RASSEGNA STAMPA martedì 16 dicembre 2014 L`ARCI SUI MEDIA
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RASSEGNA STAMPA martedì 16 dicembre 2014 L`ARCI SUI MEDIA
RASSEGNA STAMPA martedì 16 dicembre 2014 L’ARCI SUI MEDIA INTERESSE ASSOCIAZIONE ESTERI INTERNI LEGALITA’DEMOCRATICA RAZZISMO E IMMIGRAZIONE SOCIETA’ BENI COMUNI/AMBIENTE INFORMAZIONE CULTURA E SCUOLA ECONOMIA E LAVORO CORRIERE DELLA SERA LA REPUBBLICA LA STAMPA IL SOLE 24 ORE IL MESSAGGERO IL MANIFESTO AVVENIRE IL FATTO PANORAMA L’ESPRESSO VITA LEFT IL SALVAGENTE INTERNAZIONALE L’ARCI SUI MEDIA Da Redattore Sociale del 15/12/14 "Un’altra difesa è possibile". Raccolta firme per una legge di iniziativa popolare Presentata oggi a Roma la campagna per sostenere una “difesa civile non armata e nonviolenta”. Il testo prevede l’istituzione di un Dipartimento ad hoc sostenuto da un fondo di 100 milioni. Valpiana:“Vogliamo riappropriarci dell’idea di difesa, in Italia delegata alla struttura militare” ROMA - Riconoscere a livello istituzionale una forma di difesa alternativa a quella militare denominata “Difesa civile non armata e nonviolenta”. È questa la sfida lanciata da sei reti di associazioni nazionali (Rete della pace, Rete italiana per il disarmo, Sbilanciamoci!, Tavolo degli interventi civili di Pace, Cnesc e Forum nazionale per il servizio civile) questa mattina a Roma, nella sede del Centro servizi per il volontariato del Lazio (Cesv) con la presentazione della campagna “Un’altra difesa è possibile”. Obiettivo dell’iniziativa quello di raccogliere, entro la fine di maggio, le 50 mila firme necessarie per sostenere una legge di iniziativa popolare per la difesa civile, non armata e nonviolenta. “Contiamo di averne il doppio per la scadenza del 23 maggio – spiega Mao Valpiana, presidente del Movimento Nonviolento e coordinatore della campagna -, per poi consegnare i moduli e annunciare la conclusione di questa prima fase della campagna il 2 giugno del 2015, il giorno della festa della Repubblica disarmata”. La proposta di legge, spiegano i promotori della campagna, prevede l’istituzione di un Dipartimento che comprenda i Corpi civili di pace e l’Istituto di ricerche sulla Pace e il disarmo e che abbia forme di collaborazione con il Dipartimento della Protezione civile, quello dei Vigili del fuoco, col Dipartimento della gioventù e del Servizio civile nazionale. Tuttavia, spiega Valpiana, la proposta di legge è solo uno degli strumenti della campagna che nei prossimi sei mesi arriverà in tutta Italia. “La campagna ha ambizioni più ampie della semplice raccolta firme e avvio dell’iter parlamentare – spiega Valpiana -. Gli obiettivi sono tre: uno politico, per aprire una seria discussione sul concetto di difesa per riappropriarci di un’idea fondamentale nella storia della non violenza e che in Italia è stata delegata esclusivamente alla struttura militare”. L’obiettivo “giuridico”, spiega Valpiana, è quello di portare in Parlamento la legge di iniziativa popolare. Poi c’è un “obiettivo culturale” che per Valpiana per la priva molta vede insieme sei reti di associazioni su una campagna comune, dal mondo del disarmo a quello della non violenza, dal pacifismo al volontariato e al servizio civile. Al nuovo Dipartimento, spiega il testo della proposta di legge, il compito di “difendere la Costituzione, affermando i diritti civili e sociali in essa enunciati”, ma anche quello di proporre piani per la difesa civile non armata e nonviolenta e coordinare la loro attuazione, svolgere attività di ricerca per la pace e il disarmo, favorire la prevenzione dei conflitti armati e contrastare le situazioni di degrado sociale, culturale ed ambientale. Tutto questo senza costi aggiuntivi per le casse dello stato. “Con l’istituzione del Dipartimento non si spende un euro in più – precisa Valpiana -, ma chiediamo uno spostamento di risorse dalla difesa armata a quella civile e poi saranno i cittadini, con l’opzione del 6 per mille a poter scegliere nella dichiarazione dei redditi per sostenere le iniziative concrete del Dipartimento”. Per il funzionamento della nuova struttura, infatti, il testo della proposta 2 prevede l’istituzione di un “fondo nazionale per la Difesa civile non armata e nonviolenta” con una dotazione annua iniziale pari a 100 milioni di euro per l’anno 2015, “di cui non oltre il 10 per cento per le spese di funzionamento”. Un fondo che potrebbe partire inizialmente risparmiando sull’acquisto di nuovi sistemi d’arma e che per gli anni successivi possa essere alimentato dagli stessi cittadini che decideranno di destinare il sei per mille dell’Irpef a sostegno dell’iniziativa. Per Francesco Vignarca, coordinatore della Rete disarmo, quella avanzata oggi dalle sei reti di associazioni si tratta di una proposta “concreta” che mira a lasciare il segno a livello istituzionale. “Sappiamo che una proposta di questo tipo può essere complicata da capire, difficile o farraginosa – ha spiegato Vignarca -. Non ci vuole nulla a fare una petizione online e raggiungere 100 mila firme, mentre la dimensione istituzionale è fondamentale se vogliamo costruire qualcosa di concreto così come è stato in passato per l’obiezione di coscienza e del servizio civile”. Per Franco Uda (Arci), la proposta di legge è un’occasione per riaprire un dibattito all’interno del mondo delle associazioni. “Siamo stufi di fare le anime belle della società – ha affermato Uda -. Oggi non ci basta solo la consapevolezza che un altro mondo è possibile ma dobbiamo anche declinarlo. L’idea che un’altra difesa è possibile è uno dei modi un cui decliniamo quest’altro mondo”. Da Repubblica.it del 15/12/14 Un'altra difesa è possibile: una legge di iniziativa popolare per un servizio civile non armato La Campagna "Un'altra Difesa è possibile" punta a raccogliere almeno 50mila firme entro la fine di maggio. L'obiettivo dei promotori è quello di dare piena attuazione all'art. 52 della Costituzione (sacro dovere della difesa della patria) istituendo forme di Difesa civile e non violenta in coerenza con l'art. 11 (ripudio della guerra) ROMA - Con la giornata nazionale di raccolta firme del 10 dicembre - Giornata mondiale dei Diritti Umani - si è formalmente aperta la Campagna "Un'altra Difesa è possibile", che punta a raccogliere almeno 50mila firme entro la fine di maggio per una proposta di legge di iniziativa popolare dal titolo 'Istituzione e modalità di finanziamento del Dipartimento della Difesa civile, non armata e nonviolenta'. L'obiettivo dei promotori è quello di dare finalmente piena attuazione all'art. 52 della Costituzione (sacro dovere della difesa della patria) istituendo forme di Difesa civile e nonviolenta in coerenza con l'art. 11 (ripudio della guerra). I Corpi civili di pace. In concreto, la proposta di legge che i cittadini potranno sottoscrivere prevede di istituire un dipartimento che comprenda i Corpi civili di pace e l'Istituto di ricerche sulla Pace e il disarmo e che abbia forme di collaborazione con il dipartimento della Protezione civile, quello dei Vigili del fuoco e col Dipartimento della Gioventù e del Servizio Civile Nazionale. Il finanziamento della nuova Difesa civile sarebbe garantito, oltre che dallo spostamento di risorse dalla spesa militare, sostanzialmente rimasta immutata nonostante la crisi, anche dalla possibilità per i contribuenti di destinare a questo scopo il 6xmille dell'imposta sul reddito delle persone fisiche. 3 http://www.repubblica.it/solidarieta/dirittiumani/2014/12/15/news/un_altra_difesa_possibile-102957392/ Da Avvenire del 16/12/14, pag. 14 “Difesa civile non armata, sì alla legge” La mobilitazione Terzo settore e associazioni non violente: 50mila firme per una proposta di iniziativa popolare Luca Liverani C è l'articolo 52 della Costituzione che assegna ai cittadini - tutti – il sacro dovere di difendere la patria. E l'articolo 11 che stabilisce il ripudio della guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali. Di fatto però tutto è affidato ai militari. Ma «Un'altra difesa è possibile», dicono le associazioni del Terzo settore e del pacifìsmo. Che lanciano la raccolta di 50mila firme per sostenere una proposta di legge di iniziativa popolare su «Istituzione e modalità di finanziamento del Dipartimento della Difesa civile, non armata e non violenta». Già nel 2013 la legge di stabilità aveva stanziato 9 milioni per il triennio per la sperimentazione con 500 volontari di Corpi civili di pace. Iniziativa al palo, denuncia Giulio Marcon di Sel. La proposta popolare prevede l'istituzione di un Dipartimento, presso la Presidenza del Consiglio, che comprenda la sperimentazione dei Corpi civili di pace, l'Istituto di ricerche su pace e disarmo e forme di collaborazione con i dipartimenti di Protezione civile, Gioventù e servizio civile e coi Vigili del fuoco. Per l'avvio, 100 milioni spostati dal bilancio delle spese militari, «sostanzialmente immutate nonostante la crisi. » Poi la scelta del 6 per mille dell'imposta sul reddito delle persone fisiche. Promotori: Cnesc, Forum servizio civile, Rete della Pace, Rete italiana disarmo, Sbilanciamoci!, Tavolo interventi civili di pace. Mao Valpiana del Movimento nonvioìento spiega che «il termine della campagna sostenuta da più dì 200 associazioni sarà il prossimo 2 giugno, festa della Repubblica disarmata. "Difesa civile non armata" è una definizione accettata dalla giurisprudenza, in pronunciamenti della Cassazione e della Corte costituzionale». Sulla mancata sperimentazione dei Corpi civili di pace Marcon, in un'interrogazione (sottoscritta anche da Pd, M5S e Misto), chiede al governo perché «a quasi un anno dallo stanziamento di 9 milioni non sono stati emanati i provvedimenti attuativi ». Per il sottosegretario Luigi Bobba «manca il concerto col ministero degli Esteri». «Vogliamo far emergere - dice Francesco Vignarca di rete Disarmo - le azioni di milioni di volontari e le pratiche nonviolente delle battaglie di Ghandi, Martin Luther King, Mandela. I milioni spesi per soluzioni militari dei conflitti non hanno risolto nulla». E cita il sondaggio 2013 dell'Osservatorio politico del Centro studi elettorali: «II 26% degli italiani è "abbastanza" d'accordo sulla riduzione di spese militari come gli F35, il 56% "molto"». Riccardo Troisi del Tavolo interventi di pace ricorda che in legge di stabilità 200 milioni sono per le periferie. «Ma 50 non vadano in cementificazione,ma per il "rammendo" del tessuto sociale: a Tor Sapienza l'abbandono scolastico è al 60%, la disoccupazione giovanile all'82%». Info:difesacivilenonviolenta.org. 4 Da Huffington Post del 15/12/14 Michele Dantini Docente universitario, critico e storico dell'arte, scrittore Start up culturali. Come tenere insieme innovazione sociale e ricerca umanistica Pubblichiamo qui di seguito l'intervento che Michele Dantini ha tenuto a "St(r)ati della cultura", convegno promosso da Ucca|Arci e dedicato ai temi dell'innovazione culturale, delle industrie creative e dell'occupazione giovanile (Ferrara, 11-13 dicembre 2014). Info qui. Proprio in questi giorni David Folkerts-Landau, capo economista di Deutsche Bank, ha ammesso che "per tenere unita l'eurozona abbiamo sacrificato un'intera generazione". Nella sua durezza, per niente attenuata dal proposito di sincerità, l'affermazione si commenta da sola. In tutta Europa, e particolarmente nei paesi dell'Europa mediterranea, l'emergenza occupazionale si intreccia oggi con la questione generazionale in una misura che non ha precedenti nel dopoguerra. Per chi ha meno di quarant'anni la difficoltà di trovare un lavoro dignitoso, corrispondente agli studi fatti e alle aspettative maturate, si rivela spietatamente difficile. Come assicurare maggiore occupazione in settori a elevata specializzazione come le industrie culturali e creative? Questa è una buona domanda se cerchiamo di capire quali possano essere le migliori politiche educative e di sviluppo. Discutiamo spesso di "innovazione", talvolta in modo confuso o vagamente messianico. Ma davvero l'"innovazione", meglio se dirompente, risolverà tutti i nostri problemi? Vediamo di stabilire alcuni capisaldi. In primo luogo. Non è chiaro cosa intendiamo per innovazione culturale. Per taluni, interessati a indagare i processi psicobiologici che stanno dietro alla grande creatività, "innovazione culturale" è sinonimo di "innovazione cognitiva", cioè di intuizione e scoperta - i "momenti Eureka" di cui parlano gli scienziati. Per altri invece, più attenti alla dimensione socioeconomica, "innovazione culturale" significa "innovazione sociale in ambito culturale". Ci riferiamo in questo caso alle piccole o piccolissime imprese (o start up) attive nel settore culturale e ai mutamenti (che la transizione digitale, ma non solo, introduce) nel consumo, nella circolazione e nella trasmissione di contenuti culturali. I due punti di vista (psicologico e socioeconomico) sono molto diversi, e non necessariamente collegati tra loro. In secondo luogo circola un equivoco dannoso: meglio fugarlo. L'impresa culturale non è di per sé culturalmente innovativa. Al contrario. Al pari di una qualsiasi altra impresa, può mancare di risorse materiali e immateriali e ignorare del tutto l'innovazione di prodotto (o di servizio). Accade nell'ambito delle imprese culturali che si occupano di servizi al patrimonio: costituiscono non di rado un opaco sottobosco di microrendita e relazione. In generale: l'impresa culturale soffre per lo più dei limiti (di capitale umano, economico e sociale) di cui soffrono le piccole e piccolissime imprese italiane. A queste condizioni è impensabile investire in ricerca e sviluppo: l'impresa è sì "culturale", ma i "contenuti" non sono per niente innovativi. Come agganciare innovazione sociale e innovazione cognitiva (o mondo della ricerca istituzionale nelle sue componenti virtuose)? Questa è una seconda buona domanda. I due mondi in Italia sono socialmente separati: la difficoltà di costruire ponti non è dunque trascurabile. È tuttavia importante che ricercatori universitari e early careers (provenienti in primo luogo dalle scienze umane e sociali) siano spinti a partecipare attivamente alla costruzione di nuove comunità culturali e alla qualificazione del terzo settore. Ed è non meno importante, per la maturità civile di noi tutti, che le agenzie formative, in primo luogo 5 scuola, università e media, possano confrontarsi produttivamente con i movimenti per rinnovare agende di ricerca e criteri di valutazione. In un mondo perfetto, dunque molto lontano da qui, autoimprenditorialità e formazione permanente compongono le due parti di un intero. Si è osservato che i vertici accademici italiani si comportano spesso come apparati di partito: chiudono l'università al suo interno cingendola di mura impenetrabili, ancorché immaginarie. E che dire di una buona parte della dirigenza di tv e giornali mainstream? Ripetizione dell'identico e vincoli di fedeltà vincono di gran lunga sulla curiosità o l'indagine. Dobbiamo senz'altro proporci di combattere questo atteggiamento sterile, che allontana e depaupera; e sfidare istituzioni senescenti sul piano di un civismo radicale. Immaginiamo dunque nuove istituzioni educative, scientifiche e giornalistiche. O meglio impegniamoci concretamente, nell'azione quotidiana, nella ricerca, nella comunicazione, per pretendere che le istituzioni esistenti si aprano in modo durevole alle "minoranze vitali" e alle energie più innovative del paese. http://www.huffingtonpost.it/michele-dantini/start-up-culturali-innovazione-sociale-ricercaumanistica_b_6323050.html?utm_hp_ref=italy Da Radio Articolo 1 del 15/12/14 Work rigth, 100 posters per il diritto al lavoro Strati della cultura Con A. Cannata, Arci Firenze; C. Testini, Arci Ellecult 15/12/2014 - ( 12,39 MB) - See more at: http://www.radioarticolo1.it/audio/2014/12/15/22644/tesseramento-anpi-ilsegno-della-continuita-interviene-luciano-guerzoni-anpi#sthash.ISfR1IMO.dpuf Da Redattore Sociale del 15/12/14 "In nome del popolo inquinato", subito i delitti ambientali nel codice penale Mai più Terra dei fuochi, Marghera, vicenda eternit, ecc... Un cartello di 25 associazioni, promosso da Legambiente e Libera, lancia l’appello per approvare il ddl contro la criminalità ambientale fermo al Senato ROMA - Mai più disastri ambientali impuniti. Terra dei fuochi, Marghera, Taranto, Gela, Eternit, Valle del Sacco, Quirra: l’Italia non può più attendere. "Con l’inserimento nel Codice penale dei delitti ambientali, in primis quelli di inquinamento e disastro, sarà possibile aiutare magistratura e forze dell'ordine ad assicurare alla giustizia i colpevoli di gravi reati ecologici e mettere un freno alle lucrose e - ad ora sostanzialmente impunite attività dell’ecomafia e della criminalità ambientale". Ad affermarlo è una nota con cui un cartello di 25 sigle (tra associazioni di cittadini, di studenti, di categoria e comitati), promosso da Legambiente e Libera, lancia l’appello al Senato indirizzato al presidente Pietro Grasso e ai presidenti delle Commissioni Giustizia e Ambiente, Nitto Palma e Marinello, per una rapida approvazione del disegno di legge sui reati ambientali nel Codice penale, "per mettere finalmente un freno - si sottolinea - a un’attività criminale che con 30 mila reati accertati all’anno oggi frutta a chi delinque oltre 16 miliardi di euro, a danno della sicurezza e della salute di tutti i cittadini e dell’economia sana". 6 "Oggi, infatti, chi ruba una mela al supermercato può essere arrestato in flagranza perché commette un delitto, quello di furto, mentre chi inquina l’'ambiente no, visto che nella peggiore delle ipotesi si rende responsabile di reati di natura contravvenzionale, risolvibili pagando un’ammenda quando non vanno, come capita molto spesso, in prescrizione continuano le associazioni -. Non esistono nel nostro Codice penale, infatti, né il delitto di inquinamento, né tantomeno quello di disastro ambientale. Uno squilibrio di sanzione anacronistico, insostenibile e a danno dell’intero Paese, che garantisce spesso l’impunità totale agli ecocriminali e agli ecomafiosi". "Oggi, finalmente, possiamo dare una svolta a questa situazione: nel febbraio 2014, infatti, la Camera dei deputati ha approvato a larghissima maggioranza un disegno di legge che inserisce 4 delitti ambientali nel nostro Codice penale: inquinamento e disastro ambientale, trasporto e abbandono di materiale radioattivo e impedimento al controllo. Il testo, però, è inspiegabilmente fermo da mesi al Senato, per alcuni limiti tecnici che sarebbero facilmente superabili con poche modifiche". "Approvarlo prima possibile rappresenterebbe, invece, una pietra miliare nella lotta alla criminalità ambientale - concludono i firmatari dell'appello -, garantendo una tutela penale dell’ambiente degna di questo nome e, soprattutto, assicurando strumenti investigativi fondamentali per le forze dell’ordine e la magistratura". “Serve un ultimo sforzo, perché non c’è più tempo da perdere. In nome di quel popolo inquinato che attende da troppo tempo giustizia, è giunto il momento che ciascuno si assuma le proprie responsabilità davanti al Paese”. Ecco alcuni dei firmatari dell'appello: Vittorio Cogliati Dezza (Legambiente), Luigi Ciotti (Libera), Vincenzo Vizioli (Aiab), Francesca Chiavacci (Arci), Dino Scanavino (Confederazione italiana agricoltori), Roberto Moncalvo (Coldiretti), Andrea Carandini (Fai), Giuseppe Onufrio (Greenpeace Italia), Roberto Romizi (Medici per l’ambiente), Piergiorgio Duca (Medicina Democratica), Franco Iseppi (Touring Club Italiano), Donatella Bianchi (Wwf Italia), ecc... L’appello si può firmare su Change.org o sul sito riparteilfuturo.it 7 ESTERI Del 16/12/2014, pag. 19 Kerry-Netanyahu, braccio di ferro sul veto Onu VINCENZO NIGRO ROMA . Nel corteo di auto che scortava ieri John Kerry a Roma c’era anche un’ambulanza. Qualcuno da Villa Taverna ha pensato che gli infermieri sarebbero stati utili al culmine delle tre ore di discussione, quando il Segretario di Stato Usa ha detto in faccia al premier di Israele che il mondo e anche l’America stanno cambiando, «uno Stato palestinese è inevitabile e necessario, e voi dovete lavorare per questo ». Nella residenza dell’ambasciatore americano in Italia Kerry aveva convocato il premier di Israele per un’emergenza diplomatica che è esplosa negli ultimi giorni. I palestinesi hanno presentato all’Onu un progetto di risoluzione del Consiglio di Sicurezza che prevede che entro 2 anni, dopo negoziati, Israele ritorni nei confini del 1967 e permetta la nascita di uno stato palestinese. Assieme a questa proposta di risoluzione, la Francia ne ha presentata una seconda assieme a Gran Bretagna e Germania che propone la stessa cosa, utilizzando toni meno militanti. Il premier israeliano ha chiesto che, come hanno sempre fatto in passato, gli Stati Uniti difendano le posizioni politiche di Israele usando il loro veto: «Ho chiesto al segretario Kerry di bloccare ogni tentativo di imposizione contro di noi». Per la prima volta però Washington non garantisce un veto a scatola chiusa: nel colloquio romano Kerry non ha assicurato a Netanyahu che gli Usa utilizzeranno il loro diritto di veto per bloccare entrambi le risoluzioni, e che anzi stanno già lavorando per modificare quella europea, e che a talune condizioni potrebbero anche votarla. Un diplomatico che viaggiava con Netanyahu ha detto che «negli ultimi 47 anni gli Stati Uniti hanno sempre bloccato le mosse unilaterali che potessero imporre a Israele di accettare uno stato palestinese entro una certa data, e noi siamo sicuro che lo faranno anche questa volta». Il problema è che questa volta dopo 47 anni lo scenario è cambiato, come secondo un diplomatico europeo Kerry ha spiegato ieri pomeriggio a Netanyahu: innanzitutto c’è la risoluzione europea, proposta da Francia, Gran Bretagna e Germania che porta un peso diverso alla richiesta di creare uno Stato palestinese. «Soprattutto dopo la guerra di Gaza l’Europa ha capito che si deve fare pressioni su Israele», commenta un diplomatico italiano, «e questo mette pressione anche sugli Usa». Poi — quello che Kerry ha obiettato a Netanyahu — c’è il fatto che entrambi le risoluzioni chiedono che Israele e palestinesi arrivino a un accordo con un negoziato, non con una imposizione. Impongono soltanto 24 mesi di tempo. Incontrando Matteo Renzi a Palazzo Chigi Netanyahu ha ripetuto che «noi non accetteremo i tentativi di imporci misure unilaterali proprio nel momento in cui il terrorismo islamico sta dilagando in tutta la regione». Ma anche questo collegamento con il terrorismo è stato ribaltato da Kerry: se continuate con l’occupazione dei Territori il terrorismo troverà nuovi adepti, nuove praterie in cui esercitarsi. Per Israele il problema è che i palestinesi stanno trovando alleati importanti (e moderati) attorno alla loro proposta diplomatica: ieri sera, dopo la tappa a Roma, Kerry è volato a Parigi per incontrare i ministri degli Esteri di Francia, Germania e Gran Bretagna: l’americano ha chiesto di sospendere per alcuni giorni la procedura per arrivare a un voto all’Onu a New York. Ma la macchina è in movimento. 8 Del 16/12/2014, pag. 1-2 La strategia jihadista della paura globale per non farci sentire mai più al sicuro VITTORIO ZUCCONI WASHINGTON NON servono più grandi aerei carichi di innocenti passeggeri usati come missili contro i grattaceli: oggi bastano un uomo solo, una bandiera nera, una famosa marca di cioccolatini a Sydney per far tremare il mondo. La proiezione del terrore che si diffonde ovunque, e istantaneamente, grazie a Internet è l’ultima arma nella guerra asimmetrica che il fanatismo combatte e vince, grazie alla nostra capacità di ingigantirne la minaccia. L’agguato di Sydney in una caffetteria che ironicamente augurava «Merry Christmas », buon Natale, dalla vetrina ai clienti prigionieri di un fanatico, in una città simbolo di una nazione che pure vanta soluzioni drastiche contro l’immigrazione irregolare e l’infiltrazione, è soltanto l’ultimo esempio della nuova strategia del terrore autoinflitto che l’Occidente tremebondo subisce. Inutile progettare ed eseguire azioni mostruosamente spettacolari su larga scala, come il massacro della Torri Gemelle, le bombe sui treni spagnoli o nelle ambasciate. Qualsiasi gesto che esponga una bandiera nera con i versetti della «Shahada», la professione di fede musulmana («Allah è l’unico Dio e Maometto è il suo profeta ») sarà vista come il tentacolo della piovra jihadista che sta avvolgendo il mondo e che può colpire ovunque: nel bar sotto casa, mentre andiamo al lavoro o siamo in vacanza. Non è così, avvertono le forze di sicurezza e gli studiosi del terrorismo fondamentalista, e non ci sono prove di legami operativi fra i tagliagole del Califfato o la galassia di Al Qaeda e la caffetteria di Sydney, gli omicidi di Ottawa, la decapitazione di una donna in Oklahoma uccisa da un collega convertito all’Islam e neppure con gli sciagurati fratelli Tsarnaev che un anno fa insanguinarono la Maratona di Boston. Siamo noi, ovunque ci troviamo nel mondo, nei nostri riflessi condizionati dalla paura che dorme sotto la pelle, a stabilire i collegamenti. Oltre la guerriglia classica, il «mordi e fuggi» delle guerre asimmetriche fra nemici di forze troppo impari, gli agguati nelle giungle, i colpi del terrorismo urbano, la strategia del terrore affida, senza spese, senza rischi di cattura o di rappresaglia, alle fantasie surriscaldate di chi colpisce e al panico di chi subisce il contraccolpo psicologico, il bandolo della vittoria. «Non venite più in Iraq, in Afghanistan, o in Siria — aveva predicato Anwar al-Awlaki, americano divenuto islamista radicale in Yemen — restate dove siete e colpite il nemico dove vive». Al-Awlkaki, ucciso in un raid anti Al Quaeda in Yemen, sapeva bene di che parlava, conosceva i rischi dell’organizzazione terroristica e, da americano, sapeva quanto grande fosse la disponibilità dell’opinione pubblica occidentale al panico. La guerra per branchi, che era culminata nell’attacco a Manhattan e aveva richiesto la partecipazione di dozzine di corrieri, finanziatori, pianificatori ed esecutori suicidi, ha lasciato posto alle operazioni di lupi solitari che non appartengono realmente a nessun branco, ma scatenano nell’obiettivo, nell’opinione pubblica, la reazione voluta. Alla fine dell’estate Abu Mohammad al-Adnani, considerato una sorta di “portavoce” dell’Is, aveva teorizzato il nuovo mondo della guerra per morsi invitando aderenti, simpatizzati, compagni di strada, fedeli a «uccidere ovunque si trovino, chiunque trovino», come capita. Ogni atto di terrore, dettato spesso soltanto da disturbi mentali che con un progetto veramente coerente nulla hanno a che fare, vengono appropriati e venduti come cellule di una metastasi islamista ormai inarrestabile. Il cioccolataio di Sydney, il tagliagole di Oklahoma City, il cecchino di Ottava, il soldato inglese abbattuto a Londra da due 9 convertiti alla Vera Fede, devono essere letti e vissuti nel contesto della guerra santa contro gli infedeli e i «crociati» cristiani che bombardano le bande dell’Is o i campi dei Taliban in Afghanistan. È la complicità delle vittime, il pubblico, a fare il resto, e a vedere il disegno universale del terrore. Tutto questo ci impaurisce perché è inarrestabile, incoerente e individuale. Ogni polizia sa che è di fatto impossibile prevedere e prevenire l’atto criminale di un singolo individuo, si tratti di un omicidio nel nome del fanatismo religioso o della passione umana. E proprio il successo nell’individuazione e nella repressione di gruppi organizzati nel segno della jihad sanguinaria ha generato questa proliferazione. Creare gruppi, strutturarli, generare gerarchie e ordini è complicato, ha scritto Jamie Bartlett che a Londra studia l’evoluzione e le metamorfosi del terrorismo, «ma Internet offre oggi ai singoli materiale di propaganda, e sentimenti di appartenenza a movimenti che incoraggiano e giustificano i suoi attacchi ». Chi sorveglia le fibrillazione della Rete nota periodicamente aumenti improvvisi di «chatter», di chiacchiere e di conversazioni, che possono, come non possono, preludere ad azioni di violenza, ma il collegamento fra il «rumore di fondo» e il demone con la bandiera nera e il Kalashnikov è troppo labile e vago perché permetta di intervenire. Nutrire ed esprimere pensieri e sentimenti radicali, anche di odio profondo, non è un reato nelle nostre società libere, aveva avvertito il ministro degli Interni canadese quando gli era stato rimproverato di non avere intercettato e fermato Michael Zehaf-Bibeau, l’assassino di un soldato a Ottawa. Se ogni vicino di casa, se ogni passeggero in metrò, se ogni avventore di una caffetteria è visto come un possibile 9/11 tascabile, anche se non lo è, il disegno del fondamentalismo ha compiuto un progresso quale neppure gli architetti delle Torri Gemelle potevano sperare. Se il pubblico ci crede anche una scatola di cioccolatini può nascondere la minaccia della jihad. Merry Christmas, cani infedeli. Del 16/12/2014, pag. 5 Dresda, sfilano gli anti-islam “Siamo noi i veri tedeschi” La protesta salda famiglie e lavoratori alle frange estreme dei neonazi Tonia Mastrobuoni Un fischio assordante, poi una voce stridula riempie la piazza. «Ci sono tentativi di infiltrare manifesti anticostituzionali, per favore sorvegliate i vostri vicini». A tre metri dal palco, visibilissimo, un cartello con la scritta «Alibaba e i quaranta spacciatori». Il proprietario, un cinquantenne brizzolato dall’aria pacifica, non accenna ad abbassarlo. Del resto, nessuno ha vietato i manifesti razzisti; solo quelli anticostituzionali. E vai a capire la differenza. Dalle ultime file parte anche una selva di fischi e un coretto, «Deutschland, Deutschland». Una dozzina di teste rasate applaudono scandendo il ritmo, per fortuna il coro si spegne quasi subito. Quello che contagia invece tutti, ogni volta che qualcuno lo accenna, è «Wir sind das Volk», «Noi siamo il popolo», lo slogan scippato alla rivoluzione pacifica che un quarto di secolo fa portò alla caduta del muro di Berlino. In piazza molte teste rasate Nell’autunno dell’89 anche qui a Dresda manifestavano ogni lunedì, come nel resto della Germania comunista, contro il regime di Honecker. E rischiavano il carcere o la vita. Ma in una piazza stracolma di teste rapate, «noi siamo il popolo» ha un suono sinistro. E quello di Pegida, dei «Patrioti europei contro l’islamizzazione dell’Occidente», movimento nato a 10 ottobre nella capitale sassone e divenuto ormai un appuntamento fisso e sempre più popolare anche in altre città della Germania - Duesseldorf, Kassel, Colonia, Ulm - è sempre sul filo dell’equivoco. La simpatia degli anti-euro Di più: è proprio nella città simbolo del «mattatoio» di Vonnegut, nella «Firenze sull’Elba» rasa al suolo con furia dalle bombe alleate a febbraio del 1945, che rischia di saldarsi la nuova destra tedesca. Gli anti-euro Afd, passati dalla priorità dell’uscita della moneta unica a quello del freno all’immigrazione, stanno già tentando di mettere il cappello su Pegida. Sono stati i primi, nelle settimane scorse, a mostrare una - cauta - disponibilità al dialogo, con gli anti islamisti. Se il movimento dovesse trovare uno sbocco nel partito di Bernd Lucke, cresciuto anch’esso a dismisura nei consensi fino ad entrare in ben tre assemblee regionali a settembre, con percentuali di voto oltre il 10%, per Angela Merkel sarebbe un bel grattacapo. La cancelliera continua a demonizzare Pegida, anche ieri ha fatto sapere che la Germania «non è un posto per odio e calunnie». Tuttavia, sarà difficile ignorarlo a lungo. Così come per gli Afd sarà difficile mantenere l’ambiguità, sul movimento. «Siamo di destra» Eppure, non è che manchino i momenti di verità, in questa piazza. Ad esempio, quando una ragazza poco più che ventenne urla dal palco, «ascoltatemi bene, giornalisti: questa è una piazza di destra» e dalla folla partono un boato e un’ovazione. E poi giù, a sparare parole d’ordine che echeggiano epoche buie, «deutsche Sitte», «usanza tedesca» e tante, troppe volte «Volk», «popolo». Ufficialmente, gli organizzatori della manifestazione di Dresda, cercano in tutti i modi di tenere lontani i neonazisti e gli slogan di estrema destra dal movimento. Sulla pagina Facebook c’è addirittura un omino stilizzato che getta una svastica nel cestino. E nella piazza di Dresda, a stragrande maggioranza maschile e piena di teste rapate, c’è anche tantissima gente comune. Donne, famiglie con bambini, molte coppie di anziani. Uno urla con forte accento sassone «sono fiero di essere tedesco», segue un applauso. «Pensiamo ai nostri figli» Horst, tassista 53enne venuto a manifestare con la moglie, spiega la popolarità di Pegida soprattutto nella ex Germania est: «Noi qui accettiamo ancora lavori che i tedeschi dell’ovest non accettano più da un pezzo, per noi gli immigrati dell’Est Europa sono concorrenti veri». Inutile ricordargli i numeri, dirgli che in Sassonia ci sono appena 100mila stranieri, il 2,5% della popolazione - a Berlino il 13,4% degli abitanti ha un passaporto non tedesco, tanto per fare un confronto. O che di quegli stranieri in Sassonia, neanche lo 0,1% sono musulmani. Horst scuote la testa: «Io devo pensare al futuro dei miei figli». La paura dello straniero Anche dal palco, uno dei capi del movimento sintetizza il motivo della popolarità di Pegida: «Non siamo un one man show, ma il risultato di anni di errori nelle politiche di immigrazione», strilla. La cosa inquietante, è che i sondaggi sembrano dargli ragione: il 34% dei tedeschi - uno su tre - secondo un’indagine dello Spiegel, pensa che la Germania si stia islamizzando. del 16/12/14, pag. 9 Erdogan: «L’Europa non deve interferire» Giuseppe Acconcia Turchia. Dure reazioni alla retata anti-Gulen 11 Recep Tayyip Erdogan non si è piegato alle critiche dell’Unione europea, dopo l’ondata di arresti dei giorni scorsi in Turchia. L’Ue si «occupi dei fatti propri e non interferisca con le misure intraprese e con lo stato di diritto contro elementi che minacciano la nostra sicurezza», ha tuonato il presidente turco. Tra rigide misure di sicurezza, la polizia turca ha continuato gli interrogatori di 24 delle 27 persone arrestate (tra cui il direttore del quotidiano di opposizione Zaman, Ekrem Dumanli) in 13 città nell’ambito di un’operazione che ha preso di mira giornali e televisioni critici verso il presidente islamista moderato. Il bersaglio principale dell’operazione sono le testate giornalistiche e personaggi dell’impero mediatico Samanyolu, vicino a Fethullah Gülen, l’islamista in esilio negli Stati uniti dal 1999, che dopo essere stato alleato di Erdogan ha lanciato una campagna contro il presidente turco, al potere dal 2002. Gli arrestati sono accusati di coinvolgimento in un’organizzazione terroristica (in riferimento a Hizmet, il movimento fondato da Gülen). Fikret Duran, avvocato di Hayrettin Karaca, presidente dell’impero mediatico finito nel mirino della magistratura, ha spiegato che gli interrogatori si sono concentrati fin qui in particolare sulle serie televisive finanziate dal colosso. Gli arrestati sono alti funzionari di mezzi di informazione, direttori e produttori di popolari serie televisive, ma c’è anche qualche poliziotto, secondo gli investigatori accomodante nei confronti di Gülen, la cui rete è accusata dal Partito Giustizia e Sviluppo (Akp), guidato da Erdogan, di costituire una sorta di «Stato nello stato»: di controllare cioè istituzioni parallele, corrotte, e responsabili di frode e calunnia. L’ondata di arresti non ha quindi solo lo scopo di limitare la libertà di stampa nel paese, come hanno sottolineato i media mainstream occidentali, ma anche di toccare i privilegi di una figura molto controversa in Turchia, l’imam, Fetullah Gülen, le cui imprese vengono spesso boicottate da molti turchi, contrari alla commistione tra islamismo radicale e politica. In seguito agli arresti, la prima a stigmatizzare i limiti alle libertà di espressione in Turchia è stata l’Ue per bocca del presidente del parlamento di Bruxelles, Martin Shulz. «La libertà di stampa e il pluralismo dei media sono valori fondamentali dell’Ue», ha esordito il politico nella seduta plenaria di oggi a Strasburgo, annunciando che mercoledì gli europarlamentari parleranno di libertà di stampa in Turchia. Shultz ha detto di essere «rimasto sconvolto» dalla notizia dei raid. Gli hanno fatto eco i leader dei maggiori gruppi parlamentari di Strasburgo, inclusi i Social democratici (Sd). L’alto rappresentate per la politica estera dell’Unione europea, Federica Mogherini ha cercato di gettare acqua sul fuoco. «Prendiamo molto seriamente i nostri negoziati con la Turchia in quanto paese candidato e dobbiamo quindi sottolineare i problemi così come i progressi», ha ammesso. Mogherini si è detta poi sorpresa dalla reazione di Erdogan alle critiche dell’Unione europea e di confidare sul fatto che con la nuova Commissione è possibile pensare a «una nuova partenza» dei negoziati per l’ingresso di Ankara nell’Ue. Anche l’editorialista del quotidiano Zaman, Kerim Balci, sfuggito alla retata, ha duramente stigmatizzato gli arresti, parlando di «errore grave», commesso da Erdogan. Secondo Balci, il leader dell’Akp otterrà il «risultato opposto» a quello sperato, rafforzando i suoi oppositori. «L’operazione – ha denunciato senza mezzi termini Balci — è una vendetta del presidente per la vicenda dello scandalo in materia di corruzione», che ancora una volta, alla fine del 2013 aveva quasi fatto cadere il governo dell’allora premier Erdogan. Non solo, con questi arresti, secondo Balci, Erdogan ha «fornito una prova» senza precedenti all’opposizione sulle sue reali intenzioni. «Ci aspettavamo la retata anche se non credevo che si partisse dai vertici. Mi aspettavo che avrebbero arrestato me, ma non il direttore Dumanli. Questo è stato l’errore di Erdogan, che ha scatenato uno scandalo internazionale, spingendo l’Ue e gli Usa a denunciare il suo operato», ha aggiunto. 12 Tre persone sono state rilasciate dopo essere state interrogate nella notte. Davanti alla sede della Direzione generale di sicurezza di Ankara, dove si svolgono gli interrogatori, un migliaio di persone hanno inscenato una protesta per chiedere la liberazione dei detenuti. del 16/12/14, pag. 9 L’ex eurodeputato Giulietto Chiesa arrestato ieri a Tallinn Fabrizio Poggi Estonia. L’ex eurodeputato era rientrato in albergo dopo aver partecipato alla conferenza «La Russia è nemica dell’Europa?». Dichiarato «persona non gradita», sarà espulso entro 48 ore Se la faccenda non fosse tremendamente seria e drammatica, verrebbe da dire che i colloqui italiani di domenica scorsa tra il Segretario di Stato americano John Kerry e il Ministro degli esteri russo Sergej Lavrov hanno fatto una vittima italiana. A Tallinn è stato arrestato ieri Giulietto Chiesa, ex europarlamentare e corrispondente per oltre vent’anni da Mosca de La Stampa e l’Unità. Ancora in serata non era chiara la motivazione del fermo. Chiesa era rientrato in albergo dopo aver partecipato nella capitale estone alla conferenza «La Russia è nemica dell’Europa?» e lì gli agenti gli hanno notificato il fermo (sembra, di 48 ore), al termine del quale verrà espulso dal Paese; secondo il suo avvocato, con la motivazione di «persona non gradita». «È un fatto molto grave – ha detto il legale di Chiesa – una violazione dei diritti politici». Mentre veniva portato al commissariato, il giornalista italiano ha saputo dagli agenti che esisteva per lui un mandato di espulsione del ministero degli esteri estone. Mentre scriviamo, Giulietto Chiesa sarebbe ancora trattenuto al commissariato di polizia di Tallin. È facile immaginare che l’attività giornalistica di Giulietto Chiesa – attualmente, oltre a vari interventi su blog e testate giornalistiche italiane, su megachip.globalist.it e la sua Pandora TV e anche su siti russi – lo abbia da tempo reso veramente «non grato» ai poteri dei paesi baltici. Da tempo Chiesa, profondo conoscitore delle questioni russe e molto legato alla figura di Mikhail Gorbaciov, si è fatto difensore delle minoranze russofone, praticamente prive di diritti in paesi come Estonia, Lettonia e Lituania. In passato Chiesa era stato candidato dalla minoranza russa in Lettonia a rappresentarla al Parlamento europeo. Il gesto del governo estone, alla faccia della proclamata libertà democratica, manda a dire che ogni voce che oggi metta in dubbio nelle ex Repubbliche sovietiche del Baltico la linea tracciata di marcata adesione ai progetti Nato, di riarmo accelerato e schieramento bellico ai confini con la Russia, non può che ricevere il trattamento di «persona non gradita». Tanto più alla luce anche delle ultime risoluzioni del Congresso Usa sull’Ucraina, cui Chiesa non ha mai cessato di opporre un punto di vista obiettivo, in contrasto con chi si sbraccia per presentare davvero «la Russia nemica dell’Europa». 13 INTERNI Del 16/12/2014, pag. 8 LA GIORNATA Renzi incontra Prodi “Non accetto veti nessuno nel Pd candidi il Professore contro di me” L’ex leader dell’Ulivo: “Continuo a non essere disponibile” Boschi: scegliamo noi il nome da proporre per il Colle TOMMASO CIRIACO Avranno parlato soprattutto di economia e politica internazionale, della crisi ucraina e del dossier libico, come lasciano trapelare fonti di Palazzo Chigi. Ma è chiaro che a poche settimane dall’elezione del prossimo capo dello Stato l’incontro tra il premier Matteo Renzi e Romano Prodi assume un significato diverso. Alla successione al Colle pensa immediatamente la minoranza interna al Pd. E alla partita per il nuovo presidente allude anche il ministro per le Riforme Maria Elena Boschi, sia pure per ridimensionare la portata del summit: «Io Prodi l’ho votato, ma non tiratelo per la giacchetta. Il Pd sceglierà un nome che poi sottoporrà agli altri partiti. Si parlerà anche con FI e M5S, come è capitato in passato». Il Professore attraversa il cortile di Palazzo Chigi intorno alle 15. Due ore in tutto, alla presenza del sottosegretario alla presidenza del consiglio Graziano Delrio, reggiano come l’ex premier. Quando l’incontro è ancora in corso, già si sprecano le prime ipotesi. Tutte ruotano attorno all’eventuale approdo sul Colle più alto: «Prodi è il primo a non volere essere chiamato in causa, anche per come è stato trattato l’ultima volta — tira il freno a mano Boschi, ospite del salotto di “Porta a porta” — In questo Parlamento con una leadership forte del Pd quella figuraccia lì non la ripeteremo». Per il ministro, in ogni caso, i rapporti tra Renzi e Prodi non presentano ombre: «Non è assolutamente vero che il governo l’abbia ostacolato nel ruolo di mediatore della crisi libica. Sarebbe stata una buona scelta». La sinistra dem, comunque, non nasconde la soddisfazione per l’incontro. «È un fatto positivo», ammette Stefano Fassina. «Mi auguro che si rivedano», sottolinea Francesco Boccia. Qualcuno però si spinge più avanti: «Abituati a vedere entrare a Palazzo Chigi Berlusconi — rileva Pippo Civati — non si può non registrare un cambio di passo. È un bel segnale». E anche oltre i confini del Pd c’è chi sogna Prodi al Quirinale, come Lorenzo Dellai: «È una buona notizia». Di diverso avviso invece Forza Italia («l’incontro è una provocazione verso tutto il centrodestra, sostiene Elvira Savino) e Barbara Saltamartini a nome di Ncd: «Il prossimo inquilino del Colle non sia espressione del Pd e della sinistra. In questo scenario non può rientrare Prodi». Il faccia a faccia con Renzi non è il primo colloquio del Professore negli ultimi giorni. Sabato scorso, nella sua casa di Bologna, l’ex premier si è ritrovato a pranzo con Mario Monti. Secondo lo staff di Prodi, un appuntamento da inquadrare soltanto nell’ambito dei lavori del think tank “Council for the future of Europe”. 14 Del 16/12/2014, pag. 12 Berlusconi verso lo strappo “Se il premier fa da solo non voteremo le riforme” Tensione sul Quirinale: “Non erano queste le condizioni con Renzi” Rottura più vicina con Fitto che rifiuta la candidatura in Puglia CARMELO LOPAPA Berlusconi vede nero su Quirinale e riforme e minaccia lo strappo, mentre il suo partito va in frantumi. «A che gioco sta giocando Renzi? Non erano queste le condizioni», è stato uno degli sfoghi più soft ai quali si è lasciato andare il leader forzista da Arcore. Le quasi due ore di colloquio tra il premier e Romano Prodi a Palazzo Chigi non lo rassicurano affatto. Più in generale, l’ex Cavaliere ha maturato la convinzione che il segretario Pd voglia fare «da solo », che il nome del successore di Napolitano lo sceglierà nel chiuso del partito, magari chiudendo il cerchio con la minoranza dem. Con buona pace del Nazareno, un patto che ieri sera sembrava sulla via del tramonto. Berlusconi rientra oggi a Roma e promette fuoco e fiamme. Ha rimandato agli incontri delle prossime ore coi dirigenti a Palazzo Grazioli ogni decisione sul da farsi. Ma il nervosismo e la tensione — racconta chi l’ha sentito da Villa San Martino — sono ai massimi livelli. «Matteo deve dirmi subito cosa intende fare, se pensa di fare da solo può approvarsi coi suoi anche le riforme», è la conclusione dettata dalla rabbia del momento. Preoccupazioni che coinvolgono anche l’iter delle riforme e il nuovo Italicum (con minacciose varianti tendenti al Mattarellum). E allora, è la strategia berlusconiana, «piuttosto che ritrovarci con un maggioritario spinto e con un Pietro Grasso al Quirinale facciamo saltare il tavolo prima noi». Una tensione cresciuta anche perché nelle ultime ore l’ex Cavaliere ha realizzato la perdita del controllo di Forza Italia. Almeno della quarantina tra deputati e senatori legati a Fitto, a un mese dall’appuntamento col Parlamento in seduta comune. La dichiarazione mattutina dell’eurodeputato pugliese è stata assai chiara: «Rischiamo di diventare marginali. La prima e gravissima conseguenza delle scelte sbagliate del partito si vedranno proprio sul Quirinale». Per metà una constatazione, per l’altra metà un avvertimento all’indirizzo del suo leader: dove pensa di andare senza di noi, quand’anche scegliesse il candidato con Renzi? «Forza Italia rischia di arrivare all’appuntamento politico- parlamentare — del Quirinale (e delle riforme) — in una condizione di marginalità e di irrilevanza» scrive Fitto. «Rotta sbagliata», «cedimento alla Lega di Salvini », rincara l’ex governatore che torna a chiedere le primarie per evitare «sconfitte durissime come quelle subite in Emilia e Calabria». E la botta finale: «Nei giorni pari ci dichiariamo opposizione, nei dispari rilanciamo il Patto del Nazareno». Ci si mette anche Renato Brunetta, con una lettera aperta a Berlusconi per denunciare che quelle riforme «non sono le nostre». Il leader forzista legge da Arcore le parole di Fitto e perde ancora una volta le staffe. «Se pensa di essere così autosufficiente, si misuri nella sua Puglia, si candidi contro il magistrato Emiliano » attacca in privato. Provocazione che nel giro di un paio d’ore viene spinta alle estreme conseguenze, Berlusconi fa riunire il Comitato per le regionali guidato da Altero Matteoli e composto tra gli altri da Romani e Fitto per ufficializzare l’offerta della candidatura. La risposta del big pugliese è ancora più sferzante e sembra preludere alla rottura definitiva: «Non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire. Possibile che si insista a proporre una mia candidatura che non sta in cielo né in terra? Vedo che alcuni si affannano a contendersi poltroncine di prima fila sul Titanic. Che altro deve succedere (un 7-0 alle regionali?) per uscire dal torpore?» 15 del 16/12/14, pag. 8 La clausola che attiva l’Italicum nel 2016 Oltre 17 mila emendamenti alla legge elettorale. Ma il vero scontro è su quando il sistema entrerà in vigore ROMA Non sono davvero pochi 17.282 emendamenti per il governo che vuole portare la legge elettorale in aula al Senato prima di Natale, ma gli scogli sui quali rischia di incagliarsi l’Italicum sono altri. La «clausola di salvaguardia» (che subordina l’efficacia della legge elettorale monocamerale all’approvazione della riforma costituzionale del bicameralismo) piace infatti a Matteo Renzi solo nella misura in cui contenga la «data certa» del 1° gennaio 2016. Al massimo tra 12 mesi, dirà domani il presidente del Consiglio quando incontrerà i senatori del Pd, l’Italicum dovrà essere pienamente operativo. Però, ora, sul calendario si è messo di traverso anche il Nuovo centrodestra che chiede più tempo al premier: «Se vogliamo essere seri — ha detto in prima commissione Gaetano Quagliariello — la clausola deve coincidere con l’impegno del governo a varare la riforma costituzionale. Il 1° gennaio del 2016 è troppo vicino, meglio come termine la primavera ma la data ideale sarebbe il 31 dicembre 2016». Il secondo scoglio è rappresentato dalla norma transitoria, la «ruota di scorta» da utilizzare nel caso in cui si dovesse votare prima dell’entrata in vigore dell’Italicum. Il ministro Maria Elena Boschi e i senatori renziani avevano provato ad agitare il vecchio Mattarellum (inviso soprattutto a Silvio Berlusconi) come legge elettorale provvisoria, ma ieri al Senato, anche alla luce della sintesi del presidente Anna Finocchiaro, si è capito che la strada maestra è sempre quella del Consultellum: la legge elettorale proporzionale con una preferenza rimasta sul campo dopo la sentenza della Consulta. Oggi, alle 12.30, su questi nodi verranno votati in Commissione due ordini del giorno: il primo (Calderoli, Lega) nasconde una trappola perché costringerà la maggioranza a votare contro sebbene contenga un riferimento al Mattarellum; il secondo (De Petris, Sel) prevede una versione del Consultellum con la soglia al 3%. Dopo queste schermaglie si arriverà al merito dell’Italicum. Che nella versione del Nazareno (Pd e FI) comporta (con l’attuale quadro politico) una Camera composta da 375 deputati nominati dai partiti (piazzati come capilista nel collegi) e soltanto 242 (di cui 240 del Pd e due del M5S) scelti dagli elettori con le preferenze. Per evitare che queste proporzioni attirino l’attenzione della Consulta, Federico Fornaro e altri sei senatori dem propongono un altro sistema misto: 143 deputati bloccati (il 22%) eletti con il proporzionale in 26 macro circoscrizioni, 475 collegi plurinominali con le preferenze e 12 eletti all’estero. Politicamente più pesante l’emendamento del bersaniano Miguel Gotor (cancellazione dei capilista bloccati sostituendoli con un listino nazionale con il 25% degli eletti) che ha raccolto 34 firme nel Pd, comprese quelle di Area Dem (Franceschini) che finora non si è discostata dalla linea del governo. Il governo però sembra avere un solo obiettivo: chiudere in commissione entro domenica e andare in aula il 23 dicembre senza modificare lo schema dei 100 capilista bloccati che, conferma il renziano Stefano Collina, «non presenta rischi di costituzionalità ed è stato condiviso dagli organi decisionali del Pd». Per la fase transitoria, infine, il governo non fa previsioni su quale legge elettorale verrà utilizzata ma conferma nella Finanziaria l’election day (maggio 2015). Che (per ora) accorpa Regionali e Comunali. Dino Martirano 16 del 16/12/14, pag. 9 Forze armate, si taglia tutto tranne gli stipendi SI COMPRANO ARMI PER MILIARDI MA MANCANO LE RISORSE PER L’ADDESTRAMENTO E PER GLI EQUIPAGGI DELLE NAVI CHE SALVANO I MIGRANTI di Daniele Martini È come se uno si comprasse la Ferrari e non avendo la patente fosse costretto a tenerla in garage. Gli Stati maggiori e il governo si stanno comportando allo stesso modo con le nuove armi. Comprano a tutto spiano, dai caccia F-35 alla flotta da 5,5 miliardi mezzo, pescando a piene mani nel bilancio della Difesa e non intendendo oltretutto rinunciare neanche a mezzo dei 71 dispendiosi programmi di armamento varati quando le casse pubbliche piangevano un po’ meno. Spendono a destra e a manca, poi però non sono in grado di utilizzare appieno ciò che hanno acquistato. E non perché (per fortuna) mancano le occasioni in cui l'Italia debba mostrare i muscoli dispiegando il suo apparato bellico. Ma perché l'acquisto di armi all'ultima moda sottrae fondi a quello che in gergo chiamano l’“esercizio”, cioè l'addestramento militare necessario a imparare a usare quelle stesse armi. Per sostenere la corsa alle spese per nuovi sistemi d'arma, Stati maggiori e governo sono disposti a tagliare perfino dove umanità e buon senso sconsiglierebbero di farlo, come i soccorsi in mare ai poveri cristi che affrontano il Canale di Sicilia su barconi mezzo sfondati. La legge di Stabilità riduce di 4 milioni di euro gli stanziamenti per i reclutamenti delle Capitanerie di porto e in pratica dall'anno prossimo sulle navi ci saranno circa 260 marinai in meno per l'aiuto a chi ne ha bisogno. Non solo migranti, ma anche pescatori e diportisti. Il risultato di queste scelte è da Comma 22: hangar, porti e depositi sempre più pieni e capacità militare sempre più incerta; navi equipaggiatissime, superaerei e carri armati potenti, ma inesorabilmente sottoutilizzati. È uno spreco nello spreco in un momento in cui le ristrettezze costringono a tagliare dappertutto. I dati di previsione 2015 lo confermano. Il bilancio della Difesa è di circa 19,5 miliardi di euro da cui vanno però sottratti 5,5 miliardi destinati alle azioni per la “sicurezza del territorio”, cioè in sostanza fondi per l'attività dei carabinieri che sono sia un corpo di polizia sia militari formalmente dipendenti dall'Esercito. A quella che viene definita la “funzione difesa” in senso stretto vanno circa 14 miliardi di euro. LA LEGGE DI RIFORMA militare di due anni fa stabilisce un’allocazione delle risorse considerata ottimale anche dagli stati maggiori, basata su una tripartizione della spesa: metà per il personale (gli stipendi), un quarto per gli investimenti (nuove armi) e un quarto per l’esercizio (l'addestramento). Il bilancio 2015 non rispetta questa suddivisione ed è fortemente pencolante sul versante delle uscite per il personale e per nuovi sistemi d'arma. Sacrificate al massimo sono le spese per l’addestra - mento. Per il personale è programmato uno stanziamento di una decina di miliardi di euro, oltre il 70 per cento, come risulta da uno studio di Francesco Vignarca per Altraeconomia. Pressato dai Cocer, quella specie di sindacati dei militari che forse per la prima volta nella loro storia erano arrivati a minacciare con uno sciopero Palazzo Chigi, il governo ha dovuto prima pagare un'una tantum di 400 milioni di euro e poi rimettere in moto in fretta la dinamica di adeguamento degli stipendi che era stata bloccata dal governo di Silvio Berlusconi nel 17 2009. Per l'acquisto di nuove armi il bilancio stanzia 2 miliardi e 400 milioni. Che però non sono affatto ciò che effettivamente lo Stato impegna per questo settore. Dalle casse pubbliche in realtà esce molto di più, circa il doppio: 5 miliardi di euro considerando che molte voci di acquisto vengono finanziate anche con fondi del ministero dello Sviluppo economico. QUESTA SCELTA non risponde solo a criteri contabili, ma ha una logica sia militare sia industriale, perché gli investimenti militari spesso hanno una ricaduta sul sistema produttivo. L’ammodernamento della flotta avrà effetti sulle commesse e sull’occupazione del più grande gruppo italiano dell'armamento, la Fincantieri che è pubblica. Così come l’acquisto degli F-35 dalla Lockheed Martin porterà commesse per la manutenzione nell’impianto novarese di Cameri, anche se in misura molto inferiore a quella propagandata dal ministero della Difesa. Per l’addestramento militare restano le briciole: un miliardo e mezzo di euro, il valore più basso della storia militare repubblicana. Le nuove armi rischiano così di diventare lustrini per forze armate da parata. Del 16/12/2014, pag. 14 Giochi 2024, la sfida di Renzi “Roma e l’Italia si candidano sarà un evento per il Paese” Grillo e Salvini: “Una follia” Diverse le città e le Regioni che potrebbero essere coinvolte insieme alla capitale Il premier: “Vorrei Napoli come Barcellona”. Cantone per il comitato dei garanti FULVIO BIANCHI SCANDISCE le parole: «Per noi, per i nostri figli, per l’Italia». Salone d’onore del Coni: un’ovazione per Matteo Renzi quando annuncia che l’Italia, non solo Roma, si candida ai XXXIII Giochi estivi del 2024 e «vuole vincere, non partecipare». Il giorno di San Valentino di due anni fa l’allora premier Mario Monti disse no a Petrucci-Pagnozzi, niente Giochi 2020 (finiti a Tokyo): non c’erano le condizioni economiche per spendere 10 miliardi. Ora il sogno, secondo Malagò, ne costa solo sei. Ma non tutti sono d’accordo. Salvini (Lega Nord) picchia duro: «Le Olimpiadi a Roma sono una follia. C’è ancora aperto il fascicolo su Mafia Capitale e vogliamo dargli in pasto i Giochi? Non capisco se Renzi ci è, o ci fa». Di Pietro ironico: «La canoa la facciamo nelle strade di Genova... Meglio un carcere in più». Grillo: «I coinvolti di Mafia Capitale saranno liberi in tempo per spartirsi una torta olimpica». Ma Renzi non si ferma («Non è un progetto campato in aria, ma fatto di grandi persone ») e assicura che gli scandali non influiranno. Il sindaco Marino non può che annuire. Malagò parla di «trasparenza religiosa», spunta il nome di Raffaele Cantone per il comitato dei garanti. Tutti adesso vorrebbero avere un pezzo di Olimpiade: addirittura il Vaticano si è proposto per il tiro con l’arco. Renzi spiega dopo la cerimonia: «Per me questo è il simbolo dell’Italia che vuole andare avanti, non quella dei gufi, Salvini, Monti, Civati, i grillini, quelli che dicono sempre “non si può fare”». «La Sardegna serve per gli investimenti arabi, vorrei Napoli come Barcellona ‘92» aggiunge Renzi, che al Coni si era scordato per il secondo giorno consecutivo di Milano. Promossa Firenze, altre ipotesi (Taranto, Venezia, Palermo, Bari, Brescia) saranno scartate. Sì, perché se una città Usa (stanotte la scelta fra Boston, Los Angeles, Washington e San Francisco) garantisse tutte le gare in un raggio di 20-30 chilometri, ecco che per l’Italia sarebbe dura spuntarla nel 18 settembre 2017. Ma anche le altre candidate, ricorda Malagò, «hanno i loro problemi» e allora tanto vale provarci. Roma è la prima a farsi avanti. Le rivali arriveranno: Parigi se Hollande trova un accordo col sindaco Anne Hidalgo, una tedesca (Berlino e Amburgo), Istanbul, Baku, Budapest, Doha (ma non ha chances, il Cio vuole che i Giochi dal 15 luglio al 31 agosto), Cape Town. Il prossimo mese sarà pronto il comitato promotore: Malagò ha «declinato l’invito». L’identikit porta ad un «esterno ma che sappia di sport e conosca le lingue»: Montezemolo (“non so nulla” dice dopo essere premiato da Renzi) o Andrea Guerra, ex ad di Luxottica, molto stimato dal premier. Il dg potrebbe essere Luca Pancalli. Costi bassi per la candidatura: 10-15 milioni. È cambiato tutto. Si vuole cambiare tutto. Del 16/12/2014, pag. 14 Più speranze che impianti: le riforme Cio non bastano per sognare EMANUELA AUDISIO L’ITALIA non si rannicchia. Vuole giocare e vincere le Olimpiadi. Vacanze romane è un film sempre di moda. Così parte il casting olimpico. Resta da capire cosa sia cambiato in due anni: dal no di Monti al sì di Renzi. È un paese diverso? Viene da dire no. Sono solo diversi i premier. L’economia continua ad andare male, la gestione delle grandi opere pure, pessima anche la moralità. Credibilità poca, se non in cucina. Expo di Milano, Mose a Venezia, Mafia Capitale a Roma. L’Italia sogna, ci mancherebbe, vuole trasparenza, ma le restano solo gli incubi da Profondo Rosso. E lo slogan: stavolta sarà diverso. Però nessuno spiega perché. Quando si partecipa a un torneo serve squadra, allenatore, presidente, finanziatore. Un’idea ben chiara di come si giocherà. Uomini e schemi. C’è? Non c’è. Yes we can, of course. Ma dove sono i soldi e chi ce li mette per la prima tappa di candidatura? Servono 30 milioni di euro. Per quella del 2020, Coni, Comune di Roma e sponsor ne misero insieme 7 e mezzo, poi Monti non firmò la lettera. Torino per candidarsi (e vincere) i Giochi invernali del 2006 spese (c’erano ancora le lire) un equivalente di 5 milioni di euro divisi tra privati e enti pubblici. Nessuno nega la bellezza storica dei Cinque Cerchi, ma il mondo quando c’è da organizzarli ha imparato (a sue spese) a tenersi a distanza. Scottano troppo i Giochi, e bruciano non solo emozioni. È meraviglioso ospitare tutti, ma se prima si è stati gentili e corretti con il proprio popolo. I cittadini devono poter dire la loro. Non si può far calare dall’alto un momento sportivo come fosse una tassa e un sacrificio inevitabile. Lo stesso Pietro Mennea, Mister Olimpiade, cinque partecipazioni ai Giochi, fornì a Monti un libro con conti e cifre per dire no. È vero, il Cio ha appena cambiato le regole, ha ammesso il decentramento, altre città potranno aiutare Roma, ma dai quarti si torna nella capitale, che deve restare centrale e sacra, soprattutto con il villaggio atleti. Non si vince disseminando competizioni, ma delocalizzando dove il territorio aiuta. In questi ultimi anni molte sedi europee hanno rifiutato i Giochi. Sempre con referendum popolari. Monaco e Oslo, non proprio due economie allo stremo, e due città bene organizzate, hanno detto: grazie, il format non ci interessa. Soprattutto se noi dobbiamo adattarci. E forse questo spaventa Malagò, presidente del Coni. Si può andare in una società democratica contro un voto di non gradimento? Come convincere l’Italia che dei Piccoli Giochi al risparmio possano essere in una società di servizi così scadenti una spinta per nuovi investimenti? Nel mondo le città funzionano a prescindere dalle Olimpiadi, che diventano un valore aggiunto. Perché Roma deve avere i Giochi per potersi adeguare a standard culturali e 19 civili consi- derati optional straordinari? Il Cio in questo momento ha bisogno di entusiasmo, di tante Roma, deve fare vedere che il suo prodotto è sempre seducente e competitivo, altrimenti per il 2028 non ci sarà nemmeno un concorrente. Per ora le rivali di Roma sono Baku e Doha, nessun problema di soldi, l’America deve scegliere tra San Francisco, Los Angeles, Boston, Washington, che qualche problema ce l’hanno, Parigi deciderà a gennaio, Amburgo e forse Berlino devono chiarirsi. Veniamo agli impianti. A Roma di pronto come strutture sportive al momento c’è molto poco: il poligono per il tiro a segno e l’impianto per il salto ad ostacoli di piazza di Siena. Per l’equitazione va riattivato quello che resta del complesso dei Pratoni del Vivaro, patrimonio in rovina, anche se la Fondazione Mangilli vuole impegnarsi nella ricostruzione. Mancano i villaggi, vanno costruiti alloggi per 20.000 persone: atleti (10.500), giornalisti, addetti, volontari. Manca il velodromo, i bacini per canottaggio e canoa, un certo numero di palazzetti perché al momento c’è solo il PalaLottomatica. Argomenti stadi: il famoso Flaminio è chiuso da tempo, l’Olimpico verrà un po’ ristrutturato per gli Europei di calcio, ma dove mettere la sala stampa per l’atletica e come renderlo agevole per la cerimonia di apertura e chiusura? Si parla anche di palestre ricavabili nella nuova Fiera di Roma, ma sulla loro agibilità esistono dubbi, troppo lontane dal futuro villaggio olimpico. E i vari poli previsti (Olimpico, Tor Vergata, Eur, Saxa Rubra) non sono collegati con la linea metro. Al 2024 mancano dieci anni: con il passo attuale dei lavori in corso a Roma, si potranno aprire al massimo due nuove stazioni. Resta anche il problema di dove ospitare il lavoro di giornalisti e tv. Roma è magnifica per fare gli stupidi di sera, lo è un po’ meno se si deve correre da una parte all’altra per esigenze lavorative. E ora gli uomini di sport. Si vota nel 2017. Malagò al Coni ha la rielezione nel 2016. Dei tre attuali italiani membri Cio: Ottavio Cinquanta uscirà dopo Rio 2016, Mario Pescante nel 2018, Franco Carraro nel 2019. C’è chi sussurra l’investitura di Luca di Montezemolo, già presidente di Italia ‘90. Ma si può riproporre lo stesso nome più di 25 anni dopo? Inoltre la geografia e gli X Factor del governo sportivo mondiale sono molto cambiati, si sono rinnovati, prova ne è che il congresso che voterà la città 2024 si terrà a Lima (Perù) che ha avuto la meglio su Helsinki (Finlandia). I Giochi non fanno miracoli: quelli bisogna costruirli. Pure e soprattutto a Roma Del 16/12/2014, pag. 17 Da Montreal ad Atene quasi tutte le città hanno speso cifre enormi e fuori budget L’esempio virtuoso di Torino non sarebbe tanto riproducibile proprio perché l’evento estivo impegna molte più risorse Un disastro annunciato che affosserà i bilanci FEDERICO FUBINI SEDICI anni fa, un ministro del Tesoro chiamato Carlo Azeglio Ciampi firmò un impegno a nome dell’Italia: avrebbe coperto spese fino a due miliardi di euro (in denaro attuale) per una città che si candidava alle Olimpiadi d’inverno. Torino. E quando i delegati del comitato promotore andarono in Australia per farsi conoscere, si resero conto che mancava un tassello: dovettero stampare nuove brochure, con inclusa una mappa d’Europa nella quale Torino era chiaramente situata rispetto a Roma, Milano, Parigi. Quella città candidata andava rimessa sulla carta del mondo, perché ne era sparita dopo i lunghi anni di crisi della Fiat. Non c’è dubbio che questa sia un’assonanza con la proposta di Roma per le Olimpiadi estive 2024, avanzata dopo sei anni di recessione italiana, ma i 20 parallelismi finiscono qui. Non solo perché a Roma si possono rimproverare molti difetti, ma non di non essere già sulla carta. In realtà anche la scienza triste, l’economia, fa sorgere dubbi sulla praticabilità della candidatura di un Paese che oggi ha un debito al 130% del Pil: sei volte più alto rispetto a quando ospitò le prime Olimpiadi romane nel 1960. I conti sono sotto gli occhi di tutti. Le Olimpiadi d’inverno di Torino alla fine sono costate 5 miliardi di euro, per metà coperti da denaro pubblico, mentre per quelle estive il successore di Ciampi, Pier Carse, lo Padoan, dovrebbe sottoscrivere una garanzia di copertura fra le tre e le dieci volte superiore. Un “pagherò” (se vince Roma) che va dai sei ai venti miliardi di euro e va firmato non fra dieci anni ma fra dieci mesi, quando le proposte andranno depositate. I Giochi estivi più economici ed efficienti della storia recente, Londra 2012, sono costati circa 160 euro in media per ogni suddito di Sua Maestà, 12 miliardi di euro di denaro pubblico, e restano un raro esempio di gestione oculata. Per molti altri eventi del genere, secondo le stime del National Geographic , le previsioni iniziali di spesa sono state regolarmente sfondate: a Pechino 2008 del 4%, ad Atene 2004 del 60%, a Sydney 2000 del 90%, ad Atlanta del 147% e a Barcellona 1992 del 417%. Montreal 1976 ha impiegato tre decenni a rientrare dai costi. A Roma, dove la società di trasporto pubblico locale ha chiuso senza perdite un solo bilancio negli ultimi 11 anni, come finirebbe? Se la storia dell’Expo di Milano 2015 insegna qualcosa, finirebbe in senso opposto a Atene, Atlanta, Sydney, o agli sprechi dei mondiali di calcio Italia ‘90. Invece di pagare troppo, per mancanza di risorse Roma rischia di poter spendere molto meno di quanto previsto e di quanto necessario. All’Expo di Milano sta già succedendo, con la Regione e il governo che gareggiano nel trattenere e negare i finanziamenti, mentre l’evento promette di essere meno ricco e attraente del previsto. Ma, appunto, questa è solo scienza triste. John Maynard Keynes diceva che sarebbe «splendido» se gli economisti riuscissero a essere «umili e competenti come dei dentisti», perché non lo sono. Ma anche altri aspetti della vita di una nazione permettono di dubitare della praticabilità di una candidatura di Roma. Il governo la presenta mentre fa i conti con sconvolgenti casi di corruzione emersi quasi ovunque ci siano lavori pubblici, anche di consistenza minima. I miliardi del Mose di Venezia, i commissariamenti decisi per alcune delle grandi imprese dell’Expo, il racket degli appalti che ha trascinato il Comune di Roma al default e poi ha continuato ad infierire. È vero che, come ha ricordato ieri il commissario anti-corruzione Raffaele Cantone, le Olimpiadi di Torino hanno dimostrato che anche in Italia possono svolgersi grandi eventi nella legalità. Ma su questo fronte il Paese ha già fatto abbastanza per essere credibile? Toccherebbe al comitato promotore di Roma 2024 spiegarlo ma, malgrado la svolta pubblica del premier Matteo Renzi, sembra che non sia ancora ben formato né abbia un proprio budget da spendere. A discolpa di Roma, va detto che non tutto finirebbe lì. Competizioni si terrebbero a Milano, Napoli e a Firenze, per qualche ragione, andrebbe la pallavolo. L’ultima volta che la città ha vinto uno scudetto in questa disciplina correvano gli anni ‘70 e andò alle ragazze dello Scandicci: metafora perfetta del lavoro che resta da fare per tornare credibili. Di solito le Olimpiadi migliori e più fertili di crescita futura sono sempre andate a città risorgenti: Londra dalla grande crisi, Pechino dalla povertà, Barcellona da 40 anni di franchismo. Roma e l’Italia risorgenti non lo sono ancora: se quei soldi ci fossero, dovremmo forse spenderli per ridurre le tasse, cambiare la giustizia, in modo da ridare lavoro stabile agli italiani. Allora saremo pronti a candidarci di nuovo ai Giochi, per festeggiare la nostra rinascita un’estate intera. 21 del 16/12/14, pag. 1/2 Paolo Berdini La malattia grave delle grandi opere Di fronte alla crisi economica che viviamo, non c’è serio osservatore economico che non affermi che le risorse pubbliche devono essere utilizzate con politiche di medio e lungo periodo. Non servono medicine estemporanee, specie se hanno dimostrato il fallimento. La cultura delle grandi opere inaugurata da Berlusconi e Tremonti nel 2001 con la Legge obiettivo ha vuotato le casse dello Stato e non ha dato una seria prospettiva di sviluppo al paese. Un fiume di soldi affidato al famelico cartello delle grandi imprese — cooperative comprese — che non ha fatto aumentare di un millimetro l’efficienza complessiva del sistema infrastrutturale e ha depredato le casse dello Stato. A questo madornale errore di prospettiva si è aggiunto il malaffare alimentato dalla mancanza di regole e di controlli. Dall’affidamento dei lavori ogni ruolo dello Stato scompare: Corte dei Conti ed autorità degli appalti continuano a denunciare che le grandi opere vengono aggiudicate sulla base di progetti iniziali imprecisi e vaghi. Ci pensano poi un serie interminabile di varianti in corso d’opera (26 solo per la metropolitana «C» di Roma), arbitrati per valutare gli inevitabili contenziosi e finanziare studi legali amici. Gli scandali del Mose di Venezia, dell’Expo di Milano, di Infrastrutture lombarde, dell’attraversamento ferroviario di Firenze, sono tutte vicende che si collocano in questo quadro. Ma proprio il caso della metro «C» di Roma apre la terza — tragica — conseguenza della cultura delle grandi opere e della scomparsa del ruolo dello Stato: l’intreccio tra imprese e malavita. Nell’inchiesta romana è emerso, come era stato da tempo denunciato da Report, che imprese in mano alla malavita partecipavano all’appalto. Con lo sbocca Italia di Renzi e Lupi si continua su questa strada. Al cartello di imprese che ruota intorno a Vito Bonsignore, sponsor dell’inutile autostrada Orte Ravenna Mestre ed esponente del Ncd di Alfano, si vogliono affidare 6 miliardi di euro. La Tav è sempre ai primi posti dello spreco di denaro pubblico. Di recente anche alcuni sostenitori dell’utilità dell’opera hanno manifestato dubbi sul preventivo dell’opera, ma sono stati zittiti: si deve andare avanti. Il ministro per le infrastrutture Lupi pochi giorni fa ha riaperto addirittura la questione del ponte sullo Stretto di Messina: sa bene che l’opera non è fattibile ma l’importante è inviare messaggi inequivocabili al ristretto numero di potenti imprese. Forse Renzi ha sofferto l’attivismo del ministro ciellino e ieri è riuscito a superare se stesso. Ad una Roma che sta affondando nel fango di un inchiesta che ha fatto emergere il controllo degli appalti pubblici da parte della malavita organizzata, ha promesso altri sei miliardi di euro da spendere in nella realizzazione delle Olimpiadi del 2024, l’apoteosi della discrezionalità. Uno degli uomini più entusiasti dell’annuncio è stato Malagò, che di deroghe deve intendersi abbastanza avendo partecipato alla scandalosa vicenda dei mondiali di nuoto del 2009. Il secondo in ordine di entusiasmo è il sindaco Marino che proprio oggi porterà in un consiglio comunale l’approvazione della più gigantesca deroga urbanistica degli ultimi dieci anni: un milione di metri cubi in aperta campagna regalati a James Pallotta con la scusa del nuovo stadio di calcio delle Roma. Invece di definire politiche di rilancio industriale, di mettere in sicurezza del territorio che frana ad ogni pioggia e ricostruire regole, chi governa il paese continua a perseguire l’effimero e perpetuare il porto delle nebbie. Tanto saranno le famiglie italiane a pagare. Con l’azione di Riccardo Mancini, fedelissimo di Alemanno, quale presidente dell’Eur sono stati sperperati centinaia di milioni di euro in errori e malaffare. Con l’ipotesi delle Olimpiadi del 2024, il verminaio che sta distruggendo il paese viene rilanciato. 22 Del 16/12/2014, pag. 31 UNO TSIPRAS PER L’ITALIA LUCIANO GALLINO TRA coloro che hanno partecipato alle dimostrazioni per lo sciopero di venerdì 12 dicembre si contano forse numerosi elettori potenziali per lo sviluppo di una nuova ampia formazione politica, in grado di opporsi alle catastrofiche politiche di austerità imposte da Bruxelles e supinamente applicate dal nostro governo. Non si tratta di fare un esercizio astratto sul futuro del nostro sistema politico. Se una simile forza di opposizione non si sviluppa, quello che ci attende è un ulteriore degrado dell’economia e del tessuto sociale, seguito da rivolte popolari dagli esiti imprevedibili. Il governo è seduto su un vulcano, e intanto gioca a far “riforme” che peggiorano la situazione. Chi volesse porre mano alla costruzione della nuova formazione politica potrebbe trarre indicazioni utili da quanto accade in Grecia e in Spagna. Sono due casi diversi. Nel primo siamo dinanzi a una “Coalizione della Sinistra Radicale” (acronimo Syriza) nata dieci anni fa e guidata dal 2007 da Alexis Tsipras dopo il primo grande successo elettorale. Nel 2012 è diventata il secondo partito greco. Al presente i sondaggi lo danno come il probabile vincitore delle prossime elezioni, nel caso che il governo Samaras non riesca a eleggere il presidente della Repubblica. Syriza non vuole affatto distruggere la Ue. Vuole cambiarla. Il suo successo è dipeso da una radicale opposizione ai provvedimenti imposti dalla troika con il Memorandum d’Intesa del 2011, che ha obbligato la Grecia a tagliare pesantemente salari, stipendi e pensioni; a distruggere la sanità pubblica; a vendere ai privati beni pubblici essenziali, facendo piombare l’intero Paese nella miseria e nella disperazione. Tra i punti principali del programma di Syriza, oltre ad annullare i provvedimenti che s’è detto, v’è la proposta di una conferenza internazionale sul debito pubblico, allo scopo di ottenere che gli interessi dei cittadini non siano perennemente subordinati, come avviene ora, agli interessi delle grandi banche. Si vuole altresì richiedere alla Ue di cambiare il ruolo della Bce in modo che finanzi direttamente investimenti pubblici, e di indire una serie di referendum su vari punti dei trattati dell’Unione e altri accordi con le istituzioni europee. Diversamente da Syriza, in Spagna “Podemos” sembra per così dire nato dal nulla. Fondato nel gennaio 2014 da una trentina di persone provenienti da diversi partiti, intellettuali, esponenti di movimenti, coordinate dal trentenne Pablo Iglesias Turrión, appena quattro mesi dopo raccoglie abbastanza voti da mandare a Strasburgo cinque eurodeputati. Al presente viene accreditato di oltre il 27 per cento dei voti, quasi due punti in più dei socialisti e ben 7 in più rispetto ai popolari. Ancor più di Syriza, il programma di Podemos è fortemente caratterizzato da proposte volte a modificare gli aspetti più deleteri del Trattato Ue. Tra i punti salienti del suo programma troviamo: la conversione della Bce in una istituzione democratica che abbia per scopo principale lo sviluppo economico degli stati membri (punto 1.3); la creazione di una agenzia pubblica europea di valutazione (1.4); una deroga dal Trattato di Lisbona. Nell’insieme, i due programmi di Syriza e di Podemos appaiono essere più solidamente social-democratici, concreti e adeguati alla situazione attuale della Ue e alle sue cause di quanto qualsiasi altro partito europeo abbia finora saputo esprimere. Non per nulla i due partiti sono già oggetto di un furibondo bombardamento denigratorio da parte dei media, della troika, dei think tanks sovvenzionati dal mondo finanziario, e dei politici incapaci di pensare che al di là dell’Europa della finanza si potrebbe costruire un’Europa dei cittadini. Va ricordato al riguardo che il Trattato 23 Ue non è affatto immodificabile, come a volte si legge. L’art. 48, comma 1, prevede esplicitamente che «I trattati possono essere modificati conformemente a una procedura di revisione ordinaria». Il comma 2 precisa: «Il governo di qualsiasi Stato membro, il Parlamento europeo o la Commissione possono sottoporre al Consiglio progetti intesi a modificare i trattati ». Pertanto la questione, come si diceva una vita fa, è soprattutto politica. Ma nessuno ha mai sentito un solo politico che mostri di avere una conoscenza minimale dei trattati Ue, e ammetta che non sono scolpiti nel granito. In realtà si possono cambiare, ed è indispensabile farlo, a condizione di costruire una forza politica all’altezza del compito. Al lume delle esperienze di Syriza e Podemos, come si presenta la situazione italiana? Sulle prime si potrebbe pensare che quanto rimane di Sel, di Rifondazione, dei Comunisti Italiani, insieme con qualche transfuga del Pd, potrebbe dar origine a una coalizione simile a quella di Syriza. Purtroppo la storia della nostra sinistra è costellata da una tal dose di litigiosità, e da un inesausto desiderio di procedere comunque a una scissione anche quando si è rimasti in quattro, da non fare bene sperare sul vigore e la durata della nuova formazione. Si può solo sperare che la drammaticità della situazione spinga in futuro a comportamenti meno miopi, ma per farlo bisogna davvero credere nell’impossibile. In ogni caso non si vede, al momento, da dove potrebbe arrivare la figura di un leader simile a Tsipras o a Turrión, colto, agguerrito sui temi europei, capace di farsi capire e convincere, esponendo al pubblico in modo accessibile dei temi complessi. Qualcosa di analogo vale naturalmente per chi, scettico sulla possibilità di recuperare i frammenti delle vecchie sinistre, pensasse di costituire una formazione interamente nuova, come han fatto quelli di Podemos in Spagna. Che si sono dimostrati pure efficaci organizzatori, costituendo in pochi mesi centinaia di circoli di discussione in tutto il Paese. Un contributo potrebbe forse venire dalle esperienze di “Cambiare si può” o della stessa Lista Tsipras; non certo finite bene, ma che sono stati episodi di auto-organizzazione di una certa ampiezza. A fronte di un programma realistico, affine a quelli di Podemos e Syriza (con tutte le variazioni del caso), tali esperienze potrebbero trovare un baricentro che ai loro tempi non avevano. Il fatto è che il tempo urge, prima che il Paese caschi a pezzi. Una simile urgenza, che il popolo dello sciopero di venerdì scorso sentiva benissimo, insieme con l’attrattiva di un impegno realistico per ridare peso nella Ue a ideali come eguaglianza, solidarietà, partecipazione democratica, al posto della lugubre e distruttiva Ue della finanza, potrebbero contribuire a raccogliere molti più consensi di quanto oggi non si possa sperare. 24 LEGALITA’DEMOCRATICA del 16/12/14, pag. 6 Le coop bianche, il patto e la telefonata a Bergoglio IL NOME DELL’ARCICONFRATERNITA NELL’INCHIESTA SUL MONDO DI MEZZO: L’AFFARE DI VIA DEL CONSERVATORIO, L’UOMO “IN ALTO” E GLI INTERESSI DI ODEVAINE di Paola Zanca Sa perché c’è questo profumo di incenso? Dobbiamo coprire l’odore di cibo, tre ore fa qui c’erano i senzatetto a mangiare. E anche questo, lo dobbiamo a Tiziano e Francesco”. Basilica di Sant’Eustachio, Roma. Don Pietro Sigurani cammina per la navata e si sgola per difendere Tiziano Zuccolo e Francesco Ferrara, due nomi citati tante volte, forse troppe, nell’inchiesta sul Mondo di Mezzo. Sono i reggenti dell’Ar - ciconfraternita del Ss. Sacramento e di San Trifone, il braccio bianco del sistema dell’acco - glienza nella Capitale. Quelli che con il “rosso” Salvatore Buzzi hanno stretto un accordo “ferreo”: un patto “50 e 50”, dice il re delle coop di ex detenuti, che non viene “mai tradito” e “nun se move d'un millimetro”. PER CAPIRE come la Chiesa cattolica abbia incrociato la strada della Cupola romana, bisogna tornare a metà degli anni 90. Nella parrocchia della Chiesa della Natività di via Gallia, don Pietro Sigurani – “l’imam cattolico” lo chiamano, perché da una vita si dà da fare per gli immigrati – ha vicino due ragazzi, particolarmente svegli. Sono Tiziano e Francesco, all’epoca 25enni. Don Pietro li arruola nell’Arciconfraternita che monsignor Luigi Moretti, segretario generale del cardinale Camillo Ruini, gli ha chiesto di rimettere in piedi dopo anni di inattività. Zuccolo è “camerlen - go”, ovvero tesoriere. Ferrara è presidente e lo è rimasto fino a tre mesi fa. In pochi anni diventano una potenza. Hanno la sala operativa sociale del Comune di Roma, il centro Enea, lo sportello di accoglienza dei rifugiati a Fiumicino, si occupano dell’emergenza freddo e dei senza casa: il business delle coop di Buzzi, che non a caso vengono ribattezzate “la risposta sovietica all’Arciconfraternita”. Non godono di buona stampa, Zuccolo e Ferrara. Chi ha lavorato con loro li ricorda come spregiudicati nella gestione dei centri e gerarchi nei confronti di chiunque segnalasse qualcosa che non andava. E pure per il Vicariato, Zuccolo e Ferrara, sono due intrusi che hanno “sfruttato il nome dell’Arciconfraternita” per dar vita a una serie di cooperative (la Domus Caritatis su tutte) che nulla hanno a che vedere con la “connotazione spirituale” originaria: “Nel 2010 mandammo la prima visita canonica”. Fu allora, spiega un comunicato ufficiale del cardinale Agostino Vallini, che si “chiese all’Arciconfraternita di astenersi dal concorrere a bandi pubblici oltre quelli già in essere”. Poi altre due visite, l’ultima nel 2013, e la decisione di chiudere tutto. Giurano che anche monsignor Moretti e don Pietro “hanno preso le distanze da quei due”. Solo che si sono dimenticati di avvertirli: “Cosa? –sbotta don Pietro – Per me Tiziano e Francesco sono due bravissime persone”. E attacca frontalmente il cardinale Vallini: “Fa Ponzio Pilato, se ne lava le mani: ci hanno fatto fare le cose più rischiose, quelle che nessuno voleva fare. I progetti senza coperture, quelli con i soggetti più difficili. E pure l’ispezione... c’era - no appunti sui contratti di lavoro, ma per il resto erano solo lodi!”. Effettivamente, Zuccolo è ancora presidente del Centro Culturale Giovanni XXIII. E né lui né Ferrara sono indagati. 25 EPPURE suona strana la familiarità dei due con la banda di Carminati. Zuccolo ha un rapporto strettissimo con Buzzi (“Divi - diamo da buoni fratelli, ok?”, gli dice). Via Collazia, già sede di una delle coop di Zuccolo, è luogo di incontri: l’8 febbraio 2013 anche una Mini guidata da Massimo Carminati si ferma davanti al civico 2/F. Zuccolo poi è in estrema confidenza con Luca Odevaine, l’uomo che si occupava dello smistamento degli sbarchi in Sicilia. A un certo punto il sodalizio sembra incrinato perché, secondo l’ex collaboratore di Veltroni, i due “sono rozzi”: “Francesco (Ferrara, ndr) risponde “ah che ti frega tanto sto Cardinale ora se ne va in pensione, ci mettiamo un altro che diciamo noi!”. Ma “loro – sostiene Odevaine –finché c’era Ruini c’avevano questo rapporto stretto, facevano come gli pareva, adesso non è proprio più così”. Eppure, nonostante le maldicenze, è a Odevaine che Zuccolo confida i dettagli di un possibile grosso affare. C’è da ristrutturare un enorme complesso in via del Conservatorio, l’idea è farne una residenza per preti in pensione. Odevaine vuole che i lavori siano affidati alla ditta del costruttore Pulcini. Ma parte di quella struttura è del Vaticano. Per questo serve “un passaggio alto, molto alto, ma proprio alto”. È Papa Francesco in persona, racconta oggi don Pietro Sigurani: “L'idea era mia – dice - ma come potete vedere poi non se ne fece niente”. Quello di don Pietro era “un grande progetto per i parroci che tanto hanno dato alle loro comunità”. Ma Zuccolo all’epoca rassicurava Odevaine, che forse in testa aveva altro: “Più in alto di lì non si arriva di più, cioè finiamo proprio totalmente”. Odevaine scherzava: “La trinità”. E Zuccolo non poteva che confermare: “Si, proprio così, proprio lì, arriviamo lì, proprio dov'è possibile, dove c’è ancora l’essere umano”. Del 16/12/2014, pag. 13 Mafia Capitale, frode sul gasolio Arrestati 3 militari della Marina Il carburante doveva andare al porto di Augusta su una nave fantasma Il direttore de “Il Tempo” indagato per favoreggiamento: “Sono sereno” Grazia Longo La notizia in superficie è l’arresto di 6 persone, più quattro indagati, per una truffa da 8 milioni, con il coinvolgimento di 6 ufficiali e sottufficiali della Marina militare e un imprenditore legato al clan di Mafia Capitale. Ma ciò che emerge tra le righe dell’ordinanza del gip Alessandro Arturi è ancora più allarmante: l’imbroglio è stato così enorme da scatenare «diversi interrogativi e un diffuso atteggiamento di prudenza e quasi iniziale scetticismo nella valutazione degli elementi». Anche nei confronti dei «centri di poteri istituzionali». È quindi probabile che le indagini del Nucleo tributario della guardia di finanza avranno presto nuovi sviluppi e nuovi arresti. Il sistema scoperto dalle Fiamme Gialle, sull’onda dell’inchiesta dei carabinieri del Ros, era più che collaudato e ha causato una frode all’erario di quasi 8 milioni di euro. La falsa nave Con la complicità della catena di comando - 6 ufficiali e sottufficiali della Marina, di cui 3 in manette, gli altri denunciati - sono stati falsamente fatturati 11 milioni di gasolio destinato al porto siciliano di Augusta attraverso la nave cisterna Victor I. Un’imbarcazione fantasma, considerato che è naufragata nell’oceano Atlantico nel 2013. Il gip di Roma evidenzia che le verifiche avvenivano con un’«inammissibile superficialità e sciatteria (nella migliore delle ipotesi) di un meccanismo generale di regolamentazione del rapporto tra l’amministrazione militare e la ditta fornitrice… contrassegnato da sorprendenti accenti 26 di approssimazione e indeterminatezza nella quantificazione del fabbisogno energetico…». Il carburante veniva fornito - solo sulla carta - da una ditta danese che si avvaleva della collaborazione di due società italiane. Possibili altri arresti Sulle possibili responsabilità di altre persone il gip precisa: «Si intravede una realtà assai più articolata e complessa perché appare chiaro che la concreta praticabilità del programma criminale ideato… sottende l’ineludibile realizzazione di passaggi preliminari involgenti responsabilità, quantomeno sotto il profilo contabile, di altri soggetti e centri di potere istituzionali, allo stato non attinti dalla presente indagine». La Marina Militare intende costituirsi parte civile. E il ministro dell’Interno, Angelino Alfano annuncia che il prefetto di Roma, Giuseppe Pecoraro, ha nominato la Commissione d’indagine incaricata dell’attività di accesso e accertamento al Comune di Roma Capitale, composta dal prefetto Marilisa Magno, dal viceprefetto Enza Caporale e da Massimiliano Bardani, dirigente del Ministero dell’Economia. Il giornalista indagato Nel frattempo Gianmarco Chiocci, direttore de «Il Tempo» è stato indagato per favoreggiamento. In un’intercettazione Salvatore Buzzi, braccio operativo di Carminati, lo avverte «di aver ricevuto notizie in merito alle indagini in corso su di lui dal direttore Chiocci». Il quale replica: «Sono tranquillissimo, un giornalista perbene, a disposizione degli inquirenti». 27 RAZZISMO E IMMIGRAZIONE del 16/12/14, pag. 6 Ponte Galeria, fondi tagliati al Cie Valentina Brinis Liana Vita Italia. A rischio le condizioni di vita degli immigrati. E i 67 operatori rischiano il posto È stata quasi dimezzata la cifra quotidiana a disposizione dell’ente gestore per ogni trattenuto al Cie di Ponte Galeria, vicino Roma: da 41 a 28,8 euro al giorno. È questa la variazione principale derivata dal cambio di amministrazione del centro, prima coordinato dalla cooperativa Auxilium e, dalla mezzanotte del 14 dicembre, dalla Rti Gepsa S.A. e dall’associazione culturale Acuarinto. Il passaggio da un ente all’altro si sta rivelando pieno di difficoltà, a cominciare dalla sorte dei 67 operatori cui non è stata garantita la riconferma. La nuova gestione è subentrata a quella precedente due anni dopo la scadenza del contratto tra l’Auxilium e la prefettura di Roma, poiché alla fine del 2012 non era ancora terminata la gara per l’assegnazione dell’appalto. L’aspetto più delicato riguardava la determinazione del costo giornaliero di ogni ospite che è stato infine fissato dalla prefettura a 30 euro. E ancora una volta, nonostante le denunce di associazioni e operatori, il criterio per selezionare l’organizzazione aggiudicatrice è stato quello della «migliore offerta con il criterio del prezzo più basso», come si legge nel testo del bando «ponendo a basa d’asta il prezzo di 30,00 pro-capite pro-die» e senza che fossero «ammesse offerte in aumento rispetto al prezzo a base di gara». Una dicitura che crea non poche perplessità. Innanzitutto perché la cooperativa Auxilium, insieme ad altri enti gestori in tutta Italia, attribuiva alla scarsità di fondi disponibili le difficoltà di gestione del centro. L’esempio più evidente, tra tanti, riguardava l’impossibilità di ritinteggiare le pareti in seguito a un principio di incendio verificatosi durante una protesta. Non solo. I fondi insufficienti ricevuti per la gestione influivano negativamente sulla qualità dei prodotti da acquistare per l’igiene degli ospiti, dal dentifricio al detersivo per lavare gli indumenti. Ma a risentirne erano anche gli operatori, costretti a ritmi di lavoro estenuanti in un edificio fatiscente e lugubre. E tutto ciò, quando a disposizione c’erano 41euro, ogni giorno e per ogni ospite. Dal 15 dicembre, quella cifra è diminuita di 13 euro. Le ripercussioni sulla vita dei trattenuti saranno numerose, a cominciare dalla prima misura messa in atto: la riduzione del pocket money, ovvero dei soldi che ogni ospite ha a disposizione per l’acquisto di beni extra, come snack, tessere telefoniche e sigarette. Da 7 euro si è passati agli attuali 5 euro. Senza voler mettere in discussione preventivamente la nuova gestione, occorre valutare le conseguenze di un simile taglio. E non mancano i precedenti: negli anni scorsi a Crotone, a Modena e a Bologna si è arrivati alla chiusura dei centri per l’insostenibilità dei costi di gestione a fronte della scarsità di fondi, e dopo che per mesi i trattenuti erano stati costretti a condizioni di vita del tutto inadeguate. Andrebbe rivisto l’intero sistema e soprattutto i criteri di assegnazione, affidando ad esempio a un ente gestore su scala nazionale tutti i centri attraverso un’unica procedura a evidenza pubblica e legando l’assegnazione delle gare d’appalto non solo all’offerta economica più bassa, ma al rispetto di quanto previsto dal capitolato. Andrebbe poi garantito il monitoraggio a livello centrale delle condizioni di vita nei centri, verificando la congruenza dei servizi offerti con le convenzioni. E, ancora, andrebbe ripensato il ricorso stesso ai Cie, se si pensa alla funzione che svolgono: trattenere, anche per mesi, persone che raramente vengono poi rimpatriate. Il problema vero riguarda la sussistenza di questi posti che hanno già dimostrato tutta 28 l’inefficacia rispetto alla loro ragione di esistere: l’identificazione e l’espulsione. Basta un solo dato a dimostrarlo: a fronte di tutte le persone trattenute, solo lo 0,9% viene rimandato nel paese di origine. Tutte le altre escono senza essere identificate e senza aver avuto la possibilità di regolarizzare la loro posizione sul territorio italiano. del 16/12/14, pag. 2 (Roma) Tor Sapienza, «scontri pilotati» per tutelare gli interessi di Buzzi Inchiesta della Procura: il sospetto che gli attacchi agli immigrati abbiano avuto una regia Agli atti, articoli di giornale, agenzie di stampa e un elenco di nomi e cognomi. Persone da ascoltare e che, a breve, saranno convocate in Procura per offrire la propria versione dei fatti. L’indagine è stata delegata agli agenti della Digos, intervenuti nei giorni degli scontri di Tor Sapienza per gestire una situazione fuori controllo. Ora, però, alla luce dell’inchiesta «Mafia Capitale», sono cambiate le domande: quegli scontri che si conclusero con il trasferimento dei 45 minori stranieri dal centro di accoglienza di via Morandi («Un Sorriso») potrebbero essere stati pilotati. Dubbi su una regia occulta — riconducibile in qualche modo a Salvatore Buzzi il creatore della coop «29 giugno» — sono emersi nei giorni scorsi. Gabriella Errico, responsabile dell’associazione che ospitava quei profughi, ha denunciato pressioni e minacce di Buzzi, del suo collega Sandro Coltellacci e dell’ex Nar Maurizio Lattarulo (incontrato, ai tempi dell’ex sindaco Alemanno, addirittura negli uffici capitolini) per emarginarla dal business. Sta di fatto che, nei giorni in cui sulle strade di Tor Sapienza, si è riversata la rabbia di un’intera periferia, l’unico centro preso d’assalto dai manifestanti è stato quello della Errico. Disagio veicolato dalla concorrenza? Non lontano da via Morandi e dalla coop «Un sorriso» ci sono i centri gestiti da un amico di Buzzi e Massimo Carminati, Tiziano Zuccolo. Che a maggio 2013, intercettato, parlava con il leader della «29 giugno» di fare a mezzi su un gruppo di immigrati da accogliere («Eh, bravo, l’accordo è al cinquanta per cento, dividiamo da buoni fratelli, ok?») . Ebbene la rabbia dei residenti, a novembre scorso, risparmia quelle strutture, anzi le ignora. Come mai? Tutte domande a cui dovrà dare risposta il pm Eugenio Albamonte, titolare del fascicolo. I pm coordinati dall’aggiunto della Dda, Michele Prestipino, gli contestano di aver pilotato l’aggiudicazione della gara bandita da Ama nel 2013 in favore di una coop di Buzzi. Domani il responsabile delle coop sarà ascoltato dai giudici del Riesame. Intanto, da una nota depositata dai carabinieri del Ros, emerge che Buzzi avrebbe fornito a Massimo Carminati informazioni sulle indagini in corso. E infatti, il 30 novembre gli investigatori riferiscono di un Carminati «in grande stato di agitazione» e che «metteva in atto condotte elusive di attività intercettive e di pedinamento». Carminati scrive il Ros «ha mutato vistosamente le proprie abitudini quotidiane, mostrandosi più guardingo e assumendo comportamenti mai tenuti che fanno ritenere abbia intenzione di sottrarsi alla cattura. Carminati è in grado, in varia maniera, di venire a conoscenza di informazioni inerenti al procedimento penale instaurato nei suoi confronti, circostanza che incrociata con i dati investigativi, induce a ipotizzare che lo stesso sia in grado di riceverne sempre di nuove e più aggiornate». Il Nero sarà arrestato con due giorni di anticipo rispetto agli altri. Ilaria Sacchettoni 29 Del 16/12/2014, pag. 23 Niente bus separati I rom sono spariti grazie ai controllori Borgaro, viaggio sul 69 a due mesi dalla proposta del sindaco Massimo Numa E’ finita l’emergenza rom sulla linea 69 tra Torino e il comune di Borgaro? Sembrerebbe di sì. Passato più di un mese dall’esplosione del caso, con risonanza nazionale, innescato dalla singolare proposta del sindaco Pd di Borgaro, Claudio Gambino, di «dedicare» un bus all’uso esclusivo della gente dei campi nomadi della zona, è tempo di un primo bilancio. Perché i rom disturbavano i passeggeri, non solo italiani. E poi borseggi, liti, risse, danneggiamenti e atti di puro vandalismo in serie. Il viaggio Alle 15,30 di ieri sul «69», partenza da via Stampini, periferia nord di Torino, ci sono poche persone. Il viaggio verso Borgaro dura pochi minuti e quando il bus si avvicina alla fermata davanti al famigerato campo non c’è nessuno; eppure le baracche, le roulotte e i furgonicamper sono intensamente popolati. Ci sono falò ovunque e una fitta coltre di fumo incombe sulla strada. Da qualche tempo, giusto dalla proposta choc della giunta di centrosinistra, con quota Sel, il fenomeno dei bus-senza-rom accade sempre più spesso. Gli utenti rom sono diminuiti in modo molto sensibile, in certe fasce orarie il livello della loro presenza è vicino allo zero. Paura dei controllori Colpa (o merito) della rete di sorveglianza disposta da Gtt. A bordo ci sono due controllori, sempre, e ieri anche due vigili urbani della sezione Nomadi di Torino. Seduti in fondo al bus, la pettorina della polizia urbana, più i due controllori, nervi saldi e pazienza infinita. È una misura ormai di routine ma ha avuto l’effetto immediato di eliminare alla radice il fenomeno di chi si ostinava a non pagare il biglietto o a trasformare i bus in una giostra. Alle fermate, spesso, ci sono i blindo dei carabinieri e le volanti della polizia. Seguono i mezzi pubblici durante la corsa, ogni tanto gli uomini in divisa salgono e bordo e fanno un controllo. «I bus saltano le fermate» I rom osservano l’insolito andirivieni di auto e di divise e si inquietano. Salgono in gruppo dalla strada infangata e chiedono spiegazioni ai reporter: «Non potete fotografare niente, questa è proprietà privata». Infatti, su una delle baracche, c’è anche la targhetta del numero civico, 219, scritta dai residenti. In teoria non esisterebbe, ma tant’è. I terreni, dicono, sono stati regolarmente acquistati. Va bene, ma i permessi di costruire le «case»? Lasciamo perdere. Poi: «Ah sì, siamo spariti? Non sapete perché? Chiedete a loro (indicando i controllori poco lontano, ndr), alla signora Gtt... Hanno avuto l’ordine di “saltare” le fermate, passano come missili, ci ignorano». Dopo una pausa di riflessione, spuntano altre ragioni di questa forma inconsueta di sciopero bianco: «Ci perseguitano, sono razzisti. Guarda questa multa. Mio figlio tornava da scuola, non aveva il biglietto, ok, e gli hanno fatto il verbale. Si va da un minimo di 36 euro a un massimo di 90. Sai quanto dobbiamo pagare? 90 euro. E non è vero che non le paghiamo, le multe. Abbiamo molti mezzi, auto, con le ganasce fiscali, non ci fanno più lavorare». Immediata la replica di Gtt: «La multa di 90 euro è per le infrazioni avvenute 30 nell’area urbana ed è ridotta a 36 sui percorsi extra-urbani. Nessun accanimento, niente razzismo. Gtt: tutti devono pagare Il direttore di esercizio Gtt, Gianni Rabino, dice che «i problemi della linea sono di fatto cancellati. Anche se le misure adottate si allargano a tutte le linee e non solo al bus 69. Non è vero che i mezzi non si fermano. Le soste per caricare i passeggeri, se ci sono, vengono effettuate. I servizi di vigilanza continueranno anche se, ripeto, non riguardano solo la tratta Torino-Borgaro, il biglietto devono pagarlo tutti, non solo i rom». Caso chiuso? «Per ora non ci sono elementi critici da segnalare. Vedremo che accadrà nei prossimi mesi». del 16/12/14, pag. 6 Siriani occupano piazza Syntagma Marco Omizzolo e Roberto Lessio Grecia. La protesta per chiedere la modifica del regolamento di Dublino III che vieta loro di spostarsi in altri paesi Ue Sono trecento i migranti fuggiti dalla Siria che dal 19 novembre scorso occupano Piazza Syntagma, davanti al Parlamento greco. Uomini, donne e bambini in presidio permanente e in sciopero della fame che rivendicano il diritto di lasciare la Grecia e di presentare domanda d’asilo in altri paesi europei. Una protesta condivisibile che conta purtroppo già due morti, mentre il governo di Atene continua a fare finta di nulla. Il primo è morto di freddo cercando di attraversare il confine tra Grecia e Albania nel tentativo di realizzare il suo progetto di vita. Il secondo siriano, gravemente debilitato per lo sciopero della fame, è invece morto di infarto in un ospedale di Atene. Per sostenere la protesta dei richiedenti asilo siriani si sta diffondendo in rete un appello da firmare. Melting pot Europa tra i vari se ne sta facendo carico. Sono molte sinora le adesioni, a partire da Erri De Luca, LasciateCIEntrare, Be Free, Chiara Ingrao e Terre des Hommes. Il regolamento Dublino III è il principale ostacolo per i richiedenti asilo in Europa. Una forma di costrizione che obbliga il richiedente a stanziare nel primo paese di arrivo, spesso impedendogli di ricongiungersi coi familiari già presenti in altri paesi. È bene ricordare che la Grecia non è un paese sicuro per i richiedenti asilo, considerando le carenze dei suoi centri di accoglienza. Inoltre vari rapporti internazionali confermano da anni gli abusi delle autorità greche nei confronti dei profughi, tanto che le Corti internazionali hanno sospeso i rinvii Dublino verso il paese. Eppure i richiedenti asilo siriani sono obbligati proprio da un regolamento europeo a risiedere in quel paese. Una violenza inaccettabile, mentre chi riesce a fuggire raggiungendo altri paesi subisce abusi gravi sino all’arresto, come si sta verificando in Bulgaria e in Polonia. La speranza dei siriani di lasciare il paese è dunque mortificata sia dalla ottusa volontà ellenica, che dalla stessa Unione europea, che con ostinazione continua a blindare le frontiere, anche quelle interne, per impedire i movimenti secondari dei migranti da uno Stato all’altro. Un’applicazione sempre più rigida del Regolamento Dublino III, decisa anche a livello di forze di polizia, con accordi multilaterali come le ultime intese tra Italia, Austria e Germania, responsabili di disastri e tragedie continue. Proprio a causa del Regolamento Dublino III molti potenziali richiedenti asilo preferiscono addirittura essere respinti in frontiera e proseguire il viaggio affidandosi ai trafficanti di uomini, faccendieri della mafia 31 delle migrazioni, alimentando il business della clandestinità, piuttosto che restare intrappolati in un girone infernale ammantato di retorica dell’accoglienza. Il diritto d’asilo in Europa, dunque, è evidentemente inadeguato ad accogliere e risolvere i drammi di migliaia di persone che fuggono da guerre, epidemie, dittature e cambiamenti climatici. Un sistema che nasce per difendere i diritti umani e che invece si sta tramutando nel suo contrario. L’Unione europea dovrebbe attivare gli strumenti e i canali della protezione temporanea previsti dalla Direttiva 2001/55/CE, per decongestionare il sistema dell’asilo e consentire una mobilità secondaria nei diversi paesi Ue. Una volta dotati di un documento provvisorio di soggiorno legale, e dunque della libertà di circolazione, i profughi devono avere riconosciuto il diritto di chiedere asilo dove hanno già legami familiari o sociali o almeno in paesi che abbiano sistemi di accoglienza che rispettino la dignità umana e il diritto al ricongiungimento familiare. I nuovi Commissari europei, il parlamento, così come i ministri degli Esteri e degli Interni dei paesi membri devono rispondere delle continue carneficine che avvengono nei mari di fronte all’Europa, delle condizioni disumane di assistenza, prima accoglienza e di detenzione dei profughi, dei migranti richiedenti asilo e dei migranti economici. Devono prendere atto del fallimento di dispositivi come quello di Dublino, e lavorare nell’ottica di politiche di inclusione realmente efficaci così come garantire il diritto alla libertà di circolazione. Del 16/12/2014, pag. 5 “Gli immigrati ci servono” Così Hollande sfida Le Pen Paolo Levi Già il luogo in sé è tutto un simbolo: un immenso edificio art déco costruito per l’esposizione coloniale del 1931, ritrasformato in grande museo dell’immigrazione. A oltre due anni e mezzo dall’elezione all’Eliseo, il presidente François Hollande ha pronunciato quello che già in mattinata veniva preannunciato come il suo primo «grande discorso sull’immigrazione», uno dei temi più spinosi - quello che da sempre spacca i francesi - con le polemiche senza fine sui flussi clandestini e l’impennata dell’estrema destra di Marine Le Pen nelle elezioni europee. Un delicato gioco di equilibrismo, quello del presidente, che ora scommette sui grandi valori della gauche per risalire la china. E risponde indirettamente al rivale di sempre, Nicolas Sarkozy, recentemente rieletto alla guida della destra Ump. Boicottato da Sarkozy Fortemente voluto dall’ex premier socialista Lionel Jospin negli anni Novanta, il museo è stato infatti oggetto di forti polemiche negli ultimi due decenni. La sua prima apertura al pubblico per una mostra era arrivata solo nel 2007, ma per l’inaugurazione ufficiale si è dovuto attendere ieri, perché Sarkozy, evitò di organizzarne una. Nell’edificio del sud di Parigi - costruito inizialmente per vantare il modello coloniale, come suggeriscono gli affreschi della grande sala in cui si rende omaggio a una Francia portatrice di civiltà, che dispensa al mondo le sue virtù - Hollande si è invece speso in un lungo elogio dei migranti, rendendo omaggio al loro contributo nella costruzione della République. «L’immigrazione fu un prodotto delle nostre necessità, per rispondere ai bisogni del nostro Paese», ha sottolineato, facendo valere - addirittura con cifre alla mano 32 - le sue argomentazioni: «Si calcola che gli immigrati abbiano costruito una casa su due, due macchine su sette, e il 90% delle autostrade». Poi l’attacco contro i «demagoghi che aizzavano le paure» e facevano leva sulla tradizione «per giustificarne il rifiuto». Il massacro degli italiani Hollande ha quindi citato alcuni casi emblematici di xenofobia, tra cui quello del 1893 ad Aigues Mortes, nel sud della Francia, dove alcuni «francesi, fomentati da assurde voci, avevano massacrato i lavoratori italiani». «Non c’e niente di nuovo nei discorsi di oggi: gli immigrati sono sempre stati accusati di venire a rubare il lavoro dei francesi - ha avvertito ancora Hollande - la novità è la penetrazione di queste tesi in un contesto di crisi interminabile e di globalizzazione». Di qui, l’appello alle «forze repubblicane», affinché procedano alle necessarie riforme costituzionali per riconoscere il diritto di voto agli stranieri nelle elezioni locali, una delle grandi promesse della sua campagna presidenziale, ma che per ora è rimasta lettera morta. 33 SOCIETA’ del 16/12/14, pag. 27 Noi spiati ovunque Anche al museo Sensori e telecamere seguono i visitatori Dopo i supermercati, le grandi gallerie monitorano il pubblico per capirne i gusti DAL NOSTRO INVIATO NEW YORK Al Guggenheim della Fifth Avenue, il museo a spirale disegnato da Frank Lloyd Wright, le pareti curvilinee rappresentano una sfida in più per i tecnici che, piazzando sensori e telecamere, raccolgono dati sul comportamento dei visitatori per cercare di decifrarne gli interessi. Al Moma, Sree Sreenivasan, che abbiamo conosciuto anni fa alla Columbia University come docente della scuola di giornalismo e pioniere dello studio del ruolo dei social media nell’informazione, ha invece vita più facile nella raccolta dei dati sui 6 milioni di visitatori che ogni anno si aggirano negli enormi spazi del Museo d’arte moderna di Manhattan, del quale è diventato il chief digital officer . Nell’era digitale, si sa, siamo tutti «osservati speciali»: dalle telecamere di sicurezza dei palazzi e degli aeroporti, a quelle che riprendono i marciapiedi o sistemate dalla polizia negli incroci. C’è l’occhio che ti spia nei negozi, in banca, allo stadio, e quello che ti controlla in ascensore. Ma siamo anche tutti delle miniere viventi di informazioni per «Big data» che vengono raccolte, con o senza la nostra collaborazione, seguendo le tracce che lasciamo su Internet o quelle fisiche monitorate con appositi sensori. Come quelli capaci di misurare la frequenza degli spostamenti da una scrivania in ufficio e che, magari, spengono la luce quando esci da una stanza. Negli Stati Uniti l’uso più frequente delle tecnologie digitali lo fanno le grandi catene della distribuzione commerciale che, con telecamere e sensori davanti agli scaffali, cercano di capire cosa viene acquistato e perché. Si studia il volto degli acquirenti per carpirne lo stato d’animo: quel prodotto non è stato comprato perché costa troppo o perché piace poco? Tecniche di questo tipo sono usate da tutti i grandi protagonisti del commercio di massa, da Macy’s a Wal-Mart. Ora anche i maggiori musei americani si sono messi sulla stessa strada: i curatori delle esposizioni cercano di capire cosa interessa di più al pubblico per modulare le loro mostre e, magari, modificare l’offerta di imitazioni vendute nei negozi del museo. Se le sculture di un artista attirano un’attenzione particolare, l’esposizione può essere trasferita in uno spazio più ampio e può essere accelerata la produzione di copie delle sue opere. Il tutto, spesso, con la collaborazione dei visitatori ai quali molte istituzioni — dal Fine Arts di Boston al Nelson-Atkins di Kansas City — chiedono informazioni durante la visita usando i loro smartphone o iPad ricevuti in prestito. In cambio otterranno accessi gratuiti al parcheggio o ad altre manifestazioni culturali. Il più avanzato, secondo il Wall Street Journal , è il Dma di Dallas, col suo sistema di punti simili a quelli ottenuti coi programmi frequent flyer delle compagnie aeree. I cultori della privacy storcono il naso: almeno davanti all’arte, i nostri comportamenti non dovrebbero essere spiati. Orientare le scelte culturali sui gusti della maggioranza è, poi, rischioso: si può finire per massificare tutto lasciando in ombra espressioni di valore e di nicchia. Ma ormai quella dei musei è una macchina che muove interessi giganteschi: la Smithsonian, la grande fondazione dei musei di Washington, ha avviato un rifacimento di quelli che si affacciano sul Mall della capitale che durerà 10 anni e costerà più di 2 miliardi di dollari. Inevitabile ragionare anche in una logica commerciale. Massimo Gaggi 34 BENI COMUNI/AMBIENTE del 16/12/14, pag. 8 Clima, vince il compromesso e la salvezza si allontana Marinella Correggia Perù. La conferenza Onu che si è svolta a Lima Niente salvataggio del clima, a Lima. E’ un accordo di compromesso quello concluso ai supplementari fra i 195 paesi presenti alla Conferenza Onu sul clima (Cop 20) svoltasi nella capitale peruviana. Le mete prefissate erano due: approvare una bozza di accordo climatico globale da portare, nel dicembre 2015, alla Conferenza Cop 21 di Parigi dove sarà sostituito l’obsoleto — e limitatissimo — Protocollo di Kyoto; delineare un quadro strutturale per gli impegni di riduzione delle emissioni che ogni paese dovrebbe presentare all’Onu entro ottobre 2015. Ma su entrambi i fronti, dal testo, l’«Appello di Lima per l’azione climatica», non esce nulla di vincolante, malgrado l’urgenza di contenere entro i due gradi l’aumento della temperatura globale. Del resto molti movimenti ambientalisti e sociali da tempo chiedono di fissare l’obiettivo a un massimo di 1,5 gradi. Secondo il comunicato delle reti per la giustizia climatica presenti nella capitale peruviana, «davanti all’emergenza planetaria causata da un sistema che persegue il profitto a scapito dei bisogni dei popoli e dei limiti della natura, un risultato importante a Parigi sarà reso ancora più difficile dalle debolezze del testo di Lima». Questo è stato approvato dopo che una precedente bozza era stata respinta dai paesi in via di sviluppo, i quali accusavano le nazioni più ricche di sfuggire alle proprie responsabilità di fronte al riscaldamento globale e di dimostrare grande avarizia anche di fondi. Il testo riconosce le «responsabilità comuni ma differenziate, così come le rispettive capacità, sulla base delle situazioni nazionali». C’è una grande differenza infatti fra le emissioni storiche dei paesi, e anche fra quelle attuali (per dire, sono 54 le tonnellate annue pro capite di gas serra emesse dal Qatar e poche centinaia di kg quelle del Niger). La conferenza di Durban impegnava le nazioni ricche a sbloccare 100 miliardi di dollari all’anno — fondi pubblici e privati — per l’aiuto climatico alle nazioni ‘in via di sviluppo’ entro il 2020. Ma gli impegni vincolanti – morali e legali — per evitare le solite scappatoie, nel testo di Lima sono assenti. L’accordo al punto 4 semplicemente «invita» i paesi sviluppati a prevedere sostegni finanziari per azioni ambiziose di mitigazione e adattamento nei paesi colpiti. I paesi più vulnerabili – e meno responsabili — sono riusciti a far infilare (malgrado la netta opposizione degli Stati uniti) un vago riferimento ai «danni e perdite» da compensare. Ma è troppo poco. Eppure, d’ora in poi anche il Sud sarà tenuto, oltre che ad adattarsi al cambiamento climatico che già subisce e che in parte è irreversibile, a ridurre le proprie emissioni: è caduta la distinzione fra paesi “sviluppati” del cosiddetto Annesso I (ai quali il protocollo di Kyoto assegnava obiettivi di riduzione vincolanti – ma ad esempio gli Usa non l’avevano firmato) e quelli non-Annesso I, non obbligati a tagliare. Sul fronte degli impegni nazionali di riduzione nel testo di Lima è stata annacquata la parte delle azioni urgenti da compiere prima del 2020; eppure il taglio alle emissioni deve essere grande e rapidissimo, o i due gradi saranno superati di certo con conseguenze devastanti. 35 Insomma, dicono i movimenti, Lima lascia aperta la possibilità per ogni paese di decidere la linea che preferisce e di continuare ad agire nell’interesse delle corporations inquinanti, mettendo in atto scappatoie come il commercio dei diritti di emissione. Di positivo c’è che quasi 50 nazioni concordano sulla totale eliminazione delle emissioni di carbonio entro il 2050. Il che equivale all’abbandono dell’era fossile. Intanto l’anno prossimo la Bolivia sarà la sede dell’incontro mondiale dei movimenti sociali contro i cambiamenti climatici. Il precedente risale al 2010. del 16/12/14, pag. 5 Ambientalisti contro i parchi eolici Silvio Messinetti Catanzaro Il caso. Il business delle rinnovabili è ricco di incentivi, e nella regione subisce le infiltrazioni delle 'ndrine. Il progetto di un megaparco nel mirino delle associazioni: "Stravolgerebbe il paesaggio e il verde delle foreste" Nel 2020 l’Italia dovrà avere il 17% dei propri consumi elettrici da fonte rinnovabile, come prevede il Protocollo di Kyoto. Per questo da anni stiamo finanziando lo sviluppo dell’energia “pulita”, e i nostri incentivi per le pale eoliche sono i più alti d’Europa. Terna, la società semipubblica responsabile della trasmissione di energia sulla rete, ha ricevuto un numero impressionante di richieste di allacciamento per nuovi impianti. Ci sono 170 mila Mw pronti a essere autorizzati sebbene in Italia il picco di potenza richiesta sia meno della metà. Nel fotovoltaico siamo al secondo posto al mondo dopo i tedeschi. E nell’eolico i quinti produttori. Pur avendo un territorio limitato e ricoperto da vincoli. Dettagli. Perché la green economy è anzitutto un business. Ci guadagnano le multinazionali, le piccole società di sviluppatori. Ci guadagna la ‘ndrangheta. La Calabria è la regione che più di ogni altra ha aumentato la sua potenza eolica. Ma le ‘ndrine sono col vento in poppa anche fuori dalla regione. La recente inchiesta della Dda di Perugia sulla ‘ndrangheta umbra ha svelato le mire dei Farao-Marincola di Cirò sulla green economy in Appennino centrale. I numeri non sono neutri. In Calabria il vento tira eccome. Ma tira soprattutto un’irrefrenabile voglia di far cassa con l’eolico. Dal 2006 al 2012 la Regione ha autorizzato ben 56 impianti di energia del vento. Le aree sono circoscritte: lo Jonio crotonese e il Basso catanzarese. Aree ventose dove la tramontana vola anche sopra i 50 nodi. Ma anche zone a forte densità mafiosa. Le signorie di ‘ndrangheta si chiamano Arena, Farao, Grande-Aracri, Vallelunga-Sia, Giampà, Mancuso. I clan hanno capito che le energie rinnovabili sono la nuova frontiera dell’economia legale e illegale. Solo nel crotonese ci sono ben 800 torri da piantare e 2400 pale da montare. E ancora 250 domande (per oltre 30 mila Mw di potenza) che attendono il nulla osta. Molti impianti sono stati nel tempo confiscati dalla magistratura, ma ben presto dissequestrati. A dispetto di così tante strutture, il fabbisogno energetico non è di certo migliorato. Paradossi. In compenso è stato deturpato l’ambiente e sfregiate le bellezze paesaggistiche. L’aria viene trivellata bellamente dalle pale. Per gonfiare le tasche dei palazzinari del vento. Che molte volte assumono le vesti di ‘ndrine e potere criminale. 36 «Il mare e la montagna, gli abissi e le vette possono sembrare ambienti lontani ma in Calabria vi è un massiccio, il Reventino, che li avvicina come pochi. Anzi dai suoi boschi si può addirittura godere la vista di due mari. Il Reventino si affaccia con il suo profilo ondulato sulla parte più stretta della Penisola, l’istmo di Marcellinara, tra i mari Jonio e Tirreno di appena 30 km». Così scrive Francesco Bevilacqua ne Il Parco Nazionale della Sila, guida naturalistica e escursionistica, edito da Rubbettino. Con ogni probabilità insieme ai faggeti, agli alberi di alto fusto, al piano collinare con i suoi poderi coltivati intervallati da alberature da frutto e ornamentali, tra pochi anni svetteranno anche decine di pale eoliche. Proprio così. A queste latitudini non esistono vincoli. Le pale possono girare ovunque. Anche in un parco nazionale. L’atto è datato 12 novembre e porta la firma della regione Calabria ad appena due settimane dalle elezioni. Un colpo di coda, insomma, dei burattinai dell’eolico. Viene indetta un’apposita Conferenza dei servizi, durante la quale sarà vagliata l’istanza per il rilascio dell’autorizzazione unica alla società Creta Energie Speciali srl, con sede legale ad Arcavacata di Rende, e di cui Daniele Menniti, già sindaco di Falerna, è presidente del consiglio d’amministrazione dello spin-off accademico dell’Università della Calabria. L’impianto, denominato Trifoglio, sarà situato nei comuni di Conflenti, Lamezia, Motta Santa Lucia, Decollatura e Platania. Avrà una potenza nominale di 20,7 Mw. Se dovesse essere realizzato si aggiungerebbe ai parchi eolici già autorizzati, che già riguardano il massiccio del Reventino-Mancuso, e nello specifico, i comuni di Tiriolo, Serrastretta, Pianopoli, Marcellinara e Amato. «Tra quelli già autorizzati e quello da autorizzare — commenta Francesco Bevilacqua — tutto il massiccio diverrebbe sede del più grande parco eolico in Europa soprattutto se accomunato a quello che già esiste e che verrà ulteriormente incrementato, situato sul versante sud dell’istmo di Marcellinara. Siamo di fronte — aggiunge — a una concentrazione di centinaia di pale nello stesso ambito territoriale e paesaggistico. Una cosa mai vista nel continente«. Le associazioni e gli ambientalisti sono già in mobilitazione. Il comitato per il no al parco eolico del Reventino (Arci, Wwf, Italia nostra, Agesci, Legambiente, Fai, reti di resistenza territoriale) è sul piede di guerra. «Non possiamo, ora, accettare che gli sforzi compiuti negli anni Sessanta per portare a compimento il rimboschimento della zona, facendo diventare il Reventino un importante polmone verde per il territorio, vengano vanificati da una speculazione camuffata da “progresso tecnologico”. Ripensare a luoghi come la Pietra di Fota, Capo Bove, i massi del Reventino, infestati e deturpati da una selva di pale eoliche, ci ferisce, e non per un fatto sentimentale. Ma perché ben conosciamo il valore dell’unicità ambientale di questo territorio, della sua vegetazione e della fauna presente». del 16/12/14, pag. 7 Vienna e disarmo nucleare Giovanna Pagani Vienna dal 6 al 9 dicembre è stata la sede di due importanti eventi sull’emergenza del disarmo nucleare, purtroppo oscurati dalla stampa nazionale: il Forum «Il coraggio di bandire le armi nucleari» promosso da Ican (Campagna Internazionale per l’Abolizione della Armi nucleari) e a seguire la «Conferenza Internazionale sull’Impatto Umanitario delle Armi nucleari». La terza conferenza Internazionale sul tema dopo quella di OsloNorvegia (2013) e Nayarit –Messico (2014). 37 Le armi nucleari, giustificate politicamente in base all’irresponsabile logica della deterrenza, non solo sottraggono preziose risorse allo sviluppo umano, ma ci condannano a vivere nel rischio permanente di una catastrofe nucleare, rispetto alla quale non potrebbe essere messo in atto alcun piano di salvataggio. Molto chiara la denuncia di Ela Gandhi, nipote del Mahatma Gandhi e attivista pacifista in Sud Africa: «L’arma nucleare è pensata per proteggere i privilegi del 10% della popolazione mondiale che non vuole mettere in discussione il proprio stile di vita». Esiste, purtroppo una «pericolosa rimozione del pericolo nucleare motivata dall’espulsione della paura dell’impossibilità di salvezza», ha spiegato la psicanalista francese Madleine Mosca, ma è altresì vero che «è un errore pensare che non possa scoppiare una guerra nucleare» come ampiamente documentato dal giornalista americano Eric Schlosser sulla base dei troppi incidenti atomici che, solo per un miracoloso evento, non hanno portato alla deflagrazione nucleare. Il Forum (più di 600 esponenti della società civile) ha reso visibile la partecipazione attiva di giovani (la metà dei convenuti) in lotta per il diritto a un presente e un futuro libero dal «crimine» delle armi nucleari (secondo l’Onu e la Corte Internazionale di Giustizia dell’Aja nel 1996). La Conferenza Internazionale (158 Stati partecipanti ) ha rappresentato invece una tribuna ufficiale da cui circa un terzo degli stati si è espresso a favore di uno strumento internazionale vincolante che vieti le armi nucleari sulla base dell’impatto umanitario ampiamente studiato. I più moderati continuano a vedere nel Trattato di Non Proliferazione Nucleare uno strumento ancora valido, soprattutto alla luce della rivendicazione dell’applicazione dell’articolo 6. Molto applaudito il messaggio di papa Francesco e molto apprezzata la presenza di Usa e Gran Bretagna. Assenti Francia, Corea del nord e Israele. L’Italia è intervenuta con il delegato della Farnesina, Giovanni Brauzzi. Saremo capaci di fare tesoro delle sconvolgenti testimonianze dell’indicibile dolore espresso dai sopravvissuti di Hiroshima e Nagasaki, e dalle vittime dei Test Nucleari che hanno parlato a Vienna per lanciare il loro SOS sugli effetti delle radiazioni nucleari che mietono più vittime tra le bambine e le donne, condannando le future generazioni a devastanti conseguenze genetiche? Per dibattere sulla portata di questi due eventi viennesi che precedono l’incontro di New York 2015 sulla revisione del Trattato di Non Proliferazione Nucleare, oggi, martedì 16, ore 15.30, a Via Liberiana 17, (Santa Maria Maggiore, Roma) si svolgerà l’incontro «Esigiamo un disarmo nucleare totale» * WILPF Italia Del 16/12/2014, pag. 27 Mani cinesi sull’energia europea L’eolico inglese al colosso nucleare LUCA PAGNI Potrebbe suonare strano che il più grande gruppo cinese specializzato nella produzione di energia nucleare si metta a investire nelle rinnovabili. E per di più a migliaia di chilometri di distanza. Lo ha fatto China General Nuclear Corporation: la società controllata dal governo di Pechino (11 impianti atomici pari al 55 per cento della quota di mercato) ha appena annunciato di aver rilevato dal gruppo francese Edf (lo stesso che in Italia possiede Edison) l’80 per cento di tre parchi eolici in Gran Bretagna. I transalpini, oltre a rimanere soci di minoranza con l’altro 20 per cento, continueranno a ritirare tutta l’energia prodotta. 38 Sotto il profilo economico, la notizia ha due letture. La prima conferma gli stretti rapporti tra Pechino e Londra dopo la visita del premier David Cameron in Cina di un anno fa: da allora, aziende del colosso asiatico hanno rilevato società inglesi, dall’alimentare al turismo. Ma ancora di più conferma l’estremo interesse delle aziende di Pechino per tutto ciò che si sta muovendo in Europa attorno alle società - sia pubbliche che private - che operano nel campo dell’energia. Non per nulla, gli addetti ai lavori hanno osservato come l’operazione sull’eolico potrebbe essere propedeutica a un accordo finanziariamente ben più consistente dei 100 milioni investiti l’altro giorno. I cinesi, in realtà, guardano al progetto di rilancio nucleare appena annunciato dal governo Cameron il mese scorso, per la costruzione di due nuovi impianti nucleari di grandi dimensioni, il primo già individuato nel Somerset, per un investimento complessivo di oltre 24,5 miliardi di sterline per cui si è già prenotata Edf. L’interesse per gli asset elettrici, del resto, è confermata dalle operazioni già compiute da China Three Gorges che ha acquisito per 2,7 miliardi di euro dal governo di Lisbona il 21,35% della società energetica nazionale, Energias de Portugal. Mentre State Grid of China (la più grande utility del mondo con i suoi 2 milioni di dipendenti) ha pagato 2,1 miliardi per il 35 per cento di Cdp reti, la holding della Cassa Depositi Prestiti che controlla sia Terna (rete elettrica nazionale), sia Snam (rete del gas). E lo stesso vorrebbe fare in Grecia, dove il governo di Atene pressata dalla Troika sulle liberalizzazioni - assegnerà la maggioranza della società delle rete elettrica all’inizio del 2015. Una gara in cui è in corsa anche Terna. Un interesse confermato anche da un report di Dagong, l’agenzia di rating cinese, che già nel settembre scorso faceva intendere come le “reti” saranno nel mirino delle aziende di Pechino nei prossimi anni per «il basso tasso di rischio, i ritorni stabili nel lungo periodo e gli alti standard tecnologici delle utilities». Le stime previste da Dagong Europe parlano di investimenti nei prossimi anni fino a 150 miliardi di euro nell’elettricità e fino a 72 miliardi di euro per le reti del gas. 39 INFORMAZIONE Del 16/12/2014, pag. 17 Quella barbarie su Foley simbolo dell’anno più nero per i giornalisti Il rapporto di Reporters Sans Frontières: 96 uccisi, due terzi in zone di guerra L’ultimo lo hanno ammazzato appena un paio di giorni fa, che la terra che gli hanno buttato sul lenzuolo bianco ancora non ha avuto tempo di rassodarsi. Si chiama Mahran al Deeri - onore a lui - e lavorava per la televisione Al Jazeera; lo hanno fatto fuori al confine insanguinato tra la Siria e la Giordania, con un missile che l’ha aperto dentro. E in quel lenzuolo candido, prima di avvolgerglielo, lo hanno dovuto rattoppare, come si è costretti quando la guerra fa, degli uomini, pezzi bruti di carne. Mahran non c’è nemmeno, nel bilancio del 2014 che Reporters Sans Frontières pubblica oggi, dove vengono raccontati i numeri amari che in tutto il mondo condensano il lavoro dei giornalisti che vogliono fare «comunque» il loro mestiere. Lo hanno ammazzato con due della sua troupe, quando questo documento era già in stampa, e però ugualmente i numeri che vi leggiamo sono terribili: i reporter ammazzati fino all’8 dicembre sono 96; 137 li hanno sequestrati, presi in ostaggio e molti di loro destinati a morire, 853 li hanno sbattuti in galera (e nel conto ancora non c’erano la ventina di giornalisti di «Zaman» che l’aspirante despota Erdogan ha imprigionato l’altro ieri). E 1846 sono stati aggrediti, minacciati. Il coltello di John il Boia Il 19 d’agosto, in quel giorno che ci sta piantato in testa come un chiodo che ci rode di brutto il cervello, quando il coltello di John «l’inglese» si avvicinò alla gola di James Foley e cominciò a tagliare la carne viva di quello che ancora era un uomo, molti di noi scostammo via lo sguardo dallo schermo, non volevamo vedere, non volevamo sapere più nulla di quello scempio. E però diventavamo vittime anche noi, perché John vinceva se noi rinunciavamo a misurarci nella realtà che quel video ci rappresentava: che c’era un uomo che veniva sgozzato, che quell’uomo era un reporter che voleva soltanto raccontare la guerra, che la sua uccisione fatta con la crudeltà feroce che nessun animale mai si permetterebbe, voleva cancellare la folle ambizione d’immaginare che sia possibile un racconto libero, senza padreterni, senza schemi, senza ubbidienze dovute, senza visioni manichee di Bene e di Male. E questo non è sopportabile. Dittatori veri e aspiranti Sta tutto qui, il rapporto che i numeri ci sbattono addosso. Sta nel confronto tra un mestiere che - anche quando soltanto debole, o parolaio - vuole mostrarci che cosa ci accade d’attorno, e quanti, invece, di questo mestiere non sopportano la voglia di capire, il desiderio di testimonianza e di autonomia. Ci sono dittature che il confronto lo spengono subito, regimi che usano soldati e poliziotti per sotterrare ogni impulso a non subire bollettini o «veline», ma ci sono anche governi e poteri che - valga per tutti la Russia di Putin, o anche la Turchia - formalmente rispettano le modalità della democrazia, il voto, il pluralismo, ma poi esercitano un controllo che lascia poco spazio a esercizi di anticonformismo, o comunque invita a una comoda acquiescenza, a una pacifica autocensura. Un prezzo tanto alto per il proprio lavoro non lo paga nessuna categoria professionale. Ma oggi più che mai l’informazione costruisce la realtà, il suo controllo controlla la conoscenza; e i «controllori» lo sanno tanto bene che le loro mani vanno ben 40 oltre le figure tradizionali del giornalista, ormai nei numeri del «Rapporto 2014» stanno allo stesso modo dei reporter i blogger, i siti web, i citizen-journalists. E poi ci siamo anche noi, l’Italia. Perché si muore di guerra, ma si muore anche di mafia e di criminalità. Lirio Abbate, giornalista de «L’Espresso» gira con la scorta, e con lui un’altra decina di reporter. E nell’anno che va, hanno avuto minacce 375 giornalisti italiani. A Bologna, l’altro ieri, qualcuno ha anche scritto su un muro: «I giornalisti parlano troppo, tappiamoli la bocca». 41 CULTURA E SCUOLA del 16/12/14, pag. 4 La scuola boccia il piano Renzi sugli scatti «di merito» Roberto Ciccarelli ROMA «Buona scuola». Resi noti i dati della consultazione sulla «Buona scuola»: il 60% respinge il piano sugli scatti stipendiali solo per i 2/3 dei docenti in base al merito. Il 46% è per un sistema misto su stipendio e merito, il 14% per l’anzianità. I presidi favorevoli alla «scuola azienda». Contraria la maggioranza di docenti e studenti La maxi-consultazione promossa dal governo sulla «Buona Scuola» ieri ha consegnato un risultato imprevedibile. Il piano Renzi che prevede l’aumento dello stipendio al 66% dei docenti grazie ai crediti accumulati in base al merito è stato bocciato. Solo il 35% ha votato «meritocrazia», il 46% si è espresso per un «sistema misto» tra servizio e merito. A questo bisogna aggiungere chi è rimasto sulle posizioni tradizionali: il 14% vuole un sistema basato sull’anzianità. Una sonora sconfitta del governo. Era prevedibile, dopo le grandi manifestazioni studentesche e l’opposizione dei docenti ad una riforma per la quale si è speso il presidente del Consiglio in persona. Persino una consultazione che doveva dare una veste statistica e computazionale alla trasformazione della scuola in senso aziendalistico e neoliberale ha registrato un dissenso diffuso nel paese. Nella conferenza stampa celebrativa tenuta ieri al ministero dell’Istruzione a Roma (con un concerto), si è cercato di sorvolare sul senso di questi dati, anche se sono state riconosciute «criticità». La partecipazione è stata alta, si è detto. Gli accessi al sito labuonascuola.gov.it lo confermerebbero: 1 milione e 300 mila visite; 207 mila «discussant» online; 200 mila partecipanti ai 2400 dibattiti che avrebbero coinvolto il 70% delle scuole italiane. Dati che suffragano l’esito principale di un sondaggio pubblicizzato dalla Rai a reti unificate e che ora si è trasformato in un boomerang che renderà necessario, forse, un aggiustamento del tiro. Il ministro dell’Istruzione Gianini ha sottolineato che l’81% dei consultati ha espresso parere positivo sulla proposta di basare lo stipendio dei docenti sul merito e non sull’anzianità. «Sta qui il valore politico di una consultazione» ha scandito. Nelle 73 pagine del libretto che riporta i risultati si scopre che ad essere «molto d’accordo» è l’87% dei dirigenti scolastici, interessati alla nascente figura del «preside manager» che chiamerà direttamente i docenti per comporre quella che nel gergo neoliberale viene definita la «squadra». Favorevole anche il 70% dei genitori che hanno partecipato alla consultazione. «Meno favorevoli», o del tutto contrari, il 64% dei docenti e il 56% degli studenti. Anche in questo caso si tratta della maggioranza dei soggetti direttamente coinvolti nel lavoro didattico. Al di là dell’impostazione del sondaggio, che rischia di creare una conflittualità tra i dirigenti e le famiglie, da un lato, e i docenti “conservativi” dall’altro lato, la proposta renziana non sembra avere convinto. Cerchiamo allora di capire la ragione di questo rovescio. Il piano Renzi sulla scuola prevede l’abolizione degli scatti stipendiali e l’introduzione di crediti per meriti didattici, titoli o incarichi nella burocrazia scolastica. Il totale di questi «crediti» genererà l’aumento degli 42 stipendi. Il primo scatto verrà maturato 4 o 5 anni dopo l’assunzione e andrà a regime entro tre anni. Questi aumenti riguarderanno solo il 66%, cioè i due terzi. A questa discriminazione sull’intero corpo docente, se ne aggiunge un’altra all’interno di questo 66%. I meritevoli non saranno sempre le stesse persone. Pur «eccellenti» nel loro lavoro dovranno passare il testimone a qualcuno che corre più veloce di loro. Secondo alcune proiezioni, circolanti tra sindacati e giornali specializzati, questo meccanismo porterà a tagli sulle retribuzioni pari tra i 200 e i 331 milioni di euro. Se è vero che qualcuno percepirà fino a 9 mila euro in più all’anno, tutti perderanno da 45 a 72 euro al mese. Dopo avere bloccato i contratti, ora l’austerità si finanzia con i soldi dei docenti e con la corsa alla «meritocrazia». Del resto, lo stesso sondaggio traduce le perplessità sul rischio di trasformare la scuola in un supermercato dei crediti. Per capire tali perplessità bisogna leggere le consultazioni svolte nelle ultime settimane da periodici specializzati e dai sindacati. Un sondaggio di «Orizzonte Scuola», ad esempio, ha registrato l’88% di «No» alla riforma «meritocratica». In un’altra consultazione promossa dalla Gilda i «No» sono stati l’84,3%. La chiamata diretta dei presidi-manager è stata respinta con il 76%. Oltre 4 mila lavoratori della scuola, compreso il personale Ata disconosciuto dalla riforma Renzi-Giannini, si sono espressi negativamente nell’indagine «la scuola giusta» della Flc-Cgil. Il tentativo di queste consultazioni è stato quello di ricomporre una «comunità» scolastica che invece il governo vuole dividere nella crociata per la rifondazione del «patto educativo». In una consultazione tesa a fidelizzare dall’alto il pubblico rispetto a decisioni già prese è emerso il sostegno all’altro punto chiave: la chiusura delle graduatorie in esaurimento (Gae) e l’assunzione di 148 mila docenti precari a settembre. Sostegno anche alla gestione dell’organico funzionale che per la riforma spingerà i neo-assunti a muoversi di città in città alla ricerca di un posto e alla mobilità tra le cattedre. Il sondaggio dà corpo al futuro di questi docenti: alle scuole primarie dovranno servire per gestire le supplenze. Nella secondaria sarà funzionali al recupero. Nessuna parola sui circa 100 mila precari esclusi dall’assunzione a settembre. Per la Corte di giustizia europea devono essere assunti quelli che hanno 36 mesi di servizio continuativi negli ultimi cinque anni. Il governo ieri ha ribadito la linea: per loro c’è il concorso nel 2016 (40 mila posti). Gli altri dovranno saltare il turno e restare disoccupati. Del 16/12/2014, pag. 15 Il Fondo strategico di Juncker taglia i soldi alla ricerca Nel nuovo Efsi che finanzierà la crescita Ridotto di 2,7 miliardi il budget di Horizon Marco Zatterin È attesa giovedì la benedizione politica al Piano Juncker e ai 315 miliardi che intende iniettare nell’asfittica economia continentale. Arriverà al vertice dei leader Ue nonostante le proteste dell’Europarlamento, che vuole più voce in capitolo nella gestione del pacchetto e lamenta lo scippo dei fondi per la scienza. La bozza L’ultima bozza di conclusioni del summit innesca il meccanismo auspicando «la creazione d’un Fondo strategico europeo (Efsi) che smobiliti nuovi investimenti fra 2015 e 2017». Si tratta d’un veicolo finanziario con 21 miliardi di capitale, dei quali 6 saranno però sfilati dai 43 governi alla voce «Ricerca e Reti» del bilancio comune. O, in breve, alla costruzione delle risposte per le sfide future dell’Europa ancora in preda alla crisi. Il capo della Commissione, Jean-Claude Juncker, ha lanciato il «suo» progetto nel discorso d’insediamento a Strasburgo in luglio, promettendolo per febbraio. Poi ha accelerato, si sussurra per coprire le polemiche fiscali sul Granducato di cui è stato a lungo premier. In ottobre i 300 miliardi sono diventati «315 di investimenti da generare attraverso l’Efsi», cassaforte parallela alla Bei. Una garanzia da 16 miliardi I suoi 21 miliardi, nelle intenzioni, dovrebbero attirare 15 euro di impegni privati ogni euro pubblico, realizzando per l’appunto la manovra da 315 miliardi. Per costruire l’Efsi, l’Ue creerà una garanzia da 16 miliardi alimentata dal bilancio comune, mentre altri 5 miliardi verranno dalla Bei. Il Parlamento Ue, e non solo, riconosce che sarebbe cruciale che gli Stati mettessero qualcosa di tasca propria, sarebbe un segnale concreto della volontà politica di attaccare davvero la crisi, cosa che dovrebbe essere affermata in una dichiarazione di qui a dopodomani. Da dove vengono i soldi I miliardi impegnati veramente dall’Ue saranno solo 8, posti i quali si arriverà a 16 con una forma di moderno «europagherò»: sono 2 miliardi presi dai margini esistenti nella cassa comune; 3,3 dal programma «Connecting Europe» di azione sulle reti, Tlc e no (33,2 miliardi di qui a fine decennio la dote complessiva); 2,7 dal programma per la Ricerca, Horizon 2020 (78,6 miliardi). L’aver sottratto i denari dai sogni dell’avvenire anima ricche polemiche. La Lega delle Università Europee di Ricerca ha tuonato che la scienza «non è un limone da spremere». Pochi fondi dalle capitali A Bruxelles rispondono che i fondi sono spostati temporaneamente e, comunque, verso investimenti compatibili. La Commissione è fra due fuochi, i disoccupati e le imprese che chiedono di più, le capitali che hanno tagliato il bilancio Ue a inizio anno. Juncker ha accesso il fuoco con ciò che aveva. Gli Stati lo sostengono sperando in un difficile miracolo, tuttavia non hanno ancora deciso di sborsare un cent, anche a costo di alleggerire il portafoglio della scienza. Proteste e deputati potranno far loro cambiare idea. È lì, contro la limitata ambizione delle capitali nonostante l’emergenza, che bisogna tirare. Del 16/12/2014, pag. 1-15 Se Juncker taglia la ricerca Juan Carlos De Martin «Mai mangiare il grano della semina» (never eat your seed corn) dicono gli agricoltori americani. È probabile che qualcosa di simile si dica in tutto il mondo: è chiaro che un beneficio immediato ottenuto compromettendo il futuro può solo portare al disastro. È un detto che mi è venuto in mente quando di recente ho capito meglio in cosa consistano i «300 miliardi di Juncker». La discussione intorno alla sua proposta si è quasi sempre concentrata sul fatto che «i miliardi di Juncker» non sarebbero 300, ma appena tredici. Ai 300 si arriva solo avendo una grande – e, per molti, infondata – fiducia negli strabilianti effetti moltiplicatori dei tredici che davvero ci sono. Ma prestiamo attenzione alla provenienza dei tredici: mentre 5 miliardi arriverebbero dalla Banca Europea per gli Investimenti (Bei), altri otto miliardi deriverebbero direttamente dal budget attuale della Commissione Europea. Insomma, da tagli. Tagli di cosa? Si propone di tagliare digitale e ricerca, naturalmente, il «grano della 44 semina» versione XXI secolo, ovvero, i mezzi più sicuri per assicurare lo sviluppo economico e civile dell’Europa. Juncker, infatti, vorrebbe togliere 3,3 miliardi al programma Connecting Europe (per rafforzare infrastrutture e servizi digitali) e 2,7 miliardi al programma di ricerca Horizon2020. Ci sarebbe molto da dire anche sul digitale, ma mi concentro sui proposti tagli alla ricerca. Le reazioni sono state veementi. La Lega delle Università Europee di Ricerca (Leru), che riunisce alcune delle più prestigiose università europee (tra cui Oxford e Cambridge), ha immediatamente pubblicato un comunicato stampa dal titolo: «Horizon2020 non è un limone, smettetelo di spremerlo!». Alla Leru ha poi fatto eco Sir Paul Nurse, il presidente della Royal Society, che ha scritto a Juncker (oltre che al Parlamento Europeo e al competente ministro inglese) per esprimere la sua «considerevole preoccupazione». Analoga preoccupazione l’ha espressa l’importante associazione Science Europe, con sede a Bruxelles. E l’Italia? Forse non a tutti è chiaro che l’Italia dovrebbe opporsi con tutti i mezzi e molto più di altri Paesi membri dell’Unione a tagli del budget europeo della ricerca. Questi ultimi anni, infatti, hanno visto un progressivo assottigliarsi dei fondi nazionali destinati alla ricerca, fino alla stupefacente - non nel senso positivo del termine - sospensione dei progetti di rilevante interesse nazionale, i cosiddetti Prin, il cui ultimo bando risale al 2012. Da allora per i ricercatori italiani i bandi di ricerca europei sono diventati la più importante speranza per non morire di inedia, a differenza dei colleghi del Nord Europa che continuano a fare affidamento a robusti finanziamenti nazionali. Tagliare il budget della ricerca europea significa, quindi, tagliare soprattutto il budget dei ricercatori italiani, in questo senso sempre più simili ai colleghi dell’Est Europa più che a quelli francesi o tedeschi. Giovedì il Governo italiano presidierà per l’ultima volta il Consiglio Europeo: colga l’occasione per dire a Juncker se si vuole affrontare la sfida della Cina (ma anche degli Usa e del Giappone) la ricerca europea andrebbe rafforzata, non penalizzata. Nell’interesse dell’Europa e ancor di più in quello dell’Italia e di altri Paesi svantaggiati. La ricerca, e non altro, è il nostro «grano per la semina». 45 ECONOMIA E LAVORO del 16/12/14, pag. 3 Il debito sale ancora: 2.157 miliardi Più garanzie per le piccole imprese Il commissario Moscovici al Parlamento: «La manovra rispetti le regole» ROMA «Entro Natale la legge di Stabilità sarà chiusa». Per il sottosegretario all’Economia, Pier Paolo Baretta, il Senato dovrebbe licenziarla «entro giovedì o al massimo venerdì». Ma intanto ieri la sessione di Bilancio è slittata di tre ore per una riunione di maggioranza che ha portato all’accantonamento delle norme più dibattute. «Su regime dei minimi, Irap e Fondi pensioni il cantiere è ancora aperto» ha ammesso il relatore Giorgio Santini (Pd). Che ha addebitato il ritardo alla decisione di incontrare anche le opposizioni: «Vogliamo farla la legge di Stabilità...». Il riferimento è al rischio di ostruzionismo che ieri si è palesato nell’attivismo con cui il M5S ha preso a pretesto la lettera inviata dal commissario agli Affari economici, Pierre Moscovici, ai presidenti delle Camere, allegata al testo del parere della Commissione sulla manovra che, a marzo, «rischia» la bocciatura. Moscovici sollecita il Parlamento a «prendere le misure necessarie per assicurare che la manovra sia in linea» con il patto di Stabilità. Una procedura nuova, quella seguita da Moscovici, sulla quale il M5S chiede al governo un chiarimento in Aula, e che segnala il livello di allarme intorno ai conti pubblici. Del resto gli ultimi dati del Bollettino di Bankitalia attestano che il debito è aumentato in ottobre di 23,5 miliardi, a quota 2.157,5 miliardi. Migliora invece il fabbisogno certificato dal Tesoro a quota 8,5 miliardi, con una riduzione rispetto ai 12,6 miliardi dell’ottobre 2013. Entrate: 33,7 miliardi. Spese: 42,3 miliardi, 3,3 miliardi per interessi. Male le entrate tributarie, secondo Bankitalia: il gettito fiscale a ottobre è pari a 28,5 miliardi, -2,7% su anno. Sostanzialmente invariate le entrate nei primi dieci mesi dell’anno. Un dato in linea con quello del Tesoro che, pur vedendo una ripresa tirata dall’Iva, sconta un rallentamento dell’Irpef (-0,8%). Intanto emergono particolari sugli 80 emendamenti presentati dal governo in commissione Bilancio. Ad esempio, si mette al sicuro l’entrata prevista con lo «split payment»: il meccanismo che affida alle pubbliche amministrazioni il pagamento dell’Iva dovuta sui loro acquisti di beni e servizi, scatterà senz’altro a gennaio, senza attendere l’autorizzazione Ue. Il governo corre ai ripari sul mancato incasso dell’Iva sui pagamenti dei debiti della P.a. per 6 miliardi, disposti dal decreto di aprile scorso: solo 240 milioni sui 650 previsti. Per evitare l’aumento delle accise (clausola di salvaguardia), il governo stanzia la somma mancante. Infine si riducono da 500 a 300 milioni i tagli alla Difesa. La commissione Bilancio in serata ha esteso il Fondo di garanzia per le Pmi previsto dal decreto Sviluppo alle imprese con non più di 499 dipendenti. Antonella Baccaro del 16/12/14, pag. 15 La crisi taglia i fondi e si mangia i territori Aldo Bonomi 46 Economia. Al modello verticistico, Roma-Bruxelles, di Renzi il sindacato oppone l’iniziativa orizzontale delle 54 città e vede, prima della politica, la questione sociale La grande “Fuga dalle regioni”. Così titolava un commento di Ilvo Diamanti su Repubblica, dopo la massiccia astensione del voto in Emilia Romagna, che chiudeva evocando la “fine del territorio”, come fonte di rappresentanza. Tendenza confermata anche dalla scarsa partecipazione al voto per le primarie del Pd in Veneto. Ma non è più il territorio della “questione settentrionale”. Oggi il territorio va inteso come teatro della dialettica tra flussi e luoghi. Una dialettica che sembra evidenziare una crescente egemonia dei primi sui secondi, se solo pensiamo al flusso della crisi e alle minacce della troika. Questa dinamica feroce di destrutturazione sistematica delle istituzioni e dei soggetti radicati nei luoghi, dalle imprese di matrice territoriale al tessuto del welfare comunitario, dalle istituzioni della democrazia economica alle rappresentanze delle imprese e del lavoro, si fa oggi egemonia culturale. Chi sta nei luoghi sente che il destino non è più nelle proprie mani, come persone, come cittadini, come comunità. Tale consapevolezza non produce, almeno per ora, conflitto progressivo. Non essendoci chiarezza collettiva della posta in gioco e quindi assenza di una visione condivisa. Esiste invece la tentazione forte del conflitto regressivo, ispirato da una disperazione sociale che trova ogni giorno elementi di nutrimento anche nei media, che aspira al caos come pericoloso veicolo di pulizia. Mutazione antropologica da un conflitto di appartenenza al conflitto molecolare alimentato dalle relazioni di prossimità nelle periferie e nei luoghi di lavoro. C’è una composizione sociale che fa esodo, altro segno indubbio di sfiducia, che preferisce l’exit alla voice, a meno che non sia costretta ad urlare il proprio disagio. Nel fine secolo, con l’esaurirsi del fragile modello fordista a trazione pubblica, la fabbrica perde progressivamente la sua capacità di essere luogo elettivo del conflitto tra capitale e lavoro. Il conflitto si trasferisce al di fuori delle mura, diluendosi prima nei distretti produttivi e successivamente provando senza successo a ridefinirsi nelle piattaforme produttive. La fenomenologia dei distretti industriali e dei sistemi territoriali di piccola impresa è nota: capacità di coniugare crescita economica diffusa e coesione sociale, in un quadro regolativo relativamente favorevole e con un sistema del credito e della rappresentanza sociale adeguato alla “mediocrità” di un capitalismo familiare, quasi popolare. In questi contesti la regolazione locale è agita da una serie di soggetti che strutturano la microfisica dei poteri locali in una società di mezzo che prova a rappresentare interessi e passioni territoriali presso le sedi istituzionali regionali e nazionali. In questo la società di mezzo nel suo complesso compie l’errore tragico di assumere pienamente la visione di un mondo in cambiamento nel quale le sorti del capitalismo molecolare, allora vincente, andranno incontro ad una rapida erosione delle sue basi competitive. D’altro canto questa stessa domanda di modernizzazione verrà sussunta dentro la logica del sindacalismo territoriale leghista, ben più efficace del sindacalismo istituzionale espresso dalle diverse rappresentanze, o del populismo leaderistico berlusconiano, vero cavallo di Troia di un’immobile cittadella della rappresentanza incapace di scaldare le piccole fredde passioni dell’egoismo individualista. Nel Nord è il trionfo del capitalismo molecolare che fa da base sociale all’affermarsi di Berlusconi e della Lega che, ancorché in modo assai discutibile, si fanno portatori di una domanda di modernizzazione senza civilizzazione che assumerà i contorni della ormai mitica “questione settentrionale”. Una questione che, nel bene e nel male, avrà un impatto sull’architettura istituzionale del Paese con i vari tentativi federalistici, devolutivi, ammantati nel linguaggio virulento della secessione e del rinserramento. Ovviamente nella “questione” ci sta anche la paura per un modello capitalistico fragile e scricchiolante perché incapace di darsi adeguate istituzioni quando viene messo alla prova dalla 47 progressiva apertura dei mercati internazionali, dall’introduzione dell’euro, dal mutare del rapporto con il mondo del credito e della finanza, etc. In quel periodo si compie a mio avviso un passaggio critico nelle sorti della società di mezzo, la quale, anziché prendere atto della necessità di strutturare interessi e passioni all’interno di uno spazio intermedio territoriale nella dimensione delle piattaforme produttive (quelle guidate delle medie imprese che reggono con l’export), rimane sospeso tra istanze localistiche e regolazione nazionale, due sfere meglio presidiate dai populismi di diversa matrice e fortemente connotate in forma difensiva. Insomma in una fase critica di ristrutturazione del capitalismo molecolare ante crisi la società di mezzo non incoraggia il formarsi di una neoborghesia di territorio capace di coniugare flussi e luoghi in una logica “Lobal” e, contemporaneamente, fatica a produrre una dimensione della politica in grado di intercettare la nuova composizione sociale che viene avanti nei grandi centri urbani terziari e il capitalismo delle reti che impatta sul territorio. Con l’arrivo della crisi, che è innanzitutto crisi interna alla dinamica dei flussi, a rimetterci sono le economie, le società e le istituzioni dei luoghi, alle quali rimane in mano il cerino della gestione del profondo disagio sociale, essendo sempre meno legittimate a rappresentarne le istanze in un quadro di contrazione delle risorse destinate al welfare. Da qui anche i colpi di coda del rancore dei “forconi”, la guerra civile molecolare per la casa nelle neoperiferie urbane e metropolitane, ma anche e soprattutto l’introflessione personale del conflitto (i suicidi dei piccoli imprenditori o dei lavoratori precarizzati o licenziati) o la sospensione esistenziale dei Neet. Vista dai territori la “questione” in sé non è più settentrionale o meridionale per negoziare potere o flussi con lo Stato centrale. Ma è questione sociale aperta che parte dai luoghi, dalle periferie del sistema e fa resistenza ed esodo. Pare averlo capito anche Salvini, che con la sua strategia da “Lega nazionale” percorre e alimenta il malessere dei luoghi. All’interrogativo politico posto da Ilvo Diamanti sulla fine del territorio si può rispondere o con logiche puramente verticali sull’asse Roma-Bruxelles e di modernizzazione forzata dall’alto, che mi pare caratterizzino il governo Renzi, o privilegiando l’orizzontalità di un’iniziativa politica che ricominci a riconoscere e riconoscersi nella questione sociale aperta che interroga la coscienza politica della sinistra. A cui sarà bene ricordare di non lasciare, come si fece allora, la fibrillazione dei territori e il malessere della coscienza di luogo solo alla Lega. Ciò che è in gioco oggi non è solo questione di riforme istituzionali, ma la questione sociale è il fare società. Il sindacato con la sua mobilitazione orizzontale dei territori nelle 54 piazze dello sciopero generale pare averlo capito prima della sinistra politica. 48