla
realtà lo spazio dell’ultranaturale, di associare alle figure che affollano la
quotidianità dell’esistenza la stessa aura di potere magico e di forza rivelatrice che è propria del mondo mitologico.
Quest’ordine di motivazioni è, certo, determinante anche per quella
che si è definito come la seconda modalità di elaborazione surrealista della problematica mitica. Solamente in parte, però. Rispetto ad essa, infatti,
una valenza prioritaria è rivestita da un altro plesso di questioni, che non
si identifica semplicemente con l’apertura alla sfera del meraviglioso quotidiano, ma è semmai da mettere in stretto rapporto con la natura sospesa
e con la propensione alla non riconducibilità associabile al linguaggio dell’immagine. Va detto che questa ulteriore accezione comincia a delinearsi
a partire dalla metà dagli anni trenta, ed assume un profilo definitivo soltanto nel decennio successivo. Inoltre essa è affidata in modo quasi esclusivo all’elaborazione teorica del solo André Breton. Tentando di riassumerla con una formula si dovrebbe riprendere la definizione utilizzata da
Jacqueline Chenieux-Gendron: il mito, in questa prospettiva, è visto nei
termini del “modello proiettivo”.12 Viene considerato, cioè, dal punto di
vista della sua possibile azione sulla mentalità sociale, sulla fisionomia del
pensiero collettivo. In questo senso esso non è più soltanto sinonimo di
meraviglioso, e la mitologizzazione dell’esistenza non si limita ad identificarsi con il recupero del mistero, del sacro, chiamati a far vibrare l’ingrigi11
Il testo è raccolto in Denis Hollier (a cura di), Le collège de sociologie. 1937-39 (1979),
trad. it. di Marina Galletti, Il collegio di sociologia, Torino: Bollati Boringhieri, 1991.
12
Jacqueline Chenieux-Gendron, Le surréalisme, Paris: PUF, 1984, p. 147.
IL MITO SENZA FINE
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to commercio tra l’individuo e la realtà. Il mito, il suo modo di produrre
senso, e di offrirlo all’interpretazione, diventa un sistema complessivo di
riferimento; il bacino della nuova mitologia, alla cui definizione contribuirà innanzitutto l’arte surrealista, rappresenta una costellazione di simboli a partire dalla quale dovrà prendere vita una nuova forma di coscienza collettiva. Dunque, apparentemente, mito come modello. Tutto sta,
credo, nel tentativo di definire quale sia la natura di tale modello, quale il
modo della sua azione. Se di dinamica modellizzante si può parlare, infatti, lo si dovrà fare in un’accezione talmente indebolita da disperdere lo
stesso specifico concettuale della nozione. Ma procediamo con ordine.
All’altezza degli anni Trenta il riferimento al ‘mito collettivo’, e, più
precisamente, al surrealismo come istanza generatrice di un nuovo mito
collettivo, si segnala per la sua quasi formulaica ricorsività all’interno del
discorso teorico di Breton. Lo si trova ad esempio in un testo di estrema
importanza programmatica come Posizione politica dell’arte di oggi (1935),
in cui Breton si esprime in questi termini: “Ed ecco perché, in queste condizioni, forse non si tratta neppure più, nell’arte, della creazione di un mito personale, ma col surrealismo, della creazione di un mito collettivo.
Perché questo fatto fosse contestabile, bisognerebbe, come ho già detto,
che al surrealismo potesse essere contrapposto […] un movimento di
tutt’altro carattere che abbia rilevato la stessa forza d’attrazione sulla mente dei giovani”.13
Il passo comincia a chiarire in quale ottica debba essere letto l’impiego
della nozione di mito: innanzitutto la nuova mitologia coincide con la
crescente massa di produzioni d’arte d’ispirazione surrealista. In secondo
luogo, come detto, essa interessa soprattutto per la sua capacità di intervenire sulle forme della coscienza collettiva. In questa prospettiva il motivo si ripresenta negli scritti successivi. Del 1938 l’intervista in cui Breton
ribadisce come, per quanto sia evidente che nel fiorire di testi concepiti
secondo la tecnica della scrittura automatica, il rapporto fra quantità e
qualità non possa che andare a sfavore della seconda, è comunque necessario continuare a percorrere quella via. Ed è vitale, aggiunge Breton, che
così facendo “il mito collettivo al quale noi vogliamo giungere continui a
elaborarsi” (O, 3, p. 122).
13
André Breton, Position politique de l’art d’aujourd’hui, trad. it. in Id, Manifesti, cit., p.
162. Il passo riprende un accenno più breve al medesimo motivo, presente già nella prefazione a Posizione politica del surrealismo. Si parlava, lì, del surrealismo come “modalità di
creazione di un mito collettivo” (ivi, p. 136).
132 /
GIOVANNI SOLINAS
A partire dai primi anni quaranta il tema si fa più esplicito. I Prolegomeni al terzo manifesto del surrealismo (1942) affrontano di petto la questione: Breton fa propria la domanda cui, ricorda, molti degli intellettuali
di allora si sforzavano di trovare risposta: “Che cosa pensare del postulato
‘non c’è società senza mito sociale?’; in quale misura possiamo scegliere e
adottare, e imporre un mito in rapporto con la società che riteniamo desiderabile?”.14 Breton non si discosta da una visione squisitamente progettuale. L’attributo cui fa ricorso Chenieux-Gendron, in questo senso, si rivela quanto mai appropriato. Il ragionamento bretoniano si svolge nei
termini della mera proiezione: quale sarà l’esito di un percorso di formazione di un’identità collettiva ancora a venire, fondata sull’adesione ad un
linguaggio simbolico esso stesso in via di elaborazione?
Precedenti di qualche anno i Prolegomeni, le pagine di Limites non frontières du surréalisme (1937) si erano confrontate, invece, con un altro
aspetto del problema, vale a dire con il tentativo di fornire una – se pur
molto abbozzata – interpretazione della natura e dell’origine dell’immaginario mitologico, di cui Breton spiega la forza pervasiva riconducendola al
suo legame con l’inconscio collettivo dell’epoca in cui sorge. Ne viene fuori una lettura storica pseudo-deterministica, che sembra voler eleggere suoi
impliciti padrini teorici Marx e Jung assieme: la fortuna del romanzo gotico settecentesco si deve prevalentemente alla sua capacità di aver dato forma visibile alle tensioni che agitavano l’inconscio di un intera comunità.
Allo stesso modo il surrealismo dovrà proporsi non di tradurre il contenuto storico “manifesto” dei suoi anni, ma il loro “contenuto latente” (O, 3,
p. 665). Il che, ribadisce Breton, corrisponde esattamente alla “elaborazione del mito collettivo proprio alla nostra epoca, allo stesso titolo con cui,
volente o nolente, il genere ‘noir’ dev’essere considerato come patognomica del grande sconvolgimento sociale che s’impossessa dell’Europa alla fine
del XVIII secolo” (O, 3, p. 667).
Questi due aspetti del nesso mito/coscienza collettiva (la visione proiettiva e quella per così dire eziologica) ritornano in due testi del 1947 molto
importanti per la mia prospettiva, Devant le rideau e Comète surrealiste. I
due scritti condividono la medesima occasione extratestuale. Entrambi, infatti, costituiscono un commento della esposizione internazionale del surrealismo che si tenne a New York in quello stesso anno.15 L’esposizione,
14
André Breton, Manifesti, cit., p. 220.
Devant le rideau apparve come introduzione del catalogo della mostra. Per la ricostruzione dell’evento cfr. la “Notice” in O, 3, p. 1367.
15
IL MITO SENZA FINE
/ 133
nella forma del suo allestimento, nei suoi contenuti ed in genere nel significato complessivo che l’intera operazione avrebbe dovuto assumere, era
totalmente ispirata alla dimensione del mito. Il projet initial, sorta di guida
per il visitatore redatta dallo stesso Breton, ed annessa al catalogo illustrativo dell’esposizione, spiegava come il percorso della mostra andasse concepito alla stregua di un cammino iniziatico, durante il quale il visitatore era
posto di fronte alla “emergenza poetica e plastica di un mito nuovo, presente allo stato latente e che cerca la sua figurazione nella sala dei dodici
‘altari’ mitici” (O, 3, p. 1367). La mostra, dunque, cercava di ricreare
quantomeno un’allegoria del rapporto di fruizione partecipativa, fideistica
se si vuole, che gli individui, nelle culture in cui alla mitologia si assegna o
si è assegnata una valenza sacrale, con quei contenuti stabiliscono.16 Evidentemente la mostra rappresenta un episodio fortemente significativo
nella storia del rapporto fra il movimento e la sfera del mito. Un episodio
con cui fa il paio un altro capitolo di quella vicenda, vale a dire la composizione del libretto per immagini e didascalie De la survivance de certains
mythes, nel quale il poeta assembla un florilegio di icone (foto, dipinti, fotogrammi di film) attinte dalla storia, antica e recente, del repertorio immaginario umano, associandole a temi mitologici sia ancestrali che moderni. L’invito alla costruzione di una nuova fantasmagoria mitica, destinata a
stimolare e ad alimentare la sensibilità collettiva, trova in questi esempi dei
tentativi embrionali di applicazione. E del significato di questi esperimenti
gli scritti riferiti all’esposizione de 1947 contribuiscono a fornire una spiegazione. Devant le rideau torna senza mezzi termini sugli argomenti già intravisti. Il potere di attrazione e di fascinazione esercitato sul pensiero dalle
creazioni surrealiste assegna a queste ultime – spiega Breton – una valenza
rivelativa. Esse “determinano un movimento di adesione, provocano un
dono di se stessi così totale” (O, 3, p. 749) che difficilmente si potrà continuare a descriverle semplicemente come opere d’arte. “Il carattere insorgente di queste opere così come l’interrogazione, la sollecitazione sempre
più ardente di cui esse sono oggetto, la resistenza che oppongono ai mezzi
16
Dal piano terra, dove cominciava la visita, lo spettatore accedeva al piano superiore, attraverso una scala di 21 gradini, recanti ognuno un simbolo degli arcani maggiori dei tarocchi. Si entrava così alla “Sala delle superstizioni” la quale, spiegava Breton nel Projet initial,
“deve rappresentare la sintesi delle principali superstizioni esistenti e obbligare a superarle
per proseguire la visita” (O, 3, p. 1367). La sala finale era quella degli altari, divisa in spazi
ottagonali: “Ognuno dei dodici alveoli ottagonali […] sarà consacrato a un essere, una categoria di esseri o un oggetto SUSCETTIBILE DI ESSERE DOTATO DI VITA MITICA” (ibid.).
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di apprensione che l’intendimento umano, al suo stato attuale, conferisce
[…] accreditano l’idea che un mito parta da esse, che dipenda soltanto da
noi definirlo e coordinarlo” (ibid.). L’approccio proiettivo ad un mito in
formazione a partire dal quale potrà cominciare a definirsi una nuova
mentalità collettiva, è riproposto del resto in Comète surréaliste. Qui tornano anche, come già accennato, i termini della lettura eziologica precedentemente intravista, che fa del mito il collettore delle tensioni latenti, delle
dinamiche inconsce degli individui. Il nutrimento che nell’ambito del surrealismo, spiega Breton, l’immaginario poetico ha offerto alle forme plastiche è un segnale determinante; esso: “potrebbe già indurre a pensare che le
forme frammentarie e sparse del desiderio collettivo, il quale resta un segreto per ogni essere umano, tendono a un punto di convergenza unico e
che al loro punto di incontro un mito nuovo ci attenda” (O, 3, p. 754).
Andrà detto, per completare il quadro, che nell’elaborare la visione
proiettiva relativa all’azione del mito sul pensiero collettivo, Breton sembra tener presente l’impostazione del Collegio di Sociologia, il gruppo di
ricerca che costituiva in pratica il corrispettivo scientifico della riflessione
surrealista sul mito. Bataille e Caillois professavano, in quegli anni, la necessità di ricostituire, entro il tessuto delle società occidentali, un principio unificatore che consentisse di considerarle non semplicemente come
la somma di una serie di soggettività, ma come organismi complessi e vitali; organismi definibili a partire da ciò che i due intellettuali chiamavano “movimento comuniale”, vale a dire da quello stato di coerenza elettiva che nelle società arcaiche era assicurato anche e soprattutto dalla credenza condivisa nel mito. Vicinissimo, d’altronde, al ragionamento di
Breton il passo in cui Caillois chiama in causa i tre poli della letteratura,
del mito e del pensiero collettivo. Balzac e Baudelaire, sostiene Caillois,
hanno inteso “integrare nella vita le richieste che i romantici si rassegnavano a soddisfare sul piano dell’arte”, e si sono votati così ad un’impresa
“ben apparentabile al mito, che significa sempre un accrescimento del ruolo
dell’immaginazione nella vita, dal momento che per natura, esso è suscettibile di spingere all’atto”.17 In questa direzione, secondo Caillois, si dovrebbe chiedere all’arte contemporanea di proseguire: “È in effetti altrettanto importante concepire la possibilità di piegare l’estetica verso la
drammaturgia, cioè verso l’azione sull’uomo”.18
17
18
Roger Caillois, Le Mythe et l’homme (1938), Paris: Gallimard, 2002, pp. 172, 172-73.
Ivi, p. 174.
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A questo punto i dati su cui basare un’analisi più approfondita del particolare carattere ‘modellizzante’ assegnato da Breton al mito ci sono tutti.
E credo che si debba partire proprio dalla compresenza, nella riflessione
del poeta, dei due aspetti che si è cercato di evidenziare in questa rapida
panoramica. Secondo Breton il linguaggio mitico è traduzione, o se si
vuole espressione, dell’interiorità profonda, inconscia della collettività –
dunque emanazione di una componente costitutiva dell’identità del soggetto sociale – ed allo stesso tempo bacino immaginario cui il pensiero
collettivo tende, insieme di simboli esterno agli individui, in riferimento al
quale essi sviluppano una nuova visione: in definitiva qualcosa cui ispirarsi, cui conformare la propria coscienza. La circolarità di questo rapporto
mostra tutta la propria natura paradossale: l’immaginazione mitica è, allo
stesso tempo, dentro (sebbene inconsciamente) e fuori l’individuo; essa è
generata dal soggetto, ma insieme è fattore, istanza della rigenerazione
dello stesso. In definitiva, dunque, è attivata, promossa ma contemporaneamente subita dall’uomo. Quest’ultimo la crea e la riceve, è attivo e passivo insieme. In realtà la dinamica non dovrebbe stupire più di tanto chi
ha una certa confidenza con alcune delle nozioni varate da Breton. Si pensi al concetto di humour objectif, che Breton riferisce a quegli incontri,
quegli eventi totalmente casuali nei quali, però, paradossalmente l’individuo riconosce il segno del proprio destino.19 La necessità nasce dall’aleatorietà, ciò che è frutto dell’hazard è, allo stesso tempo, qualcosa che non
poteva che essere così. Anche in questo caso, dunque, circolarità. E non
diverso è il corto circuito fra passato e futuro implicito nella ricostruzione
storica dell’evoluzione letteraria saltuariamente abbozzata nei testi del
poeta: in Rimbaud, Nerval, Roussel e negli altri numi protettori del movimento, il surrealismo vede non soltanto il proprio passato storico, ma anche il proprio futuro: non solo ciò che è stato, ma ciò che dovrà essere.20
Gli autori del passato sono insieme punto di partenza ed indicazione di
un termine d’arrivo.
19
L’humour oggettivo chiama in causa la nozione di casualità oggettiva, cioè “quella
specie di casualità attraverso la quale si manifesta in modo ancora molto misterioso per
l’uomo una necessità che gli sfugge, sebbene egli la provi vitalmente come necessità”. André Breton, Manifesti, cit., p. 199.
20
In Originalité et liberté (solo per citare un esempio), Breton si riferisce alla consueta
serie di autori invocati quali antenati del surrealismo (Novalis, Nerval, Blake, Poe…):
“una linea di resistenza imprescrittibile passa attraverso questi nomi, che noi abbiamo trovato rivolti non verso il passato, ma verso l’avvenire, carica di forza premonitrice sulla nostra strada” (O, 3, p. 179).
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Ora, non è probabilmente possibile indagare, nello spazio di queste pagine, la particolare specificità epistemologica di un modello di visione che
prevede il superamento delle vecchie ‘antinomie’ ancora vigenti fra ‘realtà’
e ‘immaginazione’, ‘passato’ e ‘futuro’, ‘tradizione’ e ‘libertà’.21 Ciò che mi
sembra interessante sottolineare è l’idea di irrisolvibilità legata alla dinamica della circolarità. Se si traduce il modello della co-implicazione nei termini dello schema chiastico, in cui due linee divergenti condividono la stessa
origine, si dispone di una sorta di versione visualizzabile di tale irrisolvibilità. Ognuno dei due principi non riesce a vedere interamente l’altro come
dato assoluto, a sé esterno, e da sé distanziato. Per quanto tenti di farlo c’è
sempre un tratto, anche minimo, in cui i due corpi si confondono.
D’altronde, a questa prima declinazione della circolarità entro la dimensione del mito, ne corrisponde un’altra tutta interna alla questione
della credenza: anche in questo caso la collettività è assieme soggetto attivo ed oggetto passivo, funzione d’innesco ed allo stesso tempo istanza ricettiva. Essa determina la condizione sacrale dell’universo mitico, concede
ad esso la propria disponibilità a credere e così facendo lo investe di uno
statuto sovrannaturale. Nello stesso tempo, però, si pone come il destinatario della sacralità, come il bacino su cui questa si esercita, come lo spazio in cui il mito è ricevuto e recepito come tale. Non diversamente attraverso il rito la comunità, riattualizza (torna a conferire realtà), di volta in
volta, i contenuti mitici, ma con lo stesso gesto definisce la propria condizione di comunità di fedeli, dunque il suo statuto di mero recettore della
sacralità del mitico. Del resto la stessa meccanica della trasmissione orale
dei materiali mitologici prevede, secondo Detienne, il passaggio dei contenuti leggendari attraverso il filtro selettivo dell’ascolto comunitario; diventano mitologia soltanto quelle narrazioni che sono passate attraverso
la “‘censura preventiva’ del gruppo”.22
Lo schema della circolarità che governa tutti questi aspetti del rapporto fra mito e collettività, si ripropone, infine, in un ultimo ambito. In
modo identico, infatti, esso sembra governare il circuito chiuso che si instaura fra la creazione ex novo di inedite forme simboliche – creazione che
solo inizialmente dovrà essere portata avanti dagli artisti surrealisti, ma
21
L’appello all’abbandono di una visione che considera i termini di questi binomi nella
prospettiva della insormontabile contraddizione lo si trova in Situation du surréalisme entre les deux guerres (O, III, p. 722).
22
Marcel Detienne, L’Invention de la mythologie (1981), trad. it. di Flavio Cuniberto,
L’invenzione della mitologia, Torino: Boringhieri, 1983.
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che in seguito dovrà essere di tutti – e la volontà di identificarle ad un
moderno tessuto mitologico al quale ci si affida come ad un esterno patrimonio di riferimento. Evidentemente si è posti di fronte ad una fusione
implicativa fra il gesto attivo per antonomasia, quello dell’invenzione,
della realizzazione di qualcosa a partire dal nulla,23 e la disposizione passiva ad aderire – come fosse un dato di natura – alla costellazione di forme
che è l’esito di tale processo creativo. L’uomo produce lo stesso contenuto
mitologico che riceve. O se si vuole, quest’ultimo si esercita sull’uomo ed
insieme ne è esercitato.
Si è visto come per definire l’azione del nuovo mito surrealista sulla
collettività la Chenieux-Gendron faccia ricorso alla formula del ‘modello
proiettivo’. Ma come definire un sistema di modellizzazione in cui, a più
livelli, il modello è in gran parte generato da ciò che dovrebbe modellare,
in cui, cioè, i due principi, anziché distinguersi, si coappartengono?
In questa prospettiva non è la stessa specificità concettuale del concetto di modellizzazione che finisce per dissolversi? Modellare significa assegnare a qualcosa una forma che corrisponde ad un’altra forma, o ad uno
schema, un insieme di coordinate, ideale o fisico, predeterminato o ancora da determinare, ma che comunque ad un certo punto deve darsi,
dev’essere fissato in modo stabile. Non ci può ispirare ad un modello, farvi riferimento, cioè ri-portarsi ad esso, se questo non è definito, se non è
localizzabile.
Nella dinamica circolare che si è illustrato il modello è in pratica indecidibile, non si dà mai in modo definitivo. È infatti costantemente preso
in quel rapporto di implicazione con il soggetto (cui dovrebbe rivolgersi),
che non gli permette di staccarsi da quest’ultimo per diventare un dato
assoluto, dove l’aggettivo è da intendersi nel suo significato strettamente
etimologico di sciolto da, individuato.
23
In effetti la dimensione della creazione presenta, en abîme, l’ulteriore grado di circolarità di cui si è detto: la creazione è assolutamente libera, è innovazione pura, ma allo stesso tempo viene riconosciuta come riproduzione, traduzione di un fondo inconscio, di un
contenuto interiore. Ricorda però Beaujour come secondo Patrick Waldberg il “nuovo
mito” che Breton aspirava a creare durante gli anni del suo esilio a New York “non avrebbe dovuto fondarsi su alcun contenuto predeterminato”. Qualsiasi oggetto, al di là della
sua valenza simbolica, era suscettibile di essere eletto a nuova forma mitica. Per dirla con
le parole dello stesso Waldberg (citato in Michel Beaujour, Réthorique et terreur, Paris: Place, 1999, p. 79): “Breton dava fortemente l’impressione di non interessarsi ad una simile
avventura se non nella misura in cui essa diventava perturbante, vale a dire esteriore, ed in
cui provocava la creazione di nuove forme”.
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Quest’ordine di considerazioni può probabilmente contribuire a spiegare come, per Breton, il ricorso al mito istituisse un paradigma alternativo a quello su cui ordinariamente si basa il rapporto della mentalità sociale con l’ordine della tradizione. In quest’ultimo il meccanismo è basato sul
riconoscimento di un fondamento, sulla possibilità di rifarsi, appunto, ad
un insieme di conoscenze e di contenuti determinato; nel rapporto con
l’universo mitologico, al contrario, è in qualche modo negata la condizione che permette la riconducibilità dell’identità collettiva ad un patrimonio dato. Tale patrimonio, infatti non arriva mai a porsi come qualcosa di
definitivamente esterno al pensiero collettivo. Non arriva mai, cioè – sembra suggerire Breton – a depositarsi definitivamente, a divenire repertorio.
Cosa che, a sua volta, sottrae alla coscienza sociale la possibilità di definirsi conformandosi ad esso. Alla mancata piena codificazione del nuovo mito, corrisponde la mancata codificazione dell’identità degli individui.
Se si accetta questa interpretazione del pensiero di Breton, il rapporto
con la visione che si è visto sottendere la concezione dell’immagine risulterebbe innegabile. I due campi della riflessione bretoniana sembrano
ispirati da un ideale comune. Naturalmente anche nella sua applicazione
all’ambito del mito, un simile ideale si rivelerebbe minato da una serie di
aporie che ne pregiudicano la realizzabilità. Si pensi, per citare quella
principale, all’obiezione fondamentale che la distinzione fra tradizione e
mito solleva.
Perché, infatti, distinguere fra contenuti mitici e contenuti appartenenti alla tradizione? Le vicende e le figure mitiche fanno tradizione.
Tanto più che anch’esse, ed anzi esse in misura maggiore, possono essere
associate alla natura del modello. I miti sono per definizione dei prototipi, dei topoi. Introducendo la nozione di mitema, Lévi-Strauss ha formalizzato un aspetto da sempre connaturato al mito.24 Le sue varianti possono essere ridotte ad un’unità sintagmatica minima, cioè ad una struttura
base, uno schema immutabile di motivi che ne permette la riconoscibilità
qualunque sia la versione che lo reinterpreta. Impossibile non parlare di
una forte funzione modellizzante.
Certo, la dinamica della circolarità si applica non al rapporto fra il
prototipo ed i suoi rimodellamenti, ma a quello fra il pensiero collettivo e
la galassia mitologica. Ciò non toglie, però, che quest’ultima, se secondo i
modi del linguaggio mitologico deve funzionare, verrà recepita dagli indi24
Claude Lévi-Strauss, L’Homme nu, Paris: Plon, 1971, p. 560.
IL MITO SENZA FINE
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vidui nella forma di una serie di archetipi, di contenuti topici fortemente
codificati.
Vediamo la cosa da un’altra angolazione. In un recente articolo Ivane
Riallanc riprende un concetto introdotto a suo tempo da Jauss; si tratta
di una sorta di variante in chiave ermeneutica dell’idea strutturalista di
mitema. Il filosofo tedesco spiega come la relazione ipertestuale fra le versioni successive dello stesso motivo mitico, si svolga sullo sfondo di una
sorta di terzo assente, coincidente con il mito stesso quale “testo ideale”.
Quest’ultima è l’espressione che Riffaterre utilizza per definire la nozione
di intertesto, molto vicina a quella di “terzo assente”. Non esiste una versione originaria del mito, un testo-archetipo che incarni un primum assoluto. L’intertesto (o il terzo assente) si definisce, in sostanza, come la ‘media’ – riducibile, poi, ad una frase matriciale – risultante da una nebulosa
di versioni che del testo ideale rappresentano le singole, concrete realizzazioni. Il terzo assente è interessato da una doppia dinamica: da una parte
è frutto di un’accumulazione potenzialmente infinita di variazioni, dunque è indefinitamente modificato, costitutivamente aperto ed in accrescimento, non si fissa. Da un’altra parte il testo ideale funziona come un fattore di riduzione ad un’unità di base immodificabile (lo schema matrice)
delle singole variazioni. Dunque è modello, prototipo. La nebulosa mitica, “prende posto come terzo assente, spazio aperto insieme diacronico e
sincronico, bricolage e palinsesto”.25
Breton sembra voler vedere soltanto il primo aspetto, la continua accumulazione, la ridefinizione perpetua, la nebulosa, anziché il prototipo.
Forse per questo il mito dev’essere un ‘mito nuovo’, un mito in cui il testo ideale non si è ancora formato, in cui i simboli e le figure che lo compongono si aggiungono ridefinendolo, modificandolo senza che esso ne
cancelli la specificità e le omologhi ad uno schema base.26 In realtà, però,
25
Ivan Raillanc, “Mythe et ipertextualité”, documento disponibile online all’indirizzo
<http://www.fabula.org/atelier.php?Mythe_et_hypertextualit%26eacute%3B>. A ben vedere questo è forse il livello più profondo delle dinamiche di circolarità che interessano
l’universo del mito: non a caso viene chiamato in causa Jauss: il modello fonda le sue interpretazioni ed allo stesso tempo ne è costituito. Il che, però, non toglie che esso possieda
per il pensiero collettivo una valenza fortemente prototipica.
26
Il fatto che la concezione del mito come alternativa alla tradizione modellizzante sia
soltanto uno dei motivi dell’adesione del surrealismo all’ordine della mitologia, è dimostrato dall’atteggiamento non univoco dei suoi membri. Breton e gli altri sono infatti ben
lontani dal limitarsi alla produzione di miti nuovi. Attingono anzi a piene mani dal repertorio mitologico antico. Sulla convivenza di rito antico e mito contemporaneo cfr. Philippe Lavergne, André Breton et le mythe, Paris: Corti, 1985, soprattutto pp. 75-76.
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anche questo non basterebbe: il mito, se tale, prima o poi diviene prototipo, fondamento, tradizione. Anche prima che la comunità cessi di credervi, prima che la leggenda si trasformi in letteratura. Si è già detto dell’ipotesi di Detienne, che vedeva esistere già a livello della trasmissione orale
del mito un principio di selezione dei racconti basato sulla loro memorabilità: delle diverse versioni che si susseguono, spiega Detienne parafrasando Lévi-Strauss, di tutto l’insieme dei discorsi, si deposita “soltanto
ciò che dà a un racconto una struttura più stabile”.27
In definitiva è come se il surrealismo aspirasse alla realizzazione di una
mitologia che riesce a non divenire repertorio, al paradosso di una fantasmagoria simbolica percepita come tessuto culturale condiviso senza essere riserva memoriale. In questo senso, probabilmente, va letta la correzione che Chenieux-Gendron apporta alla sua stessa definizione, precisando
come la mitologia surrealista si debba vedere: “non un contenuto di credenze, imposto dall’esterno a una coscienza umana […] ma il desiderio di
spaesamento sensibile, il cui contenuto è da inventare da parte di ognuno
di noi”.28
L’ottica è pressoché identica a quella adottata nella discussione sul linguaggio: alla nuova parola poetica si chiede di non ricadere nella significazione, di evitare il riferimento, cioè la condizione della fissabilità (e
dunque della repertorizzazione) del significato. Le si chiede di restare in
una condizione di tensione, che non le permetta di essere ricondotta alla
dimensione del riferimento, dunque dell’identificazione (cioè della localizzazione) di un senso. Allo stesso modo si vuole che il linguaggio mitico
non si depositi, non possa essere termine di riferimento, piedistallo, ma
rimanga preso in un rapporto di continuo movimento, di costante fluidità, che rende il suo rapporto con il pensiero collettivo un commercio
vivente, una storia in svolgimento. Forse uno dei più ostinati contenuti
mitici coltivati da Breton è proprio questo, il mito dell’identificazione costante fra il soggetto e la pura energia tensionale del mutamento. In questo senso lo sguardo dell’individuo è sempre rivolto in avanti, sempre diretto verso ciò che si deve compiere. Del resto è proprio in Arcane 17, in
un’opera in cui così centrale è il ruolo del mito, che Breton fornisce la descrizione esatta di quel demone della tensione che impone all’individuo
di incarnare l’energia dinamica, il movimento stesso di quella trasforma27
28
Marcel Detienne, op. cit, p. 57.
Jacqueline Chenieux-Gendron, op. cit., p. 152.
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zione incessante che è il corpo della temporalità al suo stato più puro:
la libertà, ribadisce “non può esistere che allo stato dinamico”, e chiosa:
“Alle aspirazioni dell’uomo alla libertà dev’essere mantenuto il potere di
ricrearsi incessantemente; è per questo che essa dev’essere concepita non
come stato, ma come forza viva, implicata in una progressione continua”.29
29
André Breton, Arcane 17 (1947), in O, 3, pp. 91, 92.