RASSEGNA STAMPA martedì 16 dicembre 2014 L`ARCI SUI MEDIA

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RASSEGNA STAMPA martedì 16 dicembre 2014 L`ARCI SUI MEDIA
RASSEGNA STAMPA
martedì 16 dicembre 2014
L’ARCI SUI MEDIA
INTERESSE ASSOCIAZIONE
ESTERI
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IL SALVAGENTE
INTERNAZIONALE
L’ARCI SUI MEDIA
Da Redattore Sociale del 15/12/14
"Un’altra difesa è possibile". Raccolta firme
per una legge di iniziativa popolare
Presentata oggi a Roma la campagna per sostenere una “difesa civile
non armata e nonviolenta”. Il testo prevede l’istituzione di un
Dipartimento ad hoc sostenuto da un fondo di 100 milioni.
Valpiana:“Vogliamo riappropriarci dell’idea di difesa, in Italia delegata
alla struttura militare”
ROMA - Riconoscere a livello istituzionale una forma di difesa alternativa a quella militare
denominata “Difesa civile non armata e nonviolenta”. È questa la sfida lanciata da sei reti
di associazioni nazionali (Rete della pace, Rete italiana per il disarmo, Sbilanciamoci!,
Tavolo degli interventi civili di Pace, Cnesc e Forum nazionale per il servizio civile) questa
mattina a Roma, nella sede del Centro servizi per il volontariato del Lazio (Cesv) con la
presentazione della campagna “Un’altra difesa è possibile”. Obiettivo dell’iniziativa quello
di raccogliere, entro la fine di maggio, le 50 mila firme necessarie per sostenere una legge
di iniziativa popolare per la difesa civile, non armata e nonviolenta. “Contiamo di averne il
doppio per la scadenza del 23 maggio – spiega Mao Valpiana, presidente del Movimento
Nonviolento e coordinatore della campagna -, per poi consegnare i moduli e annunciare la
conclusione di questa prima fase della campagna il 2 giugno del 2015, il giorno della festa
della Repubblica disarmata”.
La proposta di legge, spiegano i promotori della campagna, prevede l’istituzione di un
Dipartimento che comprenda i Corpi civili di pace e l’Istituto di ricerche sulla Pace e il
disarmo e che abbia forme di collaborazione con il Dipartimento della Protezione civile,
quello dei Vigili del fuoco, col Dipartimento della gioventù e del Servizio civile nazionale.
Tuttavia, spiega Valpiana, la proposta di legge è solo uno degli strumenti della campagna
che nei prossimi sei mesi arriverà in tutta Italia. “La campagna ha ambizioni più ampie
della semplice raccolta firme e avvio dell’iter parlamentare – spiega Valpiana -. Gli obiettivi
sono tre: uno politico, per aprire una seria discussione sul concetto di difesa per
riappropriarci di un’idea fondamentale nella storia della non violenza e che in Italia è stata
delegata esclusivamente alla struttura militare”. L’obiettivo “giuridico”, spiega Valpiana, è
quello di portare in Parlamento la legge di iniziativa popolare. Poi c’è un “obiettivo
culturale” che per Valpiana per la priva molta vede insieme sei reti di associazioni su una
campagna comune, dal mondo del disarmo a quello della non violenza, dal pacifismo al
volontariato e al servizio civile.
Al nuovo Dipartimento, spiega il testo della proposta di legge, il compito di “difendere la
Costituzione, affermando i diritti civili e sociali in essa enunciati”, ma anche quello di
proporre piani per la difesa civile non armata e nonviolenta e coordinare la loro attuazione,
svolgere attività di ricerca per la pace e il disarmo, favorire la prevenzione dei conflitti
armati e contrastare le situazioni di degrado sociale, culturale ed ambientale. Tutto questo
senza costi aggiuntivi per le casse dello stato. “Con l’istituzione del Dipartimento non si
spende un euro in più – precisa Valpiana -, ma chiediamo uno spostamento di risorse
dalla difesa armata a quella civile e poi saranno i cittadini, con l’opzione del 6 per mille a
poter scegliere nella dichiarazione dei redditi per sostenere le iniziative concrete del
Dipartimento”. Per il funzionamento della nuova struttura, infatti, il testo della proposta
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prevede l’istituzione di un “fondo nazionale per la Difesa civile non armata e nonviolenta”
con una dotazione annua iniziale pari a 100 milioni di euro per l’anno 2015, “di cui non
oltre il 10 per cento per le spese di funzionamento”. Un fondo che potrebbe partire
inizialmente risparmiando sull’acquisto di nuovi sistemi d’arma e che per gli anni
successivi possa essere alimentato dagli stessi cittadini che decideranno di destinare il sei
per mille dell’Irpef a sostegno dell’iniziativa.
Per Francesco Vignarca, coordinatore della Rete disarmo, quella avanzata oggi dalle sei
reti di associazioni si tratta di una proposta “concreta” che mira a lasciare il segno a livello
istituzionale. “Sappiamo che una proposta di questo tipo può essere complicata da capire,
difficile o farraginosa – ha spiegato Vignarca -. Non ci vuole nulla a fare una petizione
online e raggiungere 100 mila firme, mentre la dimensione istituzionale è fondamentale se
vogliamo costruire qualcosa di concreto così come è stato in passato per l’obiezione di
coscienza e del servizio civile”. Per Franco Uda (Arci), la proposta di legge è
un’occasione per riaprire un dibattito all’interno del mondo delle associazioni. “Siamo stufi
di fare le anime belle della società – ha affermato Uda -. Oggi non ci basta solo la
consapevolezza che un altro mondo è possibile ma dobbiamo anche declinarlo. L’idea che
un’altra difesa è possibile è uno dei modi un cui decliniamo quest’altro mondo”.
Da Repubblica.it del 15/12/14
Un'altra difesa è possibile: una legge di
iniziativa popolare per un servizio civile non
armato
La Campagna "Un'altra Difesa è possibile" punta a raccogliere almeno
50mila firme entro la fine di maggio. L'obiettivo dei promotori è quello di
dare piena attuazione all'art. 52 della Costituzione (sacro dovere della
difesa della patria) istituendo forme di Difesa civile e non violenta in
coerenza con l'art. 11 (ripudio della guerra)
ROMA - Con la giornata nazionale di raccolta firme del 10 dicembre - Giornata mondiale
dei Diritti Umani - si è formalmente aperta la Campagna "Un'altra Difesa è possibile", che
punta a raccogliere almeno 50mila firme entro la fine di maggio per una proposta di legge
di iniziativa popolare dal titolo 'Istituzione e modalità di finanziamento del Dipartimento
della Difesa civile, non armata e nonviolenta'. L'obiettivo dei promotori è quello di dare
finalmente piena attuazione all'art. 52 della Costituzione (sacro dovere della difesa della
patria) istituendo forme di Difesa civile e nonviolenta in coerenza con l'art. 11 (ripudio della
guerra).
I Corpi civili di pace. In concreto, la proposta di legge che i cittadini potranno sottoscrivere
prevede di istituire un dipartimento che comprenda i Corpi civili di pace e l'Istituto di
ricerche sulla Pace e il disarmo e che abbia forme di collaborazione con il dipartimento
della Protezione civile, quello dei Vigili del fuoco e col Dipartimento della Gioventù e del
Servizio Civile Nazionale. Il finanziamento della nuova Difesa civile sarebbe garantito, oltre
che dallo spostamento di risorse dalla spesa militare, sostanzialmente rimasta immutata
nonostante la crisi, anche dalla possibilità per i contribuenti di destinare a questo scopo il
6xmille dell'imposta sul reddito delle persone fisiche.
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http://www.repubblica.it/solidarieta/dirittiumani/2014/12/15/news/un_altra_difesa_possibile-102957392/
Da Avvenire del 16/12/14, pag. 14
“Difesa civile non armata, sì alla legge”
La mobilitazione
Terzo settore e associazioni non violente: 50mila firme per una proposta
di iniziativa popolare
Luca Liverani
C è l'articolo 52 della Costituzione che assegna ai cittadini - tutti – il sacro dovere di
difendere la patria. E l'articolo 11 che stabilisce il ripudio della guerra come mezzo di
risoluzione delle controversie internazionali. Di fatto però tutto è affidato ai militari. Ma
«Un'altra difesa è possibile», dicono le associazioni del Terzo settore e del pacifìsmo. Che
lanciano la raccolta di 50mila firme per sostenere una proposta di legge di iniziativa
popolare su «Istituzione e modalità di finanziamento del Dipartimento della Difesa civile,
non armata e non violenta». Già nel 2013 la legge di stabilità aveva stanziato 9 milioni per
il triennio per la sperimentazione con 500 volontari di Corpi civili di pace. Iniziativa al palo,
denuncia Giulio Marcon di Sel. La proposta popolare prevede l'istituzione di un
Dipartimento, presso la Presidenza del Consiglio, che comprenda la sperimentazione dei
Corpi civili di pace, l'Istituto di ricerche su pace e disarmo e forme di collaborazione con i
dipartimenti di Protezione civile, Gioventù e servizio civile e coi Vigili del fuoco. Per l'avvio,
100 milioni spostati dal bilancio delle spese militari, «sostanzialmente immutate
nonostante la crisi. » Poi la scelta del 6 per mille dell'imposta sul reddito delle persone
fisiche. Promotori: Cnesc, Forum servizio civile, Rete della Pace, Rete italiana disarmo,
Sbilanciamoci!, Tavolo interventi civili di pace. Mao Valpiana del Movimento nonvioìento
spiega che «il termine della campagna sostenuta da più dì 200 associazioni sarà il
prossimo 2 giugno, festa della Repubblica disarmata. "Difesa civile non armata" è una
definizione accettata dalla giurisprudenza, in pronunciamenti della Cassazione e della
Corte costituzionale». Sulla mancata sperimentazione dei Corpi civili di pace Marcon, in
un'interrogazione (sottoscritta anche da Pd, M5S e Misto), chiede al governo perché «a
quasi un anno dallo stanziamento di 9 milioni non sono stati emanati i provvedimenti
attuativi ». Per il sottosegretario Luigi Bobba «manca il concerto col ministero degli
Esteri».
«Vogliamo far emergere - dice Francesco Vignarca di rete Disarmo - le azioni di milioni di
volontari e le pratiche nonviolente delle battaglie di Ghandi, Martin Luther King, Mandela. I
milioni spesi per soluzioni militari dei conflitti non hanno risolto nulla». E cita il sondaggio
2013 dell'Osservatorio politico del Centro studi elettorali: «II 26% degli italiani è
"abbastanza" d'accordo sulla riduzione di spese militari come gli F35, il 56% "molto"».
Riccardo Troisi del Tavolo interventi di pace ricorda che in legge di stabilità 200 milioni
sono per le periferie. «Ma 50 non vadano in cementificazione,ma per il "rammendo" del
tessuto sociale: a Tor Sapienza l'abbandono scolastico è al 60%, la disoccupazione
giovanile all'82%». Info:difesacivilenonviolenta.org.
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Da Huffington Post del 15/12/14
Michele Dantini
Docente universitario, critico e storico dell'arte, scrittore
Start up culturali. Come tenere insieme
innovazione sociale e ricerca umanistica
Pubblichiamo qui di seguito l'intervento che Michele Dantini ha tenuto a "St(r)ati della
cultura", convegno promosso da Ucca|Arci e dedicato ai temi dell'innovazione culturale,
delle industrie creative e dell'occupazione giovanile (Ferrara, 11-13 dicembre 2014). Info
qui.
Proprio in questi giorni David Folkerts-Landau, capo economista di Deutsche Bank, ha
ammesso che "per tenere unita l'eurozona abbiamo sacrificato un'intera generazione".
Nella sua durezza, per niente attenuata dal proposito di sincerità, l'affermazione si
commenta da sola. In tutta Europa, e particolarmente nei paesi dell'Europa mediterranea,
l'emergenza occupazionale si intreccia oggi con la questione generazionale in una misura
che non ha precedenti nel dopoguerra. Per chi ha meno di quarant'anni la difficoltà di
trovare un lavoro dignitoso, corrispondente agli studi fatti e alle aspettative maturate, si
rivela spietatamente difficile.
Come assicurare maggiore occupazione in settori a elevata specializzazione come le
industrie culturali e creative? Questa è una buona domanda se cerchiamo di capire quali
possano essere le migliori politiche educative e di sviluppo. Discutiamo spesso di
"innovazione", talvolta in modo confuso o vagamente messianico. Ma davvero
l'"innovazione", meglio se dirompente, risolverà tutti i nostri problemi? Vediamo di stabilire
alcuni capisaldi.
In primo luogo. Non è chiaro cosa intendiamo per innovazione culturale. Per taluni,
interessati a indagare i processi psicobiologici che stanno dietro alla grande creatività,
"innovazione culturale" è sinonimo di "innovazione cognitiva", cioè di intuizione e scoperta
- i "momenti Eureka" di cui parlano gli scienziati. Per altri invece, più attenti alla
dimensione socioeconomica, "innovazione culturale" significa "innovazione sociale in
ambito culturale". Ci riferiamo in questo caso alle piccole o piccolissime imprese (o start
up) attive nel settore culturale e ai mutamenti (che la transizione digitale, ma non solo,
introduce) nel consumo, nella circolazione e nella trasmissione di contenuti culturali. I due
punti di vista (psicologico e socioeconomico) sono molto diversi, e non necessariamente
collegati tra loro.
In secondo luogo circola un equivoco dannoso: meglio fugarlo. L'impresa culturale non è
di per sé culturalmente innovativa. Al contrario. Al pari di una qualsiasi altra impresa, può
mancare di risorse materiali e immateriali e ignorare del tutto l'innovazione di prodotto (o di
servizio). Accade nell'ambito delle imprese culturali che si occupano di servizi al
patrimonio: costituiscono non di rado un opaco sottobosco di microrendita e relazione. In
generale: l'impresa culturale soffre per lo più dei limiti (di capitale umano, economico e
sociale) di cui soffrono le piccole e piccolissime imprese italiane. A queste condizioni è
impensabile investire in ricerca e sviluppo: l'impresa è sì "culturale", ma i "contenuti" non
sono per niente innovativi.
Come agganciare innovazione sociale e innovazione cognitiva (o mondo della ricerca
istituzionale nelle sue componenti virtuose)? Questa è una seconda buona domanda. I
due mondi in Italia sono socialmente separati: la difficoltà di costruire ponti non è dunque
trascurabile. È tuttavia importante che ricercatori universitari e early careers (provenienti in
primo luogo dalle scienze umane e sociali) siano spinti a partecipare attivamente alla
costruzione di nuove comunità culturali e alla qualificazione del terzo settore. Ed è non
meno importante, per la maturità civile di noi tutti, che le agenzie formative, in primo luogo
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scuola, università e media, possano confrontarsi produttivamente con i movimenti per
rinnovare agende di ricerca e criteri di valutazione. In un mondo perfetto, dunque molto
lontano da qui, autoimprenditorialità e formazione permanente compongono le due parti di
un intero.
Si è osservato che i vertici accademici italiani si comportano spesso come apparati di
partito: chiudono l'università al suo interno cingendola di mura impenetrabili, ancorché
immaginarie. E che dire di una buona parte della dirigenza di tv e giornali mainstream?
Ripetizione dell'identico e vincoli di fedeltà vincono di gran lunga sulla curiosità o
l'indagine. Dobbiamo senz'altro proporci di combattere questo atteggiamento sterile, che
allontana e depaupera; e sfidare istituzioni senescenti sul piano di un civismo radicale.
Immaginiamo dunque nuove istituzioni educative, scientifiche e giornalistiche. O meglio
impegniamoci concretamente, nell'azione quotidiana, nella ricerca, nella comunicazione,
per pretendere che le istituzioni esistenti si aprano in modo durevole alle "minoranze vitali"
e alle energie più innovative del paese.
http://www.huffingtonpost.it/michele-dantini/start-up-culturali-innovazione-sociale-ricercaumanistica_b_6323050.html?utm_hp_ref=italy
Da Radio Articolo 1 del 15/12/14
Work rigth, 100 posters per il diritto al lavoro Strati della cultura
Con A. Cannata, Arci Firenze; C. Testini, Arci
Ellecult 15/12/2014 - ( 12,39 MB)
- See more at: http://www.radioarticolo1.it/audio/2014/12/15/22644/tesseramento-anpi-ilsegno-della-continuita-interviene-luciano-guerzoni-anpi#sthash.ISfR1IMO.dpuf
Da Redattore Sociale del 15/12/14
"In nome del popolo inquinato", subito i
delitti ambientali nel codice penale
Mai più Terra dei fuochi, Marghera, vicenda eternit, ecc... Un cartello di
25 associazioni, promosso da Legambiente e Libera, lancia l’appello per
approvare il ddl contro la criminalità ambientale fermo al Senato
ROMA - Mai più disastri ambientali impuniti. Terra dei fuochi, Marghera, Taranto, Gela,
Eternit, Valle del Sacco, Quirra: l’Italia non può più attendere. "Con l’inserimento nel
Codice penale dei delitti ambientali, in primis quelli di inquinamento e disastro, sarà
possibile aiutare magistratura e forze dell'ordine ad assicurare alla giustizia i colpevoli di
gravi reati ecologici e mettere un freno alle lucrose e - ad ora sostanzialmente impunite attività dell’ecomafia e della criminalità ambientale". Ad affermarlo è una nota con cui un
cartello di 25 sigle (tra associazioni di cittadini, di studenti, di categoria e comitati),
promosso da Legambiente e Libera, lancia l’appello al Senato indirizzato al presidente
Pietro Grasso e ai presidenti delle Commissioni Giustizia e Ambiente, Nitto Palma e
Marinello, per una rapida approvazione del disegno di legge sui reati ambientali nel Codice
penale, "per mettere finalmente un freno - si sottolinea - a un’attività criminale che con 30
mila reati accertati all’anno oggi frutta a chi delinque oltre 16 miliardi di euro, a danno della
sicurezza e della salute di tutti i cittadini e dell’economia sana".
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"Oggi, infatti, chi ruba una mela al supermercato può essere arrestato in flagranza perché
commette un delitto, quello di furto, mentre chi inquina l’'ambiente no, visto che nella
peggiore delle ipotesi si rende responsabile di reati di natura contravvenzionale, risolvibili
pagando un’ammenda quando non vanno, come capita molto spesso, in prescrizione continuano le associazioni -. Non esistono nel nostro Codice penale, infatti, né il delitto di
inquinamento, né tantomeno quello di disastro ambientale. Uno squilibrio di sanzione
anacronistico, insostenibile e a danno dell’intero Paese, che garantisce spesso l’impunità
totale agli ecocriminali e agli ecomafiosi".
"Oggi, finalmente, possiamo dare una svolta a questa situazione: nel febbraio 2014, infatti,
la Camera dei deputati ha approvato a larghissima maggioranza un disegno di legge che
inserisce 4 delitti ambientali nel nostro Codice penale: inquinamento e disastro
ambientale, trasporto e abbandono di materiale radioattivo e impedimento al controllo. Il
testo, però, è inspiegabilmente fermo da mesi al Senato, per alcuni limiti tecnici che
sarebbero facilmente superabili con poche modifiche".
"Approvarlo prima possibile rappresenterebbe, invece, una pietra miliare nella lotta alla
criminalità ambientale - concludono i firmatari dell'appello -, garantendo una tutela penale
dell’ambiente degna di questo nome e, soprattutto, assicurando strumenti investigativi
fondamentali per le forze dell’ordine e la magistratura". “Serve un ultimo sforzo, perché
non c’è più tempo da perdere. In nome di quel popolo inquinato che attende da troppo
tempo giustizia, è giunto il momento che ciascuno si assuma le proprie responsabilità
davanti al Paese”.
Ecco alcuni dei firmatari dell'appello: Vittorio Cogliati Dezza (Legambiente), Luigi Ciotti
(Libera), Vincenzo Vizioli (Aiab), Francesca Chiavacci (Arci), Dino Scanavino
(Confederazione italiana agricoltori), Roberto Moncalvo (Coldiretti), Andrea Carandini
(Fai), Giuseppe Onufrio (Greenpeace Italia), Roberto Romizi (Medici per l’ambiente),
Piergiorgio Duca (Medicina Democratica), Franco Iseppi (Touring Club Italiano), Donatella
Bianchi (Wwf Italia), ecc...
L’appello si può firmare su Change.org o sul sito riparteilfuturo.it
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ESTERI
Del 16/12/2014, pag. 19
Kerry-Netanyahu, braccio di ferro sul veto
Onu
VINCENZO NIGRO
ROMA . Nel corteo di auto che scortava ieri John Kerry a Roma c’era anche
un’ambulanza. Qualcuno da Villa Taverna ha pensato che gli infermieri sarebbero stati utili
al culmine delle tre ore di discussione, quando il Segretario di Stato Usa ha detto in faccia
al premier di Israele che il mondo e anche l’America stanno cambiando, «uno Stato
palestinese è inevitabile e necessario, e voi dovete lavorare per questo ». Nella residenza
dell’ambasciatore americano in Italia Kerry aveva convocato il premier di Israele per
un’emergenza diplomatica che è esplosa negli ultimi giorni. I palestinesi hanno presentato
all’Onu un progetto di risoluzione del Consiglio di Sicurezza che prevede che entro 2 anni,
dopo negoziati, Israele ritorni nei confini del 1967 e permetta la nascita di uno stato
palestinese. Assieme a questa proposta di risoluzione, la Francia ne ha presentata una
seconda assieme a Gran Bretagna e Germania che propone la stessa cosa, utilizzando
toni meno militanti. Il premier israeliano ha chiesto che, come hanno sempre fatto in
passato, gli Stati Uniti difendano le posizioni politiche di Israele usando il loro veto: «Ho
chiesto al segretario Kerry di bloccare ogni tentativo di imposizione contro di noi». Per la
prima volta però Washington non garantisce un veto a scatola chiusa: nel colloquio
romano Kerry non ha assicurato a Netanyahu che gli Usa utilizzeranno il loro diritto di veto
per bloccare entrambi le risoluzioni, e che anzi stanno già lavorando per modificare quella
europea, e che a talune condizioni potrebbero anche votarla.
Un diplomatico che viaggiava con Netanyahu ha detto che «negli ultimi 47 anni gli Stati
Uniti hanno sempre bloccato le mosse unilaterali che potessero imporre a Israele di
accettare uno stato palestinese entro una certa data, e noi siamo sicuro che lo faranno
anche questa volta». Il problema è che questa volta dopo 47 anni lo scenario è cambiato,
come secondo un diplomatico europeo Kerry ha spiegato ieri pomeriggio a Netanyahu:
innanzitutto c’è la risoluzione europea, proposta da Francia, Gran Bretagna e Germania
che porta un peso diverso alla richiesta di creare uno Stato palestinese. «Soprattutto dopo
la guerra di Gaza l’Europa ha capito che si deve fare pressioni su Israele», commenta un
diplomatico italiano, «e questo mette pressione anche sugli Usa».
Poi — quello che Kerry ha obiettato a Netanyahu — c’è il fatto che entrambi le risoluzioni
chiedono che Israele e palestinesi arrivino a un accordo con un negoziato, non con una
imposizione. Impongono soltanto 24 mesi di tempo. Incontrando Matteo Renzi a Palazzo
Chigi Netanyahu ha ripetuto che «noi non accetteremo i tentativi di imporci misure
unilaterali proprio nel momento in cui il terrorismo islamico sta dilagando in tutta la
regione». Ma anche questo collegamento con il terrorismo è stato ribaltato da Kerry: se
continuate con l’occupazione dei Territori il terrorismo troverà nuovi adepti, nuove praterie
in cui esercitarsi. Per Israele il problema è che i palestinesi stanno trovando alleati
importanti (e moderati) attorno alla loro proposta diplomatica: ieri sera, dopo la tappa a
Roma, Kerry è volato a Parigi per incontrare i ministri degli Esteri di Francia, Germania e
Gran Bretagna: l’americano ha chiesto di sospendere per alcuni giorni la procedura per
arrivare a un voto all’Onu a New York. Ma la macchina è in movimento.
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Del 16/12/2014, pag. 1-2
La strategia jihadista della paura globale per
non farci sentire mai più al sicuro
VITTORIO ZUCCONI
WASHINGTON
NON servono più grandi aerei carichi di innocenti passeggeri usati come missili contro i
grattaceli: oggi bastano un uomo solo, una bandiera nera, una famosa marca di
cioccolatini a Sydney per far tremare il mondo. La proiezione del terrore che si diffonde
ovunque, e istantaneamente, grazie a Internet è l’ultima arma nella guerra asimmetrica
che il fanatismo combatte e vince, grazie alla nostra capacità di ingigantirne la minaccia.
L’agguato di Sydney in una caffetteria che ironicamente augurava «Merry Christmas »,
buon Natale, dalla vetrina ai clienti prigionieri di un fanatico, in una città simbolo di una
nazione che pure vanta soluzioni drastiche contro l’immigrazione irregolare e l’infiltrazione,
è soltanto l’ultimo esempio della nuova strategia del terrore autoinflitto che l’Occidente
tremebondo subisce. Inutile progettare ed eseguire azioni mostruosamente spettacolari su
larga scala, come il massacro della Torri Gemelle, le bombe sui treni spagnoli o nelle
ambasciate. Qualsiasi gesto che esponga una bandiera nera con i versetti della
«Shahada», la professione di fede musulmana («Allah è l’unico Dio e Maometto è il suo
profeta ») sarà vista come il tentacolo della piovra jihadista che sta avvolgendo il mondo e
che può colpire ovunque: nel bar sotto casa, mentre andiamo al lavoro o siamo in
vacanza. Non è così, avvertono le forze di sicurezza e gli studiosi del terrorismo
fondamentalista, e non ci sono prove di legami operativi fra i tagliagole del Califfato o la
galassia di Al Qaeda e la caffetteria di Sydney, gli omicidi di Ottawa, la decapitazione di
una donna in Oklahoma uccisa da un collega convertito all’Islam e neppure con gli
sciagurati fratelli Tsarnaev che un anno fa insanguinarono la Maratona di Boston. Siamo
noi, ovunque ci troviamo nel mondo, nei nostri riflessi condizionati dalla paura che dorme
sotto la pelle, a stabilire i collegamenti. Oltre la guerriglia classica, il «mordi e fuggi» delle
guerre asimmetriche fra nemici di forze troppo impari, gli agguati nelle giungle, i colpi del
terrorismo urbano, la strategia del terrore affida, senza spese, senza rischi di cattura o di
rappresaglia, alle fantasie surriscaldate di chi colpisce e al panico di chi subisce il
contraccolpo psicologico, il bandolo della vittoria. «Non venite più in Iraq, in Afghanistan, o
in Siria — aveva predicato Anwar al-Awlaki, americano divenuto islamista radicale in
Yemen — restate dove siete e colpite il nemico dove vive». Al-Awlkaki, ucciso in un raid
anti Al Quaeda in Yemen, sapeva bene di che parlava, conosceva i rischi
dell’organizzazione terroristica e, da americano, sapeva quanto grande fosse la
disponibilità dell’opinione pubblica occidentale al panico.
La guerra per branchi, che era culminata nell’attacco a Manhattan e aveva richiesto la
partecipazione di dozzine di corrieri, finanziatori, pianificatori ed esecutori suicidi, ha
lasciato posto alle operazioni di lupi solitari che non appartengono realmente a nessun
branco, ma scatenano nell’obiettivo, nell’opinione pubblica, la reazione voluta. Alla fine
dell’estate Abu Mohammad al-Adnani, considerato una sorta di “portavoce” dell’Is, aveva
teorizzato il nuovo mondo della guerra per morsi invitando aderenti, simpatizzati,
compagni di strada, fedeli a «uccidere ovunque si trovino, chiunque trovino», come capita.
Ogni atto di terrore, dettato spesso soltanto da disturbi mentali che con un progetto
veramente coerente nulla hanno a che fare, vengono appropriati e venduti come cellule di
una metastasi islamista ormai inarrestabile. Il cioccolataio di Sydney, il tagliagole di
Oklahoma City, il cecchino di Ottava, il soldato inglese abbattuto a Londra da due
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convertiti alla Vera Fede, devono essere letti e vissuti nel contesto della guerra santa
contro gli infedeli e i «crociati» cristiani che bombardano le bande dell’Is o i campi dei
Taliban in Afghanistan. È la complicità delle vittime, il pubblico, a fare il resto, e a vedere il
disegno universale del terrore.
Tutto questo ci impaurisce perché è inarrestabile, incoerente e individuale. Ogni polizia sa
che è di fatto impossibile prevedere e prevenire l’atto criminale di un singolo individuo, si
tratti di un omicidio nel nome del fanatismo religioso o della passione umana. E proprio il
successo nell’individuazione e nella repressione di gruppi organizzati nel segno della jihad
sanguinaria ha generato questa proliferazione. Creare gruppi, strutturarli, generare
gerarchie e ordini è complicato, ha scritto Jamie Bartlett che a Londra studia l’evoluzione e
le metamorfosi del terrorismo, «ma Internet offre oggi ai singoli materiale di propaganda, e
sentimenti di appartenenza a movimenti che incoraggiano e giustificano i suoi attacchi ».
Chi sorveglia le fibrillazione della Rete nota periodicamente aumenti improvvisi di
«chatter», di chiacchiere e di conversazioni, che possono, come non possono, preludere
ad azioni di violenza, ma il collegamento fra il «rumore di fondo» e il demone con la
bandiera nera e il Kalashnikov è troppo labile e vago perché permetta di intervenire.
Nutrire ed esprimere pensieri e sentimenti radicali, anche di odio profondo, non è un reato
nelle nostre società libere, aveva avvertito il ministro degli Interni canadese quando gli era
stato rimproverato di non avere intercettato e fermato Michael Zehaf-Bibeau, l’assassino di
un soldato a Ottawa.
Se ogni vicino di casa, se ogni passeggero in metrò, se ogni avventore di una caffetteria è
visto come un possibile 9/11 tascabile, anche se non lo è, il disegno del fondamentalismo
ha compiuto un progresso quale neppure gli architetti delle Torri Gemelle potevano
sperare. Se il pubblico ci crede anche una scatola di cioccolatini può nascondere la
minaccia della jihad. Merry Christmas, cani infedeli.
Del 16/12/2014, pag. 5
Dresda, sfilano gli anti-islam “Siamo noi i veri
tedeschi”
La protesta salda famiglie e lavoratori alle frange estreme dei neonazi
Tonia Mastrobuoni
Un fischio assordante, poi una voce stridula riempie la piazza. «Ci sono tentativi di
infiltrare manifesti anticostituzionali, per favore sorvegliate i vostri vicini». A tre metri dal
palco, visibilissimo, un cartello con la scritta «Alibaba e i quaranta spacciatori». Il
proprietario, un cinquantenne brizzolato dall’aria pacifica, non accenna ad abbassarlo. Del
resto, nessuno ha vietato i manifesti razzisti; solo quelli anticostituzionali. E vai a capire la
differenza. Dalle ultime file parte anche una selva di fischi e un coretto, «Deutschland,
Deutschland». Una dozzina di teste rasate applaudono scandendo il ritmo, per fortuna il
coro si spegne quasi subito. Quello che contagia invece tutti, ogni volta che qualcuno lo
accenna, è «Wir sind das Volk», «Noi siamo il popolo», lo slogan scippato alla rivoluzione
pacifica che un quarto di secolo fa portò alla caduta del muro di Berlino.
In piazza molte teste rasate
Nell’autunno dell’89 anche qui a Dresda manifestavano ogni lunedì, come nel resto della
Germania comunista, contro il regime di Honecker. E rischiavano il carcere o la vita. Ma in
una piazza stracolma di teste rapate, «noi siamo il popolo» ha un suono sinistro. E quello
di Pegida, dei «Patrioti europei contro l’islamizzazione dell’Occidente», movimento nato a
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ottobre nella capitale sassone e divenuto ormai un appuntamento fisso e sempre più
popolare anche in altre città della Germania - Duesseldorf, Kassel, Colonia, Ulm - è
sempre sul filo dell’equivoco.
La simpatia degli anti-euro
Di più: è proprio nella città simbolo del «mattatoio» di Vonnegut, nella «Firenze sull’Elba»
rasa al suolo con furia dalle bombe alleate a febbraio del 1945, che rischia di saldarsi la
nuova destra tedesca. Gli anti-euro Afd, passati dalla priorità dell’uscita della moneta unica
a quello del freno all’immigrazione, stanno già tentando di mettere il cappello su Pegida.
Sono stati i primi, nelle settimane scorse, a mostrare una - cauta - disponibilità al dialogo,
con gli anti islamisti. Se il movimento dovesse trovare uno sbocco nel partito di Bernd
Lucke, cresciuto anch’esso a dismisura nei consensi fino ad entrare in ben tre assemblee
regionali a settembre, con percentuali di voto oltre il 10%, per Angela Merkel sarebbe un
bel grattacapo. La cancelliera continua a demonizzare Pegida, anche ieri ha fatto sapere
che la Germania «non è un posto per odio e calunnie». Tuttavia, sarà difficile ignorarlo a
lungo. Così come per gli Afd sarà difficile mantenere l’ambiguità, sul movimento.
«Siamo di destra»
Eppure, non è che manchino i momenti di verità, in questa piazza. Ad esempio, quando
una ragazza poco più che ventenne urla dal palco, «ascoltatemi bene, giornalisti: questa è
una piazza di destra» e dalla folla partono un boato e un’ovazione. E poi giù, a sparare
parole d’ordine che echeggiano epoche buie, «deutsche Sitte», «usanza tedesca» e tante,
troppe volte «Volk», «popolo». Ufficialmente, gli organizzatori della manifestazione di
Dresda, cercano in tutti i modi di tenere lontani i neonazisti e gli slogan di estrema destra
dal movimento. Sulla pagina Facebook c’è addirittura un omino stilizzato che getta una
svastica nel cestino. E nella piazza di Dresda, a stragrande maggioranza maschile e piena
di teste rapate, c’è anche tantissima gente comune. Donne, famiglie con bambini, molte
coppie di anziani. Uno urla con forte accento sassone «sono fiero di essere tedesco»,
segue un applauso.
«Pensiamo ai nostri figli»
Horst, tassista 53enne venuto a manifestare con la moglie, spiega la popolarità di Pegida
soprattutto nella ex Germania est: «Noi qui accettiamo ancora lavori che i tedeschi
dell’ovest non accettano più da un pezzo, per noi gli immigrati dell’Est Europa sono
concorrenti veri». Inutile ricordargli i numeri, dirgli che in Sassonia ci sono appena 100mila
stranieri, il 2,5% della popolazione - a Berlino il 13,4% degli abitanti ha un passaporto non
tedesco, tanto per fare un confronto. O che di quegli stranieri in Sassonia, neanche lo
0,1% sono musulmani. Horst scuote la testa: «Io devo pensare al futuro dei miei figli».
La paura dello straniero
Anche dal palco, uno dei capi del movimento sintetizza il motivo della popolarità di Pegida:
«Non siamo un one man show, ma il risultato di anni di errori nelle politiche di
immigrazione», strilla. La cosa inquietante, è che i sondaggi sembrano dargli ragione: il
34% dei tedeschi - uno su tre - secondo un’indagine dello Spiegel, pensa che la Germania
si stia islamizzando.
del 16/12/14, pag. 9
Erdogan: «L’Europa non deve interferire»
Giuseppe Acconcia
Turchia. Dure reazioni alla retata anti-Gulen
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Recep Tayyip Erdogan non si è piegato alle critiche dell’Unione europea, dopo l’ondata di
arresti dei giorni scorsi in Turchia. L’Ue si «occupi dei fatti propri e non interferisca con le
misure intraprese e con lo stato di diritto contro elementi che minacciano la nostra
sicurezza», ha tuonato il presidente turco. Tra rigide misure di sicurezza, la polizia turca
ha continuato gli interrogatori di 24 delle 27 persone arrestate (tra cui il direttore del
quotidiano di opposizione Zaman, Ekrem Dumanli) in 13 città nell’ambito di un’operazione
che ha preso di mira giornali e televisioni critici verso il presidente islamista moderato.
Il bersaglio principale dell’operazione sono le testate giornalistiche e personaggi
dell’impero mediatico Samanyolu, vicino a Fethullah Gülen, l’islamista in esilio negli Stati
uniti dal 1999, che dopo essere stato alleato di Erdogan ha lanciato una campagna contro
il presidente turco, al potere dal 2002. Gli arrestati sono accusati di coinvolgimento in
un’organizzazione terroristica (in riferimento a Hizmet, il movimento fondato da Gülen).
Fikret Duran, avvocato di Hayrettin Karaca, presidente dell’impero mediatico finito nel
mirino della magistratura, ha spiegato che gli interrogatori si sono concentrati fin qui in
particolare sulle serie televisive finanziate dal colosso.
Gli arrestati sono alti funzionari di mezzi di informazione, direttori e produttori di popolari
serie televisive, ma c’è anche qualche poliziotto, secondo gli investigatori accomodante
nei confronti di Gülen, la cui rete è accusata dal Partito Giustizia e Sviluppo (Akp), guidato
da Erdogan, di costituire una sorta di «Stato nello stato»: di controllare cioè istituzioni
parallele, corrotte, e responsabili di frode e calunnia. L’ondata di arresti non ha quindi solo
lo scopo di limitare la libertà di stampa nel paese, come hanno sottolineato i media
mainstream occidentali, ma anche di toccare i privilegi di una figura molto controversa in
Turchia, l’imam, Fetullah Gülen, le cui imprese vengono spesso boicottate da molti turchi,
contrari alla commistione tra islamismo radicale e politica.
In seguito agli arresti, la prima a stigmatizzare i limiti alle libertà di espressione in Turchia
è stata l’Ue per bocca del presidente del parlamento di Bruxelles, Martin Shulz. «La libertà
di stampa e il pluralismo dei media sono valori fondamentali dell’Ue», ha esordito il politico
nella seduta plenaria di oggi a Strasburgo, annunciando che mercoledì gli europarlamentari parleranno di libertà di stampa in Turchia. Shultz ha detto di essere «rimasto
sconvolto» dalla notizia dei raid. Gli hanno fatto eco i leader dei maggiori gruppi
parlamentari di Strasburgo, inclusi i Social democratici (Sd).
L’alto rappresentate per la politica estera dell’Unione europea, Federica Mogherini ha
cercato di gettare acqua sul fuoco. «Prendiamo molto seriamente i nostri negoziati con la
Turchia in quanto paese candidato e dobbiamo quindi sottolineare i problemi così come i
progressi», ha ammesso. Mogherini si è detta poi sorpresa dalla reazione di Erdogan alle
critiche dell’Unione europea e di confidare sul fatto che con la nuova Commissione è
possibile pensare a «una nuova partenza» dei negoziati per l’ingresso di Ankara nell’Ue.
Anche l’editorialista del quotidiano Zaman, Kerim Balci, sfuggito alla retata, ha duramente
stigmatizzato gli arresti, parlando di «errore grave», commesso da Erdogan. Secondo
Balci, il leader dell’Akp otterrà il «risultato opposto» a quello sperato, rafforzando i suoi
oppositori. «L’operazione – ha denunciato senza mezzi termini Balci — è una vendetta del
presidente per la vicenda dello scandalo in materia di corruzione», che ancora una volta,
alla fine del 2013 aveva quasi fatto cadere il governo dell’allora premier Erdogan. Non
solo, con questi arresti, secondo Balci, Erdogan ha «fornito una prova» senza precedenti
all’opposizione sulle sue reali intenzioni. «Ci aspettavamo la retata anche se non credevo
che si partisse dai vertici. Mi aspettavo che avrebbero arrestato me, ma non il direttore
Dumanli. Questo è stato l’errore di Erdogan, che ha scatenato uno scandalo
internazionale, spingendo l’Ue e gli Usa a denunciare il suo operato», ha aggiunto.
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Tre persone sono state rilasciate dopo essere state interrogate nella notte. Davanti alla
sede della Direzione generale di sicurezza di Ankara, dove si svolgono gli interrogatori, un
migliaio di persone hanno inscenato una protesta per chiedere la liberazione dei detenuti.
del 16/12/14, pag. 9
L’ex eurodeputato Giulietto Chiesa arrestato
ieri a Tallinn
Fabrizio Poggi
Estonia. L’ex eurodeputato era rientrato in albergo dopo aver
partecipato alla conferenza «La Russia è nemica dell’Europa?».
Dichiarato «persona non gradita», sarà espulso entro 48 ore
Se la faccenda non fosse tremendamente seria e drammatica, verrebbe da dire che i
colloqui italiani di domenica scorsa tra il Segretario di Stato americano John Kerry e il
Ministro degli esteri russo Sergej Lavrov hanno fatto una vittima italiana. A Tallinn è stato
arrestato ieri Giulietto Chiesa, ex europarlamentare e corrispondente per oltre vent’anni da
Mosca de La Stampa e l’Unità. Ancora in serata non era chiara la motivazione del fermo.
Chiesa era rientrato in albergo dopo aver partecipato nella capitale estone alla conferenza
«La Russia è nemica dell’Europa?» e lì gli agenti gli hanno notificato il fermo (sembra, di
48 ore), al termine del quale verrà espulso dal Paese; secondo il suo avvocato, con la
motivazione di «persona non gradita». «È un fatto molto grave – ha detto il legale di
Chiesa – una violazione dei diritti politici». Mentre veniva portato al commissariato, il
giornalista italiano ha saputo dagli agenti che esisteva per lui un mandato di espulsione
del ministero degli esteri estone. Mentre scriviamo, Giulietto Chiesa sarebbe ancora
trattenuto al commissariato di polizia di Tallin.
È facile immaginare che l’attività giornalistica di Giulietto Chiesa – attualmente, oltre a vari
interventi su blog e testate giornalistiche italiane, su megachip.globalist.it e la sua Pandora
TV e anche su siti russi – lo abbia da tempo reso veramente «non grato» ai poteri dei
paesi baltici. Da tempo Chiesa, profondo conoscitore delle questioni russe e molto legato
alla figura di Mikhail Gorbaciov, si è fatto difensore delle minoranze russofone,
praticamente prive di diritti in paesi come Estonia, Lettonia e Lituania. In passato Chiesa
era stato candidato dalla minoranza russa in Lettonia a rappresentarla al Parlamento
europeo. Il gesto del governo estone, alla faccia della proclamata libertà democratica,
manda a dire che ogni voce che oggi metta in dubbio nelle ex Repubbliche sovietiche del
Baltico la linea tracciata di marcata adesione ai progetti Nato, di riarmo accelerato e
schieramento bellico ai confini con la Russia, non può che ricevere il trattamento di
«persona non gradita». Tanto più alla luce anche delle ultime risoluzioni del Congresso
Usa sull’Ucraina, cui Chiesa non ha mai cessato di opporre un punto di vista obiettivo, in
contrasto con chi si sbraccia per presentare davvero «la Russia nemica dell’Europa».
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INTERNI
Del 16/12/2014, pag. 8
LA GIORNATA
Renzi incontra Prodi “Non accetto veti
nessuno nel Pd candidi il Professore contro
di me”
L’ex leader dell’Ulivo: “Continuo a non essere disponibile” Boschi:
scegliamo noi il nome da proporre per il Colle
TOMMASO CIRIACO
Avranno parlato soprattutto di economia e politica internazionale, della crisi ucraina e del
dossier libico, come lasciano trapelare fonti di Palazzo Chigi. Ma è chiaro che a poche
settimane dall’elezione del prossimo capo dello Stato l’incontro tra il premier Matteo Renzi
e Romano Prodi assume un significato diverso. Alla successione al Colle pensa
immediatamente la minoranza interna al Pd. E alla partita per il nuovo presidente allude
anche il ministro per le Riforme Maria Elena Boschi, sia pure per ridimensionare la portata
del summit: «Io Prodi l’ho votato, ma non tiratelo per la giacchetta. Il Pd sceglierà un nome
che poi sottoporrà agli altri partiti. Si parlerà anche con FI e M5S, come è capitato in
passato». Il Professore attraversa il cortile di Palazzo Chigi intorno alle 15. Due ore in
tutto, alla presenza del sottosegretario alla presidenza del consiglio Graziano Delrio,
reggiano come l’ex premier. Quando l’incontro è ancora in corso, già si sprecano le prime
ipotesi. Tutte ruotano attorno all’eventuale approdo sul Colle più alto: «Prodi è il primo a
non volere essere chiamato in causa, anche per come è stato trattato l’ultima volta — tira il
freno a mano Boschi, ospite del salotto di “Porta a porta” — In questo Parlamento con una
leadership forte del Pd quella figuraccia lì non la ripeteremo». Per il ministro, in ogni caso,
i rapporti tra Renzi e Prodi non presentano ombre: «Non è assolutamente vero che il
governo l’abbia ostacolato nel ruolo di mediatore della crisi libica.
Sarebbe stata una buona scelta». La sinistra dem, comunque, non nasconde la
soddisfazione per l’incontro. «È un fatto positivo», ammette Stefano Fassina. «Mi auguro
che si rivedano», sottolinea Francesco Boccia. Qualcuno però si spinge più avanti:
«Abituati a vedere entrare a Palazzo Chigi Berlusconi — rileva Pippo Civati — non si può
non registrare un cambio di passo. È un bel segnale». E anche oltre i confini del Pd c’è chi
sogna Prodi al Quirinale, come Lorenzo Dellai: «È una buona notizia». Di diverso avviso
invece Forza Italia («l’incontro è una provocazione verso tutto il centrodestra, sostiene
Elvira Savino) e Barbara Saltamartini a nome di Ncd: «Il prossimo inquilino del Colle non
sia espressione del Pd e della sinistra. In questo scenario non può rientrare Prodi».
Il faccia a faccia con Renzi non è il primo colloquio del Professore negli ultimi giorni.
Sabato scorso, nella sua casa di Bologna, l’ex premier si è ritrovato a pranzo con Mario
Monti. Secondo lo staff di Prodi, un appuntamento da inquadrare soltanto nell’ambito dei
lavori del think tank “Council for the future of Europe”.
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Del 16/12/2014, pag. 12
Berlusconi verso lo strappo “Se il premier fa
da solo non voteremo le riforme”
Tensione sul Quirinale: “Non erano queste le condizioni con Renzi”
Rottura più vicina con Fitto che rifiuta la candidatura in Puglia
CARMELO LOPAPA
Berlusconi vede nero su Quirinale e riforme e minaccia lo strappo, mentre il suo partito va
in frantumi. «A che gioco sta giocando Renzi? Non erano queste le condizioni», è stato
uno degli sfoghi più soft ai quali si è lasciato andare il leader forzista da Arcore. Le quasi
due ore di colloquio tra il premier e Romano Prodi a Palazzo Chigi non lo rassicurano
affatto. Più in generale, l’ex Cavaliere ha maturato la convinzione che il segretario Pd
voglia fare «da solo », che il nome del successore di Napolitano lo sceglierà nel chiuso del
partito, magari chiudendo il cerchio con la minoranza dem. Con buona pace del Nazareno,
un patto che ieri sera sembrava sulla via del tramonto.
Berlusconi rientra oggi a Roma e promette fuoco e fiamme. Ha rimandato agli incontri
delle prossime ore coi dirigenti a Palazzo Grazioli ogni decisione sul da farsi. Ma il
nervosismo e la tensione — racconta chi l’ha sentito da Villa San Martino — sono ai
massimi livelli. «Matteo deve dirmi subito cosa intende fare, se pensa di fare da solo può
approvarsi coi suoi anche le riforme», è la conclusione dettata dalla rabbia del momento.
Preoccupazioni che coinvolgono anche l’iter delle riforme e il nuovo Italicum (con
minacciose varianti tendenti al Mattarellum). E allora, è la strategia berlusconiana,
«piuttosto che ritrovarci con un maggioritario spinto e con un Pietro Grasso al Quirinale
facciamo saltare il tavolo prima noi».
Una tensione cresciuta anche perché nelle ultime ore l’ex Cavaliere ha realizzato la
perdita del controllo di Forza Italia. Almeno della quarantina tra deputati e senatori legati a
Fitto, a un mese dall’appuntamento col Parlamento in seduta comune. La dichiarazione
mattutina dell’eurodeputato pugliese è stata assai chiara: «Rischiamo di diventare
marginali. La prima e gravissima conseguenza delle scelte sbagliate del partito si
vedranno proprio sul Quirinale». Per metà una constatazione, per l’altra metà un
avvertimento all’indirizzo del suo leader: dove pensa di andare senza di noi, quand’anche
scegliesse il candidato con Renzi? «Forza Italia rischia di arrivare all’appuntamento
politico- parlamentare — del Quirinale (e delle riforme) — in una condizione di marginalità
e di irrilevanza» scrive Fitto. «Rotta sbagliata», «cedimento alla Lega di Salvini », rincara
l’ex governatore che torna a chiedere le primarie per evitare «sconfitte durissime come
quelle subite in Emilia e Calabria». E la botta finale: «Nei giorni pari ci dichiariamo
opposizione, nei dispari rilanciamo il Patto del Nazareno». Ci si mette anche Renato
Brunetta, con una lettera aperta a Berlusconi per denunciare che quelle riforme «non sono
le nostre». Il leader forzista legge da Arcore le parole di Fitto e perde ancora una volta le
staffe. «Se pensa di essere così autosufficiente, si misuri nella sua Puglia, si candidi
contro il magistrato Emiliano » attacca in privato. Provocazione che nel giro di un paio
d’ore viene spinta alle estreme conseguenze, Berlusconi fa riunire il Comitato per le
regionali guidato da Altero Matteoli e composto tra gli altri da Romani e Fitto per
ufficializzare l’offerta della candidatura. La risposta del big pugliese è ancora più sferzante
e sembra preludere alla rottura definitiva: «Non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire.
Possibile che si insista a proporre una mia candidatura che non sta in cielo né in terra?
Vedo che alcuni si affannano a contendersi poltroncine di prima fila sul Titanic. Che altro
deve succedere (un 7-0 alle regionali?) per uscire dal torpore?»
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del 16/12/14, pag. 8
La clausola che attiva l’Italicum nel 2016
Oltre 17 mila emendamenti alla legge elettorale. Ma il vero scontro è su
quando il sistema entrerà in vigore
ROMA
Non sono davvero pochi 17.282 emendamenti per il governo che vuole portare la legge
elettorale in aula al Senato prima di Natale, ma gli scogli sui quali rischia di incagliarsi
l’Italicum sono altri. La «clausola di salvaguardia» (che subordina l’efficacia della legge
elettorale monocamerale all’approvazione della riforma costituzionale del bicameralismo)
piace infatti a Matteo Renzi solo nella misura in cui contenga la «data certa» del 1°
gennaio 2016. Al massimo tra 12 mesi, dirà domani il presidente del Consiglio quando
incontrerà i senatori del Pd, l’Italicum dovrà essere pienamente operativo.
Però, ora, sul calendario si è messo di traverso anche il Nuovo centrodestra che chiede
più tempo al premier: «Se vogliamo essere seri — ha detto in prima commissione Gaetano
Quagliariello — la clausola deve coincidere con l’impegno del governo a varare la riforma
costituzionale. Il 1° gennaio del 2016 è troppo vicino, meglio come termine la primavera
ma la data ideale sarebbe il 31 dicembre 2016».
Il secondo scoglio è rappresentato dalla norma transitoria, la «ruota di scorta» da utilizzare
nel caso in cui si dovesse votare prima dell’entrata in vigore dell’Italicum. Il ministro Maria
Elena Boschi e i senatori renziani avevano provato ad agitare il vecchio Mattarellum
(inviso soprattutto a Silvio Berlusconi) come legge elettorale provvisoria, ma ieri al Senato,
anche alla luce della sintesi del presidente Anna Finocchiaro, si è capito che la strada
maestra è sempre quella del Consultellum: la legge elettorale proporzionale con una
preferenza rimasta sul campo dopo la sentenza della Consulta.
Oggi, alle 12.30, su questi nodi verranno votati in Commissione due ordini del giorno: il
primo (Calderoli, Lega) nasconde una trappola perché costringerà la maggioranza a
votare contro sebbene contenga un riferimento al Mattarellum; il secondo (De Petris, Sel)
prevede una versione del Consultellum con la soglia al 3%.
Dopo queste schermaglie si arriverà al merito dell’Italicum. Che nella versione del
Nazareno (Pd e FI) comporta (con l’attuale quadro politico) una Camera composta da 375
deputati nominati dai partiti (piazzati come capilista nel collegi) e soltanto 242 (di cui 240
del Pd e due del M5S) scelti dagli elettori con le preferenze. Per evitare che queste
proporzioni attirino l’attenzione della Consulta, Federico Fornaro e altri sei senatori dem
propongono un altro sistema misto: 143 deputati bloccati (il 22%) eletti con il proporzionale
in 26 macro circoscrizioni, 475 collegi plurinominali con le preferenze e 12 eletti all’estero.
Politicamente più pesante l’emendamento del bersaniano Miguel Gotor (cancellazione dei
capilista bloccati sostituendoli con un listino nazionale con il 25% degli eletti) che ha
raccolto 34 firme nel Pd, comprese quelle di Area Dem (Franceschini) che finora non si è
discostata dalla linea del governo.
Il governo però sembra avere un solo obiettivo: chiudere in commissione entro domenica e
andare in aula il 23 dicembre senza modificare lo schema dei 100 capilista bloccati che,
conferma il renziano Stefano Collina, «non presenta rischi di costituzionalità ed è stato
condiviso dagli organi decisionali del Pd». Per la fase transitoria, infine, il governo non fa
previsioni su quale legge elettorale verrà utilizzata ma conferma nella Finanziaria l’election
day (maggio 2015). Che (per ora) accorpa Regionali e Comunali.
Dino Martirano
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del 16/12/14, pag. 9
Forze armate, si taglia tutto tranne gli stipendi
SI COMPRANO ARMI PER MILIARDI MA MANCANO LE RISORSE PER
L’ADDESTRAMENTO E PER GLI EQUIPAGGI DELLE NAVI CHE
SALVANO I MIGRANTI
di Daniele Martini
È come se uno si comprasse la Ferrari e non avendo la patente fosse costretto a tenerla in
garage. Gli Stati maggiori e il governo si stanno comportando allo stesso modo con le
nuove armi. Comprano a tutto spiano, dai caccia F-35 alla flotta da 5,5 miliardi mezzo,
pescando a piene mani nel bilancio della Difesa e non intendendo oltretutto rinunciare
neanche a mezzo dei 71 dispendiosi programmi di armamento varati quando le casse
pubbliche piangevano un po’ meno. Spendono a destra e a manca, poi però non sono in
grado di utilizzare appieno ciò che hanno acquistato. E non perché (per fortuna) mancano
le occasioni in cui l'Italia debba mostrare i muscoli dispiegando il suo apparato bellico. Ma
perché l'acquisto di armi all'ultima moda sottrae fondi a quello che in gergo chiamano
l’“esercizio”, cioè l'addestramento militare necessario a imparare a usare quelle stesse
armi. Per sostenere la corsa alle spese per nuovi sistemi d'arma, Stati maggiori e governo
sono disposti a tagliare perfino dove umanità e buon senso sconsiglierebbero di farlo,
come i soccorsi in mare ai poveri cristi che affrontano il Canale di Sicilia su barconi mezzo
sfondati. La legge di Stabilità riduce di 4 milioni di euro gli stanziamenti per i reclutamenti
delle Capitanerie di porto e in pratica dall'anno prossimo sulle navi ci saranno circa 260
marinai in meno per l'aiuto a chi ne ha bisogno. Non solo migranti, ma anche pescatori e
diportisti. Il risultato di queste scelte è da Comma 22: hangar, porti e depositi sempre più
pieni e capacità militare sempre più incerta; navi equipaggiatissime, superaerei e carri
armati potenti, ma inesorabilmente sottoutilizzati. È uno spreco nello spreco in un
momento in cui le ristrettezze costringono a tagliare dappertutto. I dati di previsione 2015
lo confermano. Il bilancio della Difesa è di circa 19,5 miliardi di euro da cui vanno però
sottratti 5,5 miliardi destinati alle azioni per la “sicurezza del territorio”, cioè in sostanza
fondi per l'attività dei carabinieri che sono sia un corpo di polizia sia militari formalmente
dipendenti dall'Esercito. A quella che viene definita la “funzione difesa” in senso stretto
vanno circa 14 miliardi di euro.
LA LEGGE DI RIFORMA militare di due anni fa stabilisce un’allocazione delle risorse
considerata ottimale anche dagli stati maggiori, basata su una tripartizione della spesa:
metà per il personale (gli stipendi), un quarto per gli investimenti (nuove armi) e un quarto
per l’esercizio (l'addestramento). Il bilancio 2015 non rispetta questa suddivisione ed è
fortemente pencolante sul versante delle uscite per il personale e per nuovi sistemi
d'arma. Sacrificate al massimo sono le spese per l’addestra - mento. Per il personale è
programmato uno stanziamento di una decina di miliardi di euro, oltre il 70 per cento,
come risulta da uno studio di Francesco Vignarca per Altraeconomia. Pressato dai Cocer,
quella specie di sindacati dei militari che forse per la prima volta nella loro storia erano
arrivati a minacciare con uno sciopero Palazzo Chigi, il governo ha dovuto prima pagare
un'una tantum di 400 milioni di euro e poi rimettere in moto in fretta la dinamica di
adeguamento degli stipendi che era stata bloccata dal governo di Silvio Berlusconi nel
17
2009. Per l'acquisto di nuove armi il bilancio stanzia 2 miliardi e 400 milioni. Che però non
sono affatto ciò che effettivamente lo Stato impegna per questo settore. Dalle casse
pubbliche in realtà esce molto di più, circa il doppio: 5 miliardi di euro considerando che
molte voci di acquisto vengono finanziate anche con fondi del ministero dello Sviluppo
economico.
QUESTA SCELTA non risponde solo a criteri contabili, ma ha una logica sia militare sia
industriale, perché gli investimenti militari spesso hanno una ricaduta sul sistema
produttivo. L’ammodernamento della flotta avrà effetti sulle commesse e sull’occupazione
del più grande gruppo italiano dell'armamento, la Fincantieri che è pubblica. Così come
l’acquisto degli F-35 dalla Lockheed Martin porterà commesse per la manutenzione
nell’impianto novarese di Cameri, anche se in misura molto inferiore a quella
propagandata dal ministero della Difesa. Per l’addestramento militare restano le briciole:
un miliardo e mezzo di euro, il valore più basso della storia militare repubblicana. Le nuove
armi rischiano così di diventare lustrini per forze armate da parata.
Del 16/12/2014, pag. 14
Giochi 2024, la sfida di Renzi “Roma e l’Italia
si candidano sarà un evento per il Paese”
Grillo e Salvini: “Una follia”
Diverse le città e le Regioni che potrebbero essere coinvolte insieme
alla capitale Il premier: “Vorrei Napoli come Barcellona”. Cantone per il
comitato dei garanti
FULVIO BIANCHI
SCANDISCE le parole: «Per noi, per i nostri figli, per l’Italia». Salone d’onore del Coni:
un’ovazione per Matteo Renzi quando annuncia che l’Italia, non solo Roma, si candida ai
XXXIII Giochi estivi del 2024 e «vuole vincere, non partecipare». Il giorno di San Valentino
di due anni fa l’allora premier Mario Monti disse no a Petrucci-Pagnozzi, niente Giochi
2020 (finiti a Tokyo): non c’erano le condizioni economiche per spendere 10 miliardi. Ora il
sogno, secondo Malagò, ne costa solo sei. Ma non tutti sono d’accordo. Salvini (Lega
Nord) picchia duro: «Le Olimpiadi a Roma sono una follia. C’è ancora aperto il fascicolo su
Mafia Capitale e vogliamo dargli in pasto i Giochi? Non capisco se Renzi ci è, o ci fa». Di
Pietro ironico: «La canoa la facciamo nelle strade di Genova... Meglio un carcere in più».
Grillo: «I coinvolti di Mafia Capitale saranno liberi in tempo per spartirsi una torta
olimpica». Ma Renzi non si ferma («Non è un progetto campato in aria, ma fatto di grandi
persone ») e assicura che gli scandali non influiranno. Il sindaco Marino non può che
annuire. Malagò parla di «trasparenza religiosa», spunta il nome di Raffaele Cantone per il
comitato dei garanti. Tutti adesso vorrebbero avere un pezzo di Olimpiade: addirittura il
Vaticano si è proposto per il tiro con l’arco. Renzi spiega dopo la cerimonia: «Per me
questo è il simbolo dell’Italia che vuole andare avanti, non quella dei gufi, Salvini, Monti,
Civati, i grillini, quelli che dicono sempre “non si può fare”». «La Sardegna serve per gli
investimenti arabi, vorrei Napoli come Barcellona ‘92» aggiunge Renzi, che al Coni si era
scordato per il secondo giorno consecutivo di Milano. Promossa Firenze, altre ipotesi
(Taranto, Venezia, Palermo, Bari, Brescia) saranno scartate. Sì, perché se una città Usa
(stanotte la scelta fra Boston, Los Angeles, Washington e San Francisco) garantisse tutte
le gare in un raggio di 20-30 chilometri, ecco che per l’Italia sarebbe dura spuntarla nel
18
settembre 2017. Ma anche le altre candidate, ricorda Malagò, «hanno i loro problemi» e
allora tanto vale provarci. Roma è la prima a farsi avanti. Le rivali arriveranno: Parigi se
Hollande trova un accordo col sindaco Anne Hidalgo, una tedesca (Berlino e Amburgo),
Istanbul, Baku, Budapest, Doha (ma non ha chances, il Cio vuole che i Giochi dal 15 luglio
al 31 agosto), Cape Town. Il prossimo mese sarà pronto il comitato promotore: Malagò ha
«declinato l’invito». L’identikit porta ad un «esterno ma che sappia di sport e conosca le
lingue»: Montezemolo (“non so nulla” dice dopo essere premiato da Renzi) o Andrea
Guerra, ex ad di Luxottica, molto stimato dal premier. Il dg potrebbe essere Luca Pancalli.
Costi bassi per la candidatura: 10-15 milioni. È cambiato tutto. Si vuole cambiare tutto.
Del 16/12/2014, pag. 14
Più speranze che impianti: le riforme Cio non
bastano per sognare
EMANUELA AUDISIO
L’ITALIA non si rannicchia. Vuole giocare e vincere le Olimpiadi. Vacanze romane è un
film sempre di moda. Così parte il casting olimpico. Resta da capire cosa sia cambiato in
due anni: dal no di Monti al sì di Renzi. È un paese diverso? Viene da dire no. Sono solo
diversi i premier. L’economia continua ad andare male, la gestione delle grandi opere
pure, pessima anche la moralità. Credibilità poca, se non in cucina. Expo di Milano, Mose
a Venezia, Mafia Capitale a Roma. L’Italia sogna, ci mancherebbe, vuole trasparenza, ma
le restano solo gli incubi da Profondo Rosso. E lo slogan: stavolta sarà diverso. Però
nessuno spiega perché. Quando si partecipa a un torneo serve squadra, allenatore,
presidente, finanziatore. Un’idea ben chiara di come si giocherà. Uomini e schemi. C’è?
Non c’è. Yes we can, of course. Ma dove sono i soldi e chi ce li mette per la prima tappa di
candidatura? Servono 30 milioni di euro. Per quella del 2020, Coni, Comune di Roma e
sponsor ne misero insieme 7 e mezzo, poi Monti non firmò la lettera. Torino per candidarsi
(e vincere) i Giochi invernali del 2006 spese (c’erano ancora le lire) un equivalente di 5
milioni di euro divisi tra privati e enti pubblici.
Nessuno nega la bellezza storica dei Cinque Cerchi, ma il mondo quando c’è da
organizzarli ha imparato (a sue spese) a tenersi a distanza. Scottano troppo i Giochi, e
bruciano non solo emozioni. È meraviglioso ospitare tutti, ma se prima si è stati gentili e
corretti con il proprio popolo. I cittadini devono poter dire la loro. Non si può far calare
dall’alto un momento sportivo come fosse una tassa e un sacrificio inevitabile. Lo stesso
Pietro Mennea, Mister Olimpiade, cinque partecipazioni ai Giochi, fornì a Monti un libro
con conti e cifre per dire no. È vero, il Cio ha appena cambiato le regole, ha ammesso il
decentramento, altre città potranno aiutare Roma, ma dai quarti si torna nella capitale, che
deve restare centrale e sacra, soprattutto con il villaggio atleti. Non si vince disseminando
competizioni, ma delocalizzando dove il territorio aiuta. In questi ultimi anni molte sedi
europee hanno rifiutato i Giochi. Sempre con referendum popolari. Monaco e Oslo, non
proprio due economie allo stremo, e due città bene organizzate, hanno detto: grazie, il
format non ci interessa. Soprattutto se noi dobbiamo adattarci. E forse questo spaventa
Malagò, presidente del Coni. Si può andare in una società democratica contro un voto di
non gradimento? Come convincere l’Italia che dei Piccoli Giochi al risparmio possano
essere in una società di servizi così scadenti una spinta per nuovi investimenti?
Nel mondo le città funzionano a prescindere dalle Olimpiadi, che diventano un valore
aggiunto. Perché Roma deve avere i Giochi per potersi adeguare a standard culturali e
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civili consi- derati optional straordinari? Il Cio in questo momento ha bisogno di
entusiasmo, di tante Roma, deve fare vedere che il suo prodotto è sempre seducente e
competitivo, altrimenti per il 2028 non ci sarà nemmeno un concorrente. Per ora le rivali di
Roma sono Baku e Doha, nessun problema di soldi, l’America deve scegliere tra San
Francisco, Los Angeles, Boston, Washington, che qualche problema ce l’hanno, Parigi
deciderà a gennaio, Amburgo e forse Berlino devono chiarirsi.
Veniamo agli impianti. A Roma di pronto come strutture sportive al momento c’è molto
poco: il poligono per il tiro a segno e l’impianto per il salto ad ostacoli di piazza di Siena.
Per l’equitazione va riattivato quello che resta del complesso dei Pratoni del Vivaro,
patrimonio in rovina, anche se la Fondazione Mangilli vuole impegnarsi nella ricostruzione.
Mancano i villaggi, vanno costruiti alloggi per 20.000 persone: atleti (10.500), giornalisti,
addetti, volontari. Manca il velodromo, i bacini per canottaggio e canoa, un certo numero di
palazzetti perché al momento c’è solo il PalaLottomatica. Argomenti stadi: il famoso
Flaminio è chiuso da tempo, l’Olimpico verrà un po’ ristrutturato per gli Europei di calcio,
ma dove mettere la sala stampa per l’atletica e come renderlo agevole per la cerimonia di
apertura e chiusura? Si parla anche di palestre ricavabili nella nuova Fiera di Roma, ma
sulla loro agibilità esistono dubbi, troppo lontane dal futuro villaggio olimpico. E i vari poli
previsti (Olimpico, Tor Vergata, Eur, Saxa Rubra) non sono collegati con la linea metro. Al
2024 mancano dieci anni: con il passo attuale dei lavori in corso a Roma, si potranno
aprire al massimo due nuove stazioni. Resta anche il problema di dove ospitare il lavoro di
giornalisti e tv. Roma è magnifica per fare gli stupidi di sera, lo è un po’ meno se si deve
correre da una parte all’altra per esigenze lavorative.
E ora gli uomini di sport. Si vota nel 2017. Malagò al Coni ha la rielezione nel 2016. Dei tre
attuali italiani membri Cio: Ottavio Cinquanta uscirà dopo Rio 2016, Mario Pescante nel
2018, Franco Carraro nel 2019. C’è chi sussurra l’investitura di Luca di Montezemolo, già
presidente di Italia ‘90. Ma si può riproporre lo stesso nome più di 25 anni dopo? Inoltre la
geografia e gli X Factor del governo sportivo mondiale sono molto cambiati, si sono
rinnovati, prova ne è che il congresso che voterà la città 2024 si terrà a Lima (Perù) che ha
avuto la meglio su Helsinki (Finlandia). I Giochi non fanno miracoli: quelli bisogna
costruirli. Pure e soprattutto a Roma
Del 16/12/2014, pag. 17
Da Montreal ad Atene quasi tutte le città hanno speso cifre enormi e
fuori budget L’esempio virtuoso di Torino non sarebbe tanto
riproducibile proprio perché l’evento estivo impegna molte più risorse
Un disastro annunciato che affosserà i bilanci
FEDERICO FUBINI
SEDICI anni fa, un ministro del Tesoro chiamato Carlo Azeglio Ciampi firmò un impegno a
nome dell’Italia: avrebbe coperto spese fino a due miliardi di euro (in denaro attuale) per
una città che si candidava alle Olimpiadi d’inverno. Torino. E quando i delegati del
comitato promotore andarono in Australia per farsi conoscere, si resero conto che
mancava un tassello: dovettero stampare nuove brochure, con inclusa una mappa
d’Europa nella quale Torino era chiaramente situata rispetto a Roma, Milano, Parigi.
Quella città candidata andava rimessa sulla carta del mondo, perché ne era sparita dopo i
lunghi anni di crisi della Fiat. Non c’è dubbio che questa sia un’assonanza con la proposta
di Roma per le Olimpiadi estive 2024, avanzata dopo sei anni di recessione italiana, ma i
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parallelismi finiscono qui. Non solo perché a Roma si possono rimproverare molti difetti,
ma non di non essere già sulla carta. In realtà anche la scienza triste, l’economia, fa
sorgere dubbi sulla praticabilità della candidatura di un Paese che oggi ha un debito al
130% del Pil: sei volte più alto rispetto a quando ospitò le prime Olimpiadi romane nel
1960. I conti sono sotto gli occhi di tutti. Le Olimpiadi d’inverno di Torino alla fine sono
costate 5 miliardi di euro, per metà coperti da denaro pubblico, mentre per quelle estive il
successore di Ciampi, Pier Carse, lo Padoan, dovrebbe sottoscrivere una garanzia di
copertura fra le tre e le dieci volte superiore. Un “pagherò” (se vince Roma) che va dai sei
ai venti miliardi di euro e va firmato non fra dieci anni ma fra dieci mesi, quando le
proposte andranno depositate. I Giochi estivi più economici ed efficienti della storia
recente, Londra 2012, sono costati circa 160 euro in media per ogni suddito di Sua
Maestà, 12 miliardi di euro di denaro pubblico, e restano un raro esempio di gestione
oculata. Per molti altri eventi del genere, secondo le stime del National Geographic , le
previsioni iniziali di spesa sono state regolarmente sfondate: a Pechino 2008 del 4%, ad
Atene 2004 del 60%, a Sydney 2000 del 90%, ad Atlanta del 147% e a Barcellona 1992
del 417%. Montreal 1976 ha impiegato tre decenni a rientrare dai costi.
A Roma, dove la società di trasporto pubblico locale ha chiuso senza perdite un solo
bilancio negli ultimi 11 anni, come finirebbe? Se la storia dell’Expo di Milano 2015 insegna
qualcosa, finirebbe in senso opposto a Atene, Atlanta, Sydney, o agli sprechi dei mondiali
di calcio Italia ‘90. Invece di pagare troppo, per mancanza di risorse Roma rischia di poter
spendere molto meno di quanto previsto e di quanto necessario. All’Expo di Milano sta già
succedendo, con la Regione e il governo che gareggiano nel trattenere e negare i
finanziamenti, mentre l’evento promette di essere meno ricco e attraente del previsto.
Ma, appunto, questa è solo scienza triste. John Maynard Keynes diceva che sarebbe
«splendido» se gli economisti riuscissero a essere «umili e competenti come dei dentisti»,
perché non lo sono. Ma anche altri aspetti della vita di una nazione permettono di dubitare
della praticabilità di una candidatura di Roma. Il governo la presenta mentre fa i conti con
sconvolgenti casi di corruzione emersi quasi ovunque ci siano lavori pubblici, anche di
consistenza minima. I miliardi del Mose di Venezia, i commissariamenti decisi per alcune
delle grandi imprese dell’Expo, il racket degli appalti che ha trascinato il Comune di Roma
al default e poi ha continuato ad infierire. È vero che, come ha ricordato ieri il commissario
anti-corruzione Raffaele Cantone, le Olimpiadi di Torino hanno dimostrato che anche in
Italia possono svolgersi grandi eventi nella legalità. Ma su questo fronte il Paese ha già
fatto abbastanza per essere credibile? Toccherebbe al comitato promotore di Roma 2024
spiegarlo ma, malgrado la svolta pubblica del premier Matteo Renzi, sembra che non sia
ancora ben formato né abbia un proprio budget da spendere.
A discolpa di Roma, va detto che non tutto finirebbe lì. Competizioni si terrebbero a
Milano, Napoli e a Firenze, per qualche ragione, andrebbe la pallavolo. L’ultima volta che
la città ha vinto uno scudetto in questa disciplina correvano gli anni ‘70 e andò alle
ragazze dello Scandicci: metafora perfetta del lavoro che resta da fare per tornare
credibili. Di solito le Olimpiadi migliori e più fertili di crescita futura sono sempre andate a
città risorgenti: Londra dalla grande crisi, Pechino dalla povertà, Barcellona da 40 anni di
franchismo. Roma e l’Italia risorgenti non lo sono ancora: se quei soldi ci fossero,
dovremmo forse spenderli per ridurre le tasse, cambiare la giustizia, in modo da ridare
lavoro stabile agli italiani. Allora saremo pronti a candidarci di nuovo ai Giochi, per
festeggiare la nostra rinascita un’estate intera.
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del 16/12/14, pag. 1/2
Paolo Berdini
La malattia grave delle grandi opere
Di fronte alla crisi economica che viviamo, non c’è serio osservatore economico che non
affermi che le risorse pubbliche devono essere utilizzate con politiche di medio e lungo
periodo. Non servono medicine estemporanee, specie se hanno dimostrato il fallimento.
La cultura delle grandi opere inaugurata da Berlusconi e Tremonti nel 2001 con la Legge
obiettivo ha vuotato le casse dello Stato e non ha dato una seria prospettiva di sviluppo al
paese.
Un fiume di soldi affidato al famelico cartello delle grandi imprese — cooperative
comprese — che non ha fatto aumentare di un millimetro l’efficienza complessiva del
sistema infrastrutturale e ha depredato le casse dello Stato.
A questo madornale errore di prospettiva si è aggiunto il malaffare alimentato dalla
mancanza di regole e di controlli. Dall’affidamento dei lavori ogni ruolo dello Stato
scompare: Corte dei Conti ed autorità degli appalti continuano a denunciare che le grandi
opere vengono aggiudicate sulla base di progetti iniziali imprecisi e vaghi. Ci pensano poi
un serie interminabile di varianti in corso d’opera (26 solo per la metropolitana «C» di
Roma), arbitrati per valutare gli inevitabili contenziosi e finanziare studi legali amici. Gli
scandali del Mose di Venezia, dell’Expo di Milano, di Infrastrutture lombarde,
dell’attraversamento ferroviario di Firenze, sono tutte vicende che si collocano in questo
quadro. Ma proprio il caso della metro «C» di Roma apre la terza — tragica —
conseguenza della cultura delle grandi opere e della scomparsa del ruolo dello Stato:
l’intreccio tra imprese e malavita. Nell’inchiesta romana è emerso, come era stato da
tempo denunciato da Report, che imprese in mano alla malavita partecipavano all’appalto.
Con lo sbocca Italia di Renzi e Lupi si continua su questa strada. Al cartello di imprese che
ruota intorno a Vito Bonsignore, sponsor dell’inutile autostrada Orte Ravenna Mestre ed
esponente del Ncd di Alfano, si vogliono affidare 6 miliardi di euro. La Tav è sempre ai
primi posti dello spreco di denaro pubblico. Di recente anche alcuni sostenitori dell’utilità
dell’opera hanno manifestato dubbi sul preventivo dell’opera, ma sono stati zittiti: si deve
andare avanti. Il ministro per le infrastrutture Lupi pochi giorni fa ha riaperto addirittura la
questione del ponte sullo Stretto di Messina: sa bene che l’opera non è fattibile ma
l’importante è inviare messaggi inequivocabili al ristretto numero di potenti imprese.
Forse Renzi ha sofferto l’attivismo del ministro ciellino e ieri è riuscito a superare se
stesso. Ad una Roma che sta affondando nel fango di un inchiesta che ha fatto emergere
il controllo degli appalti pubblici da parte della malavita organizzata, ha promesso altri sei
miliardi di euro da spendere in nella realizzazione delle Olimpiadi del 2024, l’apoteosi della
discrezionalità. Uno degli uomini più entusiasti dell’annuncio è stato Malagò, che di
deroghe deve intendersi abbastanza avendo partecipato alla scandalosa vicenda dei
mondiali di nuoto del 2009. Il secondo in ordine di entusiasmo è il sindaco Marino che
proprio oggi porterà in un consiglio comunale l’approvazione della più gigantesca deroga
urbanistica degli ultimi dieci anni: un milione di metri cubi in aperta campagna regalati a
James Pallotta con la scusa del nuovo stadio di calcio delle Roma.
Invece di definire politiche di rilancio industriale, di mettere in sicurezza del territorio che
frana ad ogni pioggia e ricostruire regole, chi governa il paese continua a perseguire
l’effimero e perpetuare il porto delle nebbie. Tanto saranno le famiglie italiane a pagare.
Con l’azione di Riccardo Mancini, fedelissimo di Alemanno, quale presidente dell’Eur sono
stati sperperati centinaia di milioni di euro in errori e malaffare. Con l’ipotesi delle Olimpiadi
del 2024, il verminaio che sta distruggendo il paese viene rilanciato.
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Del 16/12/2014, pag. 31
UNO TSIPRAS PER L’ITALIA
LUCIANO GALLINO
TRA coloro che hanno partecipato alle dimostrazioni per lo sciopero di venerdì 12
dicembre si contano forse numerosi elettori potenziali per lo sviluppo di una nuova ampia
formazione politica, in grado di opporsi alle catastrofiche politiche di austerità imposte da
Bruxelles e supinamente applicate dal nostro governo. Non si tratta di fare un esercizio
astratto sul futuro del nostro sistema politico. Se una simile forza di opposizione non si
sviluppa, quello che ci attende è un ulteriore degrado dell’economia e del tessuto sociale,
seguito da rivolte popolari dagli esiti imprevedibili. Il governo è seduto su un vulcano, e
intanto gioca a far “riforme” che peggiorano la situazione.
Chi volesse porre mano alla costruzione della nuova formazione politica potrebbe trarre
indicazioni utili da quanto accade in Grecia e in Spagna. Sono due casi diversi. Nel primo
siamo dinanzi a una “Coalizione della Sinistra Radicale” (acronimo Syriza) nata dieci anni
fa e guidata dal 2007 da Alexis Tsipras dopo il primo grande successo elettorale. Nel 2012
è diventata il secondo partito greco. Al presente i sondaggi lo danno come il probabile
vincitore delle prossime elezioni, nel caso che il governo Samaras non riesca a eleggere il
presidente della Repubblica.
Syriza non vuole affatto distruggere la Ue. Vuole cambiarla. Il suo successo è dipeso da
una radicale opposizione ai provvedimenti imposti dalla troika con il Memorandum d’Intesa
del 2011, che ha obbligato la Grecia a tagliare pesantemente salari, stipendi e pensioni; a
distruggere la sanità pubblica; a vendere ai privati beni pubblici essenziali, facendo
piombare l’intero Paese nella miseria e nella disperazione. Tra i punti principali del
programma di Syriza, oltre ad annullare i provvedimenti che s’è detto, v’è la proposta di
una conferenza internazionale sul debito pubblico, allo scopo di ottenere che gli interessi
dei cittadini non siano perennemente subordinati, come avviene ora, agli interessi delle
grandi banche. Si vuole altresì richiedere alla Ue di cambiare il ruolo della Bce in modo
che finanzi direttamente investimenti pubblici, e di indire una serie di referendum su vari
punti dei trattati dell’Unione e altri accordi con le istituzioni europee.
Diversamente da Syriza, in Spagna “Podemos” sembra per così dire nato dal nulla.
Fondato nel gennaio 2014 da una trentina di persone provenienti da diversi partiti,
intellettuali, esponenti di movimenti, coordinate dal trentenne Pablo Iglesias Turrión,
appena quattro mesi dopo raccoglie abbastanza voti da mandare a Strasburgo cinque
eurodeputati. Al presente viene accreditato di oltre il 27 per cento dei voti, quasi due punti
in più dei socialisti e ben 7 in più rispetto ai popolari. Ancor più di Syriza, il programma di
Podemos è fortemente caratterizzato da proposte volte a modificare gli aspetti più deleteri
del Trattato Ue. Tra i punti salienti del suo programma troviamo: la conversione della Bce
in una istituzione democratica che abbia per scopo principale lo sviluppo economico degli
stati membri (punto 1.3); la creazione di una agenzia pubblica europea di valutazione
(1.4); una deroga dal Trattato di Lisbona. Nell’insieme, i due programmi di Syriza e di
Podemos appaiono essere più solidamente social-democratici, concreti e adeguati alla
situazione attuale della Ue e alle sue cause di quanto qualsiasi altro partito europeo abbia
finora saputo esprimere. Non per nulla i due partiti sono già oggetto di un furibondo
bombardamento denigratorio da parte dei media, della troika, dei think tanks sovvenzionati
dal mondo finanziario, e dei politici incapaci di pensare che al di là dell’Europa della
finanza si potrebbe costruire un’Europa dei cittadini. Va ricordato al riguardo che il Trattato
23
Ue non è affatto immodificabile, come a volte si legge. L’art. 48, comma 1, prevede
esplicitamente che «I trattati possono essere modificati conformemente a una procedura di
revisione ordinaria». Il comma 2 precisa: «Il governo di qualsiasi Stato membro, il
Parlamento europeo o la Commissione possono sottoporre al Consiglio progetti intesi a
modificare i trattati ». Pertanto la questione, come si diceva una vita fa, è soprattutto
politica. Ma nessuno ha mai sentito un solo politico che mostri di avere una conoscenza
minimale dei trattati Ue, e ammetta che non sono scolpiti nel granito. In realtà si possono
cambiare, ed è indispensabile farlo, a condizione di costruire una forza politica all’altezza
del compito. Al lume delle esperienze di Syriza e Podemos, come si presenta la situazione
italiana? Sulle prime si potrebbe pensare che quanto rimane di Sel, di Rifondazione, dei
Comunisti Italiani, insieme con qualche transfuga del Pd, potrebbe dar origine a una
coalizione simile a quella di Syriza. Purtroppo la storia della nostra sinistra è costellata da
una tal dose di litigiosità, e da un inesausto desiderio di procedere comunque a una
scissione anche quando si è rimasti in quattro, da non fare bene sperare sul vigore e la
durata della nuova formazione. Si può solo sperare che la drammaticità della situazione
spinga in futuro a comportamenti meno miopi, ma per farlo bisogna davvero credere
nell’impossibile. In ogni caso non si vede, al momento, da dove potrebbe arrivare la figura
di un leader simile a Tsipras o a Turrión, colto, agguerrito sui temi europei, capace di farsi
capire e convincere, esponendo al pubblico in modo accessibile dei temi complessi.
Qualcosa di analogo vale naturalmente per chi, scettico sulla possibilità di recuperare i
frammenti delle vecchie sinistre, pensasse di costituire una formazione interamente nuova,
come han fatto quelli di Podemos in Spagna. Che si sono dimostrati pure efficaci
organizzatori, costituendo in pochi mesi centinaia di circoli di discussione in tutto il Paese.
Un contributo potrebbe forse venire dalle esperienze di “Cambiare si può” o della stessa
Lista Tsipras; non certo finite bene, ma che sono stati episodi di auto-organizzazione di
una certa ampiezza. A fronte di un programma realistico, affine a quelli di Podemos e
Syriza (con tutte le variazioni del caso), tali esperienze potrebbero trovare un baricentro
che ai loro tempi non avevano. Il fatto è che il tempo urge, prima che il Paese caschi a
pezzi. Una simile urgenza, che il popolo dello sciopero di venerdì scorso sentiva
benissimo, insieme con l’attrattiva di un impegno realistico per ridare peso nella Ue a ideali
come eguaglianza, solidarietà, partecipazione democratica, al posto della lugubre e
distruttiva Ue della finanza, potrebbero contribuire a raccogliere molti più consensi di
quanto oggi non si possa sperare.
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LEGALITA’DEMOCRATICA
del 16/12/14, pag. 6
Le coop bianche, il patto
e la telefonata a Bergoglio
IL NOME DELL’ARCICONFRATERNITA NELL’INCHIESTA SUL MONDO
DI MEZZO: L’AFFARE DI VIA DEL CONSERVATORIO, L’UOMO “IN
ALTO” E GLI INTERESSI DI ODEVAINE
di Paola Zanca
Sa perché c’è questo profumo di incenso? Dobbiamo coprire l’odore di cibo, tre ore fa qui
c’erano i senzatetto a mangiare. E anche questo, lo dobbiamo a Tiziano e Francesco”.
Basilica di Sant’Eustachio, Roma. Don Pietro Sigurani cammina per la navata e si sgola
per difendere Tiziano Zuccolo e Francesco Ferrara, due nomi citati tante volte, forse
troppe, nell’inchiesta sul Mondo di Mezzo. Sono i reggenti dell’Ar - ciconfraternita del Ss.
Sacramento e di San Trifone, il braccio bianco del sistema dell’acco - glienza nella
Capitale. Quelli che con il “rosso” Salvatore Buzzi hanno stretto un accordo “ferreo”: un
patto “50 e 50”, dice il re delle coop di ex detenuti, che non viene “mai tradito” e “nun se
move d'un millimetro”.
PER CAPIRE come la Chiesa cattolica abbia incrociato la strada della Cupola romana,
bisogna tornare a metà degli anni 90. Nella parrocchia della Chiesa della Natività di via
Gallia, don Pietro Sigurani – “l’imam cattolico” lo chiamano, perché da una vita si dà da
fare per gli immigrati – ha vicino due ragazzi, particolarmente svegli. Sono Tiziano e
Francesco, all’epoca 25enni. Don Pietro li arruola nell’Arciconfraternita che monsignor
Luigi Moretti, segretario generale del cardinale Camillo Ruini, gli ha chiesto di rimettere in
piedi dopo anni di inattività. Zuccolo è “camerlen - go”, ovvero tesoriere. Ferrara è
presidente e lo è rimasto fino a tre mesi fa. In pochi anni diventano una potenza. Hanno la
sala operativa sociale del Comune di Roma, il centro Enea, lo sportello di accoglienza dei
rifugiati a Fiumicino, si occupano dell’emergenza freddo e dei senza casa: il business delle
coop di Buzzi, che non a caso vengono ribattezzate “la risposta sovietica
all’Arciconfraternita”. Non godono di buona stampa, Zuccolo e Ferrara. Chi ha lavorato con
loro li ricorda come spregiudicati nella gestione dei centri e gerarchi nei confronti di
chiunque segnalasse qualcosa che non andava. E pure per il Vicariato, Zuccolo e Ferrara,
sono due intrusi che hanno “sfruttato il nome dell’Arciconfraternita” per dar vita a una serie
di cooperative (la Domus Caritatis su tutte) che nulla hanno a che vedere con la
“connotazione spirituale” originaria: “Nel 2010 mandammo la prima visita canonica”. Fu
allora, spiega un comunicato ufficiale del cardinale Agostino Vallini, che si “chiese
all’Arciconfraternita di astenersi dal concorrere a bandi pubblici oltre quelli già in essere”.
Poi altre due visite, l’ultima nel 2013, e la decisione di chiudere tutto. Giurano che anche
monsignor Moretti e don Pietro “hanno preso le distanze da quei due”. Solo che si sono
dimenticati di avvertirli: “Cosa? –sbotta don Pietro – Per me Tiziano e Francesco sono due
bravissime persone”. E attacca frontalmente il cardinale Vallini: “Fa Ponzio Pilato, se ne
lava le mani: ci hanno fatto fare le cose più rischiose, quelle che nessuno voleva fare. I
progetti senza coperture, quelli con i soggetti più difficili. E pure l’ispezione... c’era - no
appunti sui contratti di lavoro, ma per il resto erano solo lodi!”. Effettivamente, Zuccolo è
ancora presidente del Centro Culturale Giovanni XXIII. E né lui né Ferrara sono indagati.
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EPPURE suona strana la familiarità dei due con la banda di Carminati. Zuccolo ha un
rapporto strettissimo con Buzzi (“Divi - diamo da buoni fratelli, ok?”, gli dice). Via Collazia,
già sede di una delle coop di Zuccolo, è luogo di incontri: l’8 febbraio 2013 anche una Mini
guidata da Massimo Carminati si ferma davanti al civico 2/F. Zuccolo poi è in estrema
confidenza con Luca Odevaine, l’uomo che si occupava dello smistamento degli sbarchi in
Sicilia. A un certo punto il sodalizio sembra incrinato perché, secondo l’ex collaboratore di
Veltroni, i due “sono rozzi”: “Francesco (Ferrara, ndr) risponde “ah che ti frega tanto sto
Cardinale ora se ne va in pensione, ci mettiamo un altro che diciamo noi!”. Ma “loro –
sostiene Odevaine –finché c’era Ruini c’avevano questo rapporto stretto, facevano come
gli pareva, adesso non è proprio più così”. Eppure, nonostante le maldicenze, è a
Odevaine che Zuccolo confida i dettagli di un possibile grosso affare. C’è da ristrutturare
un enorme complesso in via del Conservatorio, l’idea è farne una residenza per preti in
pensione. Odevaine vuole che i lavori siano affidati alla ditta del costruttore Pulcini. Ma
parte di quella struttura è del Vaticano. Per questo serve “un passaggio alto, molto alto,
ma proprio alto”. È Papa Francesco in persona, racconta oggi don Pietro Sigurani: “L'idea
era mia – dice - ma come potete vedere poi non se ne fece niente”. Quello di don Pietro
era “un grande progetto per i parroci che tanto hanno dato alle loro comunità”. Ma Zuccolo
all’epoca rassicurava Odevaine, che forse in testa aveva altro: “Più in alto di lì non si arriva
di più, cioè finiamo proprio totalmente”. Odevaine scherzava: “La trinità”. E Zuccolo non
poteva che confermare: “Si, proprio così, proprio lì, arriviamo lì, proprio dov'è possibile,
dove c’è ancora l’essere umano”.
Del 16/12/2014, pag. 13
Mafia Capitale, frode sul gasolio
Arrestati 3 militari della Marina
Il carburante doveva andare al porto di Augusta su una nave fantasma Il direttore de
“Il Tempo” indagato per favoreggiamento: “Sono sereno”
Grazia Longo
La notizia in superficie è l’arresto di 6 persone, più quattro indagati, per una truffa da 8
milioni, con il coinvolgimento di 6 ufficiali e sottufficiali della Marina militare e un
imprenditore legato al clan di Mafia Capitale.
Ma ciò che emerge tra le righe dell’ordinanza del gip Alessandro Arturi è ancora più
allarmante: l’imbroglio è stato così enorme da scatenare «diversi interrogativi e un diffuso
atteggiamento di prudenza e quasi iniziale scetticismo nella valutazione degli elementi».
Anche nei confronti dei «centri di poteri istituzionali». È quindi probabile che le indagini del
Nucleo tributario della guardia di finanza avranno presto nuovi sviluppi e nuovi arresti. Il
sistema scoperto dalle Fiamme Gialle, sull’onda dell’inchiesta dei carabinieri del Ros, era
più che collaudato e ha causato una frode all’erario di quasi 8 milioni di euro.
La falsa nave
Con la complicità della catena di comando - 6 ufficiali e sottufficiali della Marina, di cui 3 in
manette, gli altri denunciati - sono stati falsamente fatturati 11 milioni di gasolio destinato
al porto siciliano di Augusta attraverso la nave cisterna Victor I. Un’imbarcazione
fantasma, considerato che è naufragata nell’oceano Atlantico nel 2013. Il gip di Roma
evidenzia che le verifiche avvenivano con un’«inammissibile superficialità e sciatteria
(nella migliore delle ipotesi) di un meccanismo generale di regolamentazione del rapporto
tra l’amministrazione militare e la ditta fornitrice… contrassegnato da sorprendenti accenti
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di approssimazione e indeterminatezza nella quantificazione del fabbisogno
energetico…». Il carburante veniva fornito - solo sulla carta - da una ditta danese che si
avvaleva della collaborazione di due società italiane.
Possibili altri arresti
Sulle possibili responsabilità di altre persone il gip precisa: «Si intravede una realtà assai
più articolata e complessa perché appare chiaro che la concreta praticabilità del
programma criminale ideato… sottende l’ineludibile realizzazione di passaggi preliminari
involgenti responsabilità, quantomeno sotto il profilo contabile, di altri soggetti e centri di
potere istituzionali, allo stato non attinti dalla presente indagine».
La Marina Militare intende costituirsi parte civile. E il ministro dell’Interno, Angelino Alfano
annuncia che il prefetto di Roma, Giuseppe Pecoraro, ha nominato la Commissione
d’indagine incaricata dell’attività di accesso e accertamento al Comune di Roma Capitale,
composta dal prefetto Marilisa Magno, dal viceprefetto Enza Caporale e da Massimiliano
Bardani, dirigente del Ministero dell’Economia.
Il giornalista indagato
Nel frattempo Gianmarco Chiocci, direttore de «Il Tempo» è stato indagato per
favoreggiamento. In un’intercettazione Salvatore Buzzi, braccio operativo di Carminati, lo
avverte «di aver ricevuto notizie in merito alle indagini in corso su di lui dal direttore
Chiocci». Il quale replica: «Sono tranquillissimo, un giornalista perbene, a disposizione
degli inquirenti».
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RAZZISMO E IMMIGRAZIONE
del 16/12/14, pag. 6
Ponte Galeria, fondi tagliati al Cie
Valentina Brinis Liana Vita
Italia. A rischio le condizioni di vita degli immigrati. E i 67 operatori
rischiano il posto
È stata quasi dimezzata la cifra quotidiana a disposizione dell’ente gestore per ogni
trattenuto al Cie di Ponte Galeria, vicino Roma: da 41 a 28,8 euro al giorno. È questa la
variazione principale derivata dal cambio di amministrazione del centro, prima coordinato
dalla cooperativa Auxilium e, dalla mezzanotte del 14 dicembre, dalla Rti Gepsa S.A. e
dall’associazione culturale Acuarinto. Il passaggio da un ente all’altro si sta rivelando pieno
di difficoltà, a cominciare dalla sorte dei 67 operatori cui non è stata garantita la
riconferma. La nuova gestione è subentrata a quella precedente due anni dopo la
scadenza del contratto tra l’Auxilium e la prefettura di Roma, poiché alla fine del 2012 non
era ancora terminata la gara per l’assegnazione dell’appalto. L’aspetto più delicato
riguardava la determinazione del costo giornaliero di ogni ospite che è stato infine fissato
dalla prefettura a 30 euro. E ancora una volta, nonostante le denunce di associazioni e
operatori, il criterio per selezionare l’organizzazione aggiudicatrice è stato quello della
«migliore offerta con il criterio del prezzo più basso», come si legge nel testo del bando
«ponendo a basa d’asta il prezzo di 30,00 pro-capite pro-die» e senza che fossero
«ammesse offerte in aumento rispetto al prezzo a base di gara».
Una dicitura che crea non poche perplessità. Innanzitutto perché la cooperativa Auxilium,
insieme ad altri enti gestori in tutta Italia, attribuiva alla scarsità di fondi disponibili le
difficoltà di gestione del centro. L’esempio più evidente, tra tanti, riguardava l’impossibilità
di ritinteggiare le pareti in seguito a un principio di incendio verificatosi durante una
protesta. Non solo. I fondi insufficienti ricevuti per la gestione influivano negativamente
sulla qualità dei prodotti da acquistare per l’igiene degli ospiti, dal dentifricio al detersivo
per lavare gli indumenti. Ma a risentirne erano anche gli operatori, costretti a ritmi di lavoro
estenuanti in un edificio fatiscente e lugubre. E tutto ciò, quando a disposizione c’erano
41euro, ogni giorno e per ogni ospite. Dal 15 dicembre, quella cifra è diminuita di 13 euro.
Le ripercussioni sulla vita dei trattenuti saranno numerose, a cominciare dalla prima
misura messa in atto: la riduzione del pocket money, ovvero dei soldi che ogni ospite ha a
disposizione per l’acquisto di beni extra, come snack, tessere telefoniche e sigarette. Da 7
euro si è passati agli attuali 5 euro.
Senza voler mettere in discussione preventivamente la nuova gestione, occorre valutare le
conseguenze di un simile taglio. E non mancano i precedenti: negli anni scorsi a Crotone,
a Modena e a Bologna si è arrivati alla chiusura dei centri per l’insostenibilità dei costi di
gestione a fronte della scarsità di fondi, e dopo che per mesi i trattenuti erano stati costretti
a condizioni di vita del tutto inadeguate. Andrebbe rivisto l’intero sistema e soprattutto i
criteri di assegnazione, affidando ad esempio a un ente gestore su scala nazionale tutti i
centri attraverso un’unica procedura a evidenza pubblica e legando l’assegnazione delle
gare d’appalto non solo all’offerta economica più bassa, ma al rispetto di quanto previsto
dal capitolato. Andrebbe poi garantito il monitoraggio a livello centrale delle condizioni di
vita nei centri, verificando la congruenza dei servizi offerti con le convenzioni.
E, ancora, andrebbe ripensato il ricorso stesso ai Cie, se si pensa alla funzione che
svolgono: trattenere, anche per mesi, persone che raramente vengono poi rimpatriate. Il
problema vero riguarda la sussistenza di questi posti che hanno già dimostrato tutta
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l’inefficacia rispetto alla loro ragione di esistere: l’identificazione e l’espulsione. Basta un
solo dato a dimostrarlo: a fronte di tutte le persone trattenute, solo lo 0,9% viene
rimandato nel paese di origine. Tutte le altre escono senza essere identificate e senza
aver avuto la possibilità di regolarizzare la loro posizione sul territorio italiano.
del 16/12/14, pag. 2 (Roma)
Tor Sapienza, «scontri pilotati» per tutelare
gli interessi di Buzzi
Inchiesta della Procura: il sospetto che gli attacchi agli immigrati
abbiano avuto una regia
Agli atti, articoli di giornale, agenzie di stampa e un elenco di nomi e cognomi. Persone da
ascoltare e che, a breve, saranno convocate in Procura per offrire la propria versione dei
fatti. L’indagine è stata delegata agli agenti della Digos, intervenuti nei giorni degli scontri
di Tor Sapienza per gestire una situazione fuori controllo. Ora, però, alla luce dell’inchiesta
«Mafia Capitale», sono cambiate le domande: quegli scontri che si conclusero con il
trasferimento dei 45 minori stranieri dal centro di accoglienza di via Morandi («Un
Sorriso») potrebbero essere stati pilotati. Dubbi su una regia occulta — riconducibile in
qualche modo a Salvatore Buzzi il creatore della coop «29 giugno» — sono emersi nei
giorni scorsi.
Gabriella Errico, responsabile dell’associazione che ospitava quei profughi, ha denunciato
pressioni e minacce di Buzzi, del suo collega Sandro Coltellacci e dell’ex Nar Maurizio
Lattarulo (incontrato, ai tempi dell’ex sindaco Alemanno, addirittura negli uffici capitolini)
per emarginarla dal business. Sta di fatto che, nei giorni in cui sulle strade di Tor
Sapienza, si è riversata la rabbia di un’intera periferia, l’unico centro preso d’assalto dai
manifestanti è stato quello della Errico. Disagio veicolato dalla concorrenza?
Non lontano da via Morandi e dalla coop «Un sorriso» ci sono i centri gestiti da un amico
di Buzzi e Massimo Carminati, Tiziano Zuccolo. Che a maggio 2013, intercettato, parlava
con il leader della «29 giugno» di fare a mezzi su un gruppo di immigrati da accogliere
(«Eh, bravo, l’accordo è al cinquanta per cento, dividiamo da buoni fratelli, ok?») . Ebbene
la rabbia dei residenti, a novembre scorso, risparmia quelle strutture, anzi le ignora. Come
mai? Tutte domande a cui dovrà dare risposta il pm Eugenio Albamonte, titolare del
fascicolo.
I pm coordinati dall’aggiunto della Dda, Michele Prestipino, gli contestano di aver pilotato
l’aggiudicazione della gara bandita da Ama nel 2013 in favore di una coop di Buzzi.
Domani il responsabile delle coop sarà ascoltato dai giudici del Riesame. Intanto, da una
nota depositata dai carabinieri del Ros, emerge che Buzzi avrebbe fornito a Massimo
Carminati informazioni sulle indagini in corso. E infatti, il 30 novembre gli investigatori
riferiscono di un Carminati «in grande stato di agitazione» e che «metteva in atto condotte
elusive di attività intercettive e di pedinamento». Carminati scrive il Ros «ha mutato
vistosamente le proprie abitudini quotidiane, mostrandosi più guardingo e assumendo
comportamenti mai tenuti che fanno ritenere abbia intenzione di sottrarsi alla cattura.
Carminati è in grado, in varia maniera, di venire a conoscenza di informazioni inerenti al
procedimento penale instaurato nei suoi confronti, circostanza che incrociata con i dati
investigativi, induce a ipotizzare che lo stesso sia in grado di riceverne sempre di nuove e
più aggiornate». Il Nero sarà arrestato con due giorni di anticipo rispetto agli altri.
Ilaria Sacchettoni
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Del 16/12/2014, pag. 23
Niente bus separati
I rom sono spariti grazie ai controllori
Borgaro, viaggio sul 69 a due mesi dalla proposta del sindaco
Massimo Numa
E’ finita l’emergenza rom sulla linea 69 tra Torino e il comune di Borgaro? Sembrerebbe di
sì. Passato più di un mese dall’esplosione del caso, con risonanza nazionale, innescato
dalla singolare proposta del sindaco Pd di Borgaro, Claudio Gambino, di «dedicare» un
bus all’uso esclusivo della gente dei campi nomadi della zona, è tempo di un primo
bilancio. Perché i rom disturbavano i passeggeri, non solo italiani. E poi borseggi, liti, risse,
danneggiamenti e atti di puro vandalismo in serie.
Il viaggio
Alle 15,30 di ieri sul «69», partenza da via Stampini, periferia nord di Torino, ci sono poche
persone. Il viaggio verso Borgaro dura pochi minuti e quando il bus si avvicina alla fermata
davanti al famigerato campo non c’è nessuno; eppure le baracche, le roulotte e i furgonicamper sono intensamente popolati. Ci sono falò ovunque e una fitta coltre di fumo
incombe sulla strada. Da qualche tempo, giusto dalla proposta choc della giunta di centrosinistra, con quota Sel, il fenomeno dei bus-senza-rom accade sempre più spesso. Gli
utenti rom sono diminuiti in modo molto sensibile, in certe fasce orarie il livello della loro
presenza è vicino allo zero.
Paura dei controllori
Colpa (o merito) della rete di sorveglianza disposta da Gtt. A bordo ci sono due controllori,
sempre, e ieri anche due vigili urbani della sezione Nomadi di Torino. Seduti in fondo al
bus, la pettorina della polizia urbana, più i due controllori, nervi saldi e pazienza infinita. È
una misura ormai di routine ma ha avuto l’effetto immediato di eliminare alla radice il
fenomeno di chi si ostinava a non pagare il biglietto o a trasformare i bus in una giostra.
Alle fermate, spesso, ci sono i blindo dei carabinieri e le volanti della polizia. Seguono i
mezzi pubblici durante la corsa, ogni tanto gli uomini in divisa salgono e bordo e fanno un
controllo.
«I bus saltano le fermate»
I rom osservano l’insolito andirivieni di auto e di divise e si inquietano. Salgono in gruppo
dalla strada infangata e chiedono spiegazioni ai reporter: «Non potete fotografare niente,
questa è proprietà privata». Infatti, su una delle baracche, c’è anche la targhetta del
numero civico, 219, scritta dai residenti. In teoria non esisterebbe, ma tant’è. I terreni,
dicono, sono stati regolarmente acquistati. Va bene, ma i permessi di costruire le «case»?
Lasciamo perdere. Poi: «Ah sì, siamo spariti? Non sapete perché? Chiedete a loro
(indicando i controllori poco lontano, ndr), alla signora Gtt... Hanno avuto l’ordine di
“saltare” le fermate, passano come missili, ci ignorano».
Dopo una pausa di riflessione, spuntano altre ragioni di questa forma inconsueta di
sciopero bianco: «Ci perseguitano, sono razzisti. Guarda questa multa. Mio figlio tornava
da scuola, non aveva il biglietto, ok, e gli hanno fatto il verbale. Si va da un minimo di 36
euro a un massimo di 90. Sai quanto dobbiamo pagare? 90 euro. E non è vero che non le
paghiamo, le multe. Abbiamo molti mezzi, auto, con le ganasce fiscali, non ci fanno più
lavorare». Immediata la replica di Gtt: «La multa di 90 euro è per le infrazioni avvenute
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nell’area urbana ed è ridotta a 36 sui percorsi extra-urbani. Nessun accanimento, niente
razzismo.
Gtt: tutti devono pagare
Il direttore di esercizio Gtt, Gianni Rabino, dice che «i problemi della linea sono di fatto
cancellati. Anche se le misure adottate si allargano a tutte le linee e non solo al bus 69.
Non è vero che i mezzi non si fermano. Le soste per caricare i passeggeri, se ci sono,
vengono effettuate. I servizi di vigilanza continueranno anche se, ripeto, non riguardano
solo la tratta Torino-Borgaro, il biglietto devono pagarlo tutti, non solo i rom». Caso
chiuso? «Per ora non ci sono elementi critici da segnalare. Vedremo che accadrà nei
prossimi mesi».
del 16/12/14, pag. 6
Siriani occupano piazza Syntagma
Marco Omizzolo e Roberto Lessio
Grecia. La protesta per chiedere la modifica del regolamento di Dublino
III che vieta loro di spostarsi in altri paesi Ue
Sono trecento i migranti fuggiti dalla Siria che dal 19 novembre scorso occupano Piazza
Syntagma, davanti al Parlamento greco. Uomini, donne e bambini in presidio permanente
e in sciopero della fame che rivendicano il diritto di lasciare la Grecia e di presentare
domanda d’asilo in altri paesi europei. Una protesta condivisibile che conta purtroppo già
due morti, mentre il governo di Atene continua a fare finta di nulla. Il primo è morto di
freddo cercando di attraversare il confine tra Grecia e Albania nel tentativo di realizzare il
suo progetto di vita. Il secondo siriano, gravemente debilitato per lo sciopero della fame, è
invece morto di infarto in un ospedale di Atene.
Per sostenere la protesta dei richiedenti asilo siriani si sta diffondendo in rete un appello
da firmare. Melting pot Europa tra i vari se ne sta facendo carico. Sono molte sinora le
adesioni, a partire da Erri De Luca, LasciateCIEntrare, Be Free, Chiara Ingrao e Terre des
Hommes.
Il regolamento Dublino III è il principale ostacolo per i richiedenti asilo in Europa. Una
forma di costrizione che obbliga il richiedente a stanziare nel primo paese di arrivo, spesso
impedendogli di ricongiungersi coi familiari già presenti in altri paesi. È bene ricordare che
la Grecia non è un paese sicuro per i richiedenti asilo, considerando le carenze dei suoi
centri di accoglienza. Inoltre vari rapporti internazionali confermano da anni gli abusi delle
autorità greche nei confronti dei profughi, tanto che le Corti internazionali hanno sospeso i
rinvii Dublino verso il paese. Eppure i richiedenti asilo siriani sono obbligati proprio da un
regolamento europeo a risiedere in quel paese. Una violenza inaccettabile, mentre chi
riesce a fuggire raggiungendo altri paesi subisce abusi gravi sino all’arresto, come si sta
verificando in Bulgaria e in Polonia.
La speranza dei siriani di lasciare il paese è dunque mortificata sia dalla ottusa volontà
ellenica, che dalla stessa Unione europea, che con ostinazione continua a blindare le
frontiere, anche quelle interne, per impedire i movimenti secondari dei migranti da uno
Stato all’altro.
Un’applicazione sempre più rigida del Regolamento Dublino III, decisa anche a livello di
forze di polizia, con accordi multilaterali come le ultime intese tra Italia, Austria e
Germania, responsabili di disastri e tragedie continue. Proprio a causa del Regolamento
Dublino III molti potenziali richiedenti asilo preferiscono addirittura essere respinti in
frontiera e proseguire il viaggio affidandosi ai trafficanti di uomini, faccendieri della mafia
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delle migrazioni, alimentando il business della clandestinità, piuttosto che restare
intrappolati in un girone infernale ammantato di retorica dell’accoglienza.
Il diritto d’asilo in Europa, dunque, è evidentemente inadeguato ad accogliere e risolvere i
drammi di migliaia di persone che fuggono da guerre, epidemie, dittature e cambiamenti
climatici. Un sistema che nasce per difendere i diritti umani e che invece si sta tramutando
nel suo contrario.
L’Unione europea dovrebbe attivare gli strumenti e i canali della protezione temporanea
previsti dalla Direttiva 2001/55/CE, per decongestionare il sistema dell’asilo e consentire
una mobilità secondaria nei diversi paesi Ue. Una volta dotati di un documento provvisorio
di soggiorno legale, e dunque della libertà di circolazione, i profughi devono avere
riconosciuto il diritto di chiedere asilo dove hanno già legami familiari o sociali o almeno in
paesi che abbiano sistemi di accoglienza che rispettino la dignità umana e il diritto al
ricongiungimento familiare.
I nuovi Commissari europei, il parlamento, così come i ministri degli Esteri e degli Interni
dei paesi membri devono rispondere delle continue carneficine che avvengono nei mari di
fronte all’Europa, delle condizioni disumane di assistenza, prima accoglienza e di
detenzione dei profughi, dei migranti richiedenti asilo e dei migranti economici. Devono
prendere atto del fallimento di dispositivi come quello di Dublino, e lavorare nell’ottica di
politiche di inclusione realmente efficaci così come garantire il diritto alla libertà di
circolazione.
Del 16/12/2014, pag. 5
“Gli immigrati ci servono”
Così Hollande sfida Le Pen
Paolo Levi
Già il luogo in sé è tutto un simbolo: un immenso edificio art déco costruito per
l’esposizione coloniale del 1931, ritrasformato in grande museo dell’immigrazione.
A oltre due anni e mezzo dall’elezione all’Eliseo, il presidente François Hollande ha
pronunciato quello che già in mattinata veniva preannunciato come il suo primo «grande
discorso sull’immigrazione», uno dei temi più spinosi - quello che da sempre spacca i
francesi - con le polemiche senza fine sui flussi clandestini e l’impennata dell’estrema
destra di Marine Le Pen nelle elezioni europee.
Un delicato gioco di equilibrismo, quello del presidente, che ora scommette sui grandi
valori della gauche per risalire la china. E risponde indirettamente al rivale di sempre,
Nicolas Sarkozy, recentemente rieletto alla guida della destra Ump.
Boicottato da Sarkozy
Fortemente voluto dall’ex premier socialista Lionel Jospin negli anni Novanta, il museo è
stato infatti oggetto di forti polemiche negli ultimi due decenni. La sua prima apertura al
pubblico per una mostra era arrivata solo nel 2007, ma per l’inaugurazione ufficiale si è
dovuto attendere ieri, perché Sarkozy, evitò di organizzarne una.
Nell’edificio del sud di Parigi - costruito inizialmente per vantare il modello coloniale, come
suggeriscono gli affreschi della grande sala in cui si rende omaggio a una Francia
portatrice di civiltà, che dispensa al mondo le sue virtù - Hollande si è invece speso in un
lungo elogio dei migranti, rendendo omaggio al loro contributo nella costruzione della
République. «L’immigrazione fu un prodotto delle nostre necessità, per rispondere ai
bisogni del nostro Paese», ha sottolineato, facendo valere - addirittura con cifre alla mano
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- le sue argomentazioni: «Si calcola che gli immigrati abbiano costruito una casa su due,
due macchine su sette, e il 90% delle autostrade». Poi l’attacco contro i «demagoghi che
aizzavano le paure» e facevano leva sulla tradizione «per giustificarne il rifiuto».
Il massacro degli italiani
Hollande ha quindi citato alcuni casi emblematici di xenofobia, tra cui quello del 1893 ad
Aigues Mortes, nel sud della Francia, dove alcuni «francesi, fomentati da assurde voci,
avevano massacrato i lavoratori italiani». «Non c’e niente di nuovo nei discorsi di oggi: gli
immigrati sono sempre stati accusati di venire a rubare il lavoro dei francesi - ha avvertito
ancora Hollande - la novità è la penetrazione di queste tesi in un contesto di crisi
interminabile e di globalizzazione». Di qui, l’appello alle «forze repubblicane», affinché
procedano alle necessarie riforme costituzionali per riconoscere il diritto di voto agli
stranieri nelle elezioni locali, una delle grandi promesse della sua campagna
presidenziale, ma che per ora è rimasta lettera morta.
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SOCIETA’
del 16/12/14, pag. 27
Noi spiati ovunque Anche al museo
Sensori e telecamere seguono i visitatori Dopo i supermercati, le grandi
gallerie monitorano il pubblico per capirne i gusti
DAL NOSTRO INVIATO NEW YORK Al Guggenheim della Fifth Avenue, il museo a
spirale disegnato da Frank Lloyd Wright, le pareti curvilinee rappresentano una sfida in più
per i tecnici che, piazzando sensori e telecamere, raccolgono dati sul comportamento dei
visitatori per cercare di decifrarne gli interessi. Al Moma, Sree Sreenivasan, che abbiamo
conosciuto anni fa alla Columbia University come docente della scuola di giornalismo e
pioniere dello studio del ruolo dei social media nell’informazione, ha invece vita più facile
nella raccolta dei dati sui 6 milioni di visitatori che ogni anno si aggirano negli enormi spazi
del Museo d’arte moderna di Manhattan, del quale è diventato il chief digital officer .
Nell’era digitale, si sa, siamo tutti «osservati speciali»: dalle telecamere di sicurezza dei
palazzi e degli aeroporti, a quelle che riprendono i marciapiedi o sistemate dalla polizia
negli incroci. C’è l’occhio che ti spia nei negozi, in banca, allo stadio, e quello che ti
controlla in ascensore. Ma siamo anche tutti delle miniere viventi di informazioni per «Big
data» che vengono raccolte, con o senza la nostra collaborazione, seguendo le tracce che
lasciamo su Internet o quelle fisiche monitorate con appositi sensori. Come quelli capaci di
misurare la frequenza degli spostamenti da una scrivania in ufficio e che, magari,
spengono la luce quando esci da una stanza.
Negli Stati Uniti l’uso più frequente delle tecnologie digitali lo fanno le grandi catene della
distribuzione commerciale che, con telecamere e sensori davanti agli scaffali, cercano di
capire cosa viene acquistato e perché. Si studia il volto degli acquirenti per carpirne lo
stato d’animo: quel prodotto non è stato comprato perché costa troppo o perché piace
poco?
Tecniche di questo tipo sono usate da tutti i grandi protagonisti del commercio di massa,
da Macy’s a Wal-Mart. Ora anche i maggiori musei americani si sono messi sulla stessa
strada: i curatori delle esposizioni cercano di capire cosa interessa di più al pubblico per
modulare le loro mostre e, magari, modificare l’offerta di imitazioni vendute nei negozi del
museo. Se le sculture di un artista attirano un’attenzione particolare, l’esposizione può
essere trasferita in uno spazio più ampio e può essere accelerata la produzione di copie
delle sue opere. Il tutto, spesso, con la collaborazione dei visitatori ai quali molte istituzioni
— dal Fine Arts di Boston al Nelson-Atkins di Kansas City — chiedono informazioni
durante la visita usando i loro smartphone o iPad ricevuti in prestito. In cambio otterranno
accessi gratuiti al parcheggio o ad altre manifestazioni culturali. Il più avanzato, secondo il
Wall Street Journal , è il Dma di Dallas, col suo sistema di punti simili a quelli ottenuti coi
programmi frequent flyer delle compagnie aeree.
I cultori della privacy storcono il naso: almeno davanti all’arte, i nostri comportamenti non
dovrebbero essere spiati. Orientare le scelte culturali sui gusti della maggioranza è, poi,
rischioso: si può finire per massificare tutto lasciando in ombra espressioni di valore e di
nicchia. Ma ormai quella dei musei è una macchina che muove interessi giganteschi: la
Smithsonian, la grande fondazione dei musei di Washington, ha avviato un rifacimento di
quelli che si affacciano sul Mall della capitale che durerà 10 anni e costerà più di 2 miliardi
di dollari. Inevitabile ragionare anche in una logica commerciale.
Massimo Gaggi
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BENI COMUNI/AMBIENTE
del 16/12/14, pag. 8
Clima, vince il compromesso e la salvezza si
allontana
Marinella Correggia
Perù. La conferenza Onu che si è svolta a Lima
Niente salvataggio del clima, a Lima. E’ un accordo di compromesso quello concluso ai
supplementari fra i 195 paesi presenti alla Conferenza Onu sul clima (Cop 20) svoltasi
nella capitale peruviana. Le mete prefissate erano due: approvare una bozza di accordo
climatico globale da portare, nel dicembre 2015, alla Conferenza Cop 21 di Parigi dove
sarà sostituito l’obsoleto — e limitatissimo — Protocollo di Kyoto; delineare un quadro
strutturale per gli impegni di riduzione delle emissioni che ogni paese dovrebbe presentare
all’Onu entro ottobre 2015.
Ma su entrambi i fronti, dal testo, l’«Appello di Lima per l’azione climatica», non esce nulla
di vincolante, malgrado l’urgenza di contenere entro i due gradi l’aumento della
temperatura globale. Del resto molti movimenti ambientalisti e sociali da tempo chiedono
di fissare l’obiettivo a un massimo di 1,5 gradi. Secondo il comunicato delle reti per la
giustizia climatica presenti nella capitale peruviana, «davanti all’emergenza planetaria
causata da un sistema che persegue il profitto a scapito dei bisogni dei popoli e dei limiti
della natura, un risultato importante a Parigi sarà reso ancora più difficile dalle debolezze
del testo di Lima». Questo è stato approvato dopo che una precedente bozza era stata
respinta dai paesi in via di sviluppo, i quali accusavano le nazioni più ricche di sfuggire alle
proprie responsabilità di fronte al riscaldamento globale e di dimostrare grande avarizia
anche di fondi.
Il testo riconosce le «responsabilità comuni ma differenziate, così come le rispettive
capacità, sulla base delle situazioni nazionali». C’è una grande differenza infatti fra le
emissioni storiche dei paesi, e anche fra quelle attuali (per dire, sono 54 le tonnellate
annue pro capite di gas serra emesse dal Qatar e poche centinaia di kg quelle del Niger).
La conferenza di Durban impegnava le nazioni ricche a sbloccare 100 miliardi di dollari
all’anno — fondi pubblici e privati — per l’aiuto climatico alle nazioni ‘in via di sviluppo’
entro il 2020. Ma gli impegni vincolanti – morali e legali — per evitare le solite scappatoie,
nel testo di Lima sono assenti. L’accordo al punto 4 semplicemente «invita» i paesi
sviluppati a prevedere sostegni finanziari per azioni ambiziose di mitigazione e
adattamento nei paesi colpiti. I paesi più vulnerabili – e meno responsabili — sono riusciti
a far infilare (malgrado la netta opposizione degli Stati uniti) un vago riferimento ai «danni
e perdite» da compensare. Ma è troppo poco.
Eppure, d’ora in poi anche il Sud sarà tenuto, oltre che ad adattarsi al cambiamento
climatico che già subisce e che in parte è irreversibile, a ridurre le proprie emissioni: è
caduta la distinzione fra paesi “sviluppati” del cosiddetto Annesso I (ai quali il protocollo di
Kyoto assegnava obiettivi di riduzione vincolanti – ma ad esempio gli Usa non l’avevano
firmato) e quelli non-Annesso I, non obbligati a tagliare.
Sul fronte degli impegni nazionali di riduzione nel testo di Lima è stata annacquata la parte
delle azioni urgenti da compiere prima del 2020; eppure il taglio alle emissioni deve essere
grande e rapidissimo, o i due gradi saranno superati di certo con conseguenze devastanti.
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Insomma, dicono i movimenti, Lima lascia aperta la possibilità per ogni paese di decidere
la linea che preferisce e di continuare ad agire nell’interesse delle corporations inquinanti,
mettendo in atto scappatoie come il commercio dei diritti di emissione.
Di positivo c’è che quasi 50 nazioni concordano sulla totale eliminazione delle emissioni di
carbonio entro il 2050. Il che equivale all’abbandono dell’era fossile.
Intanto l’anno prossimo la Bolivia sarà la sede dell’incontro mondiale dei movimenti sociali
contro i cambiamenti climatici. Il precedente risale al 2010.
del 16/12/14, pag. 5
Ambientalisti contro i parchi eolici
Silvio Messinetti
Catanzaro
Il caso. Il business delle rinnovabili è ricco di incentivi, e nella regione
subisce le infiltrazioni delle 'ndrine. Il progetto di un megaparco nel
mirino delle associazioni: "Stravolgerebbe il paesaggio e il verde delle
foreste"
Nel 2020 l’Italia dovrà avere il 17% dei propri consumi elettrici da fonte rinnovabile, come
prevede il Protocollo di Kyoto. Per questo da anni stiamo finanziando lo sviluppo
dell’energia “pulita”, e i nostri incentivi per le pale eoliche sono i più alti d’Europa. Terna, la
società semipubblica responsabile della trasmissione di energia sulla rete, ha ricevuto un
numero impressionante di richieste di allacciamento per nuovi impianti. Ci sono 170 mila
Mw pronti a essere autorizzati sebbene in Italia il picco di potenza richiesta sia meno della
metà. Nel fotovoltaico siamo al secondo posto al mondo dopo i tedeschi. E nell’eolico i
quinti produttori. Pur avendo un territorio limitato e ricoperto da vincoli.
Dettagli. Perché la green economy è anzitutto un business. Ci guadagnano le
multinazionali, le piccole società di sviluppatori. Ci guadagna la ‘ndrangheta. La Calabria è
la regione che più di ogni altra ha aumentato la sua potenza eolica. Ma le ‘ndrine sono col
vento in poppa anche fuori dalla regione. La recente inchiesta della Dda di Perugia sulla
‘ndrangheta umbra ha svelato le mire dei Farao-Marincola di Cirò sulla green economy in
Appennino centrale.
I numeri non sono neutri. In Calabria il vento tira eccome. Ma tira soprattutto
un’irrefrenabile voglia di far cassa con l’eolico. Dal 2006 al 2012 la Regione ha autorizzato
ben 56 impianti di energia del vento. Le aree sono circoscritte: lo Jonio crotonese e il
Basso catanzarese. Aree ventose dove la tramontana vola anche sopra i 50 nodi. Ma
anche zone a forte densità mafiosa.
Le signorie di ‘ndrangheta si chiamano Arena, Farao, Grande-Aracri, Vallelunga-Sia,
Giampà, Mancuso. I clan hanno capito che le energie rinnovabili sono la nuova frontiera
dell’economia legale e illegale. Solo nel crotonese ci sono ben 800 torri da piantare e 2400
pale da montare. E ancora 250 domande (per oltre 30 mila Mw di potenza) che attendono
il nulla osta.
Molti impianti sono stati nel tempo confiscati dalla magistratura, ma ben presto
dissequestrati. A dispetto di così tante strutture, il fabbisogno energetico non è di certo
migliorato. Paradossi. In compenso è stato deturpato l’ambiente e sfregiate le bellezze
paesaggistiche. L’aria viene trivellata bellamente dalle pale. Per gonfiare le tasche dei
palazzinari del vento.
Che molte volte assumono le vesti di ‘ndrine e potere criminale.
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«Il mare e la montagna, gli abissi e le vette possono sembrare ambienti lontani ma in
Calabria vi è un massiccio, il Reventino, che li avvicina come pochi. Anzi dai suoi boschi si
può addirittura godere la vista di due mari. Il Reventino si affaccia con il suo profilo
ondulato sulla parte più stretta della Penisola, l’istmo di Marcellinara, tra i mari Jonio e
Tirreno di appena 30 km». Così scrive Francesco Bevilacqua ne Il Parco Nazionale della
Sila, guida naturalistica e escursionistica, edito da Rubbettino. Con ogni probabilità
insieme ai faggeti, agli alberi di alto fusto, al piano collinare con i suoi poderi coltivati
intervallati da alberature da frutto e ornamentali, tra pochi anni svetteranno anche decine
di pale eoliche. Proprio così. A queste latitudini non esistono vincoli. Le pale possono
girare ovunque. Anche in un parco nazionale.
L’atto è datato 12 novembre e porta la firma della regione Calabria ad appena due
settimane dalle elezioni. Un colpo di coda, insomma, dei burattinai dell’eolico. Viene
indetta un’apposita Conferenza dei servizi, durante la quale sarà vagliata l’istanza per il
rilascio dell’autorizzazione unica alla società Creta Energie Speciali srl, con sede legale ad
Arcavacata di Rende, e di cui Daniele Menniti, già sindaco di Falerna, è presidente del
consiglio d’amministrazione dello spin-off accademico dell’Università della Calabria.
L’impianto, denominato Trifoglio, sarà situato nei comuni di Conflenti, Lamezia, Motta
Santa Lucia, Decollatura e Platania. Avrà una potenza nominale di 20,7 Mw. Se dovesse
essere realizzato si aggiungerebbe ai parchi eolici già autorizzati, che già riguardano il
massiccio del Reventino-Mancuso, e nello specifico, i comuni di Tiriolo, Serrastretta,
Pianopoli, Marcellinara e Amato.
«Tra quelli già autorizzati e quello da autorizzare — commenta Francesco Bevilacqua —
tutto il massiccio diverrebbe sede del più grande parco eolico in Europa soprattutto se
accomunato a quello che già esiste e che verrà ulteriormente incrementato, situato sul
versante sud dell’istmo di Marcellinara. Siamo di fronte — aggiunge — a una
concentrazione di centinaia di pale nello stesso ambito territoriale e paesaggistico. Una
cosa mai vista nel continente«.
Le associazioni e gli ambientalisti sono già in mobilitazione. Il comitato per il no al parco
eolico del Reventino (Arci, Wwf, Italia nostra, Agesci, Legambiente, Fai, reti di resistenza
territoriale) è sul piede di guerra. «Non possiamo, ora, accettare che gli sforzi compiuti
negli anni Sessanta per portare a compimento il rimboschimento della zona, facendo
diventare il Reventino un importante polmone verde per il territorio, vengano vanificati da
una speculazione camuffata da “progresso tecnologico”. Ripensare a luoghi come la Pietra
di Fota, Capo Bove, i massi del Reventino, infestati e deturpati da una selva di pale
eoliche, ci ferisce, e non per un fatto sentimentale. Ma perché ben conosciamo il valore
dell’unicità ambientale di questo territorio, della sua vegetazione e della fauna presente».
del 16/12/14, pag. 7
Vienna e disarmo nucleare
Giovanna Pagani
Vienna dal 6 al 9 dicembre è stata la sede di due importanti eventi sull’emergenza del
disarmo nucleare, purtroppo oscurati dalla stampa nazionale: il Forum «Il coraggio di
bandire le armi nucleari» promosso da Ican (Campagna Internazionale per l’Abolizione
della Armi nucleari) e a seguire la «Conferenza Internazionale sull’Impatto Umanitario
delle Armi nucleari». La terza conferenza Internazionale sul tema dopo quella di OsloNorvegia (2013) e Nayarit –Messico (2014).
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Le armi nucleari, giustificate politicamente in base all’irresponsabile logica della
deterrenza, non solo sottraggono preziose risorse allo sviluppo umano, ma ci condannano
a vivere nel rischio permanente di una catastrofe nucleare, rispetto alla quale non
potrebbe essere messo in atto alcun piano di salvataggio.
Molto chiara la denuncia di Ela Gandhi, nipote del Mahatma Gandhi e attivista pacifista in
Sud Africa: «L’arma nucleare è pensata per proteggere i privilegi del 10% della
popolazione mondiale che non vuole mettere in discussione il proprio stile di vita». Esiste,
purtroppo una «pericolosa rimozione del pericolo nucleare motivata dall’espulsione della
paura dell’impossibilità di salvezza», ha spiegato la psicanalista francese Madleine Mosca,
ma è altresì vero che «è un errore pensare che non possa scoppiare una guerra nucleare»
come ampiamente documentato dal giornalista americano Eric Schlosser sulla base dei
troppi incidenti atomici che, solo per un miracoloso evento, non hanno portato alla
deflagrazione nucleare. Il Forum (più di 600 esponenti della società civile) ha reso visibile
la partecipazione attiva di giovani (la metà dei convenuti) in lotta per il diritto a un presente
e un futuro libero dal «crimine» delle armi nucleari (secondo l’Onu e la Corte
Internazionale di Giustizia dell’Aja nel 1996).
La Conferenza Internazionale (158 Stati partecipanti ) ha rappresentato invece una tribuna
ufficiale da cui circa un terzo degli stati si è espresso a favore di uno strumento
internazionale vincolante che vieti le armi nucleari sulla base dell’impatto umanitario
ampiamente studiato. I più moderati continuano a vedere nel Trattato di Non Proliferazione
Nucleare uno strumento ancora valido, soprattutto alla luce della rivendicazione
dell’applicazione dell’articolo 6. Molto applaudito il messaggio di papa Francesco e molto
apprezzata la presenza di Usa e Gran Bretagna. Assenti Francia, Corea del nord e
Israele. L’Italia è intervenuta con il delegato della Farnesina, Giovanni Brauzzi.
Saremo capaci di fare tesoro delle sconvolgenti testimonianze dell’indicibile dolore
espresso dai sopravvissuti di Hiroshima e Nagasaki, e dalle vittime dei Test Nucleari che
hanno parlato a Vienna per lanciare il loro SOS sugli effetti delle radiazioni nucleari che
mietono più vittime tra le bambine e le donne, condannando le future generazioni a
devastanti conseguenze genetiche? Per dibattere sulla portata di questi due eventi
viennesi che precedono l’incontro di New York 2015 sulla revisione del Trattato di Non
Proliferazione Nucleare, oggi, martedì 16, ore 15.30, a Via Liberiana 17, (Santa Maria
Maggiore, Roma) si svolgerà l’incontro «Esigiamo un disarmo nucleare totale»
* WILPF Italia
Del 16/12/2014, pag. 27
Mani cinesi sull’energia europea L’eolico
inglese al colosso nucleare
LUCA PAGNI
Potrebbe suonare strano che il più grande gruppo cinese specializzato nella produzione di
energia nucleare si metta a investire nelle rinnovabili. E per di più a migliaia di chilometri di
distanza. Lo ha fatto China General Nuclear Corporation: la società controllata dal governo
di Pechino (11 impianti atomici pari al 55 per cento della quota di mercato) ha appena
annunciato di aver rilevato dal gruppo francese Edf (lo stesso che in Italia possiede
Edison) l’80 per cento di tre parchi eolici in Gran Bretagna. I transalpini, oltre a rimanere
soci di minoranza con l’altro 20 per cento, continueranno a ritirare tutta l’energia prodotta.
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Sotto il profilo economico, la notizia ha due letture. La prima conferma gli stretti rapporti tra
Pechino e Londra dopo la visita del premier David Cameron in Cina di un anno fa: da
allora, aziende del colosso asiatico hanno rilevato società inglesi, dall’alimentare al
turismo. Ma ancora di più conferma l’estremo interesse delle aziende di Pechino per tutto
ciò che si sta muovendo in Europa attorno alle società - sia pubbliche che private - che
operano nel campo dell’energia.
Non per nulla, gli addetti ai lavori hanno osservato come l’operazione sull’eolico potrebbe
essere propedeutica a un accordo finanziariamente ben più consistente dei 100 milioni
investiti l’altro giorno. I cinesi, in realtà, guardano al progetto di rilancio nucleare appena
annunciato dal governo Cameron il mese scorso, per la costruzione di due nuovi impianti
nucleari di grandi dimensioni, il primo già individuato nel Somerset, per un investimento
complessivo di oltre 24,5 miliardi di sterline per cui si è già prenotata Edf.
L’interesse per gli asset elettrici, del resto, è confermata dalle operazioni già compiute da
China Three Gorges che ha acquisito per 2,7 miliardi di euro dal governo di Lisbona il
21,35% della società energetica nazionale, Energias de Portugal. Mentre State Grid of
China (la più grande utility del mondo con i suoi 2 milioni di dipendenti) ha pagato 2,1
miliardi per il 35 per cento di Cdp reti, la holding della Cassa Depositi Prestiti che controlla
sia Terna (rete elettrica nazionale), sia Snam (rete del gas). E lo stesso vorrebbe fare in
Grecia, dove il governo di Atene pressata dalla Troika sulle liberalizzazioni - assegnerà la
maggioranza della società delle rete elettrica all’inizio del 2015. Una gara in cui è in corsa
anche Terna. Un interesse confermato anche da un report di Dagong, l’agenzia di rating
cinese, che già nel settembre scorso faceva intendere come le “reti” saranno nel mirino
delle aziende di Pechino nei prossimi anni per «il basso tasso di rischio, i ritorni stabili nel
lungo periodo e gli alti standard tecnologici delle utilities». Le stime previste da Dagong
Europe parlano di investimenti nei prossimi anni fino a 150 miliardi di euro nell’elettricità e
fino a 72 miliardi di euro per le reti del gas.
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INFORMAZIONE
Del 16/12/2014, pag. 17
Quella barbarie su Foley simbolo dell’anno
più nero per i giornalisti
Il rapporto di Reporters Sans Frontières: 96 uccisi, due terzi in zone di
guerra
L’ultimo lo hanno ammazzato appena un paio di giorni fa, che la terra che gli hanno
buttato sul lenzuolo bianco ancora non ha avuto tempo di rassodarsi. Si chiama Mahran al
Deeri - onore a lui - e lavorava per la televisione Al Jazeera; lo hanno fatto fuori al confine
insanguinato tra la Siria e la Giordania, con un missile che l’ha aperto dentro. E in quel
lenzuolo candido, prima di avvolgerglielo, lo hanno dovuto rattoppare, come si è costretti
quando la guerra fa, degli uomini, pezzi bruti di carne.
Mahran non c’è nemmeno, nel bilancio del 2014 che Reporters Sans Frontières pubblica
oggi, dove vengono raccontati i numeri amari che in tutto il mondo condensano il lavoro
dei giornalisti che vogliono fare «comunque» il loro mestiere. Lo hanno ammazzato con
due della sua troupe, quando questo documento era già in stampa, e però ugualmente i
numeri che vi leggiamo sono terribili: i reporter ammazzati fino all’8 dicembre sono 96; 137
li hanno sequestrati, presi in ostaggio e molti di loro destinati a morire, 853 li hanno
sbattuti in galera (e nel conto ancora non c’erano la ventina di giornalisti di «Zaman» che
l’aspirante despota Erdogan ha imprigionato l’altro ieri). E 1846 sono stati aggrediti,
minacciati.
Il coltello di John il Boia
Il 19 d’agosto, in quel giorno che ci sta piantato in testa come un chiodo che ci rode di
brutto il cervello, quando il coltello di John «l’inglese» si avvicinò alla gola di James Foley
e cominciò a tagliare la carne viva di quello che ancora era un uomo, molti di noi
scostammo via lo sguardo dallo schermo, non volevamo vedere, non volevamo sapere più
nulla di quello scempio. E però diventavamo vittime anche noi, perché John vinceva se noi
rinunciavamo a misurarci nella realtà che quel video ci rappresentava: che c’era un uomo
che veniva sgozzato, che quell’uomo era un reporter che voleva soltanto raccontare la
guerra, che la sua uccisione fatta con la crudeltà feroce che nessun animale mai si
permetterebbe, voleva cancellare la folle ambizione d’immaginare che sia possibile un
racconto libero, senza padreterni, senza schemi, senza ubbidienze dovute, senza visioni
manichee di Bene e di Male. E questo non è sopportabile.
Dittatori veri e aspiranti
Sta tutto qui, il rapporto che i numeri ci sbattono addosso. Sta nel confronto tra un
mestiere che - anche quando soltanto debole, o parolaio - vuole mostrarci che cosa ci
accade d’attorno, e quanti, invece, di questo mestiere non sopportano la voglia di capire, il
desiderio di testimonianza e di autonomia. Ci sono dittature che il confronto lo spengono
subito, regimi che usano soldati e poliziotti per sotterrare ogni impulso a non subire
bollettini o «veline», ma ci sono anche governi e poteri che - valga per tutti la Russia di
Putin, o anche la Turchia - formalmente rispettano le modalità della democrazia, il voto, il
pluralismo, ma poi esercitano un controllo che lascia poco spazio a esercizi di
anticonformismo, o comunque invita a una comoda acquiescenza, a una pacifica
autocensura. Un prezzo tanto alto per il proprio lavoro non lo paga nessuna categoria
professionale. Ma oggi più che mai l’informazione costruisce la realtà, il suo controllo
controlla la conoscenza; e i «controllori» lo sanno tanto bene che le loro mani vanno ben
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oltre le figure tradizionali del giornalista, ormai nei numeri del «Rapporto 2014» stanno allo
stesso modo dei reporter i blogger, i siti web, i citizen-journalists.
E poi ci siamo anche noi, l’Italia. Perché si muore di guerra, ma si muore anche di mafia e
di criminalità. Lirio Abbate, giornalista de «L’Espresso» gira con la scorta, e con lui un’altra
decina di reporter. E nell’anno che va, hanno avuto minacce 375 giornalisti italiani. A
Bologna, l’altro ieri, qualcuno ha anche scritto su un muro: «I giornalisti parlano troppo,
tappiamoli la bocca».
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CULTURA E SCUOLA
del 16/12/14, pag. 4
La scuola boccia il piano Renzi sugli scatti
«di merito»
Roberto Ciccarelli
ROMA
«Buona scuola». Resi noti i dati della consultazione sulla «Buona
scuola»: il 60% respinge il piano sugli scatti stipendiali solo per i 2/3 dei
docenti in base al merito. Il 46% è per un sistema misto su stipendio e
merito, il 14% per l’anzianità. I presidi favorevoli alla «scuola azienda».
Contraria la maggioranza di docenti e studenti
La maxi-consultazione promossa dal governo sulla «Buona Scuola» ieri ha consegnato un
risultato imprevedibile. Il piano Renzi che prevede l’aumento dello stipendio al 66% dei
docenti grazie ai crediti accumulati in base al merito è stato bocciato. Solo il 35% ha votato
«meritocrazia», il 46% si è espresso per un «sistema misto» tra servizio e merito. A questo
bisogna aggiungere chi è rimasto sulle posizioni tradizionali: il 14% vuole un sistema
basato sull’anzianità.
Una sonora sconfitta del governo. Era prevedibile, dopo le grandi manifestazioni
studentesche e l’opposizione dei docenti ad una riforma per la quale si è speso il
presidente del Consiglio in persona. Persino una consultazione che doveva dare una
veste statistica e computazionale alla trasformazione della scuola in senso aziendalistico e
neoliberale ha registrato un dissenso diffuso nel paese.
Nella conferenza stampa celebrativa tenuta ieri al ministero dell’Istruzione a Roma (con un
concerto), si è cercato di sorvolare sul senso di questi dati, anche se sono state
riconosciute «criticità». La partecipazione è stata alta, si è detto. Gli accessi al sito
labuonascuola.gov.it lo confermerebbero: 1 milione e 300 mila visite; 207 mila
«discussant» online; 200 mila partecipanti ai 2400 dibattiti che avrebbero coinvolto il 70%
delle scuole italiane. Dati che suffragano l’esito principale di un sondaggio pubblicizzato
dalla Rai a reti unificate e che ora si è trasformato in un boomerang che renderà
necessario, forse, un aggiustamento del tiro.
Il ministro dell’Istruzione Gianini ha sottolineato che l’81% dei consultati ha espresso
parere positivo sulla proposta di basare lo stipendio dei docenti sul merito e non
sull’anzianità. «Sta qui il valore politico di una consultazione» ha scandito.
Nelle 73 pagine del libretto che riporta i risultati si scopre che ad essere «molto d’accordo»
è l’87% dei dirigenti scolastici, interessati alla nascente figura del «preside manager» che
chiamerà direttamente i docenti per comporre quella che nel gergo neoliberale viene
definita la «squadra». Favorevole anche il 70% dei genitori che hanno partecipato alla
consultazione. «Meno favorevoli», o del tutto contrari, il 64% dei docenti e il 56% degli
studenti. Anche in questo caso si tratta della maggioranza dei soggetti direttamente
coinvolti nel lavoro didattico. Al di là dell’impostazione del sondaggio, che rischia di creare
una conflittualità tra i dirigenti e le famiglie, da un lato, e i docenti “conservativi” dall’altro
lato, la proposta renziana non sembra avere convinto.
Cerchiamo allora di capire la ragione di questo rovescio. Il piano Renzi sulla scuola
prevede l’abolizione degli scatti stipendiali e l’introduzione di crediti per meriti didattici, titoli
o incarichi nella burocrazia scolastica. Il totale di questi «crediti» genererà l’aumento degli
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stipendi. Il primo scatto verrà maturato 4 o 5 anni dopo l’assunzione e andrà a regime
entro tre anni. Questi aumenti riguarderanno solo il 66%, cioè i due terzi. A questa
discriminazione sull’intero corpo docente, se ne aggiunge un’altra all’interno di questo
66%. I meritevoli non saranno sempre le stesse persone. Pur «eccellenti» nel loro lavoro
dovranno passare il testimone a qualcuno che corre più veloce di loro. Secondo alcune
proiezioni, circolanti tra sindacati e giornali specializzati, questo meccanismo porterà a
tagli sulle retribuzioni pari tra i 200 e i 331 milioni di euro. Se è vero che qualcuno
percepirà fino a 9 mila euro in più all’anno, tutti perderanno da 45 a 72 euro al mese. Dopo
avere bloccato i contratti, ora l’austerità si finanzia con i soldi dei docenti e con la corsa
alla «meritocrazia». Del resto, lo stesso sondaggio traduce le perplessità sul rischio di
trasformare la scuola in un supermercato dei crediti.
Per capire tali perplessità bisogna leggere le consultazioni svolte nelle ultime settimane da
periodici specializzati e dai sindacati. Un sondaggio di «Orizzonte Scuola», ad esempio,
ha registrato l’88% di «No» alla riforma «meritocratica». In un’altra consultazione
promossa dalla Gilda i «No» sono stati l’84,3%. La chiamata diretta dei presidi-manager è
stata respinta con il 76%. Oltre 4 mila lavoratori della scuola, compreso il personale Ata
disconosciuto dalla riforma Renzi-Giannini, si sono espressi negativamente nell’indagine
«la scuola giusta» della Flc-Cgil. Il tentativo di queste consultazioni è stato quello di
ricomporre una «comunità» scolastica che invece il governo vuole dividere nella crociata
per la rifondazione del «patto educativo».
In una consultazione tesa a fidelizzare dall’alto il pubblico rispetto a decisioni già prese è
emerso il sostegno all’altro punto chiave: la chiusura delle graduatorie in esaurimento
(Gae) e l’assunzione di 148 mila docenti precari a settembre. Sostegno anche alla
gestione dell’organico funzionale che per la riforma spingerà i neo-assunti a muoversi di
città in città alla ricerca di un posto e alla mobilità tra le cattedre. Il sondaggio dà corpo al
futuro di questi docenti: alle scuole primarie dovranno servire per gestire le supplenze.
Nella secondaria sarà funzionali al recupero.
Nessuna parola sui circa 100 mila precari esclusi dall’assunzione a settembre. Per la
Corte di giustizia europea devono essere assunti quelli che hanno 36 mesi di servizio
continuativi negli ultimi cinque anni. Il governo ieri ha ribadito la linea: per loro c’è il
concorso nel 2016 (40 mila posti). Gli altri dovranno saltare il turno e restare disoccupati.
Del 16/12/2014, pag. 15
Il Fondo strategico di Juncker taglia i soldi
alla ricerca
Nel nuovo Efsi che finanzierà la crescita Ridotto di 2,7 miliardi il budget
di Horizon
Marco Zatterin
È attesa giovedì la benedizione politica al Piano Juncker e ai 315 miliardi che intende
iniettare nell’asfittica economia continentale. Arriverà al vertice dei leader Ue nonostante le
proteste dell’Europarlamento, che vuole più voce in capitolo nella gestione del pacchetto e
lamenta lo scippo dei fondi per la scienza.
La bozza
L’ultima bozza di conclusioni del summit innesca il meccanismo auspicando «la creazione
d’un Fondo strategico europeo (Efsi) che smobiliti nuovi investimenti fra 2015 e 2017». Si
tratta d’un veicolo finanziario con 21 miliardi di capitale, dei quali 6 saranno però sfilati dai
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governi alla voce «Ricerca e Reti» del bilancio comune. O, in breve, alla costruzione delle
risposte per le sfide future dell’Europa ancora in preda alla crisi.
Il capo della Commissione, Jean-Claude Juncker, ha lanciato il «suo» progetto nel
discorso d’insediamento a Strasburgo in luglio, promettendolo per febbraio. Poi ha
accelerato, si sussurra per coprire le polemiche fiscali sul Granducato di cui è stato a
lungo premier. In ottobre i 300 miliardi sono diventati «315 di investimenti da generare
attraverso l’Efsi», cassaforte parallela alla Bei.
Una garanzia da 16 miliardi
I suoi 21 miliardi, nelle intenzioni, dovrebbero attirare 15 euro di impegni privati ogni euro
pubblico, realizzando per l’appunto la manovra da 315 miliardi. Per costruire l’Efsi, l’Ue
creerà una garanzia da 16 miliardi alimentata dal bilancio comune, mentre altri 5 miliardi
verranno dalla Bei. Il Parlamento Ue, e non solo, riconosce che sarebbe cruciale che gli
Stati mettessero qualcosa di tasca propria, sarebbe un segnale concreto della volontà
politica di attaccare davvero la crisi, cosa che dovrebbe essere affermata in una
dichiarazione di qui a dopodomani.
Da dove vengono i soldi
I miliardi impegnati veramente dall’Ue saranno solo 8, posti i quali si arriverà a 16 con una
forma di moderno «europagherò»: sono 2 miliardi presi dai margini esistenti nella cassa
comune; 3,3 dal programma «Connecting Europe» di azione sulle reti, Tlc e no (33,2
miliardi di qui a fine decennio la dote complessiva); 2,7 dal programma per la Ricerca,
Horizon 2020 (78,6 miliardi). L’aver sottratto i denari dai sogni dell’avvenire anima ricche
polemiche. La Lega delle Università Europee di Ricerca ha tuonato che la scienza «non è
un limone da spremere».
Pochi fondi dalle capitali
A Bruxelles rispondono che i fondi sono spostati temporaneamente e, comunque, verso
investimenti compatibili. La Commissione è fra due fuochi, i disoccupati e le imprese che
chiedono di più, le capitali che hanno tagliato il bilancio Ue a inizio anno. Juncker ha
accesso il fuoco con ciò che aveva. Gli Stati lo sostengono sperando in un difficile
miracolo, tuttavia non hanno ancora deciso di sborsare un cent, anche a costo di
alleggerire il portafoglio della scienza. Proteste e deputati potranno far loro cambiare idea.
È lì, contro la limitata ambizione delle capitali nonostante l’emergenza, che bisogna tirare.
Del 16/12/2014, pag. 1-15
Se Juncker taglia la ricerca
Juan Carlos De Martin
«Mai mangiare il grano della semina» (never eat your seed corn) dicono gli agricoltori
americani. È probabile che qualcosa di simile si dica in tutto il mondo: è chiaro che un
beneficio immediato ottenuto compromettendo il futuro può solo portare al disastro.
È un detto che mi è venuto in mente quando di recente ho capito meglio in cosa
consistano i «300 miliardi di Juncker».
La discussione intorno alla sua proposta si è quasi sempre concentrata sul fatto che «i
miliardi di Juncker» non sarebbero 300, ma appena tredici. Ai 300 si arriva solo avendo
una grande – e, per molti, infondata – fiducia negli strabilianti effetti moltiplicatori dei tredici
che davvero ci sono. Ma prestiamo attenzione alla provenienza dei tredici: mentre 5
miliardi arriverebbero dalla Banca Europea per gli Investimenti (Bei), altri otto miliardi
deriverebbero direttamente dal budget attuale della Commissione Europea. Insomma, da
tagli. Tagli di cosa? Si propone di tagliare digitale e ricerca, naturalmente, il «grano della
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semina» versione XXI secolo, ovvero, i mezzi più sicuri per assicurare lo sviluppo
economico e civile dell’Europa.
Juncker, infatti, vorrebbe togliere 3,3 miliardi al programma Connecting Europe (per
rafforzare infrastrutture e servizi digitali) e 2,7 miliardi al programma di ricerca
Horizon2020. Ci sarebbe molto da dire anche sul digitale, ma mi concentro sui proposti
tagli alla ricerca. Le reazioni sono state veementi. La Lega delle Università Europee di
Ricerca (Leru), che riunisce alcune delle più prestigiose università europee (tra cui Oxford
e Cambridge), ha immediatamente pubblicato un comunicato stampa dal titolo:
«Horizon2020 non è un limone, smettetelo di spremerlo!». Alla Leru ha poi fatto eco Sir
Paul Nurse, il presidente della Royal Society, che ha scritto a Juncker (oltre che al
Parlamento Europeo e al competente ministro inglese) per esprimere la sua
«considerevole preoccupazione». Analoga preoccupazione l’ha espressa l’importante
associazione Science Europe, con sede a Bruxelles.
E l’Italia? Forse non a tutti è chiaro che l’Italia dovrebbe opporsi con tutti i mezzi e molto
più di altri Paesi membri dell’Unione a tagli del budget europeo della ricerca. Questi ultimi
anni, infatti, hanno visto un progressivo assottigliarsi dei fondi nazionali destinati alla
ricerca, fino alla stupefacente - non nel senso positivo del termine - sospensione dei
progetti di rilevante interesse nazionale, i cosiddetti Prin, il cui ultimo bando risale al 2012.
Da allora per i ricercatori italiani i bandi di ricerca europei sono diventati la più importante
speranza per non morire di inedia, a differenza dei colleghi del Nord Europa che
continuano a fare affidamento a robusti finanziamenti nazionali.
Tagliare il budget della ricerca europea significa, quindi, tagliare soprattutto il budget dei
ricercatori italiani, in questo senso sempre più simili ai colleghi dell’Est Europa più che a
quelli francesi o tedeschi. Giovedì il Governo italiano presidierà per l’ultima volta il
Consiglio Europeo: colga l’occasione per dire a Juncker se si vuole affrontare la sfida della
Cina (ma anche degli Usa e del Giappone) la ricerca europea andrebbe rafforzata, non
penalizzata. Nell’interesse dell’Europa e ancor di più in quello dell’Italia e di altri Paesi
svantaggiati. La ricerca, e non altro, è il nostro «grano per la semina».
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ECONOMIA E LAVORO
del 16/12/14, pag. 3
Il debito sale ancora: 2.157 miliardi Più
garanzie per le piccole imprese
Il commissario Moscovici al Parlamento: «La manovra rispetti le regole»
ROMA «Entro Natale la legge di Stabilità sarà chiusa». Per il sottosegretario all’Economia,
Pier Paolo Baretta, il Senato dovrebbe licenziarla «entro giovedì o al massimo venerdì».
Ma intanto ieri la sessione di Bilancio è slittata di tre ore per una riunione di maggioranza
che ha portato all’accantonamento delle norme più dibattute.
«Su regime dei minimi, Irap e Fondi pensioni il cantiere è ancora aperto» ha ammesso il
relatore Giorgio Santini (Pd). Che ha addebitato il ritardo alla decisione di incontrare anche
le opposizioni: «Vogliamo farla la legge di Stabilità...». Il riferimento è al rischio di
ostruzionismo che ieri si è palesato nell’attivismo con cui il M5S ha preso a pretesto la
lettera inviata dal commissario agli Affari economici, Pierre Moscovici, ai presidenti delle
Camere, allegata al testo del parere della Commissione sulla manovra che, a marzo,
«rischia» la bocciatura. Moscovici sollecita il Parlamento a «prendere le misure necessarie
per assicurare che la manovra sia in linea» con il patto di Stabilità. Una procedura nuova,
quella seguita da Moscovici, sulla quale il M5S chiede al governo un chiarimento in Aula, e
che segnala il livello di allarme intorno ai conti pubblici.
Del resto gli ultimi dati del Bollettino di Bankitalia attestano che il debito è aumentato in
ottobre di 23,5 miliardi, a quota 2.157,5 miliardi. Migliora invece il fabbisogno certificato dal
Tesoro a quota 8,5 miliardi, con una riduzione rispetto ai 12,6 miliardi dell’ottobre 2013.
Entrate: 33,7 miliardi. Spese: 42,3 miliardi, 3,3 miliardi per interessi. Male le entrate
tributarie, secondo Bankitalia: il gettito fiscale a ottobre è pari a 28,5 miliardi, -2,7% su
anno. Sostanzialmente invariate le entrate nei primi dieci mesi dell’anno. Un dato in linea
con quello del Tesoro che, pur vedendo una ripresa tirata dall’Iva, sconta un rallentamento
dell’Irpef (-0,8%).
Intanto emergono particolari sugli 80 emendamenti presentati dal governo in commissione
Bilancio. Ad esempio, si mette al sicuro l’entrata prevista con lo «split payment»: il
meccanismo che affida alle pubbliche amministrazioni il pagamento dell’Iva dovuta sui loro
acquisti di beni e servizi, scatterà senz’altro a gennaio, senza attendere l’autorizzazione
Ue. Il governo corre ai ripari sul mancato incasso dell’Iva sui pagamenti dei debiti della
P.a. per 6 miliardi, disposti dal decreto di aprile scorso: solo 240 milioni sui 650 previsti.
Per evitare l’aumento delle accise (clausola di salvaguardia), il governo stanzia la somma
mancante. Infine si riducono da 500 a 300 milioni i tagli alla Difesa. La commissione
Bilancio in serata ha esteso il Fondo di garanzia per le Pmi previsto dal decreto Sviluppo
alle imprese con non più di 499 dipendenti.
Antonella Baccaro
del 16/12/14, pag. 15
La crisi taglia i fondi e si mangia i territori
Aldo Bonomi
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Economia. Al modello verticistico, Roma-Bruxelles, di Renzi il sindacato
oppone l’iniziativa orizzontale delle 54 città e vede, prima della politica,
la questione sociale
La grande “Fuga dalle regioni”. Così titolava un commento di Ilvo Diamanti su Repubblica,
dopo la massiccia astensione del voto in Emilia Romagna, che chiudeva evocando la “fine
del territorio”, come fonte di rappresentanza. Tendenza confermata anche dalla scarsa
partecipazione al voto per le primarie del Pd in Veneto. Ma non è più il territorio della
“questione settentrionale”. Oggi il territorio va inteso come teatro della dialettica tra flussi e
luoghi. Una dialettica che sembra evidenziare una crescente egemonia dei primi sui
secondi, se solo pensiamo al flusso della crisi e alle minacce della troika.
Questa dinamica feroce di destrutturazione sistematica delle istituzioni e dei soggetti
radicati nei luoghi, dalle imprese di matrice territoriale al tessuto del welfare comunitario,
dalle istituzioni della democrazia economica alle rappresentanze delle imprese e del
lavoro, si fa oggi egemonia culturale. Chi sta nei luoghi sente che il destino non è più nelle
proprie mani, come persone, come cittadini, come comunità. Tale consapevolezza non
produce, almeno per ora, conflitto progressivo. Non essendoci chiarezza collettiva della
posta in gioco e quindi assenza di una visione condivisa. Esiste invece la tentazione forte
del conflitto regressivo, ispirato da una disperazione sociale che trova ogni giorno elementi
di nutrimento anche nei media, che aspira al caos come pericoloso veicolo di pulizia.
Mutazione antropologica da un conflitto di appartenenza al conflitto molecolare alimentato
dalle relazioni di prossimità nelle periferie e nei luoghi di lavoro. C’è una composizione
sociale che fa esodo, altro segno indubbio di sfiducia, che preferisce l’exit alla voice, a
meno che non sia costretta ad urlare il proprio disagio.
Nel fine secolo, con l’esaurirsi del fragile modello fordista a trazione pubblica, la fabbrica
perde progressivamente la sua capacità di essere luogo elettivo del conflitto tra capitale e
lavoro. Il conflitto si trasferisce al di fuori delle mura, diluendosi prima nei distretti produttivi
e successivamente provando senza successo a ridefinirsi nelle piattaforme produttive. La
fenomenologia dei distretti industriali e dei sistemi territoriali di piccola impresa è nota:
capacità di coniugare crescita economica diffusa e coesione sociale, in un quadro
regolativo relativamente favorevole e con un sistema del credito e della rappresentanza
sociale adeguato alla “mediocrità” di un capitalismo familiare, quasi popolare. In questi
contesti la regolazione locale è agita da una serie di soggetti che strutturano la microfisica
dei poteri locali in una società di mezzo che prova a rappresentare interessi e passioni
territoriali presso le sedi istituzionali regionali e nazionali.
In questo la società di mezzo nel suo complesso compie l’errore tragico di assumere
pienamente la visione di un mondo in cambiamento nel quale le sorti del capitalismo
molecolare, allora vincente, andranno incontro ad una rapida erosione delle sue basi
competitive. D’altro canto questa stessa domanda di modernizzazione verrà sussunta
dentro la logica del sindacalismo territoriale leghista, ben più efficace del sindacalismo
istituzionale espresso dalle diverse rappresentanze, o del populismo leaderistico
berlusconiano, vero cavallo di Troia di un’immobile cittadella della rappresentanza
incapace di scaldare le piccole fredde passioni dell’egoismo individualista.
Nel Nord è il trionfo del capitalismo molecolare che fa da base sociale all’affermarsi di
Berlusconi e della Lega che, ancorché in modo assai discutibile, si fanno portatori di una
domanda di modernizzazione senza civilizzazione che assumerà i contorni della ormai
mitica “questione settentrionale”. Una questione che, nel bene e nel male, avrà un impatto
sull’architettura istituzionale del Paese con i vari tentativi federalistici, devolutivi,
ammantati nel linguaggio virulento della secessione e del rinserramento. Ovviamente nella
“questione” ci sta anche la paura per un modello capitalistico fragile e scricchiolante
perché incapace di darsi adeguate istituzioni quando viene messo alla prova dalla
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progressiva apertura dei mercati internazionali, dall’introduzione dell’euro, dal mutare del
rapporto con il mondo del credito e della finanza, etc.
In quel periodo si compie a mio avviso un passaggio critico nelle sorti della società di
mezzo, la quale, anziché prendere atto della necessità di strutturare interessi e passioni
all’interno di uno spazio intermedio territoriale nella dimensione delle piattaforme
produttive (quelle guidate delle medie imprese che reggono con l’export), rimane sospeso
tra istanze localistiche e regolazione nazionale, due sfere meglio presidiate dai populismi
di diversa matrice e fortemente connotate in forma difensiva. Insomma in una fase critica
di ristrutturazione del capitalismo molecolare ante crisi la società di mezzo non incoraggia
il formarsi di una neoborghesia di territorio capace di coniugare flussi e luoghi in una logica
“Lobal” e, contemporaneamente, fatica a produrre una dimensione della politica in grado di
intercettare la nuova composizione sociale che viene avanti nei grandi centri urbani terziari
e il capitalismo delle reti che impatta sul territorio.
Con l’arrivo della crisi, che è innanzitutto crisi interna alla dinamica dei flussi, a rimetterci
sono le economie, le società e le istituzioni dei luoghi, alle quali rimane in mano il cerino
della gestione del profondo disagio sociale, essendo sempre meno legittimate a
rappresentarne le istanze in un quadro di contrazione delle risorse destinate al welfare. Da
qui anche i colpi di coda del rancore dei “forconi”, la guerra civile molecolare per la casa
nelle neoperiferie urbane e metropolitane, ma anche e soprattutto l’introflessione
personale del conflitto (i suicidi dei piccoli imprenditori o dei lavoratori precarizzati o
licenziati) o la sospensione esistenziale dei Neet. Vista dai territori la “questione” in sé non
è più settentrionale o meridionale per negoziare potere o flussi con lo Stato centrale. Ma è
questione sociale aperta che parte dai luoghi, dalle periferie del sistema e fa resistenza ed
esodo.
Pare averlo capito anche Salvini, che con la sua strategia da “Lega nazionale” percorre e
alimenta il malessere dei luoghi. All’interrogativo politico posto da Ilvo Diamanti sulla fine
del territorio si può rispondere o con logiche puramente verticali sull’asse Roma-Bruxelles
e di modernizzazione forzata dall’alto, che mi pare caratterizzino il governo Renzi, o
privilegiando l’orizzontalità di un’iniziativa politica che ricominci a riconoscere e
riconoscersi nella questione sociale aperta che interroga la coscienza politica della
sinistra. A cui sarà bene ricordare di non lasciare, come si fece allora, la fibrillazione dei
territori e il malessere della coscienza di luogo solo alla Lega.
Ciò che è in gioco oggi non è solo questione di riforme istituzionali, ma la questione
sociale è il fare società. Il sindacato con la sua mobilitazione orizzontale dei territori nelle
54 piazze dello sciopero generale pare averlo capito prima della sinistra politica.
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