Anno IX n° 1 - Liceo Canossa
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Anno IX n° 1 - Liceo Canossa
Anno 9, numero 1 Anno scolastico 2014/15 La voce di Matilde ISTITUTO LICEALE MATILDE DI CANOSSA Reggio Emilia -R.E. A cura di: Ravichandran Jasintha Seligardi Elisa Rigotti Cecilia D’aniello Dafnhy Coordinatori: Melli, Palazzo Chi era Ludovico Ariosto Nato a Reggio l'8 settembre 1474, Ludovico Ariosto vi rimane fino al 1485,in quanto il padre è il capitano della Cittadella,la zona militare. Poi si trasferisce a Ferrara,ma la nostra città rimane nel suo cuore ed è per questo che spesso torna a visitare i cugini materni Malaguzzi. Come spesso capita a personaggi di un certo calibro,viene conteso dalla due città. La sua vocazione è letteraria,ma il padre vuole che studi Diritto,materia che abbandona ben presto per dedicarsi alla sua passione. Inizia qui il rapporto di amore e odio con la corte,tema che permeerà le sue opere. Quando il padre viene a mancare (1500),è obbligato ad entrare nella cerchia dei cortigiani stipendiati per mantenere i suoi numerosi fratelli .Nelle vesti di mediatore,si reca spesso a Roma per allentare i 1 rapporti tra il Papa Giulio II e il suo Signore Alfonso I D'Este,passando da Firenze,dove incontra Alessandra Benucci,dalla quale avrà un figlio ma che non sposerà mai per la sua condizione di chierico. Nel 1517 per problemi di salute rifiuta di seguire Alfonso I in Ungheria per prendere possesso di un vescovato,cosi' passa nuovamente agli ordini del duca Alfonso I,che gli assegna un compito difficile,ossia il governo della Garfagnana. Terra contesa,perchè usata come tramite dalla Toscana,a cui vengono concesse agevolazioni fiscali fin dal tempo dei Da Fogliano; poi questo territorio passa agli Estensi. Esplode qui il banditismo,perchè quella società agricolo-pastorale commette reati con sempre maggiore valore politico,ma anche la Chiesa avrà la sua par- te,concorrendo alle divisioni interne della regione. Ariosto sarà capace di mantenere equilibrio ed ordine,dimostrando coi fatti di essere un uomo pragmatico ben diverso dall'immagine letteraria placida e contemplativa che vuole trasmettere di se'. Torna a Ferrara nel 1525,dove si dedica agli affetti familiari e alla revisione del suo capolavoro l' “Orlando Furioso”.Muore nel 1533. Ariosto è riuscito a rimanere fedele ai propri ideali,nonostante la vita gli abbia imposto scelte obbligate all'interno della corte: sta a noi la capacità di coglierli nell'ironia delle sue opere. Francesca Romani 4^I Sui passi dell’Ariosto Reggio Emilia vanta il pregio di essere culla di molti politici,artisti e soprattutto letterati. Non è da trascurare il contributo culturale di Ludovico Ariosto a questo territorio,nato l’8 settembre 1474,che rappresenta la tipica figura dell’intellettuale cortigiano nel Rinascimento. E’ però mosso da sentimenti di malcelato rifiuto e sottile polemica nei confronti dell’ambiente cortese,perciò pur essendo un cortigiano,è allo stesso tempo politicamente attivo. Nel 1500, con la morte del padre,inizia per il poeta il periodo delle preoccupazioni:egli si trova, infatti, a doversi occupare del patrimonio familiare e dei numerosi fratelli minori. Accetta, pertanto, alcuni incarichi presso la corte estense,ma decide di ritornare a Reggio Emilia. E’ nella verdeggiante dimora del Mauriziano,lungo la via Emilia che il poeta dalla personalità tranquilla trascorre gli anni della gioventù approfondendo gli studi che offrono al letterato la maturità disciplinare per realizzare tutte le sue opere. Non vive solo nelle vicinanze della città; in primo luogo,nel volgere lo sguardo sull’itinerario vitale di Ludovico,emerge la rupe M a t i l d ic a ,d o v e n e l 1500,Ariosto ha assunto l’incarico di capitano della rocca con giurisdizione civile e militare su di essa,sul borgo e i paesi vicini. Il viaggio virtuale è proseguito verso ovest dove su uno sperone vulcanico si erge isolato il castello di Rossena. Importante per il poeta è anche Santa Maria dell’Uliveto,nella frazione di Montericco ad Albinea, il cui toponimo trae origine dagli ulivi che, da tempi immemorabili,popolano i dintorni della chiesa;qui l’Ariosto in realtà non ha soggiornato,perché ha preferito accettare il più ricco beneficio dell’arcipretura di S. Agata di Ferrara nel 1514. Nel 1532 si ammala di enterite e muore,dopo alcuni mesi di malattia. Ludovico è stato sepolto dapprima nella chiesa di San Benedetto a Ferrara e successivamente tumulato con grandi onori a Palazzo Paradiso. Nonostante la sua vita intensa nelle sue opere lascia un’immagine di sé di uomo amante della vita sedentaria e tranquilla. Nei suoi viaggi,ha ricercato costantemente una tranquillità e una pace che non sono state appagate poiché non ha trovato mai luogo idoneo alla sua personalità se non n e l l a dimora ferrarese di Contrada Mirasole. Sara Polimeno Enrico Guidetti Federica Prampolini Debora Terenziani 4^I 2 “Il tuo Maurician sempre vagheggio…” La villa del Mauriziano, presso la chiesa di San Maurizio, era appartenente alla famiglia Malaguzzi Valeri, dalla quale discendeva la madre di Ludovico Ariosto, Daria. Era annessa al feudo della Bazzarola ottenuto da Valerio Valeri nel 1432. Al tempo dell’Ariosto, l’edificio era simile ad una villa rurale, con magazzini, stalle e fienili: un luogo da cui sorvegliare l’attività agricola e curare le proprietà rurali. Qui Ludovico trascorse lunghi periodi negli anni dell’adolescenza e prima giovinezza. Il nucleo originario dell’edificio, quattrocentesco,corrisponde alle due stan- 3 ze illuminate dalle finestre poste nella facciata,accanto alla porta d’ingresso. Nei secoli l’edificio è stato rinnovato più volte tranne tre piccole stanze affrescate del Cinquecento (il “camerino dell’Ariosto”,il “camerino dei poeti”,il “camerino degli Orazi e Curiazi”) . Il “camerino dei poeti”illustra l’allegoria della poesia e rappresenta i diversi generi poetici rappresentati da diversi poeti ambientati sul monte Elicona, fra i quali anche l’Ariosto. Nel “camerino dell’Ariosto” sono rappresentate scene di caccia, con castelli e giardini. Nel 1864 la villa venne ven- duta al Comune di Reggio Emilia. Il territorio circostante è solcato dal torrente Rodano e dal rio Ariolo, che fiancheggia il Mauriziano ed alimentato dalla sorgente perenne di un fontanile. Tempo fa queste acque accoglievano una ricca fauna ittica, risorsa per i residenti. Peculiarità del paesaggio agrario padano del luogo è il filare di pioppi cipressini che introduce alla storica dimora. Jasintha Ravichandran Elisa Seligardi Anita Tresca 4^I Sintesi storica: la famiglia degli Estensi Nel 1264 Obizzo d’Este ebbe la meglio sulla rivale famiglia dei Salinguerra, potente famiglia di ispirazione ghibellina, e per oltre tre secoli la scena politica della città e del territorio di Ferrara fu dominata dalla famiglia d’Este. Questa continuità politica e amministrativa ha fatto si che lo splendore di Ferrara e della corte Estense crescessero verso un riconosciuto spazio tra le corti europee più prestigiose. Nella prima parte della signoria, in poco meno di centocinquant’ anni, Ferrara ebbe uno sviluppo urbano sorprendente e vide le proprie mura espandersi sino a quattro volte la loro estensione, vaste aree del Delta padano vennero bonificate, l’arte e la cultura vissero momenti di alto valore e risonanza. Con Nicolò II d’Este si confermò definitivamente il potere della casata. Dopo Nicolò II resse il potere per pochi anni il fratello Alberto che seppe governare, con uno sguardo sensibile alle arti ed agli studi. A lui si deve, infatti, la fondazione dell’Università ferrarese nell’anno 1391. Il figlio di Alberto, Nicolò III, era dotato di un grande fiuto politico che gli consentì di dare solidità allo Stato mettendolo in grado di affacciarsi, da questo momento con crescente successo, sullo scenario delle vicende italiane. A Nicolò successero nell’ordine i figli Leonello, Borso e Ercole. Leonello, principe illuminato nella politica, raffinato ed amante dell’arte, diede impulso ad un insigne circolo umanista in cui spiccavano il maestro Guarino da Verona, Angelo Decembrio e Leon Battista Alberti. Borso, uomo d’azione, buon soldato, ambizioso e accorto uomo di stato, guadagnò alla famiglia il titolo Ducale nel 1471. Ercole I regnò dal 1471 al 1505 dopo un duro scontro con il nipote Nicolò, figlio di Leonello, che tentò di assicurarsi il potere portando la rivolta nella città di Ferrara nel 1476. Alla sua lungimiranza dobbiamo il grande ampliamento delle mura cittadine, la così detta Addizione Erculea, che, commissionata al grande architetto Biagio Rossetti, cambiò radicalmente l’aspetto della città. Ad Ercole successe il figlio Alfonso I che ebbe al suo fianco, in prime nozze, Anna Sforza e, in seconde, Lucrezia Borgia figlia di papa Alessandro VI. Alternò contraddittorie passioni ora rivolte alla fusione dei cannoni, che portò Ferrara ad essere una temuta potenza militare, ora all’arte ed alla cultura Ad Alfonso succede, nel 1534, anno della sua morte, il figlio Ercole II. La moglie di questi, Renata di Francia, figlia del re di Francia Luigi XII, influenzò notevolmente la corte e la cultura ferrarese contribuendo, con la sua cultura straniera ad abbattere molte frontiere di provincialismo nel ducato e nella corte allargandone notevolmente gli orizzonti diplomatici e culturali, non ultimo anche attraverso la sua fede Calvinista che non ebbe problemi a professare ed a promuovere, ospitando, nel 1536 Giovanni Calvino . Durante il ducato di Ercole II Ferrara vide la realizzazione di molte opere pubbliche, una discreta espansione degli Studi universitari, ed in generale un discreto consolidamento dell’economia pur in un momento della politica italiana difficile e pericoloso per uno stato di media grandezza come quello estense. Ercole II morì nel 1559 lasciando la conduzione del ducato al figlio Alfonso II. La solidità politica del ducato estense venne a questo punto minata dalla assenza di una discendenza maschile 4 . legittimata alla successione di Alfonso II. Tre matrimoni con Lucrezia de’ Medici, Barbara d’Austria e Margherita Gonzaga, non furono sufficienti ad allontanare le mire dello Stato della Chiesa. Alfonso II, per evitare un’annessione annunciata ed il declino del suo casato, tentò varie strade come la partecipazione alla crociata contro i turchi, la vana pretesa alla successione del trono di Polonia; partecipò a battaglie e trattò diplomaticamente a vari livelli con il papa. 5 Il ducato venne stremato eco- nel 1598, per un forzato tranomicamente da tutte queste sferimento della loro sede nel infruttuose imprese e da un vicino ducato di Modena. disastroso terremoto che nel 1570 colpì la città. Il castello subì molti danni ed il duca ne dispose il restauro accompagnandolo con la realizzazione di un interessante ciclo decorativo che tuttora ritroviamo nell’Appartamento detto Dello Specchio. La morte di Alfonso II nel 1597 senza un erede legittimo e nemmeno un successore riconosciuto dalla Chiesa costringe gli Este ad abbandonare la città di Ferrara e la principesca residenza del castello, In alto: Antica cartina di Ferrara A sinistra: Interno Palazzo Estense In alto: Castello estense In basso: Veduta del Castello Estense del XIX sec. A tavola con gli Estensi Tra tardo Medioevo e Rinascimento miseria e abbondanza sono due realtà ricorrenti, la prima spesso riservata alla popolazione rurale e urbana, la seconda privilegio della nobiltà; a sontuosi banchetti con tavole imbandite e raffinate, si affiancano per i più penuria e ristrettezze alimentari. L’alimentazione di gran parte della popolazione cittadina e rurale era basata essenzialmente sul consumo di pane e pasta, castagne, ceci, polenta e sorgo, rape e cavoli. Formaggio e carne erano invece componenti importanti come del resto il pesce di Comacchio: cefali, orate, rombi , anguille e storioni catturati nel Po. Nella Ferrara Rinascimentale il divario tra cucina di Corte e cucina popolare è enorme; cucinare assurge presso la Corte ad arte raffinatissima nella scenicità dei banchetti. Una delle personalità emergenti fu Cristoforo Messisbugo, uomo di Corte al servizio dei Duchi Estensi, cortigiano intelligente e accorto, a lui si riconosce il merito di avere offerto uno dei compendi più vasti ed esaurienti della gastronomia europea. Su di lui non pervengono notizie certe, di sicuro si sa che sposò la nobile ferrarese Agnese di Giovanni Gioccoli e che nel 1533 l’imperatore Carlo V gli 9 concesse il titolo di Conte Palatino in virtù degli incarichi ricoperti presso la Corte Estense, dove fu Scalco di Corte dal 1524 al 1548. A Ferrara nel 1549, un anno dopo la sua scomparsa, venne pubblicato il suo libro “Banchetti, composizioni di vivande et apparecchio generale”.(1) Un vero e proprio trattato di costume e una miniera di notizie sul cibo e sui banchetti a corte. Nel suo ricettario descrive piatti di origine ebraica, introduce le melanzane, considerate fino alla metà del XVI secolo, con disprezzo e usa il carciofo ancora ignorato dai più. Il Convivio di Corte era insieme nutrimento materiale, intellettuale e spirituale e simbolo della potenza economica del principe. È rimasto famoso quello con cui si festeggiarono le nozze di Alfonso II d’Este con Lucrezia de’ Medici, una delle sue tre mogli; i convitati furono quindici, ma ben più numerose le portate. Tanto per limitarci alla terza, possiamo citare che comprendeva tra l’altro “pernici”, tortore, cingotti di montone , aironi e tordi tramezzati di salsiccia gialla, pasticcetti pieni di mandorla e capi di latte, quaglie bardate di salmone, e potremmo dilungarci ancora per molto! Nel Rinascimento, per quanto riguarda gli oggetti utilizzati sulla tavola assistiamo a un notevole cambiamento: inizia ad affermarsi l’uso delle stoviglie individuali, un costume che porta sulla mensa una notevole varietà di oggetti, principalmente prodotti nelle manifatture locali. Nel Ducato Estense si registra il prevalere di oggetti in ceramica graffita -soprattutto forme aperte come ciotole e piatti- quelli in ceramica smaltata, più diffusi nell’area meridionale della regione (la Romagna). Sulle tavole più ricche, come quella estense, potevano essere presenti anche oggetti esotici, come boccali e ciotole di provenienza mediorientale e spagnola. Numerosi anche i vetri, come bottiglie e bicchieri dalla semplice foggia troncoconica apoda; di eccezionale bellezza e rarità è invece la coppa su alto piede, probabilmente utilizzata come fruttiera e la coppa in vetro verde smeraldo di fabbricazione muranese. Sulla tavola le posate più utilizzate erano i coltelli e i cucchiai; se questi ultimi erano per la maggior parte realizzati in legno, per le tavole più eleganti esistevano esemplari in bronzo, in metalli preziosi o in pietra dura. Molto più rara la forchetta che però sulla tavola dei Duchi di Ferrara troverà posto come oggetto di lusso. La cucina ed il servizio a tavola Nella cucina era sempre presente il camino con il fuoco acceso, su cui veniva appeso tramite un gancio un calderone in metallo, oltre alle braci su cui erano cotte le carni. I catini-coperchio erano utilizzati come fornetti domestici per cuocere il pane sul piano del focolare. Per la preparazione e la conservazione dei cibi ci si serviva di ciotole e catini di diverse dimensioni, mentre l’acqua veniva conservata in brocche di terracotta o ricoperte da invetriatura. Che cosa si mangiava alla tavola estense? “L’alta cucina del Rinascimento si distingue sia per la straordinaria ricchezza degli ingredienti che per i metodi di preparazione. Nella cucina rinascimentale rimane il gusto degli arrosti di tutti i tipi, della selvaggina di penna e di pelo e di tutti i volatili in genere e, al contrario dell’epoca medievale, comincia ad essere apprezzata la carne di manzo. Inoltre, sono frequenti ovini, caprini, suini, lepre, coniglio e cervo. Tra i secondi piatti una grande varietà di selvaggina: fagiano, oca, gru, pernice e germano reale cacciati a scopo alimentare” … La cucina di pesce costituiva una connotazione importante nell’arte culinaria del Rinascimento, comprendente per le corti sia il pesce d’acqua dolce che quello di mare. A questo pro- posito è interessante ricordare che per le nozze di Alfonso II con Barbara d’Austria furono ordinati da Venezia e dalla terra di Schiavonia (Dalmazia) pesci e crostacei tra cui 10.000 ostriche”(3) Come sostiene lo storico dell’alimentazione, Massimo Montanari , in un suo testo(2) almeno fino al XVI secolo l’uso delle spezie insieme a quello dello zucchero continua ad essere un segno di distinzione sociale: addirittura, Cristoforo Messisbugo prevede che se ne possa diminuire la spesa proporzionalmente allo status dell’anfitrione: ”E’ da sapere, che se fosse alcuno gentil’ huomo mezzano, che facesse il convito, potrebbe, egli fare col terzo de’ zuccari e spezierie, e ancora colla metà”. Nella sua opera Messisbugo fa l’elenco di tutte le strutture mobili, degli arredi, delle suppellettili necessarie al banchetto, delle derrate e delle spezie necessarie, delle masserizie e del personale. La cerimonia dell’imbandigione non comprendeva solo le vivande, sia pure grandiosamente presentate, ma un insieme di spettacoli, musiche e recitazioni di testi poetici (è il periodo dell’Ariosto e del Boiardo). E’ interessante leggere di un banchetto commissionato dal cardinale Ippolito d’Este a Cristoforo Messisbugo il 30 maggio 1529. Si susseguono ad ondate più di 140 diversi cibi, ad ogni intervallo fra i servizi vengono indicati gli intermezzi musicali, canori e farseschi. Vengono offerte oltre 30 specie ittiche. Si tratta di un menu -programma, organizzato in 17 <<vivande >> o servizi successivi di 8 piatti che termina con formaggi e frutta fresca, sciroppata e glassata. Note bibliografiche 1)“Banchetti: composizione di vivande et apparecchio generale” di Cristoforo da Messibugo ( scritto nel 1539 e pubblicato postumo nel 1549) 2)Massimo Montanari(La cucina italiana, Editori Laterza, 2005 3) http:// www.archeobologna.benicultu rali.it/mostre/ fe_ercole_2014.htm Isabella Palazzo (Docente) 10 Reggio nei racconti di Ludovico Ariosto Ariosto scrisse sette satire in forma di lettere in versi endecasillabi indirizzati a parenti e amici,ma non ne curò la stampa. La satira antica era in origine un componimento che permetteva di toccare i più vari argomenti senza un ordine prefissato. Grazie ad Orazio la satira divenne oggetto di una libera e svagata conversazione. Ad Orazio Ariosto è particolarmente vicino, nell’ideale di una vita quieta e modesta ma indipendente da ogni servitù e nel distacco ironico con cui guarda se stesso e gli altri. Ariosto utilizza questo tipo di componimento per trattare di temi centrali della sua epoca, riguardanti la condizione dell’intellettuale cortigiano, i limiti e gli ostacoli che essa pone alla libertà dell’individuo, l’aspirazione ad una vita quieta ed appartata, lontana dalle ambizioni e dalle invidie della realtà di corte, dedita agli studi , ai voli della fantasia e agli affetti famigliari, il fastidio per le incombenze pratiche che dell’esercizio poetico costituiscono l’ostacolo, la follia degli uomini che si danno ad inseguire desideri vani, la fama ,il successo , la ricchezza. Nel complesso le satire ariostesche sono un’opera che ha un’importanza fondamentale per comprendere il successivo componimento “L’Orlando furioso”; in esse 11 si trova quell’atteggiamento riflessivo e conoscitivo nei confronti della realtà che nel poema, pur essendo essenziale,è dissimulato dietro il fluire delle avventure cavalleresche e dietro al fascino del meraviglioso e del fiabesco,Vi si trova anche l’atteggiamento ironico che è caratteristica saliente del Furioso. Nella Satira IV Ariosto racconta della sua amata Reggio. Come ci è ben noto,egli prediligeva la vita sedentaria e tranquilla a quella di corte, in cui era limitato nello scrivere ciò che prediligeva o nei temi da trattare. Tuttavia per necessità economiche fu costretto a confidare nei signori della corte per il suo sostentamento e quello della sua famiglia. Pur trovandosi in questo contesto,riuscì ad elogiare la sua città, in cui spesso faceva ritorno per godere della pace che offriva. In questa opera minore,dedicata al cugino Sigismondo Malaguzzi,racconta del primo anniversario dell'arrivo del poeta in Garfagnana,zona impervia e inaccessibile,in cui è costretto a vivere lontano dalla donna amata e dai luoghi famigliari. Questo suo disagio si riscontra anche dallo stato d'animo cupo e triste con cui Ariosto descrive le bellezze della sua città. A testimonianza di ciò,riportiamo dunque qui di seguito parte della satira IV: “Già mi fur dolci inviti a empir le carte li luoghi ameni di che il nostro Reggio, il natio nido mio, n’ha la sua parte. Il tuo Mauricïan sempre vagheggio, la bella stanza, il Rodano vicino, da le Naiade amato ombroso seggio, il lucido vivaio onde il giardino si cinge intorno, il fresco rio che corre, rigando l’erbe, ove poi fa il molino; non mi si può de la memoria tòrre le vigne e i solchi del fecondo Iaco, la valle e il colle e la ben posta tórre. Cercando or questo et or quel loco opaco, quivi in più d’una lingua e in più d’un stile rivi traea sin dal gorgoneo laco. Erano allora gli anni miei fra aprile e maggio belli, ch’or l’ottobre dietro si lasciano, e non pur luglio e sestile.” In questo particolare Ariosto racconta dei luoghi reggiani a lui più cari,descrivendoli con Ariosto descrive le vigne,le malinconia e tristezza. valli e i colli,caratteristiche Ricorda quindi il Mauriziano,casa dei cugini, luogo ame- che volevano rispecchiare nei minimi dettagli quel luono e appartato,lontano dalla go,così come era allovita caotica di corte. Luogo di ra,costellato da campi e rupace e tranquillità attraversato da due fiumi,l’ Ariolo e il scelli,nel quale egli ritrovava Rodano. Questo luogo rappre- la pace e l’ambiente famigliare. Anche nella descrizione sentava il suo rifugio,in cui si ritirava spesso e dove scrisse della sua città natale,l’autore le sue opere più importanti. riesce,a distanza di anni,a Ricordato come la sua catrasmettere i sentimenti e sa,ora è stato adibito a un mu- grandi emozioni.Ariosto, noseo,simbolo della vita del poenostante la sua vita piena di ta. In questa satira inoltre incarichi e tensioni, riuscì a farsi ricordare e amare non solo come un ottimo letterato e poeta,ma anche come uomo amante della vita autentica. Francesca Bigliardi Mina Cirillo Simona Di Gennaro 4^I 12 Confronto tra l'Orlando furioso e il Don Chisciotte Il Don Chisciotte di Miguel De Cervantes è considerato una sorta di prolungamento dell'Orlando furioso di Ludovico Ariosto. Cio' che distingue però la prima opera dalla seconda è la diversa concezione della follia. Nel Don Chisciotte la follia è sovrapposizione dell'ideale al reale.La follia del personaggio di Cervantes consiste nella volontà di raggiungere un obiettivo puramente ideale che non ha riscontri nella realtà : è un personaggio che incarna la solitudine e dato ciò sente la necessità di inventa- 13 re l'amore.Diretta conseguenza di cio ' è la perdita dell'esatta concezione della realtà.Nel romanzo ,quindi, regnano la confusione e l'incertezza e il Don Chisciotte si presenta come l'intellettuale innamorato dell'azione , il cavaliere dell'ideale e di quelle gesta impossibili,che in quanto tali, sono destinate a sfociare nella follia. La concezione ariostesca della follia è ,invece, connessa all'ideale umanistico:questa viene scatenata dall'eccesso di passioni e aspirazioni e coincide con la perdita del senno,strumento regolatore dell'uomo e della società. Orlando, da paladino virtuoso e integerrimo, diventa ''furioso'' per l'amore non corrisposto di Angelica.Nel poema ,dunque, l'amore (reale per una donna) guida e predomina ed è il movente e l'oggetto di gran parte delle azioni. Conferenza Prof.ssa Mazzanti Il 27 novembre 2014, alcuni studenti del Canossa, accompagnati dalla docente Annarita Perisi, hanno partecipato ad una conferenza, presso Palazzo Magnani, dove la professoressa Marta Mazzanti dell'UniMoRe ha esposto gli esiti delle ricerche compiute da lei, e da un gruppo di botanici, sulla vegetazione e il clima negli ultimi 1500 anni, basandosi principalmente sullo studio di pollini e semi. Analizzando i vari resti di frutta, da quelli della vasca Ducale, del giardino delle Duchesse, della Cisterna dello Specchio, dei giardini di palazzo Te dei Gonzaga, la prof.ssa Mazzanti è riuscita a capire ciò che si coltivava e si mangiava al tempo di Ludovico Ariosto, presso la casa degli Estensi di Ferrara. Attraverso fonti scritte (come ad esempio il manuale di arte culinaria, contenenti le ricette del tempo trascritte dal cuoco di corte Messisbugo), fonti iconografiche (come gli affreschi di Palazzo Schifanoia) e fonti materiali (come semi, pollini e resti ben mantenuti di cibo) la gente dell’epoca mangiava abbondantemente. In uno degli scritti di Messisbugo, si racconta che in un banchetto vennero servite 2000 ostriche ad una cena di c i r ca 8 0 co m me n s a l i . Per l'appunto, era molto alta la quantità di ostriche, capesante e vongole, di calibro molto più grande all'epoca, forse perché selezionate con cura, poiché servite a corte, come anche la frutta; infatti durante gli scavi della Vasca Ducale, sono stati ritrovati dei semi di melograno più grandi d e l 1 0 / 2 5 % . All’epoca si aveva una diversa concezione del cibo, ad esempio il melone, non era usato tanto come frutto ma preferito acerbo e veniva mangiato come verdura; così come le zucche, dalle forme più strane che hanno ispirato moltissime ricette. Anche la cacciagione era concepita diversamente ma, comunque, molto amata. danti le bizzarre richieste di Isabella d'Este, come le lepri vive che voleva per il suo giardino. Al tempo le spezie più usate erano il pepe nero, l'aneto, l'anice e a volte semi di canapa. Nonostante la specificità degli argomenti, la dottoressa Mazzanti è stata in grado di coinvolgere i partecipanti, rendendo l'incontro piacevole. Bonini Matteo, Crasti Arianna, Davoli Giovanni, Douhab Amal, Curti Caterina, Spinella Esther 3^A I rapaci non venivano cacciati per la loro carne, decisamente dura, ma per stupire con portate maestose, senza escludere talvolta gli intermezzi riguar- 14 Angelica La fama di Ludovico Ariosto è legata al Rinascimento, epoca che segue l'Umanesimo, ma che allo stesso tempo conduce verso l'Età Moderna. Umanesimo e Rinascimento appaiono in netto contrasto con le idee diffuse nel Medioevo che poneva la religione al centro della vita dell'uomo destinato a realizzarsi solo nel mondo ultraterreno. Le due epoche successive, al contrario, pongono l'uomo al centro dell'Universo in quanto persona capace di costruire il proprio destino. L'Ariosto, attraverso il suo poema "L'Orlando Furioso", ha la possibilità di riflettere su alcuni temi centrali della sua epoca, come l'incapacità di cogliere totalmente ogni aspetto della realtà, l'imprevedibilità della Fortuna che si può fronteggiare solo attraverso la razionalità, l'agire dell'uomo che ricerca senza posa oggetti sfuggenti, che a volte, deludendo, conducono al fallimento. Fra ciò che sfugge vi è proprio l’amore, ovvero quello che Orlando protagonista del suo poema cavalleresco, prova per Angelica, definita dal Boiardo “principessa delle Indie . Motore di tutto il poema, in lei non si ritrova più niente della donna angelo (Stilnovo) o idealizzata (Laura del Petrarca); nel Boiardo ha una sua psicologia: è tenace, 15 appassionata, seducente e crudele, tanto da far dire ad Orlando: “Io che stimavo tutto il mondo nulla, senza arme vinto son da una fanciulla” (Orlando Innamorato). "L'Orlando Furioso" appare come il proseguo dell' "Orlando Innamorato" del Boiardo; entrambi riprendono i temi della tradizione carolingia, ma esaltano anche motivi caratteristici del ciclo bretone, ricco di elementi magici e fiabeschi. Uno dei fili narrativi che compongono l'intreccio del "Furioso" è l'amore di Orlando per la bella principessa del Catai , il suo vano ricercare la donna amata fino alla scoperta del tradimento e delle nozze di lei con Medoro, un semplice fante. Il Catai, terra di Angelica, è un regno della Cina Settentrionale , così denominato in origine da Marco Polo; il termine deriva dal nome dei Khitan, un gruppo etnico che dominò gran parte della Manciuria, nella Cina Nord-Orientale. Angelica, figlia del re Galafrone, Gran Can del Catai, arriva in Occidente per portare il caos fra le truppe cristiane di Carlo Magno che si stanno scontrando con un esercito saraceno. Arrivata al campo cristiano, utilizza tutte le qualità-virtù (anche magiche) di cui dispone per sedurre i cava- lieri franchi. Anche Orlando e Rinaldo, i paladini più valorosi di Carlo Magno, cadono ai suoi piedi ammaliati dalla bellezza della fanciulla straniera e per la quale entrano in discordia, tanto che il re si vede costretto a trovare immediatamente una soluzione: concedere la sua mano a chi dei due si sarebbe distinto maggiormente sul campo di battaglia. Rincorsa da molti cavalieri, cristiani e saraceni, Angelica diventa il simbolo del carattere illusorio di ciò che tutti desiderano e della vanità della ricerca( …) Irraggiungibile, sempre in fuga da tutto e tutti, capace addirittura di diventare invisibile grazie al suo anello magico, Angelica diventa la causa della follia di Orlando. IL cavaliere franco famoso nel mondo cristiano per le sue prodezze e la sua audacia in battaglia, perdere il senno per assumere quelle caratteristiche della bestialità o disumanità che sono alla base della morale cristiana ,nonché caratteri distintivi dell’epoca e del mondo cavalleresco. Eppure Angelica, questo è l’aspetto che colpisce maggiormente, sceglie un umile fante e se ne innamora, mettendo da parte le differenze di casta e le regole nobiliari di compiere scelte secondo il proprio cuore. Angelica appare un personaggio complesso e imprevedibile che impara a riconoscere il vero amore e ad esso "soccombe", come qualsiasi altra donna innamorata, abbandonando la sua fama di ammaliatrice. <<Il Furioso è un libro unico nel suo genere e può essere letto senza far riferimento a nessun altro libro precedente o seguente; è un universo a sé in cui si può viaggiare in lungo e in largo, entrare, uscire, perdercisi>> (Italo Calvino “Orlando Furioso di Ludovico Ariosto raccontato da Italo Calvino”) Giacomini Elena 4^D Idealizzazione di Angelica di Alic Valentina 4^D 16 Bradamante, donna-cavaliere Il Medioevo è sempre stato considerato come un periodo cupo e di barbarie, in cui le superstizioni e la paura scandivano ogni singolo avvenimento quotidiano. L’uomo non era fautore del proprio destino, non aveva libera autonomia ma era assoggettato alle gerarchie sociali e ai rigidi ed incorruttibili precetti della Chiesa. Per secoli, quindi, questo periodo è apparso agli occhi dei critici come una fase di stallo dal punto di vista artistico e culturale, in rapporto alla fiorente epoca classica. In realtà il Medioevo, soprattutto il Basso, dal 1200 alla fine del 1300, presenta un’ampia produzione letteraria, concernente poemi epico- cavallereschi e cantari del ciclo bretone e carolingio, che mostrano i valori di una società passata, basata su princìpi di onore e fedeltà nei confronti di un signore e di difesa della fede cristiana. Riprendono la struttura dei cantari medievali “L’Orlando Innamorato” del Boiardo e “L’Orlando Furioso” dell’ Ariosto( che differisce dal primo soprattutto per una più marcata visione antropocentrica dell’uomo, tipica del periodo rinascimentale): il tema portante non è più la religione e la figura del re, bensì la ricerca dell’oggetto(materiale o ideale) del proprio desiderio. L’Orlando Furioso rappresenta un poema unico nel suo gene- 17 re: alle vicende del protagonista, Orlando, che, ad un certo punto della storia, perde il senno per amore, si intrecciano quelle di altri personaggi, non solo maschili, come vuole la tradizione cavalleresca, ma soprattutto femminili, che danno una svolta al racconto, conferendogli una connotazione innovativa e moderna. In questo quadro possiamo collocare due figure femminili, già descritte da Boiardo ne “L’Orlando Innamorato”, che Ariosto cerca di esaltare e di elevare ad una più alta dignità rispetto ai paladini: Bradamante e Angelica. Esse svolgono un ruolo quasi antitetico nella narrazione ma, tramite avventure e peripezie affrontate con grande valore, determinano entrambe lo sviluppo di eventi significativi ed essenziali per lo svolgimento dell’ intreccio. Bradamante è un personaggio femminile immaginario, estraneo all’epopea francese e al pari delle altre donne guerriere proprie, invece, della nostra letteratura cavalleresca. Bella e valorosa, è paladina di Francia, figlia del duca Amone Chiaramontesi e di Beatrice, sorella di Rinaldo e cugina di Orlando. È la prima figura di donnacavaliere a cui viene attribuita grande riconoscenza, simbolo di una società in via di cambiamento, che non vedeva più nella donna solo un oggetto di sottomissione ma le consentiva di porre le prime basi per la sua futura emancipazione. Le vicende di Bradamante sono legate tutte alla ricerca di Ruggiero, un prode guerriero pagano della famiglia di Mongrana, di cui la giovane si era innamorata durante un combattimento. La ricerca si rivelerà complicata, marcata da una serie di sfortunate coincidenze che allontanano ogni volta i due innamorati ma, soprattutto, dalla volontà dei Chiaramontesi di dare in sposa la ragazza all’imperatore di Bisanzio, Leone. All’inizio del poema, Ruggiero si trova nel Palazzo di Atlante, prigioniero del mago, che desidera proteggerlo dall’amore e, soprattutto, dalla morte. Bradamante, grazie all’intervento della maga Melissa, riesce a rompere il sortilegio del castello e a liberare il suo amato che, però, in groppa all’ippogrifo, giunge sull’isola della maga Alcina; qui, sedotto dalle sue arti, dimentica la bella Bradamante. Quest’ultima non si arrende e comincia la sua ricerca (inchiesta), combattendo, nel frattempo, contro gli infedeli nemici del suo signore, Carlo Magno. I suoi sforzi non saranno vani perché, nonostante un fitto susseguirsi di vicende che mettono costantemente alla prova la purezza del suo amore, riesce, infine, ad unirsi in matrimonio con Ruggiero, convertito al cristianesimo, a dando origine alla potente famiglia d’Este. Attilio Momigliano, noto critico letterario, scrive nel suo saggio su “L’Orlando Furioso” del 1928 di Bradamante che appare come la vera e propria martire dell’amore nei confronti di Ruggiero, in parallelismo con Orlando nella sua inesausta ricerca di Angelica. La sua figura di donna innamorata è illuminata di una luce più splendida, grazie all’alto valore che ella dimostra nello scontro con i cavalieri più temibili, come Sacripante e Rodomonte, nella sua nobiltà cavalleresca, nel suo virile disprezzo della morte. La sua tristezza, vista come una vera e propria pena dell’anima, non si consuma più nella solitudine di una camera, ma in mezzo alla vita pericolosa del mondo eroico. Nel combattere per ottenere l’amore, unisce la forza, la nobiltà, la temperanza di atti e parole e la dignità, ad una più elevata manifestazione di un cuore affettuoso, proprio di tutte le altre donne infelici”. Ariosto cerca di mettere l’accento su questo dettaglio del suo carattere, vestendola di un’armatura bianca, rappresentazione diretta del candore e della purezza del suo animo, che esalta mag- giormente la sua innamorata bellezza. La sua magnanimità rischia di venir meno soltanto al termine del poema, quando ella cade preda della gelosia per il legame sentimentale tra Ruggiero e Marfisa; le conseguenze di questo evento, però, non giungono mai ad un livello critico come per Orlando che arriva a perdere il senno, ma mantiene sempre alta la sua dignità di donna-cavaliere. Ferroni Manuela 4^D 18 ARIOSTO nella critica letteraria Nel ‘500 i critici considerano Ludovico Ariosto un poeta e scrittore eccentrico, quasi quanto la sua Opera, poiché distante dal modello dei classici. L’Orlando Furioso si presenta come un poema segnato da una sostanziale confusione narrativa. Un’ opera irregolare ed inverosimile, fatta di magia, fantasia, digressioni ed interruzioni e che non rispetta in alcun modo il modello Aristotelico di spazio, tempo e luogo. Il dibattito sull’ Orlando Furioso si protrae fino alla seconda metà dell’ Ottocento, quando ad Ariosto viene finalmente riconosciuto un ruolo di assoluto rilievo ma, al tempo stesso, alla sua fervida immaginazione poetica viene imputata la sostanziale assenza di valori morali e tratti di modernità. In Spagna diventa un esempio. Il Don Chichotte di Cervantes era infatti una sorta di prolungamento del Furioso. Anche Walter Scott, autore di Ivanohe, riconosce in Ariosto un modello di riferimento, per la digressione narrativa, la molteplicità dei personaggi e il vario dipanarsi dei fili del racconto. Nel ‘900 Luigi Pirandello trova nel poema un preludio all’ umorismo moderno, ed inoltre riconosce al poeta il merito di importanti anticipazioni su cui si fonda il sentimento del contrario: l’ironia. Attraverso di 19 essa Ludovico Ariosto fa intravedere una realtà celata, invisibile agli occhi. L’Orlando Furioso è, per Pirandello, il poema ironico per eccellenza. Ariosto descrive un mondo epico in cui non crede più, e lo descrive lasciandoci ogni tanto percepire la sua estraneità ai valori del mondo cavalleresco. Il riso umoristico non ha la pienezza ingenua della comicità, ma è venato da un sentimento contrastante che lo limita e lo contiene. Alla base dello stato d’animo che l’umorismo ci procura, vi è dunque una vera e propria contraddizione emotiva; scherno e compassione si legano insieme, il riso si smorza e si vela di tristezza. De Sanctis Uno dei primi commentatori moderni dell’Orlando furioso è stato il famoso critico ottocentesco Francesco De Sanctis, che nella sua prospettiva romantica ci presenta un Ariosto asociale, esteta e affetto da inettitudine cronica. Per De Sanctis, Ariosto vive in un mondo che ha perso i suoi valori. Il mondo dove vuole vivere Ariosto, non è Ferrara, ma l'arte stessa. E l'arte è anche il fine ultimo del poeta: pura forma senza un contenuto reale o serio. Il motivo interiore del poema è la cavalleria, ed il tono è l’ironia. La serietà del romanzo sta tutta nell’impegno artistico, nell’amore per l’arte. Ne vien fuori un ritratto quale un critico, anzi il miglior critico romantico poteva realizzare, unendo al malcelato disprezzo per la società ariostesca una vera e profonda ammirazione per l’autore. Ariosto è l’uomo dell’idillio, il cortegiano che non si ribella, ma paziente e stizzoso, che non vuol fastidi. Ha scatti oraziani d’umore, pronto a scambiare la sua posizione servile con la libertà, ma non ne è capace, in pratica. Anzi finisce col ridere, scotendo la testa, anche di se stesso. Ecco l’uomo. De Sanctis non ne fa un campione di umanità certo, ma riconosce che è il tipo di borghese letterato italiano “men reo”. L’opera: l’idea centrale della sua critica al Furioso De Sanctis la concentra in questa condanna: il poema non è materiato di contenuto serio; non vibra di passioni, di nessuna passione”. Certo per una tempra civile quale quella del De Sanctis era questa una lacuna difficilmente colmabile. Per fare inghiottire il boccone amaro al critico irpino ci voleva proprio tutta la raffinatezza di un’arte squisita e perfetta. De Sanctis dà colpa all’Ariosto di aver dissolto il “mondo del reale”. Prima di lui sia Petrarca che Boccaccio, sia il ghigno di Lorenzo(Il Magnifi- il riso beffardo di Pulci gli hanno spianato la strada. Quando egli arriva non v’è più nulla di serio in cui credere perché lui respira l’aria di quella società. Croce La grandezza di Ariosto nell'Orlando furioso sta nella profonda ironia e nel divertito distacco con cui riesce a operare l'armonica conciliazione delle contraddizioni umane in una superiore e in sè risolta contemplazione della natura umana. Il poema, giá amato dai contemporanei, ebbe una grande fortuna critica per la capacità di esprimere lo spirito di un’ epoca. Per Benedetto Croce Ariosto seppe armonizzare serenamente i contrasti del mondo. Egli puntualizza tre problemi: l’armonia, l’ironia, l’indifferenza. L’armonia è una felice definizione del sentimento che animò il poeta nella sua opera. Armonia che, cantando nel suo petto, s’espanse e toccò gli oggetti della creazione artistica e li fece poesia segnando la perdita della loro autonomia, cioè svalutandoli nella loro individualità esasperata; li svalutò grazie agli ammiccanti proemi, alle digressioni, alle osservazioni intercalate, ai paragoni che disciolgono la commozione dell’evento. Questo, con il tono disinvolto e lieve che fu chiamato “aria confidenziale”. E qui Croce definisce meglio l’ironia ariostesca. De Sanctis l’aveva ridotta a sorriso amabile dell’uomo adulto di fronte ad un mondo che non è più credibile, Croce la innalza a “occhio di Dio che osserva ed ama la sua creazione in ogni minima fibra, ugualmente, e che di essa coglie non i volti individuali ma l’armonia e il ritmo. Questa ironia non può certo intendersi e anzi si definisce appieno solo quando ad essa si affianchi l’immagine dell’armonia. Il terzo punto da chiarire è relativo all’accusa rivolta all’armonia di essere in sostanza indifferenza e freddezza. Croce ragiona così: il risultato della visione “ironica” del mondo, dell’atmosfera di armonia che si respira nel poema è la svalutazione d’ogni ordine di sentimenti, è “fiaccare i sentimenti” e convertire il mondo (tumultuoso e individuale) dello spirito in quello equanime ed oggettivo della natura.” Rigotti Cecilia 4^D 20 Pittura nella corte ferrarese Lo stile di Tura si legge in tutta la sua originalità e complessità nel lavoro delle ante dell'organo del Duomo di Ferrara, dipinte nel 1469. Quando aperte mostrano un'Annunciazione, quando chiuse San Giorgio e la principessa. Nell'Annunciazione la solenne architettura di sfondo, che cita l'antico, ricorda Andrea Mantegna, come anche i panneggi "lapidei" o la presenza, nel paesaggio, di speroni rocciosi stratificati. Al tempo stesso si riscontrano particolari di grande naturalismo e richiami del mondo cortese, come nei bassorilievi sotto gli archi che raffigurano i Pianeti, il tutto fuso e rielaborato con un estro straordinario. Il lato di San Giorgio invece è caratterizzato da un dinamismo sfrenato, reso ancora più espressivo dai contorni netti e taglienti, le lumeggiature grafiche e l'estremo espressionismo che stravolge i volti di uomini e animali. 21 Francesco del Cossa Francesco del Cossa, di poco più giovane del Tura, partì da basi comuni al collega, ma giunse ad esiti diversi per via del maggior risalto dato alla lezione di Piero della Francesca, con figure più composte e solenni. Non è sicura la sua partecipazione allo studiolo di Belfiore, ma partecipò all'altro grande saggio di pittura ferrarese, il Salone dei Mesi di Palazzo Schifanoia (14671470). A questo complesso ciclo di affreschi lavorarono più pittori, probabilmente diretti da Cosmè Tura, sulla base di un programma iconografico di Pellegrino Prisciano ricco di riferimenti astronomici, filosofici e letterari. Originariamente la decorazione era composta da dodici settori, uno per mese, dei quali ne restano oggi sette. Ciascun settore è diviso a sua volta in tre fasce: una più alta dove è dipinto il trionfo del dio pro- tettore del mese circondato dai "figli" impegnati in attività tipiche, una centrale a fondo blu con il segno zodiacale e tre "decani", e una inferiore con scene che ruotano attorno alla figura di Borso d'Este. Celebrando il Signore e i suoi ideali si celebrava l'intero Stato nelle sue varie funzioni, che andavano dalla rappresentanza al governo. A Francesco del Cossa spettò ad esempio il mese di Marzo, caratterizzato da forme solide e sintetiche, colore luminoso e un'attenta cura nella costruzione prospettica, che arriva a ordinare anche le rocce dello sfondo, dalle forme fantasiosamente visionarie. Alle forme quasi cristallizzate di Cosmè Tura, Francesco contrappose una più naturale rappresentazione umana. Idealizazione di Orlando di Ana Poliseiue 4^D 22 23 Testo: Grisendi Davide 4^I Illustrazione: Guanti Elena , Prato Giuliana 4^I Testo: Grisendi Davide 4^I Illustrazione: Guanti Elena , Prato Giuliana 4^I 24 La Chanson de geste, l'Orlando Innamorato e l'Orlando Furioso a confronto Chanson de Roland (o Canzone di Rolando ), scritta intorno alla seconda metà dell'XI secolo, è una "Chanson de geste" appartenente al ciclo carolingio, considerata tra le opere più significative della letteratura medievale francese.Essa racconta la battaglia di Roncisvalle, quando la retroguardia di Carlo Magno, comandata dal paladino Rolando, di ritorno da una spedizione in Spagna fu attaccata e distrutta dai saraceni. I valori che caratterizzano la Chanson de Roland sono: la fedeltà al proprio signore, in questo caso Carlo Magno e la fede cristiana in opposizione alla fede islamica. Alla celebrazione delle virtù militari nella dimensione del martirio cristiano – il cavaliere che muore in battaglia è equiparato al santo che rinuncia alla propria vita per la fede – corrisponde la quasi totale assenza del motivo amoroso. Considerando invece l'Orlando innamorato di Boiardo e il Furioso di Ariosto il tema dell' Amore è ciò che più li accumuna, infatti è proprio questo 25 il tema posto alla base dei due poemi e principalmente l’incapacità umana nel sovrastarlo. Nella prima opera tale inettitudine nel contrastarlo evince con l’affermazione: “qualunche… è d’amor vinto, al tutto subiugato.” inoltre Boiardo aveva finito per privilegiare le "armi" agli "amori";mentre nella seconda opera il concetto è ripreso nel momento in cui l’amore diventa la causa della pazzia di Orlando << ...e cominciò la gran follia,sì orrenda,che de la più non sarà mai ch'intenda.>> L'ispirazione dell'opera di Boiardo è evidentemente lo spirito cavalleresco, cioè l'ammirazione per le grandi gesta e l'esaltazione di quei valori coltivati dall'aristocrazia contemporanea: il coraggio, la cortesia, la generosità d'animo, l'amore e lo spirito di avventura in cui si nota anche la quattrocentesca affermazione dell'uomo e delle sue capacità. Ariosto trasforma invece il mondo cavalleresco/cortese di Boiardo in un più ambizioso progetto di descrizione della complessità umana. L'immagine del cavaliere diventa più astratta, più lontana dal reale.Si sostituisce al cavaliere innamorato del Boiardo,il cavaliere che per amore diventa "furioso" ridotto alla condizione animalesca, a spogliarsi delle sue prerogative di cavaliere <<senza il pane discerner dalle ghiande,...le mani e il dente lasciò andar di botto in quel che trovò prima, crudo o cotto>>. Nel proemio delle due opere prese in considerazione è evidente la presenza di caratteristiche comuni. In primis, essendo il secondo prosecuzione del primo, il periodo storico resta invariato, proseguendo emerge la comune presentazione di Orlando come personaggio principale dell’opera e soprattutto l’amore che lo rende schiavo e forsennato.Nella terza ottava emerge il tema encomiastico (particolarmente prediletto durante quel periodo storico) infatti l’Orlando Innamorato è scritto in onore della dinastia Estense e l’Orlando furioso è dedicato sempre all’ “Erculea prole” ma in particolare al cardinale Ippolito. Analizzate le caratteristiche comuni inerenti al contenuto è opportuno studiare quelle relative alla forma. Il primo tratto comune risiede nella rima; il suo schema è infatti : ABABABCC (rime baciate con l'ultima al- ternata) in entrambe le opere. Inoltre ogni stanza è divisa in 8 versi. Lo stile è però diverso, così come l’Incipit che nell’Orlando di Ariosto descrive molteplici eventi e personaggi rispetto all’Orlando di Boiardo che cita solo il protagonista. Perciò nonostante la molteplici analogie tra i poemi essi continuano a mantenere una propria integrità, cosicchè le due opere continuino ad essere uniche nel loro genere e distinguibili. 26