La tutela giudiziaria contro le discriminazioni di genere di Fabrizio

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La tutela giudiziaria contro le discriminazioni di genere di Fabrizio
La tutela giudiziaria contro le discriminazioni di genere
di Fabrizio AMATO
1. La lezione sulla tutela giudiziaria ha come oggetto l’analisi, in riferimento
all’ordinamento positivo italiano, della disciplina riguardante le modalità e gli strumenti
con cui è possibile far accertare in giudizio e reprimere attraverso il mezzo giudiziale la
discriminazione fondata sul genere per ogni aspetto relativo al rapporto di lavoro.
Sul punto è importante, in via preliminare, ribadire che l’ordinamento italiano è stato il
primo in ambito europeo a riconoscere il ruolo peculiare ed estremamente incisivo (in via
astratta, tuttavia; ossia alla stregua di quanto è contenuto nei testi legislativi) del soggetto
pubblico cui viene assegnata la funzione di collegare la sfera teorica delle valutazioni
giuridiche al concreto della prassi, e di riguardare e realizzare il principio di parità di
trattamento come principio di interesse pubblico. Faccio riferimento alla figura dei/lle
Consiglieri/e di Parità, così come emergeva già dalla originaria stesura della legge n.
125/91 e come è stata quindi rafforzata sotto molti profili dal d.lgs. 196/2000: essa riveste
una posizione molto particolare e coagula differenziate capacità e posizioni di oggettivo
“potere”, nel senso di potestà pubbliche. Ovviamente, a livello potenziale, perché anche in
questo caso, come tutti i commentatori hanno osservato, non si può che rilevare la
scarsissima utilizzazione dello strumento delle azioni in giudizio (art. 4 l. 125/91) per
evidenziare e reprimere le discriminazioni di genere in sede processuale.
Tali azioni sono oggetto di articolata e specifica disciplina, introdotta dall’art. 4 l. 125/91 e
riscritta dall’art. 8 del decreto legislativo 196/2000.
In questa sede non tratterò approfonditamente del versante “individuale” dell’azione
contro le discriminazioni di genere, che riguarda un solo lavoratore/lavoratrice. E’
sufficiente ricordare che tale azione può essere non soltanto agita direttamente dal
soggetto, dalla donna o dal lavoratore-maschio che assume la discriminazione, ma anche
attraverso il “conforto”, il “sostegno” del soggetto pubblico, cioè conferendo la delega ad
agire in nome e per conto della persona che si ritiene discriminata alla Consigliera di
Parità: nella specie questa possibile rappresentanza è conferita alla Consigliera Provinciale
o alla Consigliera Regionale.
La concreta realizzazione di questa scelta - che presuppone l’importante valorizzazione
della Consigliera quale momento di “attenzione pubblica” verso ogni forma di
discriminazione individuale di genere - ha fatto ricorso a molteplici indicazioni già
esistenti del nostro ordinamento per delineare politicamente e giuridicamente questa
“delega”: basti pensare al ruolo delle organizzazioni sindacali ed alla possibilità di delega
prevista, ad esempio, per far valere le discriminazioni contro la donna-lavoratrice ai sensi
dell’art. 15 l. 903/77.
In relazione all’azione individuale va anche sottolineata la modifica intervenuta con il
nuovo comma 5 dell’art. 4 citato, là dove la delega all’azione – come detto – viene conferita
dalla “persona” che vi ha interesse (il testo precedente parlava di “lavoratrice”): mai si è
pensato che l’azione fosse preclusa al lavoratore-maschio, tuttavia la modesta modifica
lessicale mostra un’attenzione “generale” alle questioni del diritto antidiscriminatorio,
assegna allo strumento ed all’Ufficio di parità un ruolo di carattere complessivo che fa
assurgere il principio di parità sul lavoro come un cardine indiscutibile dell’ordinamento.
Peraltro, il peculiare ed originale strumento, introdotto dalla l. 125/91, è stato
l’ammissione e la regolamentazione delle azioni “collettive” in giudizio, gestite
esclusivamente dal/lla Consigliere/a di parità; azioni collettive, che, come espressamente
afferma l’art. 4 l. 125, sia nel vecchio testo sia nel nuovo riscritto dal d.lgs. 196/2000,
possono portare all’esame dell’autorità giudiziaria discriminazioni - che si assumono,
appunto collettive, plurali - di natura diretta ovvero indiretta, ossia anche laddove non si
conoscano i soggetti materialmente discriminati e dunque sul presupposto dell’esistenza
di una condizione, da verificare nel corso del processo, di discriminazione a livello
generale del “gruppo” presunto svantaggiato.
Dal 1991 con la previsione dell’azione collettiva, denominata per questo carattere anche
“pubblica”, pertanto, viene innalzato ad oggetto di tutela giuridica tale specifico interesse
qualificato di gruppo, del gruppo “svantaggiato” (diamo per scontato che si tratti delle
lavoratrici), a che venga eliminata una discriminazione, per ciò stesso denominata
collettiva. Si tratta di un passaggio fondamentale, che collega la tematica in questione alla
elaborazione della materia in ambito comunitario, dovuta – come noto - soprattutto alla
Corte di Giustizia di Lussemburgo.
Nel corso dei seminari sono state esposte nozione e problematiche della discriminazione
indiretta e quali possano esserne gli ulteriori sviluppi. Val la pena di ricordare che il senso
di questa complessiva operazione politica culturale giuridica, condotta da oltre un
trentennio, sta nella scelta (appunto, politico-culturale) di far emergere non tanto la
necessità di puntuale verifica ed eventuale repressione in giudizio della singola
discriminazione (ad esempio, la mancata assunzione in ragione dell’essere donna; il
licenziamento motivato dallo stato di gravidanza della lavoratrice), ma appunto l’interesse
di gruppo all’eguaglianza, al non disequilibrio di condizioni di lavoro tra i gruppi di
genere, cioè tra il genere maschile e quello femminile.
Ai Consiglieri di Parità, sotto questo profilo, viene assegnato un compito estremamente
rilevante, in quanto proprio il loro Ufficio viene individuato quasi come una sorta di
autorithy (questo è dato scorgere tra le righe della elaborazione legislativa, sebbene non si
sia trasfuso in “precipitato” normativo del decreto 196/2000: in tema v. la ricostruzione di
Donzelli in Riv.giur.lav. 2004, I, 611 ss.). Sta di fatto, in ogni caso, che l’Ufficio e la Rete
delle Consigliere certamente possono venire intesi quali soggetti esponenziali
dell’interesse pubblico collettivo alla parità, che non è più e solo (se mai lo è stato o
percepito) un interesse “di nicchia”, che riguarda soltanto le donne, ma va inteso come
primario interesse della società, di tutti i consociati, maschi e femmine.
Questo è il secondo vero valore fondante della impostazione legislativa.
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2. Meritano di essere approfondite le questioni più significative relative alle azioni
collettive, anch’esse contenute e regolate nell’art. 4 l. 125, come novellato dal d.lgs. 196, che
affida la legittimazione attiva per l’azione collettiva alla Consigliera Regionale ed alla
Consigliera Nazionale di parità; dunque, è esclusa la competenza delle consigliere
provinciali, titolari invece dell’eventuale delega a svolgere l’azione individuale in nome e
per conto del soggetto che assume la discriminazione.
La competenza della Consigliera Regionale e della Consigliera Nazionale è espressamente
definita dal decreto del 2000, in quanto è previsto che la seconda abbia competenza nei
casi di rilevanza nazionale: questo non sta certo ad indicare la necessità che la denunciata
discriminazione riguardi e si realizzi in tutto il territorio nazionale, bensì richiama la
possibile esistenza di discriminazioni che abbiano potenzialmente tale rilevanza nazionale.
Questo punto - è opportuno rilevarlo, seppure incidentalmente – si collega di fatto ad
un’altra significativa innovazione del d.lgs. 196/2000, che ha modificato la nozione di
discriminazione, diretta e indiretta, inserendovi quali possibili fonti di siffatte ricadute
negative non più soltanto gli atti ed i comportamenti del soggetto attivo, ma altresì i
“patti”, gli accordi discriminatori. Per esperienza diretta – quale componente all’epoca del
Collegio Istruttorio del Comitato Nazionale di parità presso il Ministero del Lavoro, posso
testimoniare che tale indicazione è stata scritta e pensata sulla scorta del lavoro
pluriennale dell‘Ufficio della Consigliera Nazionale di Parità, che ha permesso di
verificare come alcune fattispecie di discriminazione di genere possano sorgere
(chiaramente nella tipologia indiretta) dalla disciplina concreta della contrattazione
collettiva. In linea generale potrebbe anche porsi, d’altra parte, il caso di un patto
“scellerato” sottoscritto da un datore di lavoro ed un terzo soggetto, il quale ultimo
s’impegni a mettere in atto una particolare discriminazione nei confronti di alcuni specifici
tipi di lavoratori e lavoratrici di quella zona industriale, piuttosto che nei confronti di
alcune giovani donne che aspirino all’assunzione; come appunto si può dare il caso di un
“patto”, di una clausola della contrattazione collettiva che, per “disattenzione” dei
contraenti o altro, “svantaggi” in maniera particolare uno dei due generi, normalmente
quello femminile: è quanto, purtroppo, è materialmente accaduto per alcune
contrattazioni, soprattutto di tipo integrativo e decentrato, degli anni ’80 e ’90, in
particolare in tema di part-time o di trattamento di maternità.
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3. Si è detto, dunque, delle azioni collettive anche nei confronti di “patti” asseritamente
discriminatori; la disposizione del comma 7 dell’art. 4 dà anche un’altra importante
indicazione, relativamente al coinvolgimento dell’autore delle discriminazioni nel
successivo procedimento. Infatti, tale comma esplicitamente si prevede un inciso –
“qualora la discriminazione sia realizzata dal datore di lavoro” (…) -, che lascia
chiaramente intendere quindi che essa possa palesarsi opera anche di un soggetto che
tecnicamente non sia inquadrabile come il datore di lavoro (attuale o potenziale dei
lavoratori e delle lavoratrici ovvero di un gruppo di genere interessato). Ne discende un
ulteriore ampliamento dell’intervento dell’Ufficio di Parità su questo versante; esso ha
ampio spazio per la ricerca completa dei soggetti che hanno posto in essere quella ipotesi
di discriminazione collettiva, diretta talvolta, ma molto verosimilmente di tipo indiretto.
Resta la questione di come possa essere inizialmente coinvolto l’autore della
discriminazione, non necessariamente datore di lavoro.
Si apre a questo punto il discorso su un istituto peculiare, introdotto del d.lgs. 196, che
mira a realizzare un percorso assolutamente originale per giungere alla verifica della
sussistenza della discriminazione collettiva ed alla sua rimozione.
Si tratta di un procedimento che investe in maniera significativa il “ruolo” stesso della
Consigliera, in primo luogo chiamata ella medesima a verificare la sussistenza della
discriminazione collettiva, nell’ambito di una procedura precontenziosa, ossia precedente
al promovimento dell’azione in giudizio vera e propria. Essa si concreta nella richiesta al
presunto autore della discriminazione di predisporre un piano di rimozione delle
discriminazioni stesse (è qui che la disposizione fa riferimento all’eventualità possa
l’autore identificarsi con il datore di lavoro: in tal caso, quest’ultimo deve necessariamente
sentire le rappresentanze sindacali aziendali, o, in loro mancanza, le associazioni di
categoria).
Non sussiste l’obbligo di mettere in moto questo meccanismo: la Consigliera - Regionale o
Nazionale – così operando però diviene il “motore” di una soluzione ragionata, mediata,
condivisa per la risoluzione del “caso” di discriminazione. Se questo tentativo riesce, viene
redatto un verbale di conciliazione, che ottiene il “timbro” dell’esecutività tramite il
decreto del giudice del lavoro.
La procedura delineata presuppone inevitabilmente, in primo luogo, che l’Ufficio della
Consigliera di Parità abbia avuto conoscenza (attraverso un referto degli ispettori del
lavoro, una denuncia individuale, la lettura dei giornali, o altro) della eventuale esistenza
di una discriminazione (collettiva); quindi, abbia condotto una (anche solo) sommaria
istruttoria sulla questione, mediante, ad es., richiesta di documentazione, abbia operato le
sue verifiche ed utilizzato i servizi ispettivi della direzione provinciale del lavoro; in altri
termini, sia così andata a verificare cosa stia accadendo in quella data azienda, ovvero in
quel dato particolare segmento del mercato del lavoro di quella regione. Questi compiti
costituiscono con chiarezza l’Ufficio della Consigliera in guisa di autorità, specificamente
deputata ed impegnata nella salvaguardia del principio di non-discriminazione di genere.
In questo modo viene a realizzarsi per la Consigliera anche un ruolo attivo di mediazione,
di sollecitazione, di stimolo alla rimozione della discriminazione e, come detto ed è logico
che accada, anche di vero e proprio accertamento di essa.
L’organismo di parità, dunque, diventa soggetto pienamente attivo, protagonista
principale per la soluzione del “problema” di genere che presume essersi verificato;
assume, quindi, a tutto tondo il ruolo di “parte pubblica”, esplicitamente motivata nella
ricerca della rimozione della discriminazione.
E’ evidente, infatti, che la convocazione di molteplici soggetti presso l’Ufficio, la
segnalazione all’autore della discriminazione della necessità di apprestamento del piano,
in quanto talune situazioni di fatto confliggono con la parità di trattamento (ad es., il
mancato riconoscimento alle lavoratrici in maternità del premio di produzione perché
assenti per sei mesi dal lavoro o a causa dell’utilizzo dei congedi sulla base di una
disposizione del contratto decentrato che ne preveda l’erogazione solo in caso di presenza
al lavoro), consentono la massima esplicazione dell’impegno “inquisitorio” e quindi
mediatorio dell’Ufficio di parità.
Ne risulta allora che il complessivo ruolo della Consigliera diventa per molti aspetti
(ribadisco la tesi già espressa in Nuove leggi civ. comm. 2003, 757 ss.) “duplice”, in qualche
misura anche “ambiguo”, riguardo al successivo eventuale passaggio alla fase vera e
propria dell’azione in giudizio, allorché il tentativo pregiudiziale non sia riuscito: e occorre
francamente e realisticamente osservare essere certo possibile che esso non riesca, giacché
allo stato non può dirsi che esistano le condizioni per la piena e forte “legittimazione
sociale” degli Uffici di parità, che ne facciano indiscutibilmente il riconosciuto “baluardo”
istituzionale contro ogni problematica discriminatoria di genere, ovverosia rendano essi
accettati socialmente e quindi seguiti nelle indicazioni.
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4. Se, dunque, il tentativo di soluzione extragiudiziale non riesce, la Consigliera di parità
(Regionale o Nazionale), ai sensi del successivo comma 8 del nuovo art. 4 l. 125/91, può
decidere di rivolgersi al giudice del lavoro; quindi, dall’esaminato peculiare ruolo di
mediazione e sollecitazione, dal ruolo di soggetto “pubblico” impegnato a realizzare
l’interesse generale alla parità di genere, attraverso il coinvolgimento di tutti i soggetti
“attori” (principali o secondari) della discriminazione e del progetto di superamento di
essa, diviene soggetto attivo del ricorso giudiziale, si tramuta in “parte” del procedimento
davanti all’autorità giudiziaria, che anch’esso ha caratteristiche assolutamente originali nel
nostro ordinamento processual-civilistico.
Va precisato, per quanto riguarda gli aspetti della tutela processuale della parità di genere,
che l’azione individuale contro la discriminazione altro non è che un’azione di nullità: ad
es. del licenziamento intervenuto per la sola “qualità” femminile della lavoratrice. Con
l’azione collettiva non si tende, al contrario, in via principale, alla eliminazione di un
provvedimento sbagliato, illegittimo secondo le regole dell’ordinamento giuslavoristico,
bensì si mira principalmente a realizzare un risultato analogo a quello auspicato
dall’attività mediatoria, che eventualmente, ai sensi del comma 7 prima esaminato, abbia
messo in moto la Consigliera, cioè la rimozione della discriminazione attraverso un piano
studiato ed integrato “a tavolino”. E’ evidente, peraltro, che i due aspetti in molte ipotesi
siano concorrenti e, quindi, che venga perseguita sia la tutela ripristinatoria (di “nullità”
della condotta) dei diritti di singoli sia il superamento per il futuro della condizione di
“svantaggio” e “disagio”, di discriminazione collettiva di tipo indiretto.
La domanda peculiare in giudizio della Consigliera sarà rappresentata necessariamente
soprattutto da questa seconda prospettiva e la conclusione positiva del giudizio (prevista
dal comma 9 dell’art. 4, come modificato dal d.lgs. 196/2000) risiede appunto nell’ordine
da parte del giudice all’autore della discriminazione di definire tale piano di rimozione
delle accertate discriminazioni. Ora, la Consigliera, che agisce in giudizio attraverso
l’ufficio legale di cui si vorrà avvalere (e non è un caso che molte consigliere siano anche
avvocate), già nella struttura, sin dalla narrativa dell’atto giudiziale, e quindi delle
conclusioni presentate al giudice, verosimilmente indicherà al Tribunale competente
alcune delle soluzioni che nella operazione accertativo-conciliativa precedente aveva già
sottoposto senza successo all’autore della discriminazione ed agli altri soggetti interessati
nella specifica vicenda. E’ agevole comprendere che anche in queste ipotesi di valutazione
giudiziale della discriminazione collettiva il ruolo dell’organismo di parità è estremamente
rilevante, perché ha l’onere di portare argomenti ed ipotesi solutive al giudice (il giudice
del lavoro del tribunale civile, oppure il tribunale amministrativo regionale per la
questioni attinenti al pubblico impiego non contrattualizzato), il quale farà in ogni caso le
indagini opportune, ma sarà fondamentalmente sollecitato attraverso le deduzioni fornite
dall’attore in giudizio, cioè dalla Consigliera che ha deciso di utilizzare il procedimento
giurisdizionale per risolvere positivamente il caso discriminatorio.
Di conseguenza risulta di grande significato interpretare il comma 9 dell’art 4 come
legittimante la chiamata in giudizio anche dell’autore delle discriminazioni, che non
corrisponda al datore (attuale o potenziale) di lavoro: ritengo, infatti, plausibile in
determinati casi azionare il ricorso avverso la discriminazione collettiva, non soltanto
contro il singolo datore di lavoro, a cui in concreto imputare nei confronti dei rapporti di
lavoro dei singoli lavoratori e lavoratrici le conclusioni raggiunte sull’esistenza della
discriminazione, ma appunto anche l’autore/non-datore di lavoro delle discriminazioni.
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5. Altra innovazione di notevole importanza riguarda il contenuto della sentenza, giacché
si prevede che il giudice – attraverso anche le puntuali sollecitazioni ricevute - fissa i criteri
“anche temporali” da osservarsi ai fini della definizione dell’attuazione del piano. Questa
significativa novità indica – là dove la disposizione parla di criteri “anche” temporali –
l’ammissibilità di criteri “non solo” temporali, ovvero di criteri di merito, al fine di
realizzare l’effettiva configurazione di un concreto piano di rimozione.
Siffatta azione collettiva, come detto, non è una ordinaria azione di nullità; pertanto, la
rimozione delle discriminazioni non si esaurirà nella sola eliminazione del contenuto
negativo di atti, comportamenti o patti discriminatori, ma normalmente avrà anche un
contenuto di tipo acquisitivo, positivo: un facere che sia utile a perseguire un migliore
riequilibrio della condizione di genere. E questo è – sono convinto - alla fine il risultato più
consistente rintracciabile nella costruzione del diritto antidiscriminatorio giudiziale
italiano, perché la fissazione di questi principi in una legge dello Stato è, dovrebbe essere,
tendenzialmente in grado di creare un circuito virtuoso innanzitutto di conoscenza ed
inoltre di “buone pratiche”, sia a livello di “società civile”, di datori di lavoro ed operatori
del mercato del lavoro, sia a livello di utilizzazione da parte delle Consigliere di Parità di
questo strumento, sebbene non necessariamente in via giudiziale, ma più qualificatamente
in via mediatorio-conciliativa.
In modo tale che – “la goccia scavando la roccia” - l’approssimazione consapevole al tema
potrebbe divenire veicolo dell’acquisizione più ampia nella società dei principi di parità ed
eguaglianza sottesi alla questione di genere.
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6. Per finire in argomento va anche osservato che questa conclusione processuale originale
e specificamente “tarata” sulla discriminazione collettiva viene prevista anche dal
successivo comma 10 dell’art. 4 d.lgs. 196/2000, nell’apposita procedura introdotta in via
d’urgenza a cognizione sostanzialmente sommaria, modellata sul prototipo dell’art. 28
dello Statuto dei Lavoratori per la repressione della condotta antisindacale.
Il procedimento in questione deve teoricamente esaurirsi in pochi giorni, o al massimo in
qualche settimana, e si conclude analogamente - sebbene il giudice non decida con
sentenza ma con decreto - con l’ordine di cessare il comportamento pregiudizievole e
discriminatorio e di adottare ogni altro provvedimento idoneo a “rimuovere gli effetti”
delle discriminazioni accertate, secondo la formula generale indicata dall’art. 28 St.lav.
In questo caso la rimozione della discriminazione consisterà praticamente nella iniziale (e
verosimilmente incompleta) costruzione del piano di rimozione della discriminazione
collettiva accertata in via d’urgenza e sommaria, cui dovrà seguire l’accertamento pieno
nel giudizio di merito e la definizione dettagliata del piano.
Lo strumento, a mio avviso, molto verosimilmente è stato introdotto anche per simmetria
di sistema, in quanto pure per l’azione individuale contro le discriminazioni di genere (già
introdotta ai sensi della legge 903/77) era ed è previsto un particolare procedimento
d’urgenza ora esteso (dal comma 13 dell’art. 4, come modificato dall’art. 8 d.lgs. 196/2000)
a tutti gli aspetti del rapporto di lavoro. E’ da osservare che, qualora si generalizzasse una
prassi giudiziale volta alla procedura d’urgenza, è ovvio che l’azione ordinaria ai sensi del
comma 8 sarebbe utilizzata molto poco, in quanto si mostra del tutto evidente che il primo
rapido intervento del decreto del giudice potrebbe già palesarsi idoneo ad innescare una
soluzione – eventualmente anche concertata per i necessari dettagli - della vicenda
“discriminatoria”.
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7. Concludo con un ultimo accenno relativo ad un aspetto altrettanto importante di quello
esaminato della repressione giudiziale delle discriminazioni. Quello che si potrebbe
chiamare il versante della “prevenzione”, ma che in effetti prevenzione non è, ossia delle
cd. azioni positive, introdotte per le questioni di genere dalla l. 125 e potenziate (anche a
livello di finanziamento) dall’intervento del 2000. E’ indiscutibile che il momento della
“repressione”, dell’accertamento in giudizio della discriminazione, è un momento
estremamente importante.
Tuttavia, se esso – per le cose evidenziate all’inizio –, nella stagione della modifica non
solo a livello nazionale, ma a livello continentale, dei tratti tipici, tradizionali del diritto del
lavoro, impostato alla tutela, alla garanzia delle posizioni soggettive dei lavoratori, si pone
a mio avviso quale “scudo”, baluardo insostituibile a tutela della persona che lavora e
della sua “dignità”, l’intervento dello strumento delle azioni positive, di “rimozione degli
ostacoli”, come recita l’art. 1 l. 125/91, che “impediscono di fatto la realizzazione di pari
opportunità”, ha un valore politico e culturale decisamente più esteso e può rappresentare
l’inizio di percorsi di “eguagliamento” di genere che la sola repressione delle
discriminazioni (pure essenziale veicolo di “parità”) non è in grado di assicurare come
acquisizione diffusa e condivisa.