Anno IX n° 1 - Liceo Canossa

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Anno IX n° 1 - Liceo Canossa
Anno 9, numero 1
Anno scolastico 2014/15
La voce di Matilde
ISTITUTO LICEALE MATILDE
DI
CANOSSA
Reggio Emilia
-R.E.
A cura di:
Ravichandran Jasintha
Seligardi Elisa
Rigotti Cecilia
D’aniello Dafnhy
Coordinatori:
Melli, Palazzo
Chi era Ludovico Ariosto
Nato a Reggio l'8 settembre
1474, Ludovico Ariosto vi
rimane fino al 1485,in quanto
il padre è il capitano della
Cittadella,la zona militare. Poi
si trasferisce a Ferrara,ma la
nostra città rimane nel suo
cuore ed è per questo che
spesso torna a visitare i cugini
materni Malaguzzi. Come
spesso capita a personaggi di
un certo calibro,viene conteso
dalla due città. La sua vocazione è letteraria,ma il padre
vuole che studi Diritto,materia
che abbandona ben presto per
dedicarsi alla sua passione.
Inizia qui il rapporto di amore
e odio con la corte,tema che
permeerà le sue opere. Quando il padre viene a mancare
(1500),è obbligato ad entrare
nella cerchia dei cortigiani
stipendiati per mantenere i
suoi numerosi fratelli .Nelle
vesti di mediatore,si reca
spesso a Roma per allentare i
1
rapporti tra il Papa Giulio II e
il suo Signore Alfonso I D'Este,passando da Firenze,dove
incontra Alessandra Benucci,dalla quale avrà un figlio
ma che non sposerà mai per la
sua condizione di chierico.
Nel 1517 per problemi di salute rifiuta di seguire Alfonso
I in Ungheria per prendere
possesso di un vescovato,cosi'
passa nuovamente agli ordini
del duca Alfonso I,che gli
assegna un compito difficile,ossia il governo della Garfagnana. Terra contesa,perchè
usata come tramite dalla Toscana,a cui vengono concesse
agevolazioni fiscali fin dal
tempo dei Da Fogliano; poi
questo territorio passa agli
Estensi. Esplode qui il banditismo,perchè quella società
agricolo-pastorale commette
reati con sempre maggiore
valore politico,ma anche la
Chiesa avrà la sua par-
te,concorrendo alle divisioni
interne della regione. Ariosto
sarà capace di mantenere
equilibrio ed ordine,dimostrando coi fatti di
essere un uomo pragmatico
ben diverso dall'immagine
letteraria placida e contemplativa che vuole trasmettere di
se'. Torna a Ferrara nel
1525,dove si dedica agli affetti familiari e alla revisione del
suo capolavoro l' “Orlando
Furioso”.Muore nel 1533.
Ariosto è riuscito a rimanere
fedele ai propri ideali,nonostante la vita gli abbia
imposto scelte obbligate
all'interno della corte: sta a
noi la capacità di coglierli
nell'ironia delle sue opere.
Francesca Romani
4^I
Sui passi dell’Ariosto
Reggio Emilia vanta il pregio di essere culla di molti
politici,artisti e soprattutto
letterati. Non è da trascurare
il contributo culturale di
Ludovico Ariosto a questo
territorio,nato l’8 settembre
1474,che rappresenta la
tipica figura dell’intellettuale cortigiano nel Rinascimento. E’ però mosso da
sentimenti di malcelato rifiuto e sottile polemica nei
confronti dell’ambiente cortese,perciò pur essendo un
cortigiano,è allo stesso tempo politicamente attivo. Nel
1500, con la morte del padre,inizia per il poeta il periodo delle preoccupazioni:egli si trova, infatti, a
doversi occupare del patrimonio familiare e dei numerosi fratelli minori. Accetta,
pertanto, alcuni incarichi
presso la corte estense,ma
decide di ritornare a Reggio
Emilia. E’ nella verdeggiante dimora del Mauriziano,lungo la via Emilia che il
poeta dalla personalità tranquilla trascorre gli anni della gioventù approfondendo
gli studi che offrono al letterato la maturità disciplinare
per realizzare tutte le sue
opere. Non vive solo nelle
vicinanze della città; in primo luogo,nel volgere lo
sguardo sull’itinerario vitale
di Ludovico,emerge la rupe
M a t i l d ic a ,d o v e n e l
1500,Ariosto ha assunto
l’incarico di capitano della
rocca con giurisdizione civile e militare su di essa,sul
borgo e i paesi vicini. Il
viaggio virtuale è proseguito
verso ovest dove su uno
sperone vulcanico si erge
isolato il castello di Rossena. Importante per il poeta è
anche Santa Maria dell’Uliveto,nella frazione di Montericco ad Albinea, il cui
toponimo trae origine dagli
ulivi che, da tempi immemorabili,popolano i dintorni
della chiesa;qui l’Ariosto in
realtà non ha soggiornato,perché ha preferito accettare il più ricco beneficio
dell’arcipretura di S. Agata
di Ferrara nel 1514. Nel
1532 si ammala di enterite e
muore,dopo alcuni mesi di
malattia. Ludovico è stato
sepolto dapprima nella chiesa di San Benedetto a Ferrara e successivamente tumulato con grandi onori a Palazzo Paradiso. Nonostante
la sua vita intensa nelle sue
opere lascia un’immagine di
sé di uomo amante della vita
sedentaria e tranquilla. Nei
suoi viaggi,ha ricercato costantemente una tranquillità
e una pace che non sono
state appagate poiché non
ha trovato mai luogo idoneo
alla sua personalità se non
n
e
l
l
a
dimora ferrarese di Contrada Mirasole.
Sara Polimeno
Enrico Guidetti
Federica Prampolini
Debora Terenziani
4^I
2
“Il tuo Maurician sempre vagheggio…”
La villa del Mauriziano, presso la chiesa di San Maurizio,
era appartenente alla famiglia
Malaguzzi Valeri, dalla quale
discendeva la madre di Ludovico Ariosto, Daria. Era annessa al feudo della Bazzarola
ottenuto da Valerio Valeri nel
1432.
Al tempo dell’Ariosto, l’edificio era simile ad una villa
rurale, con magazzini, stalle e
fienili: un luogo da cui sorvegliare l’attività agricola e curare le proprietà rurali.
Qui Ludovico trascorse lunghi
periodi negli anni dell’adolescenza e prima giovinezza.
Il nucleo originario dell’edificio,
quattrocentesco,corrisponde alle due stan-
3
ze illuminate dalle finestre
poste nella facciata,accanto
alla porta d’ingresso.
Nei secoli l’edificio è stato
rinnovato più volte tranne tre
piccole stanze affrescate del
Cinquecento (il “camerino
dell’Ariosto”,il “camerino dei
poeti”,il “camerino degli Orazi e Curiazi”) .
Il “camerino dei poeti”illustra
l’allegoria della poesia e rappresenta i diversi generi poetici rappresentati da diversi
poeti ambientati sul monte
Elicona, fra i quali anche l’Ariosto.
Nel “camerino dell’Ariosto”
sono rappresentate scene di
caccia, con castelli e giardini.
Nel 1864 la villa venne ven-
duta al Comune di Reggio
Emilia.
Il territorio circostante è solcato dal torrente Rodano e dal
rio Ariolo, che fiancheggia il
Mauriziano ed alimentato
dalla sorgente perenne di un
fontanile. Tempo fa queste
acque accoglievano una ricca
fauna ittica, risorsa per i residenti.
Peculiarità del paesaggio
agrario padano del luogo è il
filare di pioppi cipressini che
introduce alla storica dimora.
Jasintha Ravichandran
Elisa Seligardi
Anita Tresca
4^I
Sintesi storica: la famiglia degli Estensi
Nel 1264 Obizzo d’Este ebbe
la meglio sulla rivale famiglia
dei Salinguerra, potente famiglia di ispirazione ghibellina,
e per oltre tre secoli la scena
politica della città e del territorio di Ferrara fu dominata
dalla famiglia d’Este.
Questa continuità politica e
amministrativa ha fatto si che
lo splendore di Ferrara e della
corte Estense crescessero verso un riconosciuto spazio tra
le corti europee più prestigiose.
Nella prima parte della signoria, in poco meno di centocinquant’ anni, Ferrara ebbe uno
sviluppo urbano sorprendente
e vide le proprie mura espandersi sino a quattro volte la
loro estensione, vaste aree del
Delta padano vennero bonificate, l’arte e la cultura vissero momenti di alto valore e
risonanza.
Con Nicolò II d’Este si confermò definitivamente il potere della casata.
Dopo Nicolò II resse il potere
per pochi anni il fratello Alberto che seppe governare, con uno sguardo sensibile
alle arti ed agli studi. A lui si
deve, infatti, la fondazione
dell’Università ferrarese
nell’anno 1391.
Il figlio di Alberto, Nicolò
III, era dotato di un grande
fiuto politico che gli consentì
di dare solidità allo Stato mettendolo in grado di affacciarsi, da questo momento con
crescente successo, sullo scenario delle vicende italiane.
A Nicolò successero nell’ordine i figli Leonello, Borso e
Ercole.
Leonello, principe illuminato
nella politica, raffinato ed
amante dell’arte, diede impulso ad un insigne circolo umanista in cui spiccavano il maestro Guarino da Verona, Angelo Decembrio e Leon Battista Alberti.
Borso, uomo d’azione, buon
soldato, ambizioso e accorto
uomo di stato, guadagnò alla
famiglia il titolo Ducale nel
1471. Ercole I regnò dal 1471
al 1505 dopo un duro scontro
con il nipote Nicolò, figlio di
Leonello, che tentò di assicurarsi il potere portando la rivolta nella città di Ferrara nel
1476. Alla sua lungimiranza
dobbiamo il grande ampliamento delle mura cittadine, la
così detta Addizione Erculea,
che, commissionata al grande
architetto Biagio Rossetti, cambiò radicalmente l’aspetto della città.
Ad Ercole successe il figlio Alfonso I che ebbe al suo
fianco, in prime nozze, Anna
Sforza e, in seconde, Lucrezia
Borgia figlia di papa Alessandro VI. Alternò contraddittorie passioni ora rivolte alla
fusione dei cannoni, che portò
Ferrara ad essere una temuta
potenza militare, ora all’arte
ed alla cultura
Ad Alfonso succede, nel
1534, anno della sua morte, il
figlio Ercole II. La moglie di
questi, Renata di Francia,
figlia del re di Francia Luigi
XII, influenzò notevolmente
la corte e la cultura ferrarese
contribuendo, con la sua cultura straniera ad abbattere
molte frontiere di provincialismo nel ducato e nella corte
allargandone notevolmente gli
orizzonti diplomatici e culturali, non ultimo anche attraverso la sua fede Calvinista
che non ebbe problemi a professare ed a promuovere,
ospitando, nel 1536 Giovanni
Calvino .
Durante il ducato di Ercole II
Ferrara vide la realizzazione
di molte opere pubbliche, una
discreta espansione degli Studi universitari, ed in generale
un discreto consolidamento
dell’economia pur in un momento della politica italiana
difficile e pericoloso per uno
stato di media grandezza come quello estense. Ercole II
morì nel 1559 lasciando la
conduzione del ducato al figlio Alfonso II.
La solidità politica del ducato
estense venne a questo punto
minata dalla assenza di una
discendenza maschile
4
. legittimata alla successione
di Alfonso II.
Tre matrimoni con Lucrezia
de’ Medici, Barbara d’Austria
e Margherita Gonzaga, non
furono sufficienti ad allontanare le mire dello Stato della
Chiesa.
Alfonso II, per evitare un’annessione annunciata ed il declino del suo casato, tentò
varie strade come la partecipazione alla crociata contro i
turchi, la vana pretesa alla
successione del trono di Polonia; partecipò a battaglie e
trattò diplomaticamente a vari
livelli con il papa.
5
Il ducato venne stremato eco- nel 1598, per un forzato tranomicamente da tutte queste sferimento della loro sede nel
infruttuose imprese e da un vicino ducato di Modena.
disastroso terremoto che nel
1570 colpì la città.
Il castello subì molti danni ed
il duca ne dispose il restauro
accompagnandolo con la realizzazione di un interessante
ciclo decorativo che tuttora
ritroviamo nell’Appartamento
detto Dello Specchio.
La morte di Alfonso II nel
1597 senza un erede legittimo
e nemmeno un successore
riconosciuto dalla Chiesa costringe gli Este ad abbandonare la città di Ferrara e la principesca residenza del castello,
In alto: Antica cartina
di Ferrara
A sinistra: Interno Palazzo Estense
In alto: Castello estense
In basso: Veduta del Castello Estense del XIX sec.
A tavola con gli Estensi
Tra tardo Medioevo e Rinascimento miseria e abbondanza sono due realtà ricorrenti,
la prima spesso riservata alla
popolazione rurale e urbana,
la seconda privilegio della
nobiltà; a sontuosi banchetti
con tavole imbandite e raffinate, si affiancano per i più
penuria e ristrettezze alimentari.
L’alimentazione di gran parte
della popolazione cittadina e
rurale era basata essenzialmente sul consumo di pane e
pasta, castagne, ceci, polenta
e sorgo, rape e cavoli. Formaggio e carne erano invece
componenti importanti come
del resto il pesce di Comacchio: cefali, orate, rombi ,
anguille e storioni catturati
nel Po.
Nella Ferrara Rinascimentale
il divario tra cucina di Corte e cucina popolare è enorme; cucinare assurge presso la
Corte ad arte raffinatissima
nella scenicità dei banchetti.
Una delle personalità emergenti fu Cristoforo Messisbugo, uomo di Corte al servizio
dei Duchi Estensi, cortigiano
intelligente e accorto, a lui si
riconosce il merito di avere
offerto uno dei compendi più
vasti ed esaurienti della gastronomia europea. Su di lui
non pervengono notizie certe,
di sicuro si sa che sposò la
nobile ferrarese Agnese di
Giovanni Gioccoli e che nel
1533 l’imperatore Carlo V gli
9
concesse il titolo di Conte
Palatino in virtù degli incarichi ricoperti presso la Corte
Estense, dove fu Scalco di
Corte dal 1524 al 1548. A
Ferrara nel 1549, un anno
dopo la sua scomparsa, venne
pubblicato il suo libro
“Banchetti, composizioni di
vivande et apparecchio generale”.(1) Un vero e proprio
trattato di costume e una miniera di notizie sul cibo e sui
banchetti a corte. Nel suo
ricettario descrive piatti di
origine ebraica, introduce le
melanzane, considerate fino
alla metà del XVI secolo, con
disprezzo e usa il carciofo
ancora ignorato dai più. Il
Convivio di Corte era insieme
nutrimento materiale, intellettuale e spirituale e simbolo
della potenza economica del
principe. È rimasto famoso
quello con cui si festeggiarono le nozze di Alfonso II d’Este con Lucrezia de’ Medici,
una delle sue tre mogli; i convitati furono quindici, ma ben
più numerose le portate. Tanto per limitarci alla terza, possiamo citare che comprendeva
tra l’altro “pernici”, tortore, cingotti di montone , aironi e tordi tramezzati di salsiccia gialla, pasticcetti pieni di
mandorla e capi di latte, quaglie bardate di salmone, e
potremmo dilungarci ancora
per molto!
Nel Rinascimento, per quanto
riguarda gli oggetti utilizzati
sulla tavola assistiamo a un
notevole cambiamento: inizia
ad affermarsi l’uso delle stoviglie individuali, un costume
che porta sulla mensa una
notevole varietà di oggetti,
principalmente prodotti nelle
manifatture locali.
Nel Ducato Estense si registra
il prevalere di oggetti in ceramica graffita -soprattutto forme aperte come ciotole e piatti- quelli in ceramica smaltata, più diffusi nell’area meridionale della regione (la Romagna). Sulle tavole più ricche, come quella estense, potevano essere presenti anche
oggetti esotici, come boccali e
ciotole di provenienza mediorientale e spagnola. Numerosi
anche i vetri, come bottiglie e
bicchieri dalla semplice foggia troncoconica apoda; di
eccezionale bellezza e rarità è
invece la coppa su alto piede,
probabilmente utilizzata come
fruttiera e la coppa in vetro
verde smeraldo di fabbricazione muranese.
Sulla tavola le posate più utilizzate erano i coltelli e i cucchiai; se questi ultimi erano
per la maggior parte realizzati
in legno, per le tavole più
eleganti esistevano esemplari
in bronzo, in metalli preziosi
o in pietra dura. Molto più
rara la forchetta che però sulla
tavola dei Duchi di Ferrara
troverà posto come oggetto di
lusso.
La cucina ed il servizio a
tavola
Nella cucina era sempre presente il camino con il fuoco
acceso, su cui veniva appeso
tramite un gancio un calderone in metallo, oltre alle braci
su cui erano cotte le carni. I
catini-coperchio erano utilizzati come fornetti domestici
per cuocere il pane sul piano
del focolare. Per la preparazione e la conservazione dei
cibi ci si serviva di ciotole e
catini di diverse dimensioni,
mentre l’acqua veniva conservata in brocche di terracotta o
ricoperte da invetriatura.
Che cosa si mangiava alla
tavola estense?
“L’alta cucina del Rinascimento si distingue sia per la
straordinaria ricchezza degli
ingredienti che per i metodi di
preparazione. Nella cucina
rinascimentale rimane il gusto
degli arrosti di tutti i tipi, della
selvaggina di penna e di pelo
e di tutti i volatili in genere e,
al contrario dell’epoca medievale, comincia ad essere apprezzata la carne di manzo.
Inoltre, sono frequenti ovini,
caprini, suini, lepre, coniglio e
cervo. Tra i secondi piatti una
grande varietà di selvaggina:
fagiano, oca, gru, pernice e
germano reale cacciati a scopo
alimentare” … La cucina di
pesce costituiva una connotazione importante nell’arte
culinaria del Rinascimento,
comprendente per le corti sia
il pesce d’acqua dolce che
quello di mare. A questo pro-
posito è interessante ricordare
che per le nozze di Alfonso II
con Barbara d’Austria furono
ordinati da Venezia e dalla
terra di Schiavonia
(Dalmazia) pesci e crostacei
tra cui 10.000 ostriche”(3)
Come sostiene lo storico
dell’alimentazione, Massimo
Montanari , in un suo testo(2)
almeno fino al XVI secolo
l’uso delle spezie insieme a
quello dello zucchero continua ad essere un segno di distinzione sociale: addirittura,
Cristoforo Messisbugo prevede che se ne possa diminuire
la spesa proporzionalmente
allo status dell’anfitrione: ”E’
da sapere, che se fosse alcuno
gentil’ huomo mezzano, che
facesse il convito, potrebbe,
egli fare col terzo de’ zuccari
e spezierie, e ancora colla
metà”. Nella sua opera Messisbugo fa l’elenco di tutte le
strutture mobili, degli arredi,
delle suppellettili necessarie al
banchetto, delle derrate e delle
spezie necessarie, delle masserizie e del personale. La
cerimonia dell’imbandigione
non comprendeva solo le vivande, sia pure grandiosamente presentate, ma un insieme
di spettacoli, musiche e recitazioni di testi poetici (è il periodo dell’Ariosto e del Boiardo).
E’ interessante leggere di un
banchetto commissionato dal
cardinale Ippolito d’Este a
Cristoforo Messisbugo il 30
maggio 1529. Si susseguono
ad ondate più di 140 diversi
cibi, ad ogni intervallo fra i
servizi vengono indicati gli
intermezzi musicali, canori e
farseschi. Vengono offerte
oltre 30 specie ittiche. Si tratta
di un menu -programma, organizzato in 17 <<vivande >>
o servizi successivi di 8 piatti
che termina con formaggi e
frutta fresca, sciroppata e
glassata.
Note bibliografiche
1)“Banchetti: composizione
di vivande et apparecchio
generale” di Cristoforo da
Messibugo ( scritto nel 1539
e pubblicato postumo nel
1549)
2)Massimo Montanari(La
cucina italiana, Editori Laterza, 2005
3) http://
www.archeobologna.benicultu
rali.it/mostre/
fe_ercole_2014.htm
Isabella Palazzo
(Docente)
10
Reggio nei racconti di Ludovico Ariosto
Ariosto scrisse sette satire in
forma di lettere in versi endecasillabi indirizzati a parenti e
amici,ma non ne curò la stampa. La satira antica era in origine un componimento che
permetteva di toccare i più
vari argomenti senza un ordine prefissato. Grazie ad Orazio la satira divenne oggetto
di una libera e svagata conversazione. Ad Orazio Ariosto
è particolarmente vicino,
nell’ideale di una vita quieta e
modesta ma indipendente da
ogni servitù e nel distacco
ironico con cui guarda se stesso e gli altri. Ariosto utilizza
questo tipo di componimento
per trattare di temi centrali
della sua epoca, riguardanti la
condizione dell’intellettuale
cortigiano, i limiti e gli ostacoli che essa pone alla libertà
dell’individuo, l’aspirazione
ad una vita quieta ed appartata, lontana dalle ambizioni e
dalle invidie della realtà di
corte, dedita agli studi , ai voli
della fantasia e agli affetti
famigliari, il fastidio per le
incombenze pratiche che
dell’esercizio poetico costituiscono l’ostacolo, la follia degli uomini che si danno ad
inseguire desideri vani, la
fama ,il successo , la ricchezza. Nel complesso le satire
ariostesche sono un’opera che
ha un’importanza fondamentale per comprendere il successivo componimento
“L’Orlando furioso”; in esse
11
si trova quell’atteggiamento
riflessivo e conoscitivo nei
confronti della realtà che nel
poema, pur essendo essenziale,è dissimulato dietro il fluire
delle avventure cavalleresche
e dietro al fascino del meraviglioso e del fiabesco,Vi si
trova anche l’atteggiamento
ironico che è caratteristica
saliente del Furioso.
Nella Satira IV Ariosto racconta della sua amata Reggio.
Come ci è ben noto,egli prediligeva la vita sedentaria e
tranquilla a quella di corte, in
cui era limitato nello scrivere
ciò che prediligeva o nei temi
da trattare. Tuttavia per necessità economiche fu costretto a
confidare nei signori della
corte per il suo sostentamento
e quello della sua famiglia.
Pur trovandosi in questo contesto,riuscì ad elogiare la sua
città, in cui spesso faceva
ritorno per godere della pace
che offriva. In questa opera
minore,dedicata al cugino
Sigismondo Malaguzzi,racconta del primo anniversario dell'arrivo del poeta in
Garfagnana,zona impervia e
inaccessibile,in cui è costretto
a vivere lontano dalla donna
amata e dai luoghi famigliari.
Questo suo disagio si riscontra anche dallo stato d'animo
cupo e triste con cui Ariosto
descrive le bellezze della sua
città.
A testimonianza di
ciò,riportiamo dunque qui di
seguito parte della satira IV:
“Già mi fur dolci inviti a empir le carte
li luoghi ameni di che il nostro Reggio,
il natio nido mio, n’ha la sua
parte.
Il tuo Mauricïan sempre vagheggio,
la bella stanza, il Rodano vicino,
da le Naiade amato ombroso
seggio,
il lucido vivaio onde il giardino
si cinge intorno, il fresco rio
che corre,
rigando l’erbe, ove poi fa il
molino;
non mi si può de la memoria
tòrre
le vigne e i solchi del fecondo
Iaco,
la valle e il colle e la ben posta tórre.
Cercando or questo et or quel
loco opaco,
quivi in più d’una lingua e in
più d’un stile
rivi traea sin dal gorgoneo
laco.
Erano allora gli anni miei fra
aprile
e maggio belli, ch’or l’ottobre
dietro
si lasciano, e non pur luglio e
sestile.”
In questo particolare Ariosto
racconta dei luoghi reggiani a
lui più cari,descrivendoli con
Ariosto descrive le vigne,le
malinconia e tristezza.
valli e i colli,caratteristiche
Ricorda quindi il Mauriziano,casa dei cugini, luogo ame- che volevano rispecchiare nei
minimi dettagli quel luono e appartato,lontano dalla
go,così come era allovita caotica di corte. Luogo di
ra,costellato da campi e rupace e tranquillità attraversato
da due fiumi,l’ Ariolo e il scelli,nel quale egli ritrovava
Rodano. Questo luogo rappre- la pace e l’ambiente famigliare. Anche nella descrizione
sentava il suo rifugio,in cui si
ritirava spesso e dove scrisse della sua città natale,l’autore
le sue opere più importanti.
riesce,a distanza di anni,a
Ricordato come la sua catrasmettere i sentimenti e
sa,ora è stato adibito a un mu- grandi emozioni.Ariosto, noseo,simbolo della vita del poenostante la sua vita piena di
ta. In questa satira inoltre
incarichi e tensioni, riuscì a
farsi ricordare e amare non
solo come un ottimo letterato
e poeta,ma anche come uomo
amante della vita autentica.
Francesca Bigliardi
Mina Cirillo
Simona Di Gennaro
4^I
12
Confronto tra l'Orlando furioso e
il Don Chisciotte
Il Don Chisciotte di Miguel De
Cervantes è considerato una sorta
di prolungamento dell'Orlando
furioso di Ludovico Ariosto.
Cio' che distingue però la prima
opera dalla seconda è la diversa
concezione della follia.
Nel Don Chisciotte la follia è
sovrapposizione dell'ideale al
reale.La follia del personaggio di
Cervantes consiste nella volontà
di raggiungere un obiettivo puramente ideale che non ha riscontri
nella realtà : è un personaggio
che incarna la solitudine e dato
ciò sente la necessità di inventa-
13
re l'amore.Diretta conseguenza di
cio ' è la perdita dell'esatta concezione della realtà.Nel romanzo ,quindi, regnano la confusione
e l'incertezza e il Don Chisciotte
si presenta come l'intellettuale
innamorato dell'azione , il cavaliere dell'ideale e di quelle gesta
impossibili,che in quanto tali,
sono destinate a sfociare nella
follia.
La concezione ariostesca della
follia è ,invece, connessa all'ideale umanistico:questa viene scatenata dall'eccesso di passioni e
aspirazioni e coincide con la
perdita del senno,strumento regolatore dell'uomo e della società.
Orlando, da paladino virtuoso e
integerrimo, diventa ''furioso'' per
l'amore non corrisposto di Angelica.Nel poema ,dunque, l'amore
(reale per una donna) guida e
predomina ed è il movente e
l'oggetto di gran parte delle azioni.
Conferenza Prof.ssa Mazzanti
Il 27 novembre 2014, alcuni
studenti del Canossa, accompagnati dalla docente Annarita Perisi, hanno partecipato ad
una conferenza, presso Palazzo Magnani, dove la professoressa Marta Mazzanti dell'UniMoRe ha esposto gli esiti
delle ricerche compiute da
lei, e da un gruppo di botanici,
sulla vegetazione e il clima
negli ultimi 1500 anni, basandosi principalmente sullo
studio di pollini e semi.
Analizzando i vari resti di
frutta, da quelli della vasca
Ducale, del giardino delle
Duchesse, della Cisterna dello
Specchio, dei giardini di palazzo Te dei Gonzaga, la
prof.ssa Mazzanti è riuscita a
capire ciò che si coltivava e si
mangiava al tempo di Ludovico Ariosto, presso la casa
degli Estensi di Ferrara.
Attraverso fonti scritte (come
ad esempio il manuale di arte
culinaria, contenenti le ricette
del tempo trascritte dal cuoco
di corte Messisbugo), fonti
iconografiche (come gli affreschi di Palazzo Schifanoia) e
fonti materiali (come semi,
pollini e resti ben mantenuti
di cibo) la gente dell’epoca
mangiava abbondantemente.
In uno degli scritti di Messisbugo, si racconta che in un
banchetto vennero servite
2000 ostriche ad una cena di
c i r ca 8 0 co m me n s a l i .
Per l'appunto, era molto alta
la quantità di ostriche, capesante e vongole, di calibro
molto più grande all'epoca,
forse perché selezionate con
cura, poiché servite a corte,
come anche la frutta; infatti
durante gli scavi della Vasca
Ducale, sono stati ritrovati dei
semi di melograno più grandi
d e l
1 0 / 2 5 % .
All’epoca si aveva una diversa concezione del cibo, ad
esempio il melone, non era
usato tanto come frutto ma
preferito acerbo e veniva
mangiato come verdura; così
come le zucche, dalle forme
più strane che hanno ispirato
moltissime
ricette.
Anche la cacciagione era concepita diversamente ma, comunque, molto amata.
danti le bizzarre richieste di
Isabella d'Este, come le lepri
vive che voleva per il suo
giardino. Al tempo le spezie
più usate erano il pepe nero,
l'aneto, l'anice e a volte semi
di canapa.
Nonostante la specificità degli
argomenti, la dottoressa Mazzanti è stata in grado di coinvolgere i partecipanti, rendendo l'incontro piacevole.
Bonini Matteo,
Crasti Arianna,
Davoli Giovanni,
Douhab Amal,
Curti Caterina,
Spinella Esther
3^A
I rapaci non venivano cacciati
per la loro carne, decisamente
dura, ma per stupire con portate maestose, senza escludere
talvolta gli intermezzi riguar-
14
Angelica
La fama di Ludovico Ariosto è
legata al Rinascimento, epoca
che segue l'Umanesimo, ma
che allo stesso tempo conduce
verso l'Età Moderna. Umanesimo e Rinascimento appaiono
in netto contrasto con le idee
diffuse nel Medioevo che poneva la religione al centro
della vita dell'uomo destinato
a realizzarsi solo nel mondo
ultraterreno. Le due epoche
successive, al contrario, pongono l'uomo al centro dell'Universo in quanto persona capace di costruire il proprio
destino. L'Ariosto, attraverso
il suo poema "L'Orlando Furioso", ha la possibilità di riflettere su alcuni temi centrali
della sua epoca, come l'incapacità di cogliere totalmente
ogni aspetto della realtà, l'imprevedibilità della Fortuna che
si può fronteggiare solo attraverso la razionalità, l'agire
dell'uomo che ricerca senza
posa oggetti sfuggenti, che a
volte, deludendo, conducono
al fallimento. Fra ciò che sfugge vi è proprio l’amore, ovvero quello che Orlando protagonista del suo poema cavalleresco, prova per Angelica, definita dal Boiardo “principessa
delle Indie . Motore di tutto il
poema, in lei non si ritrova più
niente della donna angelo
(Stilnovo) o idealizzata (Laura
del Petrarca); nel Boiardo ha
una sua psicologia: è tenace,
15
appassionata, seducente e crudele, tanto da far dire ad Orlando: “Io che stimavo tutto il
mondo nulla, senza arme vinto
son da una fanciulla” (Orlando
Innamorato).
"L'Orlando Furioso" appare
come il proseguo dell'
"Orlando Innamorato" del
Boiardo; entrambi riprendono
i temi della tradizione carolingia, ma esaltano anche motivi
caratteristici del ciclo bretone,
ricco di elementi magici e
fiabeschi. Uno dei fili narrativi
che compongono l'intreccio
del "Furioso" è l'amore di Orlando per la bella principessa
del Catai , il suo vano ricercare la donna amata fino alla
scoperta del tradimento e delle
nozze di lei con Medoro, un
semplice fante. Il Catai, terra
di Angelica, è un regno della
Cina Settentrionale , così denominato in origine da Marco
Polo; il termine deriva dal
nome dei Khitan, un gruppo
etnico che dominò gran parte
della Manciuria, nella Cina
Nord-Orientale.
Angelica, figlia del re Galafrone, Gran Can del Catai, arriva
in Occidente per portare il
caos fra le truppe cristiane di
Carlo Magno che si stanno
scontrando con un esercito
saraceno. Arrivata al campo
cristiano, utilizza tutte le qualità-virtù (anche magiche) di
cui dispone per sedurre i cava-
lieri franchi. Anche Orlando e
Rinaldo, i paladini più valorosi
di Carlo Magno, cadono ai
suoi piedi ammaliati dalla bellezza della fanciulla straniera e
per la quale entrano in discordia, tanto che il re si vede costretto a trovare immediatamente una soluzione: concedere la sua mano a chi dei due si
sarebbe distinto maggiormente
sul campo di battaglia.
Rincorsa da molti cavalieri,
cristiani e saraceni, Angelica
diventa il simbolo del carattere
illusorio di ciò che tutti desiderano e della vanità della
ricerca( …) Irraggiungibile,
sempre in fuga da tutto e tutti,
capace addirittura di diventare
invisibile grazie al suo anello
magico, Angelica diventa la
causa della follia di Orlando.
IL cavaliere franco famoso nel
mondo cristiano per le sue
prodezze e la sua audacia in
battaglia, perdere il senno per
assumere quelle caratteristiche
della bestialità o disumanità
che sono alla base della morale cristiana ,nonché caratteri
distintivi dell’epoca e del
mondo cavalleresco. Eppure
Angelica, questo è l’aspetto
che colpisce maggiormente,
sceglie un umile fante e se ne
innamora, mettendo da parte le
differenze di casta e le regole
nobiliari di compiere scelte
secondo il proprio cuore. Angelica appare un personaggio
complesso e imprevedibile che
impara a riconoscere il vero
amore e ad esso "soccombe",
come qualsiasi altra donna
innamorata, abbandonando la
sua fama di ammaliatrice.
<<Il Furioso è un libro unico
nel suo genere e può essere
letto senza far riferimento a
nessun altro libro precedente o
seguente; è un universo a sé in
cui si può viaggiare in lungo e
in largo, entrare, uscire, perdercisi>> (Italo Calvino
“Orlando Furioso di Ludovico
Ariosto raccontato da Italo
Calvino”)
Giacomini Elena
4^D
Idealizzazione di Angelica di Alic Valentina 4^D
16
Bradamante, donna-cavaliere
Il Medioevo è sempre stato
considerato come un periodo
cupo e di barbarie, in cui le
superstizioni e la paura scandivano ogni singolo avvenimento quotidiano. L’uomo non era
fautore del proprio destino,
non aveva libera autonomia
ma era assoggettato alle gerarchie sociali e ai rigidi ed incorruttibili precetti della Chiesa.
Per secoli, quindi, questo periodo è apparso agli occhi dei
critici come una fase di stallo
dal punto di vista artistico e
culturale, in rapporto alla fiorente epoca classica. In realtà
il Medioevo, soprattutto il
Basso, dal 1200 alla fine del
1300, presenta un’ampia produzione letteraria, concernente
poemi epico- cavallereschi e
cantari del ciclo bretone e carolingio, che mostrano i valori
di una società passata, basata
su princìpi di onore e fedeltà
nei confronti di un signore e di
difesa della fede cristiana. Riprendono la struttura dei cantari medievali “L’Orlando Innamorato” del Boiardo e
“L’Orlando Furioso” dell’
Ariosto( che differisce dal
primo soprattutto per una più
marcata visione antropocentrica dell’uomo, tipica del periodo rinascimentale): il tema
portante non è più la religione
e la figura del re, bensì la ricerca dell’oggetto(materiale o
ideale) del proprio desiderio.
L’Orlando Furioso rappresenta
un poema unico nel suo gene-
17
re: alle vicende del protagonista, Orlando, che, ad un certo
punto della storia, perde il
senno per amore, si intrecciano
quelle di altri personaggi, non
solo maschili, come vuole la
tradizione cavalleresca, ma
soprattutto femminili, che danno una svolta al racconto, conferendogli una connotazione
innovativa e moderna. In questo quadro possiamo collocare
due figure femminili, già descritte da Boiardo ne
“L’Orlando Innamorato”, che
Ariosto cerca di esaltare e di
elevare ad una più alta dignità
rispetto ai paladini: Bradamante e Angelica.
Esse svolgono un ruolo quasi
antitetico nella narrazione ma,
tramite avventure e peripezie
affrontate con grande valore,
determinano entrambe lo sviluppo di eventi significativi ed
essenziali per lo svolgimento
dell’ intreccio.
Bradamante è un personaggio
femminile immaginario, estraneo all’epopea francese e al
pari delle altre donne guerriere
proprie, invece, della nostra
letteratura cavalleresca. Bella e
valorosa, è paladina di Francia,
figlia del duca Amone Chiaramontesi e di Beatrice, sorella
di Rinaldo e cugina di Orlando. È la prima figura di donnacavaliere a cui viene attribuita
grande riconoscenza, simbolo
di una società in via di cambiamento, che non vedeva più
nella donna solo un oggetto di
sottomissione ma le consentiva
di porre le prime basi per la
sua futura emancipazione. Le
vicende di Bradamante sono
legate tutte alla ricerca di Ruggiero, un prode guerriero pagano della famiglia di Mongrana,
di cui la giovane si era innamorata durante un combattimento. La ricerca si rivelerà
complicata, marcata da una
serie di sfortunate coincidenze
che allontanano ogni volta i
due innamorati ma, soprattutto, dalla volontà dei Chiaramontesi di dare in sposa la
ragazza all’imperatore di Bisanzio, Leone. All’inizio del
poema, Ruggiero si trova nel
Palazzo di Atlante, prigioniero
del mago, che desidera proteggerlo dall’amore e, soprattutto,
dalla morte. Bradamante, grazie all’intervento della maga
Melissa, riesce a rompere il
sortilegio del castello e a liberare il suo amato che, però, in
groppa all’ippogrifo, giunge
sull’isola della maga Alcina;
qui, sedotto dalle sue arti, dimentica la bella Bradamante.
Quest’ultima non si arrende e
comincia la sua ricerca
(inchiesta), combattendo, nel
frattempo, contro gli infedeli
nemici del suo signore, Carlo
Magno. I suoi sforzi non saranno vani perché, nonostante
un fitto susseguirsi di vicende
che mettono costantemente
alla prova la purezza del suo
amore, riesce, infine, ad unirsi
in matrimonio con Ruggiero,
convertito al cristianesimo, a
dando origine alla potente
famiglia d’Este. Attilio Momigliano, noto critico letterario,
scrive nel suo saggio su
“L’Orlando Furioso” del 1928
di Bradamante che appare
come la vera e propria martire
dell’amore nei confronti di
Ruggiero, in parallelismo con
Orlando nella sua inesausta
ricerca di Angelica. La sua
figura di donna innamorata è
illuminata di una luce più
splendida, grazie all’alto valore che ella dimostra nello
scontro con i cavalieri più
temibili, come Sacripante e
Rodomonte, nella sua nobiltà
cavalleresca, nel suo virile
disprezzo della morte. La sua
tristezza, vista come una vera
e propria pena dell’anima, non
si consuma più nella solitudine di una camera, ma in mezzo alla vita pericolosa del
mondo eroico. Nel combattere
per ottenere l’amore, unisce la
forza, la nobiltà, la temperanza di atti e parole e la dignità,
ad una più elevata manifestazione di un cuore affettuoso,
proprio di tutte le altre donne
infelici”. Ariosto cerca di mettere l’accento su questo dettaglio del suo carattere, vestendola di un’armatura bianca,
rappresentazione diretta del
candore e della purezza del
suo animo, che esalta mag-
giormente la sua innamorata
bellezza. La sua magnanimità
rischia di venir meno soltanto
al termine del poema, quando
ella cade preda della gelosia
per il legame sentimentale tra
Ruggiero e Marfisa; le conseguenze di questo evento, però,
non giungono mai ad un livello critico come per Orlando
che arriva a perdere il senno,
ma mantiene sempre alta la
sua dignità di donna-cavaliere.
Ferroni Manuela
4^D
18
ARIOSTO nella critica letteraria
Nel ‘500 i critici considerano
Ludovico Ariosto un poeta e
scrittore eccentrico, quasi
quanto la sua Opera, poiché
distante dal modello dei classici. L’Orlando Furioso si presenta come un poema segnato
da una sostanziale confusione
narrativa. Un’ opera irregolare
ed inverosimile, fatta di magia, fantasia, digressioni ed
interruzioni e che non rispetta
in alcun modo il modello Aristotelico di spazio, tempo e
luogo.
Il dibattito sull’ Orlando Furioso si protrae fino alla seconda metà dell’ Ottocento, quando ad Ariosto viene finalmente
riconosciuto un ruolo di assoluto rilievo ma, al tempo stesso, alla sua fervida immaginazione poetica viene imputata
la sostanziale assenza di valori
morali e tratti di modernità.
In Spagna diventa un esempio.
Il Don Chichotte di Cervantes
era infatti una sorta di prolungamento del Furioso. Anche
Walter Scott, autore di Ivanohe, riconosce in Ariosto un
modello di riferimento, per la
digressione narrativa, la molteplicità dei personaggi e il
vario dipanarsi dei fili del racconto.
Nel ‘900 Luigi Pirandello trova nel poema un preludio all’
umorismo moderno, ed inoltre
riconosce al poeta il merito di
importanti anticipazioni su cui
si fonda il sentimento del contrario: l’ironia. Attraverso di
19
essa Ludovico Ariosto fa intravedere una realtà celata,
invisibile
agli
occhi.
L’Orlando Furioso è, per Pirandello, il poema ironico per
eccellenza. Ariosto descrive
un mondo epico in cui non
crede più, e lo descrive lasciandoci ogni tanto percepire
la sua estraneità ai valori del
mondo cavalleresco. Il riso
umoristico non ha la pienezza
ingenua della comicità, ma è
venato da un sentimento contrastante che lo limita e lo contiene. Alla base dello stato
d’animo che l’umorismo ci
procura, vi è dunque una vera
e propria contraddizione emotiva; scherno e compassione si
legano insieme, il riso si smorza e si vela di tristezza.
De Sanctis
Uno dei primi commentatori
moderni dell’Orlando furioso
è stato il famoso critico ottocentesco Francesco De Sanctis, che nella sua prospettiva
romantica ci presenta un Ariosto asociale, esteta e affetto da
inettitudine cronica. Per De
Sanctis, Ariosto vive in un
mondo che ha perso i suoi
valori. Il mondo dove vuole
vivere Ariosto, non è Ferrara,
ma l'arte stessa. E l'arte è anche il fine ultimo del poeta:
pura forma senza un contenuto
reale o serio. Il motivo interiore del poema è la cavalleria, ed
il tono è l’ironia. La serietà del
romanzo sta tutta nell’impegno artistico, nell’amore per
l’arte. Ne vien fuori un ritratto
quale un critico, anzi il miglior
critico romantico poteva realizzare, unendo al malcelato
disprezzo per la società ariostesca una vera e profonda
ammirazione per l’autore.
Ariosto è l’uomo dell’idillio, il
cortegiano che non si ribella,
ma paziente e stizzoso, che
non vuol fastidi. Ha scatti oraziani d’umore, pronto a scambiare la sua posizione servile
con la libertà, ma non ne è
capace, in pratica. Anzi finisce
col ridere, scotendo la testa,
anche di se stesso. Ecco l’uomo. De Sanctis non ne fa un
campione di umanità certo, ma
riconosce che è il tipo di borghese letterato italiano “men
reo”.
L’opera: l’idea centrale della
sua critica al Furioso De Sanctis la concentra in questa condanna: il poema non è materiato di contenuto serio; non vibra di passioni, di nessuna
passione”. Certo per una tempra civile quale quella del De
Sanctis era questa una lacuna
difficilmente colmabile. Per
fare inghiottire il boccone
amaro al critico irpino ci voleva proprio tutta la raffinatezza
di un’arte squisita e perfetta.
De Sanctis dà colpa all’Ariosto di aver dissolto il “mondo
del reale”. Prima di lui sia
Petrarca che Boccaccio, sia il
ghigno di Lorenzo(Il Magnifi-
il riso beffardo di Pulci gli
hanno spianato la strada.
Quando egli arriva non v’è più
nulla di serio in cui credere
perché lui respira l’aria di
quella società.
Croce
La grandezza di Ariosto
nell'Orlando furioso sta nella
profonda ironia e nel divertito
distacco con cui riesce a operare l'armonica conciliazione
delle contraddizioni umane in
una superiore e in sè risolta
contemplazione della natura
umana. Il poema, giá amato
dai contemporanei, ebbe una
grande fortuna critica per la
capacità di esprimere lo spirito di un’ epoca. Per Benedetto
Croce Ariosto seppe armonizzare serenamente i contrasti
del mondo. Egli puntualizza
tre problemi: l’armonia, l’ironia, l’indifferenza. L’armonia
è una felice definizione del
sentimento che animò il poeta
nella sua opera. Armonia che,
cantando nel suo petto, s’espanse e toccò gli oggetti della
creazione artistica e li fece
poesia segnando la perdita
della loro autonomia, cioè
svalutandoli nella loro individualità esasperata; li svalutò
grazie agli ammiccanti proemi, alle digressioni, alle osservazioni intercalate, ai paragoni che disciolgono la commozione dell’evento. Questo, con
il tono disinvolto e lieve che
fu chiamato “aria confidenziale”. E qui Croce definisce
meglio l’ironia ariostesca. De
Sanctis l’aveva ridotta a sorriso amabile dell’uomo adulto
di fronte ad un mondo che non
è più credibile, Croce la innalza a “occhio di Dio che osserva ed ama la sua creazione in
ogni minima fibra, ugualmente, e che di essa coglie non i
volti individuali ma l’armonia
e il ritmo. Questa ironia non
può certo intendersi e anzi si
definisce appieno solo quando
ad essa si affianchi l’immagine dell’armonia. Il terzo punto
da chiarire è relativo all’accusa rivolta all’armonia di essere
in sostanza indifferenza e
freddezza. Croce ragiona così:
il risultato della visione
“ironica” del mondo, dell’atmosfera di armonia che si
respira nel poema è la svalutazione d’ogni ordine di sentimenti, è “fiaccare i sentimenti” e convertire il mondo
(tumultuoso e individuale)
dello spirito in quello equanime ed oggettivo della natura.”
Rigotti Cecilia
4^D
20
Pittura nella corte ferrarese
Lo stile di Tura si legge in
tutta la sua originalità e complessità nel lavoro delle ante
dell'organo del Duomo di Ferrara, dipinte nel 1469. Quando
aperte mostrano un'Annunciazione, quando chiuse San
Giorgio e la principessa.
Nell'Annunciazione la solenne
architettura di sfondo, che cita
l'antico, ricorda Andrea Mantegna, come anche i panneggi
"lapidei" o la presenza, nel
paesaggio, di speroni rocciosi
stratificati. Al tempo stesso si
riscontrano particolari di grande naturalismo e richiami del
mondo cortese, come nei bassorilievi sotto gli archi che
raffigurano i Pianeti, il tutto
fuso e rielaborato con un estro
straordinario. Il lato di San
Giorgio invece è caratterizzato
da un dinamismo sfrenato,
reso ancora più espressivo dai
contorni netti e taglienti, le
lumeggiature grafiche e l'estremo espressionismo che
stravolge i volti di uomini e
animali.
21
Francesco del Cossa
Francesco del Cossa, di poco
più giovane del Tura, partì da
basi comuni al collega, ma
giunse ad esiti diversi per via
del maggior risalto dato alla
lezione di Piero della Francesca, con figure più composte e
solenni. Non è sicura la sua
partecipazione allo studiolo di
Belfiore, ma partecipò all'altro
grande saggio di pittura ferrarese, il Salone dei Mesi di
Palazzo Schifanoia (14671470). A questo complesso
ciclo di affreschi lavorarono
più pittori, probabilmente diretti da Cosmè Tura, sulla
base di un programma iconografico di Pellegrino Prisciano
ricco di riferimenti astronomici, filosofici e letterari. Originariamente la decorazione era
composta da dodici settori,
uno per mese, dei quali ne
restano oggi sette. Ciascun
settore è diviso a sua volta in
tre fasce: una più alta dove è
dipinto il trionfo del dio pro-
tettore del mese circondato dai
"figli" impegnati in attività
tipiche, una centrale a fondo
blu con il segno zodiacale e
tre "decani", e una inferiore
con scene che ruotano attorno
alla figura di Borso d'Este.
Celebrando il Signore e i suoi
ideali si celebrava l'intero Stato nelle sue varie funzioni, che
andavano dalla rappresentanza
al governo.
A Francesco del Cossa spettò
ad esempio il mese di Marzo,
caratterizzato da forme solide
e sintetiche, colore luminoso e
un'attenta cura nella costruzione prospettica, che arriva a
ordinare anche le rocce dello
sfondo, dalle forme fantasiosamente visionarie. Alle forme quasi cristallizzate di Cosmè Tura, Francesco contrappose una più naturale rappresentazione umana.
Idealizazione di Orlando di Ana Poliseiue 4^D
22
23
Testo: Grisendi Davide 4^I
Illustrazione: Guanti Elena , Prato Giuliana 4^I
Testo: Grisendi Davide 4^I
Illustrazione: Guanti Elena , Prato Giuliana 4^I
24
La Chanson de geste, l'Orlando Innamorato e
l'Orlando Furioso a confronto
Chanson de Roland (o Canzone di Rolando ), scritta intorno
alla seconda metà dell'XI secolo, è una "Chanson de geste" appartenente al ciclo carolingio, considerata tra le opere
più significative della letteratura medievale francese.Essa
racconta la battaglia di Roncisvalle, quando la retroguardia
di Carlo Magno, comandata
dal paladino Rolando, di ritorno da una spedizione in Spagna fu attaccata e distrutta dai
saraceni. I valori che caratterizzano la Chanson de Roland
sono: la fedeltà al proprio signore, in questo caso Carlo
Magno e la fede cristiana in
opposizione alla fede islamica.
Alla celebrazione delle virtù
militari nella dimensione del
martirio cristiano – il cavaliere
che muore in battaglia è equiparato al santo che rinuncia
alla propria vita per la fede –
corrisponde la quasi totale
assenza del motivo amoroso.
Considerando invece l'Orlando
innamorato di Boiardo e il
Furioso di Ariosto il tema dell'
Amore è ciò che più li accumuna, infatti è proprio questo
25
il tema posto alla base dei due
poemi e principalmente l’incapacità umana nel sovrastarlo.
Nella prima opera tale inettitudine nel contrastarlo evince
con
l’affermazione:
“qualunche… è d’amor vinto,
al tutto subiugato.” inoltre
Boiardo aveva finito per privilegiare le "armi" agli
"amori";mentre nella seconda
opera il concetto è ripreso nel
momento in cui l’amore diventa la causa della pazzia di
Orlando << ...e cominciò la
gran follia,sì orrenda,che de la
più non sarà mai ch'intenda.>>
L'ispirazione dell'opera di
Boiardo è evidentemente lo
spirito cavalleresco, cioè l'ammirazione per le grandi gesta e
l'esaltazione di quei valori
coltivati dall'aristocrazia contemporanea: il coraggio, la
cortesia, la generosità d'animo,
l'amore e lo spirito di avventura in cui si nota anche la quattrocentesca affermazione
dell'uomo e delle sue capacità.
Ariosto trasforma invece il
mondo cavalleresco/cortese di
Boiardo in un più ambizioso
progetto di descrizione della
complessità umana. L'immagine del cavaliere diventa più
astratta, più lontana dal reale.Si sostituisce al cavaliere
innamorato del Boiardo,il cavaliere che per amore diventa
"furioso" ridotto alla condizione animalesca, a spogliarsi
delle sue prerogative di cavaliere <<senza il pane discerner
dalle ghiande,...le mani e il
dente lasciò andar di botto in
quel che trovò prima, crudo o
cotto>>. Nel proemio delle
due opere prese in considerazione è evidente la presenza di
caratteristiche comuni. In primis, essendo il secondo prosecuzione del primo, il periodo
storico resta invariato, proseguendo emerge la comune
presentazione di Orlando come personaggio principale
dell’opera e soprattutto l’amore che lo rende schiavo e forsennato.Nella terza ottava
emerge il tema encomiastico
(particolarmente prediletto
durante quel periodo storico)
infatti l’Orlando Innamorato è
scritto in onore della dinastia
Estense e l’Orlando furioso è
dedicato sempre all’ “Erculea
prole” ma in particolare al
cardinale Ippolito. Analizzate
le caratteristiche comuni inerenti al contenuto è opportuno
studiare quelle relative alla
forma. Il primo tratto comune
risiede nella rima; il suo schema è infatti : ABABABCC
(rime baciate con l'ultima al-
ternata) in entrambe le opere.
Inoltre ogni stanza è divisa in
8 versi. Lo stile è però diverso, così come l’Incipit che
nell’Orlando di Ariosto descrive molteplici eventi e personaggi rispetto all’Orlando di
Boiardo che cita solo il protagonista. Perciò nonostante la
molteplici analogie tra i poemi
essi continuano a mantenere
una propria integrità, cosicchè
le due opere continuino ad
essere uniche nel loro genere e
distinguibili.
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