Le risorse umane nelle amministrazioni pubbliche

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Le risorse umane nelle amministrazioni pubbliche
INNOVAZIONE AMMINISTRATIVA
E CRESCITA DEL PAESE
Rapporto con raccomandazioni
LE RISORSE UMANE NELLE AMMINISTRAZIONI PUBBLICHE
Mario Rusciano e Mario Cerbone
Testo in corso di revisione
non diffondere – non citare
Formez, Ricerca & Sviluppo - Via Campi Flegrei 34, Arco Felice di Pozzuoli, NA
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LE RISORSE UMANE NELLE AMMINISTRAZIONI PUBBLICHE
Mario Rusciano, Mario Cerbone
Sommario: Parte prima - Influssi politico-istituzionali ed economici sullo sviluppo delle risorse
umane delle amministrazioni pubbliche, di Mario Rusciano. 1) Contesto economico-sociale e
rapporti di lavoro; 2) Il nodo politico delle riforme amministrative; 3) L’assetto istituzionale
del potere pubblico e i riflessi sui rapporti di lavoro; 4) Interesse pubblico ed esigenze
organizzative; 5) Ambiguità ed equivoci della partecipazione sindacale. Parte seconda Professionalità e capacità dei dipendenti pubblici per la competitività del paese, di Mario
Cerbone. 6) Gli istituti fondamentali del rapporto di lavoro; 7) La dirigenza; 8) Problemi in
tema di dirigenze locali;
Proposte e raccomandazioni
PREMESSA
Rileggere, a distanza di quasi trent’anni, le pagine del “Rapporto sui principali
problemi dell’amministrazione dello Stato”1, redatte nel 1979 da Massimo Severo
Giannini - uno dei maggiori giuristi del novecento e, all’epoca, Ministro della Funzione
pubblica - si rivela uno strumento molto utile di analisi della realtà attuale, in una
duplice prospettiva.
Anzitutto, il Rapporto Giannini è un modello esemplare, dal punto di vista della
metodologia adoperata: analisi stringata delle cause delle disfunzioni nelle pubbliche
amministrazioni, accompagnata dall’immediata individuazione, altrettanto sintetica,
delle possibili soluzioni pratiche dei relativi problemi.
In secondo luogo: osservare, oggi, le indicazioni del Rapporto, alla luce
dell’esperienza di quasi tre decenni, consente di cogliere, con immediatezza, un dato di
fondo molto importante, per chi si accosta ai problemi delle risorse umane nelle
pubbliche amministrazioni: l’impressionante continuità, dall’epoca di Giannini fino ai
nostri giorni, di uno scarto insanabile - che, nella materia, può dunque dirsi ormai
radicato - tra il quadro formale delle regole e la materiale applicazione delle stesse.
Talmente lontana, quest’ultima, dalla logica ispiratrice e dai rilievi del primo, da far
ritenere ancora di notevole attualità, come meglio si vedrà in seguito, gran parte delle
raccomandazioni contenute nel Rapporto stesso: e sono passati quasi trent’anni!
Le pagine di Giannini contribuiscono, così, a mettere a nudo almeno due dei
principali vecchi vizi di impostazione delle politiche sul pubblico impiego: quelle
passate e quelle in cantiere.
Il primo vizio sta nel fatto che la continua riforma degli apparati amministrativi, per
consentirne l’adeguamento tempestivo alle esigenze di competitività del paese, al di là
delle proclamazioni di principio, non è una vera priorità nei programmi governativi, di
centro-destra o di centro-sinistra.
Il che, per un verso, è dovuto alla atavica mancanza di cultura dell’organizzazione
nel nostro paese (ad esempio: in quale altro paese civile si penserebbe di affidare nuovi
compiti ad un apparato, senza porsi prima il problema di adeguarne l’organizzazione,
dotandola delle necessarie risorse umane e materiali?); per un altro verso, è dovuto alla
debolezza della classe politica.
1
289 ss.
Rapporto sui principali problemi dell’amministrazione dello Stato, in Foro italiano, 1979, V, p.
Quest’ultima è scarsamente capace di indicare obiettivi di alto profilo e di lunga
durata, la cui realizzazione spetterebbe alla dirigenza burocratica, e preferisce allora
ripiegare sulla gestione minuta e corrente dei bisogni collettivi (ancor meglio se in
situazione di emergenza).
La dirigenza politica finisce così con l’invadere la sfera dell’organizzazione: tanto
da far ritenere senz’altro coerente l’assenza di ogni vero controllo sull’operato della
dirigenza amministrativa.
I controlli interni (controllo di gestione; nucleo di valutazione ecc.) non funzionano,
in quanto la classe politica non li ama: sia perché teme l’ostruzionismo strisciante e le
sottili rappresaglie degli impiegati pubblici, in caso di valutazione negativa; sia perché,
attraverso la valutazione della dirigenza amministrativa, per logica di cose si finisce con
il valutare altresì l’operato della dirigenza politica: la quale preferisce di gran lunga la
valutazione elettorale, temporalmente più distante e, soprattutto, basata su criteri assai
più vaghi e generici.
Il secondo vizio è costituito dalla paradossale spinta verso l’incremento della
produzione di regole. Come se l’esigenza di ogni riforma potesse essere soddisfatta
realmente mediante l’emanazione di norme su norme, magari sparse - come sovente
avviene - nelle leggi più disparate (si pensi alle varie leggi finanziarie o ad altre
disposizioni normative, inserite in provvedimenti cc. dd. “omnibus”).
Ciò, tra l’altro, in palese contrasto proprio con la fondamentale, originaria, finalità
della c.d. “privatizzazione” del pubblico impiego: protesa, invece, alla unificazione ed
alla omogeneizzazione (ovviamente, per quanto possibile) della disciplina giuridica del
lavoro pubblico e del lavoro privato (unificazione e omogeneizzazione a dir poco
travisate, strada facendo).
In effetti, i due vizi convivono, alimentandosi a vicenda: non essendo la riforma una
vera priorità, si interviene con provvedimenti legislativi, che mirano a fronteggiare
questa o quella situazione, quando e come si presenta, in maniera disorganica e senza un
obiettivo complessivo e chiaro.
Il risultato è una produzione normativa alluvionale di regole legali, alle quali vanno
poi aggiunte le regole contrattuali, che alimentano la confusione. Esse, infatti, per loro
natura, mirano a risolvere problemi settoriali e contingenti, di questa o quella categoria,
e sono frutto di compromessi, che vengono inventati sotto la pressione delle
organizzazioni sindacali.
Si spiega, a questo punto, anche la cattiva qualità delle regole: con un inevitabile
ampliamento, assai rischioso, delle aree di criticità, o meglio di ambiguità, della
medesima normativa ed un consequenziale, e prevedibile, incremento del contenzioso.
Sulla base di queste riflessioni, la presente ricerca si articola in due parti.
Nella prima, si pongono in luce i maggiori fattori - di ordine politico-istituzionale,
economico-sociale e sindacale - che influenzano e, il più delle volte, ostacolano, lo
sviluppo delle risorse umane nelle amministrazioni pubbliche.
Nella seconda parte, l’attenzione si sofferma, più analiticamente, sui principali
istituti dei rapporti di lavoro dei dipendenti pubblici (e sul ruolo cruciale della
dirigenza) e l’analisi si sviluppa seguendo un’articolazione per aree tematiche: per
ognuna delle quali - combinando sempre elaborazione teorica ed esperienza applicativa
- si indagano a fondo ragioni ed effetti della ricordata divaricazione tra “fatti” e
“regole”.
Questa analisi dovrebbe consentire, alla fine, di porre all’attenzione proposte,
raccomandazioni e indicazioni concrete su punti specifici della normativa, nell’intento
2
di contribuire ad un vero ed equilibrato sviluppo delle risorse umane nelle
amministrazioni pubbliche: sia attraverso la correzione di taluni proverbiali
comportamenti, all’insegna dell’inefficienza, dei dipendenti delle medesime
amministrazioni; sia attraverso la diffusione di prassi effettivamente orientate ai valori
costituzionali (art. 97 Cost.) del “buon andamento” e dell’“imparzialità” di
un’amministrazione moderna, capace di favorire, oltre all’ordinata convivenza civile, la
crescita economica e la competitività del paese, nell’era della globalizzazione.
3
MARIO RUSCIANO
INFLUSSI POLITICO-ISTITUZIONALI ED ECONOMICI SULLO SVILUPPO DELLE RISORSE
UMANE NELLE AMMINISTRAZIONI PUBBLICHE
CAPITOLO PRIMO
CONTESTO ECONOMICO-SOCIALE E RAPPORTI DI LAVORO
1. I costi dell’inefficienza dell’amministrazione
Il costo economico delle pubbliche amministrazioni italiane è, per intuibili ragioni,
da sempre al centro del dibattito sulla riforma amministrativa. Costituisce, ormai, un
luogo comune l‘osservazione, secondo cui il costo dell’amministrazione pubblica è
inversamente proporzionale alla sua efficienza e, in genere, alla qualità dei servizi. Ciò
che fa dell’Italia un paese arretrato, rispetto ai paesi con i quali si trova a competere.
Eloquente, a tal proposito, è l’art. 1, comma 1, del d. lgt. 30 marzo 2001 n. 165,
comunemente noto come “testo unico sul pubblico impiego”: tra le finalità della
normativa, si afferma, non a caso lo si fa alla lettera a), quella di “accrescere l’efficienza
delle amministrazioni in relazione a quella dei corrispondenti uffici e servizi dei Paesi
dell’Unione europea, anche mediante il coordinato sviluppo di sistemi informativi
pubblici”.
Certo, quello dei costi di funzionamento è sempre un problema, per qualsiasi tipo
di organizzazione. Ma per le amministrazioni pubbliche, il problema è accentuato da un
fattore - quello dei cc.dd. costi occulti - normalmente inesistente, invece, per le
organizzazioni private. La spendita di attività amministrativa, infatti, ha un suo costo
economico, che è determinato dal fatto che la funzione amministrativa si svolge in
forma procedimentalizzata, con la partecipazione di più organi e uffici2. Un costo,
questo, da considerare ineliminabile: anzitutto, perché intrinsecamente legato alla
vocazione stessa delle amministrazioni pubbliche - cioè quella di comporre i vari
interessi, confluenti in un processo decisionale pubblico3- e, in secondo luogo, perché,
in uno Stato democratico, la “partecipazione” dei cittadini ai procedimenti (nelle forme
più diverse) costituisce un dato essenziale del sistema.
Ma, proprio per questo, se un costo ineliminabile, a garanzia dei cittadini, non
viene compensato dall’efficienza delle funzioni e dei servizi, esso diventa intollerabile
per la collettività. Ed infatti, rispetto al fattore fisiologico, legato all’attività
amministrativa, non sono poche le situazioni patologiche, in cui l’eccesso di
procedimentalizzazione ha contribuito ad innalzare il tetto di questi costi, divenuti ormai
“palesi” e, tuttavia, difficilmente eliminabili.
Si tratta sia di situazioni generate dal quadro delle norme, frutto di una
determinata, e non sempre accorta, “confezione legislativa”4 - norme, il più delle volte,
sovrabbondanti e farraginose, rispetto al condivisibile obiettivo di una seria
partecipazione - sia di situazioni generate da prassi e comportamenti concreti della
burocrazia, da sempre restia a privilegiare, anziché logiche formalistiche, criteri
elementari di buona organizzazione.
2
Rapporto, punto 2.4.
Rapporto, punto 2.4.
4
E’ l’espressione usata nel Rapporto, punto 2.4.
3
4
Su questo secondo piano, non c’è dubbio che, tra le finalità della c. d.
“privatizzazione” dei rapporti di impiego pubblico, non è ultima quella di ridurre e
razionalizzare la legislazione, attraverso l’attribuzione di un ruolo decisionale alla
dirigenza: trasformata, più che altro in linea di principio, da burocrazia in management.
In questa prospettiva, quindi, la tecnica della c.d. “delegificazione” si è dimostrata
utile, proprio per venire incontro a quella duplice esigenza, già segnalata nel Rapporto
Giannini: di “richiedere sempre più prescrizioni di azione, e di richiedere insieme
strumenti duttili da adattare al mutare degli indirizzi politici e amministrativi”5.
Tuttavia, se questa è la tecnica utilizzata, il quadro normativo vigente si mostra
carente sul piano della sanzione: in assenza di una adeguata valutazione dei risultati
dell’azione amministrativa - vero punto dolente della normativa - difficilmente si potrà
mettere mano ad una organica programmazione di interventi, nel segno della riduzione
dei costi amministrativi.
2. Spesa pubblica e blocco delle assunzioni e del turn over
Se si guarda il livello della spesa per i dipendenti pubblici, e lo si mette a confronto
con il livello dei risultati, lo squilibrio è evidente e si traduce nel noto paradosso
italiano, per cui l’amministrazione, in media, non raggiunge i risultati e costa molto.
Giustissime, dunque, le finalità prospettate, sempre nell’art. 1, comma 1, del d. 165
del 2001: alla lettera b), “razionalizzare il costo del lavoro pubblico, contenendo la
spesa complessiva per il personale, diretta e indiretta, entro i vincoli di finanza
pubblica”; e, alla lettera c), “realizzare la migliore utilizzazione delle risorse umane
nelle pubbliche amministrazioni……”.
Sennonché, essendo assai difficile raggiungere obiettivi tanto ambiziosi, ed ancora
più difficile farlo in tempi ragionevoli, la misura più consueta del legislatore italiano, di
fronte al paradosso appena ricordato - la cui origine, per la verità, si perde nella notte
dei tempi - è quella, adottata ciclicamente, e di solito con una legge finanziaria, del
blocco delle assunzioni e del turn over.
Si tratta di una scelta politico-gestionale, presa a livello nazionale, tanto facile
quanto drastica e, alla fine, controproducente, almeno per due ragioni.
La prima: con il blocco delle assunzioni e del turn over generalizzato e, per forza
di cose, anche indiscriminato, non si tiene conto di una verità abbastanza semplice, da
avere sempre presente, in ogni discorso sui costi e benefici della burocrazia: che, cioè,
le pubbliche amministrazioni non sono tutte eguali. Anzi, sotto questo profilo, l’Italia si
presenta a pelle di leopardo: la grande diversità riguarda non solo i comparti, ma anche
le zone geografiche (palese la differenza tra nord e sud) e persino le categorie
professionali.
Un blocco indiscriminato finisce, dunque, inevitabilmente, con il punire anche
amministrazioni “virtuose”6, bloccandone la macchina organizzativa ben funzionante,
senza per nulla migliorare l’andamento delle amministrazioni “viziose”. Ciò che si
traduce in altrettanti costi, economici ed umani (in termini di professionalità dei buoni
funzionari, che ne escono frustrati o, magari, sono attratti dalle aziende private o dal
lavoro autonomo).
5
Così Rapporto, punto 2.4.
Cfr. la Ricerca svolta da Intesa Formazione, La struttura occupazionale, la retribuzione e il
costo del lavoro nei comparti della pubblica amministrazione e l’impatto delle normative vigenti sulla
loro evoluzione, Presidenza del Consiglio dei Ministri, Dipartimento della Funzione Pubblica (ottobre
2004).
6
5
La seconda ragione: poiché il blocco indiscriminato non è in grado, ovviamente, di
bloccare reali esigenze organizzative, che sono oggettive e, spesso, non comprimibili, è
evidente che le amministrazioni sono indotte, in seguito ad esso, a servirsi di personale
assunto a termine (e, del resto, chi non ricorda i vecchi avventizi?).
Il fenomeno ha tre conseguenze gravi: comporta comunque dei costi; crea masse di
precariato (che, dopo qualche tempo, premono per l’assunzione stabile, andando a
gonfiare gli organici)7; abbassa il livello qualitativo dei dipendenti pubblici. Infatti, il
reclutamento iniziale dei precari avviene mediante selezioni soltanto formali (quando
non clientelari) ed i concorsi per le successive assunzioni stabili difficilmente espellono
personale che, bene o male, è da considerare “interno”.
Per i livelli professionali più elevati, poi, al blocco delle assunzioni si sopperisce
con “consulenti esterni”, altamente professionalizzati (o fatti passare per tali) e pagati
profumatamente: di modo che i costi, spesso, aumentano, anziché ridursi.
La terza ragione: quando, in seguito al blocco delle assunzioni, le amministrazioni
non assumono precari, possono anche essere indotte, non di rado, a ricorrere alle cc. dd.
“esternalizzazioni” di taluni servizi, affidandoli ad aziende private.
Ora queste, oltre a pagare le retribuzioni al personale, devono anche ricavare un
loro profitto, con conseguente dilatazione dei costi.
3. Pubblico impiego e problemi occupazionali
La complessità di una seria riforma della pubblica amministrazione, nella direzione
dell’efficienza, legata alla migliore utilizzazione delle risorse umane, si manifesta anche
riflettendo sui problemi, non soltanto economici e sociali, ma anche politici,
dell’occupazione (e della disoccupazione) in Italia.
E’ noto che, ad aspirare all’impiego pubblico, per mancanza di alternative
occupazionali nell’industria o nell’alta finanza ecc., sono i giovani (e meno giovani)
soprattutto del Mezzogiorno. Tanto che, non da ora, si suole parlare di
“meridionalizzazione” degli apparati pubblici.
Il pubblico impiego, dunque, rimane - pur se con sensibili differenze tra nord e sud
- il settore, in cui possono trovare lavoro, e reddito, masse di cittadini, spesso poco
qualificati professionalmente.
Anche questa, a dire il vero, non è una novità, se si pensa che, addirittura nel 1919,
un giurista di fama, Carlo Arturo Jemolo, afferma la difficoltà di riformare gli
ordinamenti del personale pubblico, in quanto “l’amministrazione dello Stato è
assediata dalle richieste importune di moltissimi piccoli borghesi, incapaci di trovare un
proficuo lavoro nell’ambito professionale, e sprovvisti dell’energia necessaria per
indossare il camiciotto dell’operaio”8.
7
Non è un caso che nella legge 27 dicembre 2006, n. 296 (finanziaria 2007), siano state inserite
molte disposizioni normative tese ad arginare il problema del “precariato” nel settore pubblico: tuttavia,
l’impressione generale che si ricava dalla (non agevole) lettura di tali disposizioni (si pensi, ad esempio,
all’art. 1, comma 528, in tema di contratti di formazione-lavoro, oppure al comma 558, riguardante la
stabilizzazione del personale precario, che abbia lavorato in enti soggetti al “patto di stabilità”) è che
l’approccio del legislatore - anche per effetto di una “confezione legislativa” di pessima qualità - risulti,
ancora una volta, generalizzato, e non in linea, invece, con la diversificazione delle pubbliche
amministrazioni italiane: così vengono enunciati i criteri generali di intervento nella materia, ma si
lasciano sul tappeto non pochi problemi interpretativi, specie quanto alle modalità concrete della
stabilizzazione. E ciò rischia di incidere negativamente sulla effettività delle disposizioni introdotte.
8
C. A. JEMOLO, Sull’ordinamento della pubblica amministrazione in Italia, in RDP, 1919, p.
214.
6
Questo problema, come si può intuire, pesa come un macigno su qualsivoglia
iniziativa, che miri a migliorare la prestazione di lavoro dei dipendenti pubblici e
l’efficienza complessiva delle amministrazioni. Anche perché, una volta assunti nelle
pubbliche amministrazioni, molti di quegli stessi dipendenti poco qualificati, non
contenti, aspirano pure a fare carriera, invocando promozioni e scatti retributivi. In
alcune Regioni del Sud, poi, i medesimi problemi raggiungono livelli addirittura
preoccupanti (si pensi, ad esempio, alla complicata vicenda dei lavoratori socialmente
utili, o agli addetti alla raccolta dei rifiuti nei Consorzi della Regione Campania).
Il fenomeno descritto costituisce un ostacolo, quasi insormontabile, sulla strada
delle riforme amministrative, almeno per due ragioni.
La prima: se l’amministrazione viene concepita come una sorta di “ammortizzatore
sociale” della disoccupazione, è ovviamente difficile anche solo pensare di introdurre,
in essa, elementari principi e criteri di buona organizzazione - managerialità per
obiettivi; buone pratiche; retribuzioni incentivanti; progetti di formazione e
aggiornamento; valutazione dei risultati e della produttività ecc. - e, di conseguenza,
ottenere il miglioramento della qualità dei servizi pubblici e la soddisfazione degli
utenti (estranea alla tradizione italiana e tuttora assai trascurata).
Questi dipendenti - tra i quali, beninteso, molti sono inquadrati anche come
dirigenti - finiscono, così, per gravare sulla collettività, senza che questa possa trarne
alcun beneficio (e si parla, infatti, di burocrati parassiti, i quali hanno le loro buone
ragioni per avversare qualsiasi riforma).
La seconda ragione è che, una volta radicata, anche sul piano culturale, l’idea della
pubblica amministrazione come “ammortizzatore sociale”, la classe politica (soprattutto,
ma non solo, meridionale) individua una strada (relativamente) facile per acquisire
consenso elettorale9: procurare assunzioni e promozioni nelle pubbliche
amministrazioni.
Ora, se è vero che, dall’impiego pubblico, la classe politica ricava gran parte dei
suoi consensi, è altrettanto difficile credere alla sua reale volontà di rimuovere questa
combinazione tra interessi politico-elettorali ed esigenze dei mercati del lavoro depressi.
Si tratta di una miscela davvero esplosiva, non soltanto dal punto di vista
antropologico-culturale e sociale, ma anche dal punto di vista dell’ordinata convivenza
civile: perché essa è in grado di stravolgere e sovvertire le più elementari regole
dell’organizzazione, generando altresì pesanti blocchi in uno sviluppo, equilibrato e
fecondo, delle risorse umane. Quando si cristallizzano posizioni lavorative di soggetti
scarsamente professionalizzati, e poco utili nell’ottica dell’efficienza, solo perché
rispondenti a interessi elettorali o alla necessità di contenere conflitti sociali, altrimenti
dirompenti, è difficile pensare ad una riforma degli apparati.
In un contesto del genere, infatti, è evidente che ogni discorso sulla
razionalizzazione e sull’efficienza delle pubbliche amministrazioni, ammesso che si
possa adombrare, finisce con l’essere vanificato dal binomio “esigenza sociale/utilità
politica”, per cui masse di individui, non professionalizzati e dequalificati, devono
trovare, comunque, posto e reddito nelle pubbliche amministrazioni.
In definitiva, se questa ora descritta appare come una ineliminabile necessità
storica, il discorso si sposta, logicamente, sulle responsabilità della classe politica (e del
sindacato), su cui incombe il dovere di scegliere ben altri criteri per la selezione,
l’assunzione e la promozione dei cittadini nell’organizzazione pubblica. Criteri che
9
Cfr. già M. RUSCIANO, L’impiego pubblico in Italia, il Mulino, Bologna, 1978.
7
dovrebbero rispondere, per quanto possibile, all’interesse generale della collettività: che
sarebbe, poi, la strada maestra per acquisire apprezzamento e consenso elettorale.
Nella realtà amministrativa italiana, finora, non è stato così: si assiste, infatti, ad
una sostanziale irresponsabilità della politica (e del sindacato). La prima è incapace di
progettare, e rispettare, un’amministrazione all’altezza di una società, che - nell’era
della globalizzazione - deve saper produrre e competere a livello internazionale,
piuttosto che pensare a soddisfare esigenze, legate a questa o quella congiuntura
elettorale. Il secondo, come si vedrà più avanti, si mostra arroccato su posizioni di iperprotezione dei lavoratori pubblici, o degli aspiranti tali, senza troppo avvertire la
necessità di una proporzione equilibrata tra apporto concreto dei lavoratori medesimi ed
efficienza degli apparati, necessaria alla convivenza civile.
CAPITOLO SECONDO
IL NODO POLITICO DELLE RIFORME AMMINISTRATIVE
1. Le coordinate storico-giuridiche del rapporto tra “politica” e “amministrazione”
Che i politici abbiano sempre guardato alla pubblica amministrazione come ad un
formidabile strumento di acquisizione del consenso costituisce un dato storicamente
acquisito: l’ingerenza esercitata dal Governo sui burocrati è stata, sin dai primi anni del
XX secolo, individuata come una delle cause principali delle disfunzioni
dell’organizzazione amministrativa10. Rispetto a questa consapevolezza, molto radicata
negli studiosi dell’epoca, viene in risalto a contrario la sostanziale marginalità, che il
tema delle trasformazioni dell’amministrazione ha avuto, nella fase storica successiva al
periodo fascista: gli stessi lavori della Costituente non offrono contributi significativi al
riguardo.
Il tema centrale del ruolo politico dell’amministrazione non è affrontato, a favore
di aspetti secondari, e comunque specifici. In sostanza, si afferma la tendenza, più che
alla rottura con il passato nel suo complesso, al recupero di una continuità con
l’ordinamento liberal-democratico, cercando di chiudere la “parentesi” fascista. Così, le
norme costituzionali sulla pubblica amministrazione riservano alla legge
l’organizzazione degli uffici, “in modo che siano assicurati il buon andamento e
l’imparzialità dell’amministrazione” (art. 97, comma 1, Cost.); si prevede che,
nell’ordinamento degli uffici, vengano determinate “le sfere di competenza, le
attribuzioni e le responsabilità proprie dei funzionari” (art. 97, comma 2, Cost.) e che
agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni si acceda “mediante concorso, salvo i
casi stabiliti dalla legge” (art. 97, comma 3, Cost.). Coerente con tale impostazione,
risulta la previsione che i pubblici dipendenti siano “al servizio esclusivo della Nazione”
(art. 98, comma 1, Cost.) e che siano “direttamente responsabili, secondo le leggi penali,
civili e amministrative, degli atti compiuti in violazione di diritti”, anche se, come
10
È appena il caso di precisare che un cattivo assetto dei rapporti tra “politica” e
“amministrazione” può determinare scompensi: tanto sul piano della lesione dei principi di imparzialità e
buon andamento, attraverso appunto una “politicizzazione” dell’amministrazione (in cui la discrezionalità
amministrativa viene rinnegata e le decisioni vengono asservite direttamente a logiche politiche), quanto,
all’opposto, sul piano di un eccesso di “funzionarizzazione”, o “tecnicizzazione”, della politica. Che si
traduce - specie nei periodi di crisi di quest’ultima - nel fatto che i poteri neutrali, in genere, ed una forte
classe burocratica occupano spazi lasciati vuoti dalla politica (cfr. F. BENVENUTI, Il ruolo
dell’amministrazione nello Stato democratico contemporaneo, in G. MARONGIU, G.C. DE MARTIN (a cura
di), Democrazia e amministrazione, Milano, Giuffrè, 1992, p. 23).
8
diretta conseguenza dell’“immedesimazione organica”, e a garanzia dei cittadini, “in tali
casi la responsabilità civile si estende allo Stato e agli enti pubblici” (art. 28 Cost.).
In definitiva, il Costituente si preoccupa di riservare alla legge la disciplina degli
aspetti organizzativi dell’amministrazione, nonché di “costituzionalizzare” il c.d. dovere
di fedeltà dei pubblici dipendenti, ritenendo con ciò solo di poter garantire l’esatto,
efficiente, disciplinato ed imparziale adempimento della funzione pubblica.
Ciò induce a ritenere che, se per un verso, con la scelta costituzionale della “riserva
di legge” ex art. 97 Cost., sembra riprendere vigore l’antica ratio (precedente al
fascismo) dell’intervento legislativo, in materia di pubblico impiego - quella cioè di
sottrarre l’apparato burocratico ai facili e frequenti abusi dell’esecutivo - per altro verso,
la genericità delle proclamazioni sul fedele servizio della nazione fa sì che non si dubiti
dell’attitudine del vecchio sistema normativo della burocrazia a soddisfare, senza
soluzione di continuità, le nuove esigenze dell’apparato burocratico11.
Insomma, è soltanto a partire dagli anni ’90 che si aprono, con più determinazione,
aspettative importanti per fondare una effettiva distinzione, giuridicamente vincolante,
in quanto imposta dalla legge, tra le due sfere istituzionali, della politica e
dell’amministrazione: prima, con la legge 142/1990, riguardante il sistema delle
autonomie locali; poi, con la legge delega 421/1992 ed il conseguente d. lgs. n. 29/1993,
confluito, com’è noto, dopo le varie modificazioni normative, nel d. lgs. n. 165/2001,
per tutte le pubbliche amministrazioni.
Sulla portata del principio introdotto, certo, la dottrina è chiamata, sin da subito, a
chiarirne ambito semantico-concettuale e, quindi, sfera di operatività.
Diciamo subito che, per capire l’esatto significato della distinzione tra “indirizzo
politico” e “attività di gestione”, è indispensabile uscire dalla falsa idea che si sia in
presenza di due sfere tra loro impermeabili12.
È chiaro, infatti, che, con la distinzione in parola, il legislatore, per un verso, ha
inteso tracciare una linea di confine tra le due sfere, intrinsecamente flessibile e
variabile, a seconda della natura di questa o quell’amministrazione; per un altro verso,
ha inteso affidare, alla indispensabile collaborazione istituzionale tra “politici” e
“burocrati” - principio basilare dell’organizzazione pubblica - la definizione, in
concreto, delle rispettive competenze: che è bene mantenere distinte, nell’interesse degli
uni e degli altri13.
2. La ricerca del consenso politico come fattore di alterazione del rapporto
“politica/amministrazione”
11
V. già M. RUSCIANO, L’impiego pubblico in Italia, il Mulino, Bologna, 1978, p. 153.
Contesta recisamente la separazione tra politica e amministrazione - ma tutto sta a intendersi
sui termini - G. CLEMENTE DI SAN LUCA, La capacità di produzione del diritto obiettivo da parte degli
enti locali oltre l’ambito della tradizionale attività normativa…, in L. CHIEFFI - G. CLEMENTE DI SAN
LUCA, Regioni ed Enti locali dopo la riforma del titolo V della Costituzione, Giappichelli, Torino, 2004,
p. 341 ss.
13
Ecco perché, da un punto di vista semantico, appare senz’altro preferibile parlare di
“distinzione”, piuttosto che di “separazione”: il primo termine, infatti, meglio si presta a rappresentare
“una necessaria coesistenza nelle pubbliche amministrazioni ‘ordinarie’, quelle rette dal principio
democratico, per cui gli organi di governo sono espressione di rappresentanza politica, tra gli stessi organi
politici e la dirigenza amministrativa, fortemente rafforzata e resa autonoma dalla riserva (oggi,
espressamente, in via esclusiva) di competenza relativa alla adozione di atti amministrativi e alla gestione
amministrativa, tecnica e finanziaria” (così F. MERLONI, Art. 3, in A. CORPACI, M. RUSCIANO, L. ZOPPOLI
(a cura di), La riforma dell’organizzazione, dei rapporti di lavoro e del processo nelle amministrazioni
pubbliche, in NLCC, 1999, p. 1085.
12
9
La strutturale contiguità, che si rintraccia tra l’azione di indirizzo politico e quella
più propriamente gestionale, soffre di un limite connaturale, legato alle complicate
vicende della rappresentanza politica. La crisi delle democrazie rappresentative, o
meglio dei soggetti principali di esse, i partiti politici, si traduce, anzitutto, nella
inadeguatezza delle logiche, a cui improntano la propria azione i dirigenti politici.
L’impressione di fondo è che talora, in alcune amministrazioni, alla distinzione
formale tra “politica” e “amministrazione” si sovrapponga un’altra distinzione,
sostanziale, tra il blocco delle decisioni politiche e la platea dei destinatari delle
politiche medesime. Le prime finiscono con il muoversi, il più delle volte, all’interno di
logiche proprie, esclusive, legate agli interessi elettorali dei partiti che le sostengono, e
in quella sfera rischiano, il più delle volte, per confinarsi. Con ciò aggravando il solco
che le separa dalla platea dei cittadini-utenti, i destinatari, rispetto ai quali la politica,
una volta che si è assicurato il consenso elettorale, non mostra più di preoccuparsi del
rendimento, sul piano organizzativo, di quelle scelte. Ed in ciò, tra dirigenza politica e
dirigenza amministrativa si instaura un compiacente accordo, in ragione del quale l’una
si fa schermo dell’altra e viceversa.
Il risultato ultimo di questo approccio politico, attento al consenso e non
all’organizzazione, è quello di decisioni politiche troppo spesso legate alla contingenza
e private del necessario apporto della dirigenza: come tali, produttrici, a lungo termine,
di notevoli ritardi organizzativi.
Allora, su questo punto, è evidente che un buon argine, a siffatte pratiche, non
possa che risiedere, sul piano tecnico-giuridico, nella definizione del principale raccordo
tra “politica” e “amministrazione”, e cioè il conferimento dell’incarico dirigenziale.
Al riguardo, si può dire che, in linea di principio, soltanto una definizione iniziale
dell’obiettivo politico, quanto più precisa e dettagliata possibile, e comprensiva
dell’analisi degli ostacoli strutturali da superare, consentirebbe, alla relazione medesima
tra politici e dirigenti, di svilupparsi in maniera responsabilizzante e alla cittadinanza di
seguire, con maggiore cognizione, lo sviluppo dell’azione politico-amministrativa.
Ma non c’è dubbio che tutto questo sistema di regole poggia sulla necessità che i
soggetti compiano ciascuno la propria parte e che, poi, venga condotta una oggettiva
valutazione delle prestazioni dirigenziali: in assenza della quale, si rischia di legittimare
situazioni di auto-referenzialità organizzativa. Non è un caso, infatti, che proprio quella
reciproca emulazione tra politici e dirigenti, in precedenza descritta, tenta di relegare in
secondo piano il momento della valutazione, condotta da soggetti imparziali, esterni
all’amministrazione. I politici sono preoccupati dalla eventualità che, valutando la
dirigenza amministrativa, indirettamente, si finisca con il valutare anche l’operato della
politica.
3. Contraddizioni tra principio di distinzione “politica”/“amministrazione”
e “contrattualizzazione” del rapporto dell’alto dirigente non fiduciario
Nell’ottica di assicurare una equilibrata relazione tra “politica” e
“amministrazione”, occorre, inoltre, verificare l’adeguatezza dello strumentario tecnicogiuridico adottato dal legislatore della privatizzazione.
A questo riguardo, come si sa, dal punto di vista normativo, con la c.d. seconda
privatizzazione, si è scelto di estendere il regime contrattuale anche all’alta dirigenza.
Tale scelta non appare coerente con l’impianto complessivo della riforma. Pesano sul
giudizio di incongruenza del mezzo (il contratto) rispetto al fine (buon andamento
dell’amministrazione, come effetto di un equilibrato rapporto tra “politica” e
10
“amministrazione”), alcune osservazioni relative a soggetti, oggetto e natura della
“relazione di scambio” nel contratto dirigenziale.
Quanto ai soggetti, l’incardinamento del dirigente nella funzione, mediante il
contratto, genera perplessità circa la garanzia dell’imparzialità: la controparte del
dirigente non può che essere il politico. Ma dalla relazione di scambio tra i due,
dirigente e politico, non potranno che derivare contaminazioni del rapporto dirigenziale,
che rischia così di allontanarsi dai binari dell’imparzialità per essere attratto, per forza di
cose, da esigenze di parte, dettate dalla politica.
Non parliamo poi dei riflessi della contrattualizzazione dell’alta dirigenza sul
piano sindacale. La dirigenza risulterebbe dotata, infatti, di una capacità di fare
pressione talmente elevata, a cui nessun politico sarebbe in grado di resistere,
determinando così una prevedibile alterazione degli assetti politico-istituzionali.
All’idea di una burocrazia autorevole ed autonoma, che faccia da contrappeso
istituzionale alla politica, farebbe posto, in questa maniera, una burocrazia protesa allo
“scambio” con la classe politica. Anche questo aspetto risulterebbe quindi in forte
contraddizione con il principio di distinzione tra “politica” e “amministrazione”.
Anche sull’oggetto del contratto, si riscontrano contraddizioni. Il contratto tra il
politico e l’alto dirigente non mi pare possa regolare il potere, ma al massimo le
modalità personali relative all’esercizio del potere. Al riguardo, poi, la legge n.
145/2002 sembra avere alimentato ulteriori perplessità: essa, da un lato, reintroduce il
“provvedimento di nomina”, che precede il contratto, quasi a volere affermare una ripubblicizzazione del rapporto dirigenziale; dall’altro, adotta il meccanismo dello spoils
system, che, per sua natura, è più coerente con il regime contrattuale del rapporto
dirigenziale.
Infine, sulla natura di questo contratto dirigenziale paiono aprirsi scenari
davvero paradossali. In particolare, e a mo’ di esempio, c’è da chiedersi cosa succede
nell’ipotesi in cui ci sia inadempimento di una delle due parti del contratto. Il dirigente,
sappiamo, è colpito con la perdita dell’incarico. Nessuno si è mai interrogato, invece,
sulle conseguenze dell’inadempimento del politico.
In sostanza, il regime contrattuale per l’alta dirigenza pubblica appare una scelta
contraddittoria e non coerente con l’impianto complessivo della riforma. Naturalmente,
è appena il caso di ricordare che, l’idea di una diversificazione necessaria delle
dirigenze pubbliche, sia in base al tipo di amministrazione di riferimento, sia in base
alla posizione del dirigente medesimo, impone di espungere da siffatto discorso quella
dirigenza che potremmo definire “fiduciaria”, in quanto legata da un rapporto di
fiduciarietà (appunto) con la classe politica, talmente diretto da ridurre la necessità di
molte garanzie formali (sul tema, v. infra, il capitolo terzo di questa parte, e, per i
problemi specifici, legati alle dirigenze regionali, v. M. CERBONE, Problemi in tema di
dirigenze locali, capitolo ottavo, sp. p. 83).
CAPITOLO TERZO
L’ASSETTO ISTITUZIONALE DEL POTERE PUBBLICO E I RIFLESSI SUI RAPPORTI DI
LAVORO
1. Gli assetti istituzionali: Stato, Regioni ed Enti locali, all’indomani della
riforma costituzionale del 2001
Come si sa, il processo riformatore dell’organizzazione e dei rapporti di lavoro
nelle pubbliche amministrazioni, inserito in un più ampio ripensamento delle logiche di
11
funzionamento delle nostre pubbliche amministrazioni - si allude alle grandi riforme
amministrative che, a partire dall’inizio degli anni ’90 (con la citata legge 142/1990), si
sono mosse nella direzione del decentramento amministrativo e del massiccio
trasferimento di funzioni e compiti dallo Stato alle Regioni e agli Enti locali (con le
leggi n. 59/1997, legge 127/1997, legge 191/1998, d. lgs. 112/1998, d. lgs. 80/1998) - si
consolida, grazie alla riscrittura del Titolo V, parte II, della Costituzione. Ad opera,
prima, della legge costituzionale 22 novembre 1999 n. 1, sulla elezione diretta del
Presidente della Giunta regionale e sull’autonomia statutaria delle Regioni e, poi,
soprattutto, della legge costituzionale 18 ottobre 2001 n. 3: incentrata, quest’ultima, da
un lato, sulla revisione del riparto di potestà legislativa tra Stato e Regioni, con
l’ampliamento della competenza regionale (talora “esclusiva”, talaltra “concorrente”
con quella dello Stato, come previsto dall’art. 117, commi 3 e 4, Cost.), e, da un altro
lato, sulla “costituzionalizzazione” dei principi di sussidiarietà, differenziazione,
adeguatezza (art. 118 Cost.), con riguardo allo svolgimento delle funzioni
amministrative.
Del resto, nel Rapporto Giannini, già era chiaro che “per ridisegnare l’ordinamento
positivo dei pubblici poteri occorresse provvedere in tempi ravvicinati alla
ristrutturazione dello Stato, da un lato, alla riforma degli ordinamenti territoriali
infraregionali, dall’altro”14. Tale riforma, nell’ottica del Rapporto, corrispondeva ad un
dato preciso, “economicamente ed aziendalisticamente valutabile”15: “se i comuni non
funzionano, non funziona lo Stato, i comuni prestando dei servizi primari di aggregato
abitativo che - come mostra una esperienza da noi visibile e consistente - neppure le
regioni, le quali si siano addossate ruoli sostitutivi di deficienze comunali, riescono a
rendere”. Come dire: il Rapporto Giannini sembra agganciare, in maniera diretta, la
ristrutturazione dello Stato alla riorganizzazione degli enti territoriali, in una prospettiva
dunque che coniuga “centro” e “periferia”; con attenzione, cioè, alla diversificazione
territoriale, da un lato, ma anche alla unitarietà dell’azione amministrativa, dall’altro. E
l’esigenza logica di una tale interconnessione tra gli enti risponde a valutazioni
quantitative, orientate all’efficienza e al contenimento dei costi dell’amministrazione16.
In questa logica, allora, le normative in precedenza riportate hanno predisposto le
basi giuridiche per una vera e propria rivoluzione copernicana, almeno sulla carta, di
tutti gli apparati pubblici: non solo di quelli locali, ma, per forza di cose, anche di quelli
centrali. È ovvio, infatti, che, se molte funzioni passano dallo Stato alle Regioni ed agli
Enti locali, i primi si appesantiscono e i secondi si alleggeriscono. In particolare, la
Regione assume un ruolo di preminenza, avendo una posizione istituzionale ben diversa
da quella degli Enti locali (privi di potestà legislativa e provvisti soltanto, per
Costituzione, di autonomia organizzativa e, dunque, di potestà statutaria e
regolamentare per la disciplina dell’organizzazione e dello svolgimento delle funzioni:
artt. 114, comma 2, e 117, comma 6).
14
Rapporto, punto 1.2., p. 289.
Rapporto, cit., p. 289.
16
Al riguardo, Giannini parla di “costi invisibili/occulti” di comuni piccolissimi e megalopoli e
di “costi visibili” (Rapporto, p. 289). Un problema tutto delle amministrazioni pubbliche, normalmente
poco rilevante nelle organizzazioni private: esso è costituito dal “costo economico della spendita di
attività amministrativa che è richiesta dal fatto che la funzione amministrativa si svolge in forma
procedimentalizzata, con la partecipazione di più organi e uffici” (così Rapporto, cit., punto 2.4., p. 290).
15
12
2. Le normative sui sistemi elettorali
Il quadro normativo, in materia, deve tenere conto altresì della legislazione
riguardante i sistemi elettorali, sia a livello locale, sia a livello nazionale17. La riforma
più importante, ai fini del nostro discorso, è la modifica dei sistemi elettorali: a)
l’introduzione del maggioritario per l’elezione del Parlamento e, quindi, per la
costituzione della maggioranza di governo (e addirittura per la nomina del premier); b)
l’introduzione dell’elezione diretta dei sindaci, dei presidenti di provincia e dei
presidenti di regione.
Gli scienziati della politica parlano, a questo proposito, di un certo spostamento
della competizione democratica dai “progetti” alle “persone”, anche se ritengono che gli
eccessi di personalizzazione siano un prezzo inevitabile da pagare, visto che gli eccessi
medesimi appartengono a quello stesso meccanismo di elezione maggioritaria e diretta
che, a livello locale, ha ravvicinato i cittadini alla politica18.
Tali normative, benché operanti su versanti molto peculiari, hanno - come si vedrà
meglio nella parte dedicata alla dirigenza - una grande incidenza sui temi
dell’organizzazione amministrativa e, in particolare, della dirigenza: proprio nel
momento in cui si cambia il sistema elettorale, infatti, appare necessaria, per la coerenza
di tutto il sistema normativo, prevedere una dirigenza autonoma, autorevole ed
imparziale, che funga da contrappeso istituzionale al potere politico.
3. Gli effetti delle riforme istituzionali sulla morfologia delle amministrazioni
pubbliche locali e sulle dirigenze
Il ruolo primario che il descritto quadro normativo assegna alle Regioni e agli
Enti locali fa sì che, per tali soggetti istituzionali, il versante della propria
organizzazione amministrativa acquisti inevitabilmente un’importanza enorme, ben più
ampia di quella del passato. E non c’è dubbio che una porzione rilevante di tale
organizzazione è costituita, in generale, dal “personale”, e, in modo particolare, dalla
dirigenza amministrativa, segnata da una duplice componente, lavoristica e
dell’organizzazione. È il dirigente uno dei principali artefici della realizzazione delle
nuove funzioni di Regioni ed Enti locali, e per questa via del soddisfacimento dei
bisogni e delle esigenze delle comunità territoriali di riferimento. Ovviamente, lo
abbiamo accennato, quando si parla di dirigenza, va subito abbandonata l’impostazione
generica volta ad accomunare nella “dirigenza pubblica” tutti i burocrati, di livello più o
meno elevato, che esercitano un “potere amministrativo” ed è quindi necessario tenere
presenti le distinzioni, principalmente, in base al “tipo” di amministrazione di
appartenenza.
E si può dire che le riforme istituzionali predette sviluppano questa idea di
diversificazione, là dove concedono autonomia alle Regioni ed agli Enti locali,
principalmente sul versante della propria organizzazione amministrativa. Ciò significa
che tali enti hanno ora la possibilità di ridisegnare i propri apparati, nella maniera più
adeguata rispetto alle proprie esigenze organizzative e politico-istituzionali. Per l’ottica
giuslavoristica, questa autonomia si traduce, anzitutto, in autonomia sul versante della
dirigenza, o almeno per quegli aspetti della stessa più intrecciati con l’organizzazione,
17
Cfr. M. RUSCIANO, Contro la privatizzazione dell’alta dirigenza pubblica, in DLM, 2005, sp.
18
M. CALISE, La Terza Repubblica, Roma-Bari, Laterza, 2006, p. 63 ss.
p. 625.
13
per le ragioni, più volte esposte, legate alla centralità di questa nell’impersonare
l’organizzazione medesima19.
Va anche detto, sul piano empirico, che le Regioni non è che abbiano fatto
grande uso di questa autonomia, ponendosi, più cautamente, nel solco tracciato dallo
Stato20. Questo atteggiamento di sostanziale imitazione dello Stato proviene, ed è
significativo rimarcarlo, non tanto dai rapporti interistituzionali, cioè quelli tra Stato e
Regioni - i quali, come si è detto, sono abbastanza chiari e lineari, nel non porre vincoli
per le Regioni, specie nell’area della propria organizzazione amministrativa, confluita
nella potestà residuale - quanto da altri due fattori. Essa è il portato, da un lato,
dell’influenza della “politica”, in quanto i responsabili locali ritengono di appiattire le
proprie decisioni sul modello di relazioni tra “politica” e “amministrazione”, invalso per
il livello centrale. Dall’altro lato, è legato all’influenza del sindacato, che impone,
attraverso la contrattazione collettiva, il modello del d.lgs. n. 165/2001.
Così come, sempre sul piano della valutazione delle prime applicazioni della
riforma costituzionale, nel quadro della legislazione regionale, non paiono rintracciarsi
normative esaltanti, quanto alla corretta delimitazione di campo tra “politica” e
“amministrazione”. Il più delle volte alla dichiarazione del principio, fatta in apertura
della legge, non fa seguito un coerente sviluppo dello stesso, specie sul versante della
definizione e del conferimento dell’incarico al dirigente. Questo, come si sa, è un
aspetto cruciale, che traduce, sul piano concreto, la predetta distinzione posta, in linea di
principio, tra “politica” e “amministrazione”.
CAPITOLO QUARTO
INTERESSE PUBBLICO ED ESIGENZE ORGANIZZATIVE
1. Il binomio “lavoro/organizzazione” al centro del funzionamento della
macchina amministrativa
Proprio la centralità della logica dell’“organizzazione” nel processo riformatore
delle pubbliche amministrazioni - concetto su cui lo stesso Giannini fonda le sue
indicazioni - ci inducono ad avviare l’analisi dei problemi dell’organizzazione pubblica,
partendo da alcune lacune strutturali, che ancora paiono caratterizzare le nostre
amministrazioni.
All’indomani della scelta del legislatore degli anni ’90 di applicare, con la c.d.
privatizzazione, ai dipendenti pubblici il diritto del lavoro, gli studiosi si sono impegnati
nel rimarcare l’assoluta centralità, nella riforma, del binomio lavoro/organizzazione: per
valorizzare il quale, il legislatore ha utilizzato la disciplina fondamentale, che è scritta
nel codice civile, perché nata e sviluppatasi nell’impresa industriale21. La pubblica
19
Cfr. M. CERBONE, La dirigenza, capitolo settimo, sp. par. 2, nonché ID., Problemi in tema di
dirigenze locali, capitolo ottavo, sp. par. 1, per gli sviluppi di questa impostazione, principalmente sul
versante degli incarichi dirigenziali.
20
Per l’analisi degli aspetti specifici, da cui si ricava questa tendenza, cfr. M. CERBONE,
Problemi in tema di dirigenze locali,Capitolo ottavo.
21
M. RUSCIANO, Introduzione, in M. RUSCIANO, L. ZOPPOLI (a cura di). L’impiego pubblico nel
diritto del lavoro, Giappichelli, Torino, 1993, p. XXVII. Poiché l’idea del legislatore di riformare
l’amministrazione pubblica parte dalla necessità di renderla “efficiente” e “produttiva”, appare naturale
che, a questo scopo, si valorizzi in tutti i modi il binomio “lavoro/organizzazione”: e, quindi, anzitutto lo
schema di rapporto di lavoro, disciplinato sia nel codice civile, sia in molte leggi sul lavoro nell’impresa.
Il discorso sulla riforma degli apparati pubblici, comprensiva dell’impiego pubblico, è tutto imperniato,
quindi, sulla necessità di introdurre, nell’amministrazione italiana, nuove “tecniche di organizzazione”:
per colmare quella grande carenza delle nostre amministrazioni pubbliche, rimarcata, a chiare lettere, già
14
amministrazione viene concepita e modellata, quanto alla gestione delle risorse umane,
materiali e finanziarie, come un complesso, articolato e coordinato, di centri autonomi
di poteri, di responsabilità e di spesa. In una logica organizzativa, e non burocratica, ciò
comporta notevoli conseguenze di tipo sia strutturale sia tecnico-giuridico. Comporta,
anzitutto, una rilevante autonomia di scelta, con annessa assunzione di responsabilità,
spettante alla dirigenza amministrativa, ben distinta dalla dirigenza politica, degli
strumenti di organizzazione del lavoro, necessari a raggiungere le finalità di interesse
generale che la legge assegna a questa o a quella amministrazione e che vengono via via
concretizzate negli obiettivi stabiliti dai responsabili dell’indirizzo politico. In sostanza,
non è più la legge a prevedere minutamente, in tutto e per tutto, i comportamenti dei
dirigenti nella gestione del personale: fino al punto di accreditare una vera e propria
“legislatività dell’organizzazione”22. La sistematica del d. lgs 165 è tutta costruita su
questi dati, muovendosi nella consapevolezza di liberare spazi dalle norme e lasciarli
alla dirigenza: è essa, infatti, che impersona l’organizzazione. In tale logica, la
disposizione normativa che guarda ai dirigenti, che operano “con la capacità e i poteri
del privato datore di lavoro” (art. 5, del d. lgs. 165/2001) esprime, al livello più alto,
l’idea di trapiantare nel “pubblico” il potere organizzativo tipico dell’imprenditore,
diretta espressione della sua libertà imprenditoriale. Con quella norma, il legislatore
sembra instaurare, pur con talune inevitabili torsioni (su cui si avrà modo di ritornare
nel capitolo quinto) una sorta di parallelismo logico tra l’art. 97, comma 1, Cost. e l’art.
41, comma 1, Cost., che consenta alla pubblica amministrazione di riappropriarsi del
potere unilaterale di organizzazione.
Ebbene, rispetto a questa razionalità interna ai testi di legge, la realtà organizzativa
delle amministrazioni pubbliche ha finito per riproporre via via le stesse disfunzioni e
degenerazioni che la ricordata legge intendeva contrastare. Per un verso, proprio il
terreno del potere unilaterale di organizzazione si è mostrato poco assestato, a vantaggio
del riproporsi di prassi di vero e proprio consociativismo tra burocrati, politici e
sindacalisti: lo stesso consociativismo contro il quale il legislatore aveva indirizzato le
sue energie. Il tema della contrattabilità dell’organizzazione, o almeno di quel segmento
di essa, che si suole definire micro-organizzazione, richiede, per il settore pubblico, di
tenere ben presente alcuni aspetti. Non bisogna, infatti, trascurare che, nel settore
pubblico, esiste, a differenza del privato, una maggiore complessità dell’organizzazione,
che si riverbera in maniera decisiva proprio sul tema della negoziabilità. Per intenderci,
per l’industria, capire fin dove si può spostare la linea di demarcazione tra negoziabilità
e unilateralità, è aspetto secondario, ai fini del buon andamento dell’organizzazione.
Quest’ultima, infatti, è, per buona parte, già definita dall’esterno, e cioè dalle esigenze
del mercato, ragion per cui il potere del datore di lavoro di organizzare le prestazioni di
lavoro si presenta, all’origine, con una connotazione ben definita, su cui gli spazi di
negoziazione con la controparte sindacale sono ridotti.
Se provassimo a trapiantare questa logica nel pubblico, invece, si dovrebbe
coerentemente arrivare alla conclusione che il negoziato sul potere organizzativo
sul finire degli ani ’70 dal c.d. Rapporto Giannini. L’abbandono dello schema classico, di fine ‘800, del
“rapporto di impiego pubblico”, unilaterale e autoritario, e la conseguente opzione a favore dello schema
del contratto individuale di lavoro segnano, dunque, un passaggio molto importante del più generale
processo di trasformazione dei rapporti di lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche: un
processo che ovviamente non è solo giuridico, ma è anche politico, sindacale, istituzionale e, in senso
lato, culturale.
22
G. ZAGREBELSKY, Il diritto mite, Einaudi, Torino, 1992, p. 40.
15
dovrebbe per forza di cose estendersi anche ai soggetti fruitori del servizio pubblico
erogato, e cioè gli utenti.
Ciò spiega perchè il problema andrebbe affrontato con più chiarezza e senza
ambiguità. Troppo spesso, il confine tra i due “poteri” - quello organizzativo unilaterale,
da un lato, quello sindacale, dall’altro - si è dimostrato labile, sino al punto di
ingenerare, in concreto, prassi di vera e propria cogestione sulle prerogative
organizzative pubbliche, che la legge invece vuole che siano affidate, in una logica
privatistica, all’autonomia datoriale. E in questa ottica, segnali non incoraggianti
provengono dalle previsioni contenute nel recente Memorandum d’intesa su lavoro
pubblico e riorganizzazione delle Amministrazioni pubbliche - Per una nuova qualità
dei servizi e delle funzioni pubbliche, siglato, in data 18 gennaio 2007, dal Ministro per
le riforme e le innovazioni nella Pubblica Amministrazione, dal Ministro dell’Economia
e delle Finanze e da CGIL, CISL, UIL. In tale documento, sembra prevedersi una
istituzionalizzazione della “concertazione preventiva” tra amministrazioni e parti
sociali, estesa addirittura agli “indirizzi” e ai “criteri generali” della riorganizzazione
amministrativa. Tali previsioni vanno nel senso di accrescere, non certo diminuire,
quella ambiguità di campo d’azione esistente tra i poteri citati, in stridente contrasto con
la logica stessa della privatizzazione.
Per altro verso, è mancata all’azione amministrativa nel suo complesso la ricerca di
quel coordinamento necessario tra enti, uffici, e, si può dire, tra gli stessi impiegati.
2. L’importanza degli “uffici di organizzazione”
In questa seconda prospettiva, riproporre, allora, l’idea gianniniana di dotare ogni
pubblica amministrazione di appositi “uffici di organizzazione”23 non solo è coerente
con le norme riportate, ma può mostrarsi decisiva per assicurare alle pubbliche
amministrazioni quella capacità di costituire, specie là dove le esigenze dell’utenza lo
impongono, una rete efficiente.
Tale proposta appare adeguata, almeno sotto due profili.
Anzitutto, perché essa potrebbe contribuire a superare, una volta per tutte, la
proverbiale carenza, nelle amministrazioni italiane, di “cultura dell’organizzazione”: il
grande ritardo che le nostre amministrazioni pubbliche mostrano, al riguardo, sia nel
confronto con le imprese private, sia con gli altri paesi dell’Unione europea, potrebbe
ridursi se ogni amministrazione cominciasse a dotare le proprie strutture di soggetti,
tecnicamente provveduti, impiegati nell’analisi delle esigenze organizzative dell’ente e
nella ideazione di misure, anche sperimentali, adeguate.
In secondo luogo, risponde ad una elementare regola proprio di organizzazione,
quella secondo cui non esiste una struttura (appunto, organizzativa), che non sia
intrinsecamente dotata di dinamismo. Il soddisfacimento dei bisogni e delle esigenze,
infatti, non è mai operazione che può svolgersi “una volta per tutte”: costituisce, per sua
natura, un “processo”, che si evolve, subisce cambiamenti, nuove richieste, abbandono
di vecchie logiche, ecc.. Come tale, esso richiede, permanentemente, uno sforzo
indirizzato verso nuovi “metodi di organizzazione”, sempre più efficienti ed innovativi.
In questa ottica, allora, l’“ufficio di organizzazione”, stabilmente deputato alla
ricerca ed alla sperimentazione di nuove misure e nuovi modelli, per ottimizzare e
razionalizzare l’organizzazione - sia attraverso nuove procedure24, sia suggerendo la
23
Rapporto, punto 2.5.
Si pensi, ad esempio, alla grande necessità di creare sistemi informativi, capaci di gestire e far
circolare informazioni e dati delle pubbliche amministrazioni.
24
16
formazione di nuove professionalità - costituisce, senza dubbio, un utile strumento,
funzionale agli obiettivi più generali di efficienza dell’azione amministrativa.
Allora, scendendo più nel dettaglio, l’ufficio potrebbe: a) mettere mano alle
disfunzioni, per ottimizzare le risorse; b) tagliare attività non facenti parte del cuore del
sistema, il c.d. core business: in questa direzione vanno alcune delle indicazioni
contenute nel Memorandum d’intesa su lavoro pubblico e riorganizzazione delle
Amministrazioni pubbliche citato in precedenza (cfr. il punto 3); c) effettuare il
controllo dell’efficienza della macchina e della spesa, con eventuale correzione delle
procedure (attività decisiva anche per i cittadini-utenti, che possono così segnalare le
disfunzioni)25; d) assicurare una immediata interconnessione con le altre
amministrazioni pubbliche, anche attraverso appositi strumenti tecnologici; e) suggerire
progetti formativi per nuove professionalità.
3. Irrazionalità di provvedimenti non scaturenti da analisi organizzative
Ancora una volta, si ha la conferma della necessità di orientare i comportamenti
dell’amministrazione alla logica dell’organizzazione. Si è già fatto riferimento, infatti,
alla contraddizione vistosa che possono generare provvedimenti, che non siano frutto di
precise analisi organizzative, riguardanti le specifiche esigenze di questa o di quella
amministrazione. Si rischia di operare scelte indiscriminate: come, ad esempio, quelle in
materia di blocco del turn over, con le quali, si è visto all’inizio (cfr. capitolo primo,
par. 2), magari si arresta subito il flusso di spesa ma poi, in pratica, si paralizza
l’amministrazione, non si razionalizza l’esistente ed, inevitabilmente, si dà luogo a
“sacche” di precariato. Anche questo tipo di decisioni condiziona le politiche
organizzative delle amministrazioni pubbliche: l’esigenza di dover fronteggiare
comunque le necessità dell’attività amministrativa apre così le porte ad un incremento
esponenziale dei fattori di compromissione dell’efficienza organizzativa.
Il tema acquista una sua specificità, soprattutto quanto all’organizzazione
amministrativa degli Enti locali. Nella parte dedicata alle dirigenza locali, saranno messi
a fuoco alcune delle principali distorsioni applicative determinate anche per effetto di
scelte politico-gestionali così impostate26.
CAPITOLO QUINTO
AMBIGUITÀ ED EQUIVOCI DELLA PARTECIPAZIONE SINDACALE
1. La grande svolta della contrattazione collettiva: suo significato sul piano
storico
L’introduzione, a pieno titolo, della contrattazione collettiva nel sistema delle fonti
di disciplina del rapporto di lavoro pubblico ha costituito, indubbiamente, una grande
svolta storica. Già la prospettiva segnata dal Rapporto Giannini sottolineava la
fondamentale funzione che, per quegli anni, la contrattazione poteva svolgere, quanto:
alla omogeneizzazione delle condizioni di lavoro tra lavoratori pubblici e lavoratori
privati27 (cfr. il parere CNEL del 21 gennaio 1978, citato nel Rapporto, al punto 4.1.);
alla perequazione retributiva; al superamento delle “nuvole di leggi e leggine”, che
introducevano vantaggi economici e non strutturali o di organizzazione interna del
25
In questo senso, l’ufficio per le relazioni con il pubblico altro non sarebbe che una
promanazione dell’ufficio di organizzazione.
26
Cfr. M. CERBONE, Problemi in tema di dirigenze locali, capitolo ottavo, par. 3.
27
V. Rapporto, punto 4.1.
17
lavoro28. All’epoca di Giannini, il dato giuridico più significativo che emerge è quello
della adeguatezza della tecnica della “delegificazione” per realizzare i predetti obiettivi.
Ma al profilo relativo alla tecnica, Giannini mostrava di abbinare l’auspicio di una
maggiore chiarezza sia nell’azione sindacale sia in quella delle amministrazioni
pubbliche.
In quella prospettiva erano presenti i presupposti affinché la contrattazione
collettiva acquistasse ruoli e funzioni di grande importanza nel sistema delle fonti. Si
può quindi intuire su quali premesse logico-giuridiche e storiche siano maturate quelle
disposizioni normative, contenute nel d.lgs. 29/1993, (si pensi all’art. 2, comma 2 e
all’art. 72), che assegnano al contratto collettivo inedite funzioni regolative.
2. La particolare configurazione del sindacato nell’impiego pubblico
Per capire ruolo e funzioni del sindacato, nell’evoluzione normativa della
disciplina dell’impiego pubblico, è necessario prendere le mosse dal “contesto” politicoistituzionale, in cui esso dispiega la sua attività.
Sin dalle origini, cioè da quando comincia a muovere i suoi primi passi, nel
settore delle ferrovie, il sindacato si trova ad operare in un quadro di grande “stabilità”
dei rapporti di lavoro, dettato, più che da elementi giuridici, da fattori politici. Esso si
muove, altresì, in una cornice legislativa molto articolata, che invade la disciplina del
rapporto di lavoro pubblico, giungendo a dettare finanche l’attività che, in concreto,
l’impiegato doveva svolgere: nel predefinire atti e procedure, infatti, il legislatore non fa
altro che appropriarsi, indirettamente, del contenuto principale della prestazione del
lavoratore pubblico.
Questi due elementi, appartenenti alla struttura del rapporto che lega
l’amministrazione con il prestatore di lavoro, e che rispondono inevitabilmente ad
esigenze generali dettate dal Costituente, non possono non condizionare contenuti e
forme della politica sindacale. Questa si orienta, da sempre, su versanti che, nel settore
privato, possono a ragione definirsi secondari: e così, ad esempio, il sindacato non si
trova a lottare per la stabilità del posto, o meglio non si trova a farlo con la stessa
intensità, che mette, invece, per i lavoratori privati. Anche il conflitto nel settore
pubblico rivela una sua strutturale diversità, rispetto al privato.
Anche il fatto che, nel settore pubblico, la controparte datoriale del sindacato,
per tanto tempo non si sia materializzata (e uno degli obiettivi della privatizzazione sta
proprio nella “ricostituzione” del potere datoriale), confondendosi nel circuito delle
responsabilità politiche e gestionali, appare come un fattore fondamentale di incidenza
sulla politica sindacale. Del resto, anche quando, a distanza di anni, la
“privatizzazione”, come visto, imporrà l’unicità degli strumenti giuridici (privatistici) e
imporrà al datore di lavoro pubblico di comportarsi “con la capacità e i poteri del
privato datore di lavoro” (art. 5, comma 2, d.lgs. 165/2001), a nessuno potrà sfuggire il
necessario adattamento che quelle norme dovranno subire in concreto: la “forza” del
datore di lavoro privato, che il legislatore tenta di fissare su carta con quella norma, dal
carattere allusivo, trova, infatti, la sua completa espressione sul piano fattuale: siffatta
inesprimibilità giuridica della posizione datoriale fa sì che, per quanti sforzi di
accostamento si facciano tra “pubblico” e “privato”, nel lavoro pubblico non passa, e
non può passare, quella componente che appartiene alla dinamica concreta dei rapporti
di forza tra le parti. Non a caso, nel “privato”, il punto dove si rintraccia, in maniera più
28
Rapporto, punto 4.1. Cfr., altresì, M. RUSCIANO, L’impiego pubblico in Italia, il Mulino,
Bologna, 1978.
18
nitida, questa componente indefinibile è l’area del licenziamento, che, invece, per il
“pubblico”, è notoriamente circondata da garanzie di stabilità, sia pure politica29.
Con queste peculiarità, il sindacato svolge, quindi, una funzione contrattuale,
che gradualmente si libera dei tratti più marcatamente corporativi. Attraverso la
confederalità, esso riesce ad uscire dalle logiche corporative, facendosi carico anche
delle esigenze degli utenti, sulla convinzione che questi sono soprattutto lavoratori
dipendenti e su di essi, direttamente o indirettamente, ricade il costo del cattivo
funzionamento del sistema dei servizi. Il sindacato confederale si colloca così sulla
posizione, di più ampie vedute, di soggetto che guarda all’“interesse dei lavoratori”, non
in contrapposizione, ma nel contemperamento, con l’“interesse degli utenti”30. E in
questa veste riesce a fungere da fattore di superamento dei tratti corporativi e di riordino
delle discipline.
La rappresentazione giuridicamente più alta di questo ruolo viene individuata in
una disposizione normativa del d. lgs. 29/1993, confluita poi nel d. lgs. 165/2001, dai
tratti marcatamente speciali: l’art. 2, comma 2-bis, del d. lgs. 29/1993 (oggi confluito
nell’art. 2, comma 2, del d. lgs. 165/2001), che costituisce uno strumento di protezione e
salvaguardia della delegificazione voluta dal legislatore della riforma.
La previsione normativa riconosce al contratto collettivo addirittura la forza di
abrogare disposizioni di legge, regolamento o statuto “che introducano discipline dei
rapporti di lavoro la cui applicabilità sia limitata ai dipendenti delle amministrazioni
pubbliche, o a categorie di essi …”. Il legislatore fornisce un originale sostegno alla
contrattazione collettiva, al fine di evitare che micro-interventi legislativi “sotterranei”
possano scardinare i fondamenti del sistema delle fonti di disciplina dei rapporti di
lavoro pubblico: la contrattazione collettiva, in altri termini, è abilitata a svolgere il
ruolo di garante della uniformità di trattamento della regolamentazione sul lavoro
pubblico31, fino al punto da divenire il perno di un modello c.d. riflessivo o
neoistituzionale di legislazione, che esplicitamente riconosce ad essa un ruolo, per così
dire, “paralegislativo”. Ferma restando, ovviamente, l’area propria della contrattazione,
vale a dire gli istituti del rapporto di lavoro.
3. L’incerto confine tra potere organizzativo unilaterale e area della
contrattazione
Nel nuovo assetto delle fonti di disciplina del rapporto di lavoro pubblico, come
risulta dal d. lgs. 165/2001, la contrattazione collettiva ha ricevuto la piena
legittimazione formale delle proprie potenzialità regolative. Il legislatore della
“privatizzazione” ha infatti consentito l’ingresso, a pieno titolo, della “fonte
contrattuale” in un’area prima assolutamente riservata al legislatore e caratterizzata da
un intreccio molto forte tra norme sull’organizzazione degli uffici, norme sulle
procedure amministrative e norme sui rapporti di lavoro. I contratti collettivi diventano
così, almeno nelle intenzioni del legislatore, le principali fonti della trasformazione:
29
Per le applicazioni di questo discorso ai profili della responsabilità disciplinare e del
licenziamento cfr. M. CERBONE, Gli istituti fondamentali del rapporto di lavoro, capitolo sesto, par. 11 e
par. 12.
30
Cfr. M. RUSCIANO, Utenti senza garanti, in LD, 1996, p. 23.
31
M. RUSCIANO - L. ZOPPOLI, Art. 2, in A. CORPACI - M. RUSCIANO - L. ZOPPOLI (a cura di), La
riforma dell’organizzazione, dei rapporti di lavoro e del processo nelle amministrazioni pubbliche, in
NLCC, 1999, p. 1073.
19
devono cioè fare da ‘grimaldelli’ per cambiare al fondo la logica giuridica, e per
innescare così circoli virtuosi di innovazione, efficienza ed economicità32.
Naturalmente, la necessità di affidare al contratto collettivo funzioni vaste e per
molti aspetti inedite, rispetto alla concezione ortodossa della contrattazione, ha costretto
il legislatore a rifiutare l’adozione di un modello di contrattazione informale, sullo
stampo del “privato”, a favore di un modello legificato di contrattazione.
Ebbene, se questo è l’ambizioso progetto riformatore che, attraverso il nuovo
assetto delle fonti di regolazione del lavoro pubblico, si proponeva di realizzare il buon
andamento e l’efficienza organizzativa della pubblica amministrazioni, l’esperienza
applicativa delle norme consente oggi, a distanza di circa quattordici anni dal d. lgs.
29/93, di individuare le aree di maggiore criticità del sistema normativo e le ragioni
della criticità stessa.
Proprio l’intreccio poc’anzi descritto tra le norme sull’organizzazione degli
uffici, le norme sui procedimenti e le norme sui rapporti rivela come, in concreto, un
primo e decisivo fattore di freno alla piena attuazione dei principi ispiratori della
“privatizzazione” sia costituito proprio dalla difficile e contrastata dialettica tra i
soggetti della riforma: in particolare, uno dei punti più dolenti dell’intera riforma è stata
la continua ricerca di delimitazione di campo tra quanto di competenza della fonte
contrattuale e quanto di spettanza della fonte unilaterale della pubblica amministrazione,
come espressione della propria autonomia organizzativa.
Il blocco di una dialettica vera tra i due poli ha finito per generare, in gran parte
delle amministrazioni italiane, terribili ritardi nell’organizzazione amministrativa. In
altre parole, proprio il sindacato che, sulla carta, sarebbe tra i pochi soggetti a poter fare
da contrappeso alla “casta burocratica”, attraverso le forme più svariate di
partecipazione o magari anche attraverso un sistema di contrattazione adatto al ruolo
dell’amministrazione pubblica, ha mostrato di faticare - direbbe Giannini - a tenere uno
sguardo d’insieme sul buon funzionamento dell’amministrazione, rimarcando la sua
peculiarità, questa volta in negativo, rispetto a ciò che avviene per il lavoro privato. Nel
settore privato, infatti, si rintracciano relazioni sindacali che, in linea di principio, si
svolgono, in un quadro permeato dall’informalità, secondo modalità chiaramente
dialettiche, fondate su una partecipazione sindacale rilevante, ma non certo pervasiva.
Il settore pubblico conosce, invece, un’alterazione naturale dei poli del conflitto di
lavoro, poiché, si ripete, qui non esiste una parte datoriale, che sia davvero interessata e
capace di fronteggiare la pressione di aggregazioni sindacali dagli interessi molto
diversificati, spesso legate al “mestiere” e dotate di un forte potere vulnerante33.
Su questo argomento, occorre ricordare come le ambiguità siano aumentate in
corrispondenza delle modifiche normative. La c.d. prima privatizzazione - per
intenderci: quella dell’originario d. lgs. 29/1993 - era sì una combinazione di
“innovazioni e compromessi”34, ma risultava, a conti fatti, realisticamente più aderente
alle esigenze organizzative di apparati in trasformazione: i quali hanno certo bisogno del
consenso dei dipendenti, rappresentati dai soggetti collettivi, ma hanno pure il dirittodovere di riformare e progettare l’organizzazione, secondo criteri di razionalità e
perseguendo obiettivi di produttività, non suscettibili di continui e paralizzanti negoziati
sindacali.
32
M. RUSCIANO, Giannini e il pubblico impiego, in RTDP, 2000, p. 1115.
M. RUSCIANO, Giudice ordinario e relazioni sindacali, in LPA, 2000, p. 475.
34
M. D’ANTONA, Lavoro pubblico e diritto del lavoro: la seconda privatizzazione del pubblico
impiego nelle ‘leggi Bassanini’, in LPA, 1998, p. 42.
33
20
Con il d. lgs. 80/1998, questo modello originario è stato “stemperato”, al punto da
prospettare una massiccia presenza sindacale nella gestione del lavoro pubblico. L’area
privatizzata, come si sa, viene, in questa seconda fase di riforma, ampliata, inglobando
anche la c.d. micro-organizzazione. Significativo elemento di ulteriore complicazione
del quadro normativo è poi la eliminazione della clausola di salvaguardia di cui all’art.
10 del d. lgs. 29/1993. Questa disposizione, infatti, nel precedente quadro normativo,
quando lasciava ferma, in ultima istanza, “l’autonoma determinazione definitiva e la
responsabilità dei dirigenti”, in materia di gestione dei rapporti di lavoro, non faceva
altro che salvaguardare il potere unilaterale del dirigente pubblico sulla falsariga del
“privato datore di lavoro”. Ad essa, oggi, si sostituisce una differente previsione,
contenuta nell’art. 9 del d. lgs. 165/2001, secondo cui “i contratti collettivi nazionali
disciplinano i rapporti sindacali e gli istituti della partecipazione anche con riferimento
agli atti interni di organizzazione aventi riflessi sui rapporti di lavoro”. Una
formulazione di difficile lettura, che comunque sembra muoversi nella direzione di
sfumare i confini tra i poteri e agevolare il consociativismo sindacale.
In definitiva, il quadro delle norme non pare capace di arginare quella che appare
come una tendenza naturale dell’azione sindacale, di invadere e condizionare le zone
più esclusive delle prerogative datoriali. Allora, se questo è il risultato prodotto dagli
sforzi fatti in questi anni dal legislatore, appare sempre più chiaro che l’unico rimedio,
di fronte al pericolo che la “partecipazione sindacale” degeneri in “cogestione”, non può
che essere quello che passa per una valorizzazione di una dirigenza pubblica, preparata
e portata a fungere da “controparte” nel confronto con il sindacato.
La verità è che, per evitare reciproche invasioni di campo, tra contrattazione e
legislazione, occorrerebbe che fosse la Costituzione a stabilire confini precisi delle
rispettive aree di competenza.
4. Incidenza della riforma costituzionale sulla struttura della contrattazione
collettiva nel settore pubblico: in particolare, ruolo dell’Aran e dei comitati di
settore
Le modificazioni degli assetti istituzionali - intervenute per effetto della riforma
costituzionale del 2001 (l. cost. n. 3/2001) - nel ridisegnare i rapporti di forza tra Stato,
Regioni ed Enti locali, hanno inevitabilmente sottoposto a tensione il sistema di
contrattazione collettiva delle amministrazioni pubbliche. Quest’ultimo, come
sappiamo, presenta, in partenza, alcuni tratti di assoluta peculiarità regolativa, che
rispondono principalmente a speciali esigenze di rilievo costituzionale. La regolazione
della contrattazione collettiva nel lavoro pubblico, infatti, deve assicurare il rispetto dei
principi costituzionali, in tema di organizzazione dei pubblici uffici (art. 97 Cost.); è
sottoposta, inoltre, al vincolo, anch’esso costituzionalmente stabilito, della copertura
della spesa pubblica (art. 81 Cost.), in forza del quale si impone una speciale disciplina
legale dell’attività contrattuale, proprio in relazione agli effetti di spesa a questa
connessi.
Coerentemente con le suddette finalità generali, il legislatore, nell’impianto
normativo del d. lgs. 165/2001, ha dato vita, pertanto, ad un modello “legificato” di
contratto collettivo: un modello che, a differenza del settore privato, investe a tutto
campo il contratto collettivo, coinvolgendo soggetti, oggetto, contenuti, livelli,
procedure, effetti, strumenti e tecniche di controllo35.
35
M. RUSCIANO, Contratto collettivo e autonomia sindacale, Utet, Torino, 2003, p. 230 ss.
21
Il profilo che, tra i tanti, sembra meglio rappresentare la complessità delle
questioni sollevate dalla riforma costituzionale, e dalle sue ripercussioni sulla struttura
contrattuale, è quello dei soggetti: mi riferisco, in particolare, alla funzione dell’Aran,
come agente negoziale unico di tutte le pubbliche amministrazioni, e dei comitati di
settore.
Già la vicenda normativa dell’Aran, relativamente alla sua articolazione e ai suoi
compiti, ha rivelato, in maniera evidente, la difficoltà del legislatore di comporre il
conflitto tra tendenze centripete ed istanze centrifughe di un sistema amministrativo in
transizione36. Del resto ciò è solo un aspetto del più generale problema della debolezza
della parte datoriale, come l’analisi dell’esperienza contrattuale degli ultimi anni ha
dimostrato: una debolezza dovuta, in larga parte, alla non chiara distinzione nel
processo negoziale tra ruolo del Governo e ruolo dell’Aran stessa37.
La riforma costituzionale riapre i problemi e, per certi versi, li amplifica,
ponendo in discussione finanche, secondo alcuni, il mantenimento, nel nuovo quadro
normativo “regionalista”, dell’intervento dello Stato nella definizione, mediante legge,
di un sistema di rappresentanza negoziale, cogente per tutte le amministrazioni
pubbliche.38
Diciamo subito che questa prospettiva non pare praticabile fino in fondo, se non
altro per l’argomento principale, secondo cui l’intervento del legislatore statale sia
insostituibile, almeno quanto alla gestione unitaria dei flussi finanziari connessi alla
contrattazione, nell’ottica di assicurare un’equa distribuzione delle risorse disponibili ed
in coerenza con le linee di politica economica e finanziaria nazionale. In questo senso,
allora, si giustifica il mantenimento dell’intervento statale, peraltro riconducibile a
quella funzione di “perequazione delle risorse finanziari”, di cui all’art. 117, comma 2,
Cost.
In realtà, qui, al di là della riflessione sul sistema contrattuale “ideale”, è
l’esperienza applicativa che sembra imporre, pur senza alterare la struttura contrattuale
vigente, innovazioni: essa, infatti, ci consegna risultati scarsi, specie quanto alla finalità,
perseguita dal legislatore, di dare maggiore autonomia e visibilità ai vari comparti,
attraverso il policentrismo, a livello nazionale, dei luoghi in cui si indirizza la
contrattazione di comparto (vale a dire, i comitati di settore)39.
Il sistema si è rivelato non adeguatamente equilibrato, quanto alle funzioni dei
diversi livelli contrattuali: si è scaricato sui Comitati di settore l’esigenza di controllo
della spesa pubblica, anche a discapito di un’attività contrattuale integrativa che fosse
più aderente alle esigenze dei cittadini-utenti e agli obiettivi di efficienza ed efficacia
dell’azione amministrativa di ciascuna amministrazione.
Una via d’uscita potrebbe essere quella, più coerente con le attuali tendenze
ordinamentali, secondo cui, in quelle materie in cui le Regioni si configurano come
livello fondamentale di governo della spesa pubblica (ad esempio, sanità, autonomie
locali), ben si potrebbe puntare, con maggiore convinzione, sul livello regionale, come
36
Cfr. L. ZOPPOLI, La “terza volta” dell’Agenzia per la rappresentanza negoziale delle
pubbliche amministrazioni. Brevi riflessioni sulla riforma dell’Aran, in LPA, 1998, p. 1297 ss.
37 Da ultimo, sul tema, torna C. DELL’ARINGA, Contrattazione collettiva e costo del lavoro, in C.
DELL’ARINGA, G. DELLA ROCCA (a cura di), Pubblici dipendenti, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2007, p.
3 ss.
38
A. VISCOMI, Prime riflessioni sulla struttura della contrattazione collettiva nelle pubbliche
amministrazioni nella prospettiva della riforma costituzionale, in LPA, 2002, p. 173.
39
L. ZOPPOLI, La riforma della contrattazione collettiva vista dal versante del lavoro pubblico,
in RIDL, 2006, p. 320.
22
snodo innovativo del potere di indirizzo e di regolazione della contrattazione collettiva a
livello integrativo40.
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
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oltre l’ambito della tradizionale attività normativa…, in L. CHIEFFI - G. CLEMENTE DI SAN LUCA, Regioni
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dell’organizzazione, dei rapporti di lavoro e del processo nelle amministrazioni pubbliche, in NLCC,
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- A. VISCOMI, Prime riflessioni sulla struttura della contrattazione collettiva nelle pubbliche
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- G. ZAGREBELSKY, Il diritto mite, Einaudi, Torino, 1992.
- L. ZOPPOLI, La “terza volta” dell’Agenzia per la rappresentanza negoziale delle pubbliche
amministrazioni. Brevi riflessioni sulla riforma dell’Aran, in LPA, 1998, p. 1297 ss.
- L. ZOPPOLI, La riforma della contrattazione collettiva vista dal versante del lavoro pubblico, in RIDL,
2006, p. 315.
40
L. ZOPPOLI, La riforma della contrattazione collettiva vista dal versante del lavoro pubblico,
cit., p. 321.
23
MARIO CERBONE
PROFESSIONALITÀ E CAPACITÀ DEI DIPENDENTI PUBBLICI PER LA COMPETITIVITÀ DEL
PAESE
CAPITOLO SESTO
GLI ISTITUTI FONDAMENTALI DEL RAPPORTO DI LAVORO
1. Rilevanza di una vera logica contrattuale
Costituisce la pre-condizione di una vera contrattualizzazione di tutti i rapporti di
lavoro pubblico (ad eccezione dell’alta dirigenza: v. capitolo settimo) il recupero, sul
piano logico-giuridico, e l’affermazione, sul piano operativo, dello “spirito contrattuale”
del rapporto di lavoro: secondo il quale l’obbedienza, la diligenza e la fedeltà (ai sensi
degli articoli 2104 e 2105 cod. civ.) costituiscono, insieme alla collaborazione, elementi
strutturali del contratto di lavoro, come contratto di scambio, a prestazioni corrispettive
(art. 2094 cod. civ.).
È paradossale che, mentre la grande impresa industriale, attraverso il contratto,
esige una fidelizzazione sempre più forte dei propri dipendenti, nelle pubbliche
amministrazioni - nelle quali il dipendente è stato, per anni, vincolato da uno status di
particolare soggezione e fedeltà - proprio il discorso della fidelizzazione venga
totalmente trascurato, anche sul piano culturale, e, per giunta, quando si richiede
maggiore produttività e maggiore efficienza.
2. Il reclutamento del personale
Il sistema di reclutamento del personale pubblico vigente si caratterizza per
molteplici aspetti negativi. Per certi versi, si può dire che le criticità di esso
contribuiscono finanche a snaturare la “natura stessa dell’obiettivo concorsuale”41. Se
solo si pone a raffronto il quadro dei principi fondamentali - che governano l’accesso
all’impiego pubblico e che sono consacrati persino nella Costituzione - con la prassi
applicativa, infatti, saltano all’occhio subito le disfunzioni alle quali il sistema
medesimo si piega.
Il riconoscimento dei capaci e meritevoli (art. 34 Cost.), il diritto di tutti i cittadini
di accedere agli uffici pubblici in condizioni di eguaglianza (art. 51 Cost.), l’obbligo di
adempiere le funzioni pubbliche con disciplina ed onore (art. 54 Cost.), l’accesso agli
impieghi pubblici mediante concorso (art. 97 Cost.), l’imparzialità dell’amministrazione
(art. 97 Cost.), l’obbligo per gli impiegati di agire al servizio esclusivo della Nazione
(art. 98): tali disposizioni normative, che rappresentano un disegno ben preciso del
Costituente, hanno subito, nel corso degli anni, forti torsioni, sia ad opera dei soggetti
chiamati ad applicarle, sia da parte dello stesso legislatore, fino al punto che oggi, in
determinati casi, sembra essere messa in discussione finanche l’idea che il merito,
nell’accesso come nella carriera dell’impiegato pubblico, accertato con procedure
ispirate all’imparzialità, costituisca un “mito necessario”42
Cominciamo col dire che il primo grande elemento di distonia nel funzionamento
dei concorsi attiene alla qualità ed alla funzionalità dei medesimi: al riguardo, va detto
41
Rapporto, punto 4.8.
Così S. CASSESE, L’ideale di una buona amministrazione, Editoriale Scientifica, Napoli, 2007,
p. 31, citando J.H. GODTHORPE, I problemi della meritocrazia, in Stato e mercato, 1994, p. 7 ss.
42
24
che manca, il più delle volte, un riferimento, costante ed aggiornato, alle mansioni per le
quali si bandisce il concorso medesimo.
Su questo punto si registra un notevole ritardo. Le prove concorsuali spesso
appaiono troppo distanti dalle esigenze organizzative che esse dovrebbero soddisfare. I
requisiti di partecipazione ai concorsi, salvo quello relativo all’età, restano
standardizzati e non sempre corrispondenti alle professionalità occorrenti
nell’amministrazione43: ad esempio, alcuna valorizzazione si rinviene per esperienze
prodromiche all’impiego, come gli stages. Ferma restando l’imparzialità della selezione,
tali strumenti, così come una valutazione accurata dei titoli, se pertinenti alle mansioni,
potrebbero, invece, contribuire a consolidare la posizione di alcuni candidati, in ragione
della loro conoscenza delle mansioni da ricoprire, con un indubbio vantaggio per la
stessa amministrazione.
Così come, più in generale, andrebbero privilegiati percorsi professionali
differenziati, e non monolitici: al processo di differenziazione delle amministrazioni
pubbliche dovrebbe accompagnarsi un processo di specializzazione anche dei profili
professionali richiesti. Ed i criteri di selezione del personale dovrebbero rispecchiare le
specificità delle pubbliche amministrazioni.
Un secondo elemento di criticità riguarda il “tempo” necessario per l’espletamento
del concorso: concorsi che si protraggono nel tempo, in ragione del particolare
affollamento di candidati (il più delle volte per posti disponibili, in proporzione, molto
limitati), costituiscono degenerazioni insostenibili per le nostre amministrazioni
pubbliche. E ciò per almeno due ragioni. Perché tali prassi: a) incidono, in maniera
pesante, sui “costi economici” della selezione pubblica; b) rischiano di consolidare una
gestione del personale non razionale: per fronteggiare le continue e crescenti esigenze
organizzative, le pubbliche amministrazioni debbono pur avvalersi, nelle more
dell’espletamento delle procedure concorsuali, di risorse umane adeguate: e non c’è
dubbio che quanto più si prolunga il tempo del concorso, tanto più l’amministrazione è
costretta, per evitare la paralisi delle sue politiche, a trovare soluzioni temporanee di
utilizzazione del personale a disposizione (ad esempio, con l’attribuzione di mansioni
superiori oppure attraverso un’utilizzazione più massiccia di forme flessibili di impiego,
di incarichi esterni, ecc.).
Intuibili sono, pertanto, le ripercussioni negative di tali situazioni sul generale
andamento delle pubbliche amministrazioni.
Sul versante dei contenuti e delle modalità di espletamento delle prove
concorsuali, il Rapporto Giannini indicava alcune soluzioni, tra le quali quella di
introdurre, in luogo delle prove a carattere espositivo, fonte di difformità di valutazione
e di lentezze, prove articolate in maniera più snella e tale da consentire una correzione
più oggettiva e più veloce.
Tale prospettiva di fondo, corrispondente anche ad una richiesta di abbattimento
dei costi (economici e di tempo) per le pubbliche amministrazioni, oggi, in linea di
massima (anche in considerazione dei casi, cui si faceva riferimento poco prima, di
concorsi particolarmente “lunghi”), può dirsi in una fase ancora piena di ombre e
lontana dal raggiungimento: e là dove i costi economici vengono contenuti, sono i costi,
questa volta organizzativi, a restare alti. Si pensi all’uso delle tecnologie che, per questi
fini particolari, si attesta ancora su livelli bassi.
43
E’ quanto emerge, del resto, anche dal Rapporto introduttivo del Ministro per la Funzione
Pubblica, su “Lo stato dell’amministrazione pubblica a vent’anni dal Rapporto Giannini”, Roma, 16
novembre 1999, p. 92.
25
I tempi delle procedure, in sostanza, restano lunghi: su questo rendimento
pesano alcuni fattori di ritardo e/o di complicazione organizzativa, riscontrabili nelle
amministrazioni pubbliche. Ad esempio, le commissioni esaminatrici continuano a non
essere formate da “professionisti” delle procedure selettive, ma da esperti “prestati” a
tempo parziale. Le stesse procedure selettive informatizzate, ormai particolarmente
diffuse, con sistemi di correzione automatizzati, non sempre garantiscono la speditezza
di acquisizione delle risorse umane, a causa degli inconvenienti tecnici non rari.
Esse poi rivelano un vizio più di fondo: non sempre si dimostrano funzionali
all’individuazione dei candidati maggiormente idonei per determinate attività di lavoro,
in particolare per quelle di elevato livello professionale. È evidente, infatti, come, per
queste ultime, la valutazione dei soli requisiti tecnici di base per l’accesso non sia
sufficiente, dovendosi necessariamente combinare con altre competenze professionali
del candidato (capacità gestionali, relazionali, etc.), da valutare, per forza di cose, con
prove più articolate. Occorrerebbe allora, anche in questa caso, strutturare prove
selettive che tengano conto di queste specifiche esigenze.
In definitiva, si può sostenere che i processi di acquisizione delle risorse umane
nelle nostre pubbliche amministrazioni sono ancora lontani da standards di
organizzazione accettabili: il “sistema” pare (ancora) troppo sbilanciato sul versante
“proceduralistico” e ancora poco attento all’effettiva verifica sull’attività di lavoro. Il
solo superamento di prove di conoscenza ed attitudine (anche psicologica), senza
un’adeguata verificazione in attività di lavoro (periodo di prova), a seguito di adeguata
formazione iniziale, non può garantire la qualità del prodotto della procedura di scelta
del “contraente”44.
L’altro punto su cui il quadro normativo vigente resta inappagante è quello del
legame tra reclutamento e verifica della professionalità. Essendo ancora deboli, come si
dirà di qui a breve, i collegamenti tra scuola e mondo del lavoro, diviene difficoltoso
introdurre regole di reclutamento “per qualificazione professionale, salvo che per talune
attività eminentemente tecniche”45.
A questi elementi di criticità per la selezione agli impieghi pubblici se ne
aggiungono altri, legati, più in generale, alle politiche di sviluppo delle risorse umane,
applicate nelle amministrazioni. Alla innovazione sul piano normativo non sempre è
seguita, in questi ultimi anni, una vera e incisiva innovazione sul piano gestionale: e ciò,
in modo particolare, per il personale. Tale lacuna di fondo, a lungo andare, ha
contribuito a svuotare di significato le stesse disposizioni normative.
Ed infatti, in materia, parecchie sono le rigidità organizzative, difficili da superare:
a) anzitutto, sul versante degli organici, il vero punto debole è stato, ed è tuttora,
per gran parte delle amministrazioni pubbliche, quello del corretto dimensionamento
degli organici: nelle applicazioni concrete difficilmente si realizza quella
corrispondenza tra dimensionamento degli organici e carichi di lavoro;
b) l’alimentazione finanziaria per il personale, a partire dalla contrattazione
collettiva, è ancora troppo centralizzata: è auspicabile allora che il sistema si decentri,
per potere sviluppare capacità di innovazione e autocontrollo;
c) la pianta organica si è rivelata uno strumento inadeguato, in quanto essa tende ad
irrigidire un insieme di ruoli e funzioni e, soprattutto, non è dotato della duttilità
necessaria a seguire le evoluzioni organizzative.
44
45
Così il Rapporto introduttivo del 1999, cit., p. 92.
Rapporto, punto 4.8., p. 295.
26
3. Formazione e concorsi
Il tema della selezione si intreccia, ovviamente, con quello della formazione e, più
in generale, con quello della funzione svolta dal sistema formativo, delle scuole e
dell’Università.
Per quanto concerne la possibilità di instaurare una relazione diretta ed appagante
tra Scuola/Università e mondo del lavoro, inutile dire come la strada sia ancora molto
lunga, attesa la perdurante difficoltà di trovare omogeneizzazione dei linguaggi ed
univocità di obiettivi della formazione.
Nella prospettiva del Rapporto Giannini, questo giudizio negativo appariva quasi
scontato: si insisteva, pertanto, sulla necessità di percorsi professionali più mirati,
attraverso un rafforzamento del ruolo delle Scuole delle singole amministrazioni e della
Scuola superiore della pubblica amministrazione, decisive per rendere appagante la
formazione e l’aggiornamento del personale pubblico46.
Nel quadro normativo vigente, va detto che non paiono rinvenirsi innovazioni di
rilievo.
Quanto ai soggetti della formazione, la recente legge finanziaria per il 2007 (art. 1,
comma 580, legge 27 dicembre 2006, n. 296) ha previsto un trasferimento della
‘missione’ della Scuola Superiore della Pubblica Amministrazione (e delle relative
dotazioni finanziarie, strumentali e di personale) alla nuova Agenzia per la formazione
dei dirigenti e dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche - Scuola nazionale della
pubblica amministrazione: e ci sarà da capire, in futuro, l’impatto di questa innovazione.
Ma, al di là della vicenda specifica della Scuola Superiore, in linea generale, va
detto che uno dei principali problemi che si riscontra sul tema, oggi, è quello del
controllo della qualità dell’attività di formazione stessa. In questa prospettiva, allora, si
capisce che le Università devono recuperare un ruolo importante e centrale. Esse
costituiscono le strutture “naturali” per la formazione della dirigenza amministrativa. Il
percorso da seguire è, pertanto, quello volto a tenere collegati, il più possibile, i discorsi
sulla formazione di un nuovo ceto burocratico con la riforma delle Università47.
Quanto ai contenuti della formazione, l’attualità delle relazioni economicoorganizzative ha spostato il problema, per così dire, dal piano statico, del mero
aggiornamento di conoscenze e competenze che si presumevano possedute in partenza,
al piano dinamico, dell’apprendimento di tecniche innovative, ancora poco conosciute
ed adottate nelle amministrazioni pubbliche (si pensi al discorso sull’e-government).
Allora, così impostato, l’obiettivo della formazione si traduce in una vera e propria
riconversione delle professionalità: operazione molto difficile, per la riuscita della quale
c’è bisogno, non solo di molte risorse economiche, ma anche, e direi soprattutto, del
coinvolgimento di soggetti altamente qualificati.
Un terreno su cui, invece, i risultati paiono incoraggianti è quello dello scambio di
esperienze di innovazione amministrativa tra diverse realtà del Paese48. La diffusione di
“casi di eccellenza” è un punto chiave, per vari motivi: sia perché essa consente quella
competizione tra gli enti, che è fattore di miglioramento; sia perché contribuisce a
fondare, attraverso la messa in comune delle esperienze, quella unicità di linguaggio che
46
Rapporto, punto 4.11.
Cfr. M. RUSCIANO, Formazione della dirigenza e pubblica amministrazione, in Sistema
formativo, impresa e occupazione, Pubblicazioni del Centro Interdipartimentale per gli studi aziendali,
economici e sociali dell’Università degli Studi del Sannio Benevento, Esi, Napoli, 1998, p. 118.
48
Cfr. il Rapporto introduttivo del Ministro per la Funzione Pubblica, su “Lo stato
dell’amministrazione pubblica a vent’anni dal Rapporto Giannini”, Roma, 16 novembre 1999, p. 98.
47
27
spesso manca alle amministrazioni; sia perché, in ultima analisi, essa è un tassello
importante per il discorso della interconnessione tra le pubbliche amministrazioni.
Interconnessione, senza dubbio, più agevole, se esiste, alla base, appunto, una trama di
comunicazione e scambio tra le pubbliche amministrazioni medesime.
Certo, lo scambio di esperienze non può che essere guardato con favore. Tuttavia,
non va trascurato un aspetto più di fondo: l’obiettivo della competitività delle pubbliche
amministrazioni è un obiettivo necessariamente generale, riguardante cioè tutte le
amministrazioni. Esso cioè difficilmente può essere centrato se il livello di efficienza e
di buon andamento delle amministrazioni medesime resta distribuito in maniera così
scarsamente omogenea sul piano geografico-territoriale. Come più volte detto, l’assetto
di tutte le amministrazioni pubbliche, quelle centrali come quelle periferiche, tiene se
viene garantita, sempre e per tutti, una soglia di efficienza dell’intero “sistema
amministrativo”: il Rapporto Giannini, a questo riguardo, era molto esplicito, quando
apriva le sue analisi partendo proprio dalla esigenza - appartenente, si può dire, alla
struttura dei poteri pubblici - di legare l’azione svolta dalle sedi di amministrazione più
vicine al territorio (i Comuni) con l’azione degli altri soggetti istituzionali. Siffatto
legame tra i poteri pubblici si traduce, in altre parole, nella necessità di evitare, per
quanto possibile, che le sostituzioni dei soggetti istituzionali ‘inadempienti’, ad opera di
enti più solerti, diventino una regola stabile dell’organizzazione amministrativa. Solo in
questo modo, attivando cioè circuiti di responsabilità, politica e di gestione, si può
sperare che i vari soggetti del sistema amministrativo orientino la propria azione verso
obiettivi di efficienza.
1. Le selezioni concorsuali nel lavoro pubblico: i problemi aperti e il ruolo
della giurisprudenza
Il tema dei concorsi trova, poi, grande spazio nella giurisprudenza sul lavoro
pubblico. E ciò si spiega, fondamentalmente, per due motivi. Il primo, di carattere
pratico: la ‘posta in gioco’, vale a dire l’assunzione e quindi lo sviluppo professionale, è
alta. Il secondo, tecnico-giuridico: frutto di un quadro normativo molto ambiguo e, in
alcuni casi, addirittura contraddittorio.
Sul reclutamento del personale, persistono tuttora notevoli vischiosità del quadro
normativo, che rivelano una impressionante continuità con le lucide pagine del
Rapporto Giannini. Da quel documento veniva fuori un’analisi oggettiva dei punti di
maggiore sofferenza del sistema di allora, parecchi dei quali risultano ancora oggi
presenti.
Ed, in particolare, mi pare si possa sostenere che la stessa giurisprudenza sulle
selezioni concorsuali rispecchi le difficoltà e le incongruenze che esistono, nel nostro
ordinamento, a proposito della “natura dell’obiettivo concorsuale”49.
Proprio le vischiosità del contesto normativo - almeno quelle che si è tentato di
indicare - spiegano le oscillazioni della giurisprudenza in tema, costretta a muoversi su
un terreno molto instabile.
Le questioni affrontate dalla giurisprudenza sono molteplici e tutte
richiederebbero un approfondimento accurato. Non è questa la sede per farlo: conviene
piuttosto prendere in considerazione alcuni profili che, meglio degli altri, riescono a
dare il senso delle difficoltà di penetrazione del processo di “privatizzazione” nel settore
pubblico.
49
Così nel Rapporto, punto 4.8., p. 295.
28
Anzitutto, va segnalata la questione, affrontata dalla Corte costituzionale, se la
pubblica amministrazione, al fine di effettuare le progressioni in carriera, può impiegare
procedure concorsuali riservate esclusivamente ai dipendenti.
Consequenziale è poi la questione della competenza giurisdizionale, in tema di
“concorsi interni”.
5. La giurisprudenza costituzionale sulle procedure concorsuali nei passaggi
di qualifica
Quanto alla prima questione, significative sono le pronunce della Consulta,
secondo le quali il passaggio di qualifica costituisce una forma di reclutamento, cui deve
applicarsi il principio del concorso pubblico, cioè aperto anche ai candidati esterni50.
I giudici costituzionali costruiscono tale orientamento sulla granitica
interpretazione dell’art. 97 Cost., in connessione con gli articoli 3, 51 e 98 Cost.
Il concorso, afferma la Corte costituzionale, è un meccanismo di selezione
tecnica e neutrale dei più capaci e resta il metodo migliore per l’acquisizione di soggetti
chiamati ad esercitare le proprie funzioni, in condizioni di imparzialità ed al servizio
della Nazione, come richiede la Carta costituzionale. Secondo la Corte, al “passaggio ad
una funzione superiore” deve applicarsi questo regime: in tale passaggio, infatti, si
ravvisa una forma di reclutamento che esige anch’essa una selezione concorsuale. E
questa, intanto è idonea a conseguire il suo obiettivo di reclutamento imparziale dei
migliori, in quanto consenta la partecipazione al maggior numero possibile di candidati,
sia dipendenti sia esterni. Pertanto, sia le assunzioni, sia gli avanzamenti di carriera
esigono un selettivo accertamento delle attitudini professionali, che solo il concorso
aperto a tutti può garantire.
L’approdo interpretativo della Corte, in queste pronunce, è, indubbiamente,
condivisibile in linea di principio. Tuttavia, dal punto di vista logico-argomentativo,
l’iter dei giudici costituzionali si espone a critiche. E, ancora una volta, mette in risalto
come il percorso della privatizzazione dell’impiego pubblico sia ancora oggi, a distanza
di quasi quindici anni dalla legge delega del 1992, fatto di “progressi ed insidie”51,
anche in ambito giurisprudenziale. Ed infatti, analizzando i passaggi appena riportati
della giurisprudenza costituzionale, può osservarsi come la Consulta presupponga, nella
sua ricostruzione, un’equazione tra “passaggio di qualifica” ed “assunzione”, per la
verità tutta da dimostrare: il terzo comma dell’art. 97 Cost. allude, infatti, esplicitamente
ad ipotesi di reclutamento di nuovi dipendenti.
Inoltre, colpisce la declinazione che viene data dello stesso principio
dell’imparzialità ex art. 97, comma 1, inteso come principio che impone sempre
l’adozione di meccanismi neutrali ed oggettivi. Proprio in tema di dirigenza (si vedrà
meglio nella parte specifica), la stessa Corte costituzionale ha, invece, chiarito come lo
stesso canone dell’imparzialità vada letto necessariamente in combinazione con l’altro
principio, quello del buon andamento, e come addirittura, in determinati e specifici casi,
esso possa subire compressioni, giustificabili proprio alla luce del buon andamento
amministrativo, e, più in generale, del valore dell’efficienza, contenuto nel precetto
costituzionale indicato.
50
La giurisprudenza costituzionale può dirsi costante: da ultimo, v. Corte costituzionale
9.11.2006, n. 363.
51
Riprendo un’efficace espressione utilizzata da L. ZOPPOLI, Il lavoro pubblico negli anni ’90,
Giappichelli, Torino, 1998, p. 178 ss.
29
Ebbene, non c’è dubbio che, sotto questo aspetto, la scelta delle procedure
concorsuali potrebbe, anzi, in ragione dei lunghi tempi di espletamento, pregiudicare
proprio il valore del buon andamento dell’azione amministrativa.
In realtà, al di là di queste perplessità di carattere generale, il vero punto di
attrito di tale orientamento finisce per concretizzarsi proprio sul versante della logica di
fondo della “privatizzazione”, come concepita e voluta dal legislatore. Ed infatti,
parecchi studiosi hanno, da subito, sottolineato l’insanabile inconciliabilità logica tra gli
assunti della Corte e le premesse della stessa riforma nel senso della “privatizzazione”:
sostenere la riconducibilità del “passaggio ad un superiore livello” al regime del
“concorso” finisce con il far prevalere una determinata collocazione formale nella
struttura amministrativa, a scapito dell’apporto professionale del lavoratore
nell’organizzazione lavorativa”52. Nella ricostruzione interpretativa fornita dalla Corte,
invero, è assente il profilo lavoristico a favore di aspetti relativi alla pianificazione,
astratta, delle esigenze dell’amministrazione: tale pianificazione prevale anch’essa sulle
concrete necessità dell’organizzazione lavorativa. Non a caso manca qualsiasi
riferimento alla disposizione normativa del d. lgs. 165/2001, l’art. 52, in tema di
mansioni, riproponendo così una lacuna già segnalata nel Rapporto Giannini53. Tale
norma, come si sa, prevede che il prestatore di lavoro debba essere adibito alle mansioni
di assunzione o a “quelle corrispondenti alla qualifica superiore che abbia
successivamente acquisito per effetto dello sviluppo professionale o di procedure
concorsuali o selettive”. Essa ha quindi una portata ben più ampia e non restringe affatto
le occasioni di promozione alla sola eventualità del superamento di un concorso.
In realtà, le argomentazioni della Corte destano perplessità anche sotto un altro
profilo: la Consulta censura le procedure di selezione che riservano la totalità dei posti
ai dipendenti interni all’amministrazione. I giudici costituzionali affermano, al riguardo,
che solo un meccanismo di riserva parziale, cioè limitato ad alcuni dei posti per
candidati già dipendenti dell’amministrazione, può ritenersi legittimo.
Questo argomentare della Corte, a ben vedere, non semplifica il dibattito,
esponendo, al contrario, il ragionamento ad ulteriori critiche: proprio il meccanismo
della riserva parziale dei posti, infatti, si pone in antitesi con quell’idea, cui si affida in
altre occasioni la stessa Corte, del “metodo concorsuale” come strumento di ricerca dei
migliori, attraverso la concorrenza tra i candidati, siano essi interni od esterni. Con la
riserva dei posti agli “interni”, inclusi in una graduatoria distinta dagli “esterni”, viene
infatti vanificata quella competizione paritaria tra tutti i partecipanti alla selezione.
A ben vedere, su questo punto, la giurisprudenza riflette una grave
contraddizione del sistema normativo vigente: il legislatore, infatti, da un lato, vuole
raccogliere il significato più profondo del precetto costituzionale sul concorso, inteso
come istituto aperto a tutti e proteso a selezionare i più capaci e meritevoli; da un altro
lato, affida al sindacato una porzione rilevante di questo reclutamento, con le
progressioni professionali dei dipendenti, i cui criteri sono previsti dalla contrattazione
collettiva.
Tale impostazione non è condivisibile. Si attribuisce, infatti, al contratto
collettivo la mediazione tra interessi non omogenei: i dipendenti “interni”, infatti, hanno
interessi forse addirittura confliggenti con quelli dei soggetti “esterni”, che vedono
pregiudicata dai primi la loro partecipazione al concorso e che sono estranei alla
52
V. LUCIANI, La giurisprudenza in tema di selezioni concorsuali nel lavoro pubblico tra
questioni risolte e problemi aperti, in DLM, 2003, p. 114.
53
Si allude all’analisi delle mansioni, su cui cfr. Rapporto, punto 4.8.
30
rappresentanza sindacale. Alla fin dei conti, con il meccanismo delle progressioni
professionali, si sottraggono posti ai partecipanti “esterni”, per riservarli agli “interni”.
Sulla base di questo paradosso, il sistema delle norme scarica poi sulla
giurisprudenza il compito di trovare un equilibrio tra le contrapposte esigenze, con tutte
le intuibili e prevedibili oscillazioni interpretative, di cui si è detto.
L’impianto normativo di riferimento non funziona e va, pertanto, decisamente
rivisto, nell’ottica di evitare pericolosi aggiramenti dei precetti costituzionali.
6. Le ripercussioni sul piano della competenza giurisdizionale: i paradossi
dei “concorsi interni”, tra giudice ordinario e giudice amministrativo
Le oscillazioni interpretative sulla natura giuridica dei “concorsi interni” si
riverberano, inevitabilmente, sul versante della competenza giurisdizionale in materia,
complicando ulteriormente il quadro interpretativo.
La Corte costituzionale è intervenuta anche su tale profilo, affermando, in piena
coerenza con la sua ricostruzione di diritto sostanziale, che equipara il passaggio di
qualifica ad un’assunzione, la devoluzione delle controversie in materia al giudice
amministrativo54. La coerenza di siffatta decisione viene scalfita, anche in questa
circostanza, se si guarda alla disposizione normativa del d.lgs. 165, l’art. 63, che
devolve la competenza delle controversie relative ai rapporti di lavoro al giudice
ordinario, ad eccezione di quelle “in materia di procedure concorsuali per l’assunzione”:
attenendosi ad un’interpretazione letterale della norma, andrebbero affidate alla
cognizione del giudice amministrativo soltanto le procedure finalizzate al reclutamento.
A questo argomento si aggiunge poi la diversa considerazione, pure svolta da
parte della giurisprudenza ordinaria, secondo cui le controversie relative ai concorsi per
la promozione attengono ad una vicenda modificativa del rapporto di lavoro, rispetto
alla quale il processo di privatizzazione produce integralmente i suoi effetti: i concorsi
finalizzati al reclutamento, invece, attenendo ad una fase pre-contrattuale, rimarrebbero
ancora in una sfera non attratta nella “privatizzazione”, e quindi necessariamente
“pubblicistica”. Per questa tesi, ai fini della giurisdizione, risulta, dunque, decisiva la
“condizione giuridica” del candidato, rispetto all’amministrazione che bandisce il
concorso.
In questa prospettiva si muove la Corte di Cassazione, ribadendo che non è
corretto ricondurre al concetto di assunzione il passaggio dei dipendenti da una qualifica
all’altra, poiché “detto passaggio attiene ad una vicenda modificativa del rapporto, di
regola senza novazione del medesimo e, quindi, senza estinzione del precedente e
contestuale costituzione del nuovo”55.
Insomma, i problemi aperti sono parecchi, e tutti necessitano di un intervento
normativo chiarificatore, che, da un lato, recuperi all’istituto del concorso quella
concreta valenza meritocratica, tante volte solo dichiarata 56 e, dall’altro, ne definisca i
contorni giuridici, in coerenza sistematica con la logica della “privatizzazione”. Sotto
questo secondo aspetto, va rimarcato come le innovazioni siano difficilmente
realizzabili nelle nostre amministrazioni, se continua a persistere un deficit profondo
quanto a “cultura della gestione e dello sviluppo delle risorse umane”: l’ottica della
gestione delle risorse umane, infatti, a differenza di quella della (mera)
54
Così ordinanza n. 2 del 4 gennaio 2001.
Cass. n. 7859/2001.
56
Sui concorsi, il dibattito è sempre molto vivo: cfr., per la completezza della prospettiva, S.
CASSESE, L’ideale di una buona amministrazione, Editoriale Scientifica, Napoli, 2007.
55
31
“amministrazione del personale” (prevalente nelle nostre amministrazioni),
comporterebbe, proprio sul versante della selezione, la verifica di aspetti motivazionali,
attitudinali e relazionali, con l’obiettivo di massimizzare la probabilità di integrare il
soggetto nel ruolo lavorativo, e quindi la sua produttività57. Mantenersi, invece, in una
prospettiva attenta alla sola “amministrazione” del personale significa preoccuparsi
della sola finalità garantistica - sia chiaro necessaria, ma non sufficiente - attraverso il
rispetto delle procedure concorsuali.
7. Il “modello organizzativo” della qualifica funzionale: cattiva applicazione e
successivo superamento
Nel Rapporto Giannini, viene dedicato molto spazio all’analisi del sistema di
inquadramento del personale, attraverso la “qualifica funzionale”. Quella esperienza,
all’epoca di Giannini ancora allo stadio embrionale, come si sa, si è prima tramutata in
normativa, ed è stata, poi, ampiamente superata dal sistema delle “aree professionali”.
Tuttavia, per i problemi relativi all’inquadramento, guardare a ritroso può essere
utile, nella prospettiva sia di capire il peso e il condizionamento che le pregresse
esperienze normative hanno esercitato sull’attuale sistema di inquadramento, sia per
cogliere, nel quadro vigente, di formale e tendenziale unificazione normativa con la
disciplina privatistica, le ragioni ultime della peculiarità di alcuni profili della materia.
Partendo allora dalla “qualifica funzionale”, nell’impostazione teorica originaria,
essa veniva intesa come un “nuovo modello organizzativo, ordinato ad un duplice fine:
di raggruppare le prestazioni lavorative di contenuto simile, e di fissare per ciascun
raggruppamento un eguale trattamento retributivo”58: un assetto definibile funzionaleretributivo. Esso riprendeva una tendenza che era presente anche nei settori produttivi
privati, testimoniata da una serie di contratti collettivi, che moltiplicarono i profili
professionali, secondo una logica di “parcellizzazione” delle mansioni.
Quello della qualifica funzionale, in effetti, più che un modello organizzativo si
dimostrò, in concreto, un disegno di ordinamento del personale, di difficile applicazione
ed incompleto59. Si trattava di un’impostazione troppo schematica e fonte di rigidità, e
che fu ben presto abbandonata, anche dalle imprese private, passate a modelli opposti,
basati sull’arricchimento delle mansioni e sull’attività per processi.
Un primo limite discendeva, infatti, dagli stessi requisiti professionali delle
prestazioni lavorative: vale a dire, ci sono prestazioni lavorative professionalmente
qualificate, ma non ordinabili, ossia prive di grandezze definibili (l’esempio tipico è
quello dell’insegnante).
Il secondo limite era legato, invece, alle qualificazioni professionali e, più
precisamente, alla loro incidenza sul discorso della mobilità e del reclutamento. La
qualifica professionale, in altri termini, è indipendente da quella funzionale, e si
connette a questa in modi non omogenei. Ciò implica che le qualifiche professionali
tagliano verticalmente gli ordinamenti del personale, in qualsiasi amministrazione, e
costituiscono un limite non superabile alla mobilità interna, sia di qualifica funzionale
che fra amministrazioni. Facendo un esempio, come non è pensabile che un ingegnere
possa essere messo a fare il medico, alla stessa maniera non è pensabile che un direttivo
57
G. COSTA, Elementi per una politica di sviluppo delle risorse umane nelle amministrazioni
pubbliche, in L. VANDELLI, C. BOTTARI, O. ZANASI (a cura di), Organizzazione amministrativa e pubblico
impiego, Maggioli Editore, Rimini, 1995, p. 205.
58
Rapporto, punto 4.3.
59
Rapporto, punto 4.3.
32
dell’ufficio brevetti possa essere passato al genio civile, anche se possiedono le stesse
qualifiche funzionali60.
La diversa velocità di adattamento che il settore pubblico ha sempre dimostrato
rispetto al “privato” ha condotto ad una evoluzione molto più lenta in materia, con il
risultato che la fase di reinquadramento del personale, a seguito della legge del 1980
sulle qualifiche funzionali, si è prolungata fino a pochi anni fa. Le amministrazioni
hanno fatto fronte così a questa assoluta divaricazione tra profili formali ed esigenze
sostanziali, ricorrendo all’affidamento di mansioni diverse e superiori a quelle ascritte a
ciascun profilo professionale. Questo fenomeno si è trascinato per anni, favorito da altri
fattori: quali la lentezza dell’espletamento delle procedure concorsuali, i blocchi, totali o
parziali, delle assunzioni, le spinte alla mobilità Nord-Sud, dovute alla provenienza
prevalentemente meridionale del personale. Si è verificato, inoltre, anche per effetto di
automatismi incontrollabili, un progressivo svuotamento delle qualifiche più basse ed
una conseguente compressione delle professionalità collocate ai livelli più alti.
L’attuale sistema di inquadramento, varato dai contratti collettivi, si basa sulla
suddivisione del personale in grandi “aree professionali” e, all’interno di esse, in
posizioni economiche, che corrispondono non necessariamente a mansioni superiori, ma
che consentono di differenziare i trattamenti retributivi, in ragione della qualità della
prestazione e del diverso grado di responsabilità.
8. Inquadramento e mansioni: “aree professionali” e “posizioni organizzative”
Proprio il versante delle mansioni e degli inquadramenti del personale ha
costituito, nel disegno riformatore del legislatore della privatizzazione, uno degli aspetti
di maggiore innovazione: l’obiettivo della riforma era infatti quello di superare le
ataviche rigidità organizzative della pubblica amministrazione in materia.
In questa logica, alla contrattazione collettiva viene affidata la complessa materia
degli inquadramenti professionali: tale attribuzione, per un verso, risponde alla finalità
di una più flessibile gestione della forza-lavoro, per altro verso, è vincolata al rispetto di
quel nesso di corrispettività che della relazione di scambio negoziale è il principale
portato.
Ebbene, l’analisi dei contratti ha rivelato come la tendenza generale - lo abbiamo
anticipato - sia stata verso l’accorpamento delle qualifiche funzionali in un più ridotto
numero di aree professionali.
Uno dei punti di maggiore difficoltà del nuovo sistema di inquadramento è
consistito nella ricerca di un equilibrio tra i contingenti coperti dal personale già in
servizio ed i percorsi selettivi previsti dai contratti collettivi. Oggi, questo obiettivo
sembra più vicino, anche perché i contratti collettivi, nazionali ed integrativi, devono
operare le loro scelte tenendo conto delle disponibilità finanziarie. La possibilità, per le
parti contraenti, di utilizzare i risparmi di gestione ha rafforzato, inoltre, la necessità di
scelte coerenti con le reali esigenze e potenzialità delle singole amministrazioni. Tali
possibilità, naturalmente, hanno determinato dinamiche differenti da amministrazione
ad amministrazione: ma ciò è in perfetta coerenza con la logica della privatizzazione
dell’impiego pubblico.
Un’altra questione, legata alla tematica delle mansioni, su cui è necessario
soffermarsi, è quella della attribuzione al dipendente di posizioni organizzative, nelle
ipotesi consentite dal contratto collettivo: grazie ad esse al dipendente viene affidato un
60
Rapporto, punto 4.3.
33
ruolo di più elevata responsabilità nell’ambito dell’organizzazione di appartenenza, con
la corresponsione di un emolumento aggiuntivo.
Tali posizioni corrispondono, com’è noto, alla necessità di creare, ad un livello
inferiore alla dirigenza (e, anche qui, per arginare tentazioni di richiesta di massicci
passaggi a posizioni dirigenziali) incarichi a termine e specificamente retribuiti, per lo
svolgimento di posizioni di particolare valore e contenuto gerarchico, professionale, di
staff61.
Ebbene, tali istituti, di matrice contrattuale, pongono alcuni problemi applicativi da
tenere in considerazione quando si parla di sviluppo delle risorse umane. Anzitutto, sul
piano della compatibilità con la legge, in tema di equivalenza delle mansioni.
In pratica, bisogna capire se l’attribuzione di tali posizioni debba avvenire
rispettando l’equivalenza prevista dalla legge, seppure identificata dalla fonte
convenzionale, ovvero se tali incarichi rappresentino, in qualche misura, il conferimento
di mansioni superiori, sebbene peculiari.
Se l’affidamento di posizione organizzativa viene, infatti, considerato quale
conferimento di mansioni superiori a quelle di inquadramento, la previsione che lo
autorizza può risultare in contrasto con la disciplina dell’art. 52 del d.lgs. 165/2001 ed,
in particolare, con i presupposti della legittima adibizione a mansioni superiori (vacanza
in organico o sostituzione di lavoratore assente con diritto alla conservazione del posto)
e con la previsione della durata massima. Infine, andrebbe anche considerato che tale
assegnazione finirebbe per caratterizzarsi per la assoluta discrezionalità, con la possibile
assenza di qualsivoglia procedura selettiva.
Il rischio che si cela dietro l’assegnazione di siffatte “posizioni” è allora quello di
creare percorsi di crescita professionale assolutamente sganciati dal meccanismo
previsto dall’art. 52, e, soprattutto, tendenzialmente lesivi della professionalità del
lavoratore.
Più coerente con l’impostazione normativa del d.lgs. 165/2001 appare la soluzione
opposta, tesa a ritenere che il conferimento della posizione organizzativa possa avvenire
legittimamente soltanto nell’ambito dell’equivalenza. Qui, piuttosto, il problema è
capire a quale parametro agganciare il compenso aggiuntivo assegnato al prestatore di
lavoro, visto che la quantità ed il valore dell’insieme dei compiti assegnati è equivalente
rispetto ai precedenti compiti e non è tale quindi da giustificare la differenziazione
economica. Esso potrebbe, allora, essere posto in relazione con la particolare diligenza
richiesta al lavoratore nell’esecuzione di quella prestazione, in connessione con il
riconoscimento di responsabilità sul piano endo-amministrativo o addirittura verso terzi.
In altre parole, verrebbero in risalto quegli aspetti inerenti al “coinvolgimento” del
lavoratore nell’organizzazione ovvero altre componenti della sua qualifica soggettiva
(titoli di studio, abilitazioni professionali, etc.), che possono essere utilizzati per
migliorare la qualità della sua prestazione62.
9. Mobilità del personale (nelle varie accezioni)
Sul tema della “mobilità” del personale pubblico - nella sua duplice accezione,
relativa sia agli spostamenti interni ad un’amministrazione (“mobilità interna”), sia ai
61
M. RICCIARDI, I nuovi sistemi di classificazione del personale nei rinnovi contrattuali 19982001, in LPA, 1999, p. 276.
62
Sul punto, v. A. VISCOMI, Diligenza e prestazione di lavoro, Giappichelli, Torino, 1997; v.,
inoltre, l’analisi di U. GARGIULO, Flessibilità degli inquadramenti e corrispettività nel rapporto di lavoro,
Tesi di Dottorato, XIV ciclo, Università degli Studi di Napoli, cap. III, p. 171 ss.
34
passaggi di personale da un’amministrazione all’altra (“mobilità esterna”) - si registrano
non pochi scostamenti del “pubblico” rispetto al “privato”, tanto sul piano normativo
quanto su quello del concreto agire delle amministrazioni.
In linea generale, va detto che il quadro normativo in materia - condensato in un
blocco di disposizioni normative contenute nel Titolo II, Capo III del d. lgs. 165/2001
(“Organizzazione” - “Uffici, piante organiche, mobilità e accessi”), e in particolare, agli
articoli 30 (“Passaggio diretto di personale tra amministrazioni diverse”), 31
(“Passaggio di dipendenti per effetto di trasferimento di attività”), 32 (“Scambio di
funzionari appartenenti a Paesi diversi e temporaneo servizio all’estero”), 33
(“Eccedenze di personale e mobilità collettiva”, 34 (“Gestione del personale in
disponibilità”), 34-bis (“Disposizioni in materia di mobilità del personale”) - presenta
non poche rigidità, ponendosi in contrasto con la logica di fondo della privatizzazione.
Il riferimento è non tanto al c.d. passaggio diretto tra amministrazioni diverse,
disciplinato dall’art. 30: qui, anzi, proprio l’applicazione di regole del diritto privato, e
segnatamente di quelle in tema di cessione del contratto, non poteva che imporre allo
stesso legislatore di adottare una struttura normativa costruita sul “consenso” del
lavoratore ceduto. Tanto è vero che tali previsioni normative vengono affiancate da
quelle dell’articolo successivo, l’art. 31, che si occupa specificamente della vicenda del
passaggio dei dipendenti come conseguenza del “trasferimento di attività”, sancendo
espressamente l’applicazione di una norma civilistica, l’art. 2112 c.c.
L’ambito in cui meglio si evidenzia quello scostamento di cui si diceva tra
“pubblico” e “privato” è quello relativo alla mobilità collettiva, connessa a processi di
riorganizzazione, che implicano eccedenze di personale (per intenderci: quello
contemplato dall’art. 33). Su questo specifico versante, indubbiamente, le procedure
apprestate dal legislatore non paiono molto coerenti con il generale processo di
privatizzazione e, al contrario, sembrano ispirarsi, più che altro, all’idea del
mantenimento di un privilegio del pubblico impiego, con gravi ripercussioni sulla
rigidità dell’organizzazione pubblica. In particolare, le disposizioni del comma 4 e del
comma 7 dell’art. 33 del d. lgs 165/2001, lette nel combinato disposto, si pongono al di
fuori della logica della privatizzazione: tali norme, infatti, se messe a confronto con le
omologhe disposizioni previste per il settore privato (l. 223/1991), prospettano, a valle
della articolata procedura di cui all’art. 33, alcuni esiti di difficile interpretazione.
Infatti, conclusa la procedura, si apre per le amministrazioni pubbliche - a differenza di
quanto avviene nel privato, dove il datore di lavoro procede ai licenziamenti - la fase del
“collocamento in disponibilità del personale”, come regolato dall’art. 34. Ma a questo
indubbio elemento di specialità, previsto dal d. lgs. 165 - specialità che, nella sostanza,
poi sposta soltanto l’esito finale della vicenda, nell’ipotesi in cui non vi siano più le
condizioni oggettive per una ricollocazione del personale eccedente (art. 33, comma 8 e
art. 34, comma 4)63 - si aggiunge un’altra previsione normativa, anch’essa speciale,
quella relativa al rifiuto del lavoratore, o dei lavoratori, di prendere servizio presso la
diversa amministrazione che ne avrebbe consentito al ricollocazione (art. 33, comma 7).
Tale ultima previsione non può che aprire complicate questioni quanto alla possibilità
concreta che - in riferimento a vicende di mobilità collettiva, che sottendono
evidentemente processi di riorganizzazione e/o di redistribuzione di funzioni - il potere
organizzativo e direttivo dell’amministrazione pubblica, il potere che l’amministrazione
esercita al suo interno quando vuole “ristrutturare” i suoi apparati, venga legittimamente
63
A dimostrazione di come, anche sul versante della mobilità, il legislatore sembra risentire, in
maniera diretta, di quegli influssi economico-sociali ed occupazionali, di cui si è detto nella parte I.
35
‘bloccato’, in contrasto con le previsioni generali contemplate dall’art. 2 del d. lgs.
165/2001e in difformità rispetto a ciò che avviene nel settore privato. Meglio sarebbe
allora, in una prospettiva de iure condendo, eliminare la citata disposizione normativa, il
comma 7, e consentire piuttosto al sindacato, attraverso la contrattazione, di gestire
siffatti processi, anche prevedendo, in ultima istanza, una mobilità “necessaria” (non
volontaria), che serva ad evitare disfunzioni organizzative, non sopportabili per il buon
andamento amministrativo, nell’interesse anche dei dipendenti in eccedenza.
Anche per quanto concerne la mobilità negli enti territoriali, andrebbero meglio
definiti alcuni profili normativi, specie nella prospettiva di inscrivere le scelte
“periferiche”, nel rispetto dell’autonomia degli enti medesimi, in un quadro più coerente
con il resto delle amministrazioni. Sul punto, qualche novità sembra essere presente nel
citato Memorandum d’intesa sul lavoro pubblico, nella versione integrata a seguito delle
proposte di Regioni, Province e Comuni, in data 22 marzo 2007. Nella sezione
riguardante la “Mobilità territoriale e funzionale”, infatti, si insiste, opportunamente,
sulla necessità di rendere fluida la mobilità anzitutto “nella prospettiva della ripresa dei
processi di trasferimento delle funzioni amministrative alle Autonomie locali”: si
propone, pertanto, l’idea di una “modalità condivisa” tra Stato, Regioni ed Autonomie
locali e si lega tutto il discorso sulla mobilità al “trasferimento di funzioni” e al
decentramento amministrativo.
Sul versante degli istituti del “distacco” e del “comando”, invece, ragionare
nell’ottica della specularità delle relative discipline rispetto al settore privato non pare
agevolare la comparazione: si tratta di istituti peculiari, rispondenti a finalità proprie
delle amministrazioni pubbliche, difficili da porre a raffronto con il settore privato.
In definitiva, allora, non c’è dubbio che su tali norme occorre ritornare con
l’intento più definito di adeguarle, una volta per tutte, alla logica privatistica che il
legislatore stesso vuole che permei tutta la disciplina dei rapporti di lavoro.
Non inverte questa rotta neppure il citato Memorandum d’intesa del gennaio 2007,
che, nella sezione relativa alla “Mobilità territoriale e funzionale”, riguardante tutto il
personale pubblico (statale, regionale, locale: salvo le precisazioni fatte poco prima, a
seguito dell’integrazione del 22.03.2007), non abbandona, né contiene (anzi, si può dire,
rafforza) alcune costanti indicazioni provenienti dal sindacato, non sostenibili in una
vera logica dell’organizzazione. Il riferimento è al fatto che per i sindacati “mobilità del
personale” e “incentivazione” costituiscono, sempre e comunque, un’endiadi. Anzi,
come accennato, il Memorandum potenzia il sistema delle agevolazioni economiche,
dirette ed indirette, per la mobilità . Esso invece non si fa carico delle citate
incongruenze del sistema normativo, riproponendo così impostazioni poco utili
nell’ottica della competitività delle amministrazioni pubbliche.
Un’impostazione così rigida, come quella del Memorandum, a nostro parere,
difficilmente potrà favorire - come lo stesso Memorandum invece auspica - l’incontro
“fra la domanda di Amministrazioni con carenze di personale e l’offerta di dipendenti
che intendono cambiare collocazione”. Resta in piedi, infatti, un’altra forte
contraddizione: quella di un sistema che ruota intorno alla “volontarietà” della mobilità
(non tanto nell’ipotesi dell’art. 30 del d.lgs. 165, in cui essa si giustifica, quanto, in
particolare, nei casi di cui al comma 7 citato), intesa come necessaria ed ineliminabile
premessa di ogni intervento di organizzazione. Applicando una logica veramente
privatistica, invece, si dovrebbe essere indotti a specificare, là dove esistenti, le ragioni
della specialità del “pubblico” rispetto al rapporto di lavoro privato. E, in questa
individuazione dei casi di ricorso a mobilità “necessaria”, non c’è dubbio che il
36
contratto collettivo potrebbe rivestire un ruolo decisivo, facendo emergere le situazioni
in cui si possono seguire percorsi differenti da quelli individuati, in linea generale, dalle
norme di legge. Anche perché, in questo discorso sulla mobilità non si può trascurare un
dato di fondo molto importante: esiste una forte differenziazione, quanto ai profili
professionali e al loro corrispondente livello retributivo, all’interno dei vari comparti
(anche come riflesso della maggiore o minore funzionalità organizzativa degli apparati
di questa o di quella amministrazione)64. Ragion per cui è oltremodo complicato
sviluppare una mobilità intercompartimentale effettiva. Allora, la contrattazione
collettiva potrebbe operare per rimuovere tali ostacoli oggettivi, omogeneizzando i
contesti professionali/retributivi dei vari comparti, proprio nell’ottica di favorire la
mobilità.
Il profilo della volontarietà della mobilità, infatti, se declinato, come avviene
tuttora, in maniera così generalizzata, e cioè per tutte le amministrazioni pubbliche,
senza alcuna distinzione65, difficilmente potrà attivare un circuito fluido di mobilità fra
amministrazioni (così come capita, del resto, quando si scelgono impostazioni
‘generaliste’: v., ad esempio, il discorso sul blocco delle assunzioni e del turn over,
supra, parte I). Per rendere effettiva e fluida la mobilità non si possono cioè trascurare
le specificità e le esigenze organizzative delle amministrazioni. Più corretta allora
sarebbe stata un’impostazione tesa a prendere le mosse dai processi di riorganizzazione,
in atto o programmati dalle amministrazioni, per poi risalire alle politiche del personale:
queste due componenti devono essere riportate in equilibrio, correggendo quella
sfasatura che sovente si afferma in concreto, in forza della quale le “politiche del
personale” rischiano di schiacciare quelle “dell’organizzazione”66. E il caso specifico
della mobilità collettiva collegata ad eccedenze di personale è un significativo esempio
di come sia necessario apprestare alcuni correttivi alla normativa, portando in equilibrio,
e contemperando, le esigenze del mantenimento dei livelli occupazionali con le
necessità di sopravvivenza di apparati amministrativi capaci di funzionare con
efficienza.
10. Retribuzione e orario di lavoro nell’ottica della competitività
Nella prospettiva di verificare se, ed in che misura, la struttura giuridica del
rapporto individuale di lavoro pubblico concorra a realizzare le condizioni per
un’organizzazione amministrativa realmente competitiva non c’è dubbio che la
retribuzione si profila come un indicatore privilegiato.
Sia per gli impiegati sia per i dirigenti, com’è noto, il dibattito scientifico ritorna, a
più riprese, sul tema. Sul piano delle politiche retributive nel pubblico impiego, invece,
le pur apprezzabili analisi degli studiosi non riescono a trovare sempre adeguata
64
Si tratta di un aspetto messo in luce già nel Rapporto Giannini, punto 4.3.
Il Memorandum contiene un riferimento, per la verità implicito, alla mobilità dei dirigenti:
ebbene, in un’ottica privatistica, dando corpo a quell’idea della diversificazione delle organizzazioni
pubbliche più volte richiamata, tale profilo andrebbe valorizzato. Anche in questo caso, infatti, non pare
possibile slegare i percorsi di mobilità del personale non dirigenziale da quelli dei dirigenti.
66
Del resto, la legislazione finanziaria degli ultimi anni ripropone all’attenzione il tema
dell’intreccio, inestricabile, tra norme sulla disciplina del personale pubblico, norme sull’organizzazione e
vincoli di spesa. In particolare, nella finanziaria 2007, si fa strada l’idea di tenere uniti i due versanti di
intervento - quello sul personale e quello sull’organizzazione - anche se tale idea è accompagnata da
talune rigidità. Su tutte, va ricordato che la normativa non diversifica gli interventi a seconda del tipo di
amministrazione, ma propone percorsi uniformi per tutte le pubbliche amministrazioni; riproponendo
così, ancora una volta, un’impostazione delle politiche di intervento destinata, per forza di cose, ad avere
un impatto molto debole sull’efficienza amministrativa.
65
37
attenzione, per scalfire un approccio che resta ancorato a criteri formalistici, di
appiattimento o livellamento verso il basso, delle posizioni dei lavoratori, o, al
contrario, di puro e semplice mantenimento di posizioni di vantaggio, del tutto sganciate
dalle verifiche dei risultati. Si pensi, ad esempio, alle “indennità di risultato” per i
dirigenti pubblici, che vengono concepite, in concreto, come veri e proprio incentivi da
conferire ‘a pioggia’, senza tenere conto degli obiettivi conseguiti; su questuo punto,
come si è avuto modo di chiarire nella parte sul nodo politico delle riforme
amministrative (cfr. cap. 2), va rimarcato come le responsabilità della dirigenza e della
classe politica paiono confondersi in quella commistione perversa che entrambe
decidono di instaurare, in una logica di scambio, contraria all’interesse generale.
Evidenti sono le ripercussioni negative di tale impostazione sull’idea di portare le
amministrazioni pubbliche in concorrenza tra esse, o addirittura sullo stesso binario
organizzativo delle aziende private. È fin troppo noto come lo scarso livello di
retribuzione, abbinato all’idea di omologare le retribuzioni, possa aprire le porte ad una
scarsa circolazione di professionalità e, quindi, ad un abbassamento dell’efficienza
organizzativa.
Per intenderci, un soggetto altamente qualificato e professionalmente forte
difficilmente investirà le sue energie lavorative nel “pubblico”, se la retribuzione ivi
prevista è nettamente inferiore a quella invalsa nel settore privato, per posizioni
comparabili. Né, presumibilmente, varrà a bloccare la ‘fuga verso il privato’ la oramai
asfittica prospettiva della “stabilità” dell’impiego pubblico.
Ecco allora che, con ogni probabilità, per uscire da questa logica recessiva in
materia di retribuzione e professionalità, occorre cominciare a fare una seria e costante
comparazione, non solo con il settore privato, ma anche con gli altri Paesi dell’Unione
europea: solo così si può dare un significato, giuridicamente più pregnante, a quella
disposizione normativa, contenuta nell’art. 1, comma 1, lett. a), del d.lgs. 165/2001,
volta a finalizzare l’attività delle pubbliche amministrazioni ad “accrescere l’efficienza
delle amministrazioni in relazione a quella dei corrispondenti uffici e servizi dei Paesi
dell’Unione europea, anche mediante il coordinato sviluppo di sistemi informativi
pubblici”. Insomma, ragionando sulle norme esistenti, e tentando di dare attuazione ai
precetti ivi contenuti, potrebbe guardarsi all’indicatore della retribuzione, in
comparazione con i Paesi dell’Unione europea, come ad un fattore cruciale per
l’efficienza amministrativa.
Inoltre, non sarebbe da scartare l’idea di iniziare ad affermare meccanismi che
incentivino la “distribuzione” di alcuni elementi variabili della retribuzione in ragione
dei risultati conseguiti e che scoraggino prassi negative: ad esempio, si potrebbe pensare
che, in presenza di criteri di distribuzione non virtuosi (cioè “a pioggia”), non sia
consentito corrispondere i “premi” ad alcun dipendente, con l’obbligo magari di
destinare le somme accantonate ad altri fini di interesse generale dell’utenza.
Non c’è dubbio, infine, che debba essere meglio equilibrato il rapporto tra
retribuzione e orario di lavoro: anche perché è necessario garantire una più lunga
apertura degli uffici per venire incontro alle esigenze dei cittadini-utenti, anche
attraverso la predisposizione di turni di lavoro adatti a questo tipo di obiettivo.
11. La responsabilità disciplinare: in particolare, alcuni spunti sui rapporti
tra processo penale e procedimento disciplinare
La regolazione della responsabilità disciplinare dei dipendenti pubblici ha
costituito, sin dall’emanazione del d.lgs. n. 29/1993, un’area tematica molto
38
controversa, per la quale si è continuato a ritenere, da parte di alcuni autori, la
persistenza di profili di residua specialità nella disciplina del rapporto individuale del
dipendente pubblico. L’argomento principale a sostegno di tale prospettazione è
rinvenuto nella peculiare disciplina procedurale, dettata dall’art. 55 del d.lgs. 165/2001,
che contiene numerose deviazioni rispetto alla più scarna disciplina privatistica dell’art.
7 della legge 300/1970. Ulteriori elementi di continuità con il passato sono stati
rintracciati poi, nel recupero, soprattutto da parte dei contratti collettivi, dei contenuti
delle norme previgenti, in materia di rapporti tra processo penale e procedimento
disciplinare.
Proprio quest’ultimo profilo - segmento specifico, ma importantissimo, della più
ampia materia disciplinare - è, con una certa frequenza, riportato all’attenzione, in
un’ottica de iure condendo, del Parlamento. E la prospettiva di intervento normativo sul
tema è, come oramai siamo abituati a vedere, caratterizzata, il più delle volte, dalla
preoccupazione politica di “innovare comunque”, rispetto a quanto fatto dalla
precedente coalizione di governo. Con il risultato di aggiungere normative a normative,
senza la necessaria razionalizzazione dell’esistente.
Di recente, infatti, proprio sul versante disciplinare, paiono concentrarsi de iure
condendo gli sforzi del legislatore, mirando a colpire quel malcostume del
mantenimento, negli organici delle varie amministrazioni pubbliche, di dipendenti
condannati, in sede penale, per reati contro la stessa pubblica amministrazione67.
L’argomento è molto delicato, per le sue numerose implicazioni. Appare, allora,
utile affrontarlo, con l’intento di fare anzitutto chiarezza sulle norme esistenti e capire le
ragioni della loro scarsa effettività.
Principio-cardine in materia disciplinare è, nel “pubblico” come nel “privato”,
quello della assoluta indipendenza del procedimento disciplinare rispetto a quello
penale: l’ambito delle valutazioni disciplinari è, pertanto, normalmente caratterizzato
dalla c.d. autonomia del diritto disciplinare, ritenendosi necessaria, al fine della
applicazione della pena e della conseguente motivazione, una autonoma valutazione dei
fatti, sotto il profilo disciplinare. Cosicché, per ipotesi, nulla vieterebbe al datore di
lavoro pubblico di giungere alla determinazione di irrogare un provvedimento
disciplinare a carico del dipendente, a prescindere dagli esiti dell’indagine del giudice
penale (assoluzione, condanna, patteggiamento, etc.).
Tale distinzione è legata, come si intuisce, al differente oggetto dell’indagine,
condotta dal giudice penale, da un lato, e dal datore di lavoro, dall’altro. La valutazione
dei fatti compiuta dal giudice penale, infatti, ai fini del riconoscimento della
responsabilità e della conseguente determinazione della pena applicabile, non può né
vincolare né condizionare l’apprezzamento che deve compiere il giudice del lavoro per
verificare la rispondenza dell’illecito commesso alla sanzione irrogata. Il giudicato
penale, infatti, fa stato quanto all’accertamento dei fatti costitutivi della fattispecie di
reato, ma non certo quanto all’apprezzamento degli stessi nel giudizio di applicazione
della sanzione del soggetto-lavoratore68.
Allora, dal punto di vista tecnico, il datore di lavoro pubblico è, allo stato dell’arte,
già nelle condizioni di decidere sempre la sanzione disciplinare da applicare.
67
In tema, cfr. il recente d.d.l. recante “Integrazioni e modifiche alle disposizioni sul rapporto tra
procedimento penale e procedimento disciplinare”, che si inserisce in un più ampio quadro di iniziative
del Ministro per la Funzione pubblica.
68
In tema, cfr. “Il sistema disciplinare nel lavoro pubblico”, in “Gestione delle risorse umane:
orientamenti e strumenti”, Formez, Dipartimento della Funzione pubblica, n. 4, 2004.
39
Rispetto a questo dato, posto direttamente dal legislatore, si pone, da un lato, la
contrattazione collettiva, improntata ad una logica diversa, conservatrice delle
preesistenti posizioni di tutela del dipendente, dall’altro la prassi amministrativa.
Ebbene, quanto alla contrattazione, è chiaro che essa non può che muoversi, in
materia, nella cornice di principio posta dal legislatore: né può superare il predetto
criterio generale dell’indipendenza tra i procedimenti.
Quanto alla prassi, essa ci consegna il dato dell’inerzia datoriale, che si è
affermata, nel corso degli anni, in alcune amministrazioni pubbliche: ebbene, ricavare
da essa la necessità di un nuovo intervento normativo costituisce, a ben vedere, un
errore di metodo. Più corretto sarebbe, invece, interrogarsi sul perché, in presenza di un
quadro normativo sufficientemente lineare, la prassi applicativa abbia prodotto una
sostanziale non applicazione delle regole. I problemi non sono tanto sul piano della
produzione giuridica, che c’è ed è già abbondante, quanto sul piano dell’applicazione
delle norme esistenti e sul rafforzamento (questo sì potrebbe essere raggiunto anche
attraverso norme più chiare) dei sistemi di controllo e valutazione dell’operato della
dirigenza pubblica69.
12. Licenziamento
Sul tema del licenziamento dei dipendenti pubblici si registra, in maniera ancora
più marcata, rispetto a quanto detto in materia disciplinare, una chiara sovrapposizione
del piano “fattuale” a quello “giuridico”: nel linguaggio corrente, con una forte
approssimazione tecnico-giuridica, si è indotti ad anteporre il dato fattuale della
“stabilità” dell’impiego pubblico al dato giuridico della previsione di una disciplina per
il recesso, come si vedrà, molto articolata. E si finisce per concentrarsi sugli effetti della
disciplina e non interrogarsi sulle cause che producono l’effetto.
Infatti, se è vero che i dipendenti pubblici non vengono licenziati, o comunque ciò
accade assai raramente, non è però vero che essi non sono, in punto di diritto,
licenziabili.
Già nel complesso normativo antecedente al d.lgs. n. 29/1993, per i dipendenti
pubblici, era predisposto un sistema sin troppo articolato di estinzione del rapporto di
pubblico impiego70. Vi era la previsione, per legge, di un complesso di fattispecie
specifiche e tassative. Le amministrazioni potevano cioè licenziare il dipendente solo
nei casi, per i presupposti e con le forme previste dalla legge.
Quel sistema, com’è noto, è stato superato dalla riforma introdotta dal d.lgs. n.
29/1993. Prima conseguenza giuridica del cambiamento di logica normativa - dalla sfera
del diritto pubblico si è passati a quella del diritto privato - sul versante dell’estinzione,
è stata la fondamentale trasformazione dell’atto di estinzione medesimo del rapporto: da
provvedimento amministrativo, in cui prima si realizzava la supremazia speciale
dell’amministrazione pubblica, in atto privato di risoluzione del rapporto contrattuale di
lavoro.
69
In questa direzione pare muoversi il citato d.d.l. Nicolais, là dove prevede che “… la mancata
applicazione della sanzione disciplinare per decadenza dei termini o per altri motivi attinenti alla
regolarità del procedimento, comporta la responsabilità del soggetto preposto all’istruttoria del
procedimento ovvero del soggetto titolare del relativo ufficio, nonché, ove diversi, degli organi
competenti ad adottare o deliberare la sanzione disciplinare, per il danno cagionato all’amministrazione
…” (art. 3).
70
Al riguardo, cfr. P. VIRGA, Il pubblico impiego, Giuffrè, Milano, 1991, p. 349 ss.; G.
NATULLO, L’estinzione del rapporto, in M. RUSCIANO, L. ZOPPOLI (a cura di), L’impiego pubblico nel
diritto del lavoro, Giappichelli, Torino, 1993, p. 238.
40
Quanto alla disciplina del licenziamento, va detto che non si rinviene nel d.lgs. n.
165/2001, una regolamentazione apposita. Al di là del versante, peculiare, del lavoro
dirigenziale, infatti, l’interprete è costretto a misurarsi con due disposizioni normative, a
carattere generale. Si tratta dell’art.2, comma 2, e dell’art. 51, del d.lgs. n. 165/2001. Il
primo prevede che “i rapporti di lavoro dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche
sono disciplinati dalle disposizioni del capo I, titolo II, del libro V del codice civile e
dalle leggi sui rapporti di lavoro subordinato nell’impresa, fatte salve le diverse
disposizioni contenute nel presente decreto”; il secondo, dopo aver ribadito la
disposizione appena riportata, statuisce che “la legge 20 maggio 1970, n. 300 si applica
alle pubbliche amministrazioni a prescindere dal numero dei dipendenti”.
Ragionando su queste norme, riguardanti le fonti e le condizioni di applicabilità
dello Statuto dei lavoratori, sembra agevole ricavare, in via interpretativa, che la
disciplina privatistica, indicata da quelle fonti, sia applicabile anche al rapporto di
lavoro pubblico. Anche se, come rilevato in dottrina, l’operazione di riconduzione
dell’impiego pubblico nell’ambito della disciplina comune del lavoro subordinato solo
in apparenza è completa: in realtà, l’esame delle singole ipotesi di risoluzione dimostra
come esistano differenze tra il licenziamento del dipendente di un’impresa privata e
quello di un dipendente di una pubblica amministrazione71.
Tuttavia, la divaricazione sul piano dell’applicazione della normativa al “pubblico”
non pone certo in discussione la licenziabilità del dipendente pubblico: essa, là dove si
profila, vale solo a rimarcare la necessità di combinare sempre la omogeneizzazione
delle discipline giuridiche tra i due settori compatibilmente con la natura pubblica
dell’amministrazione. Ed infatti, per citare un punto in cui si riscontra una differenza tra
i due settori, nel caso del recesso del lavoratore in prova (ipotesi di recesso ad nutum),
si ritiene che, per la pubblica amministrazione recedente, e non per il datore di lavoro
privato, sia previsto un generale obbligo di motivare il licenziamento72.
Il piano giurisprudenziale, va detto, rimarca la persistenza di una distanza tra
“pubblico” e “privato”. Sicuramente, sul piano quantitativo, le pronunce
giurisprudenziali non possono fare altro che riflettere il dato, che esiste “a monte”, della
scarsa utilizzazione, da parte del datore di lavoro pubblico, del potere di licenziare.
Scarsa utilizzazione che si abbina allo strutturale calo di contenzioso determinato dal
passaggio della competenza dalla giurisdizione amministrativa a quella ordinaria, come
effetto del processo di privatizzazione.
In altri casi, però, la giurisprudenza, anche quella ordinaria, propone letture del
quadro normativo non sempre coerenti con la prospettiva della privatizzazione
dell’impiego pubblico: a dimostrazione di come il processo di trasformazione
dell’organizzazione amministrativa e della disciplina dei rapporti di lavoro presenti,
ancora oggi, su più piani - accesso ed estinzione su tutti - involuzioni preoccupanti. Ed,
in questa logica, qualche pronuncia, con una buona dose di forzatura, si è spinta, ad
esempio, fino a proporre, per un caso di licenziamento illegittimo di un dirigente
pubblico, l’utilizzazione estensiva della tutela reintegratoria ex art. 18 della legge n.
300/197073.
71
P. SORDI, Il licenziamento del dipendente pubblico, in www.formez.it, p. 2.
Tale obbligo di motivazione è stato previsto dalla contrattazione collettiva.
73
Si veda Tribunale di Napoli 7 gennaio 2003, in DLM, 2003, p. 505 ss., con nota di L. ZOPPOLI.
Sul punto, si è pronunciata la Cassazione (sentenza 1 febbraio 2007, n. 2233), stabilendo che la
illegittimità del recesso dal rapporto di lavoro di una pubblica amministrazione con un dirigente della
stessa comporta l’applicazione al rapporto fondamentale sottostante della disciplina dell’art. 18 Legge 20
maggio 1970, n. 300, a norma dell’art. 51, comma 2, D. Lgs. 30 marzo 2001, n. 165.
72
41
Sul piano dell’apporto della contrattazione collettiva, va detto che essa, in linea di
principio, ha avuto un ruolo molto importante nella fase transitoria della
privatizzazione, tendendo ad introdurre cause di estinzione del rapporto ulteriori
rispetto a quelle previste dal codice civile e dalle altre leggi sul lavoro subordinato
nell’impresa.
CAPITOLO SETTIMO
LA DIRIGENZA
1. Prevalenza dell’esercizio della “funzione” sulla “prestazione d’opera”
Negli studi giuridici più recenti sulla dirigenza pubblica, e in particolare su quella
“di vertice”, comincia a farsi strada la consapevolezza metodologica che al
“particolarismo” degli interventi normativi - succedutisi, negli ultimi anni, con
incalzante velocità - debba necessariamente fare posto una riflessione più attenta ai
problemi generali di collocazione politico-istituzionale della burocrazia74.
I problemi giuridici della dirigenza, infatti, affondano sempre le proprie radici nel
ruolo politico-istituzionale della burocrazia nella vita dello Stato: pertanto, essi vanno
analizzati, non solo e non tanto attraverso l’esegesi di singoli dati normativi, quanto,
anzitutto, dal punto di vista politico-istituzionale.
In questa logica, allora, si capisce l’importanza di legare la nuova configurazione
del rapporto di lavoro del dirigente pubblico alle importanti riforme istituzionali ed
organizzative che, negli ultimi anni, hanno apportato profonde modifiche nell’assetto
istituzionale.
In secondo luogo, proprio partendo dalla prospettiva del ruolo politico-istituzionale
della burocrazia, è possibile cogliere subito il dato strutturale della diversa posizione del
dirigente, rispetto agli altri dipendenti pubblici. Già nel Rapporto Giannini si insisteva
sullo status speciale di una fascia di pubblici dipendenti (i dirigenti ed i funzionari
direttivi): questi ultimi, diceva Giannini, “sono le persone attraverso le quali si
esprimono le potestà pubbliche”75. Nella prospettiva del Rapporto Giannini era già ben
definita quindi la difficoltà di ipotizzare, per il rapporto dirigenziale, una totale
riferibilità della logica lavoristica. In quest’ultimo, infatti, l’elemento funzionale
sembra, effettivamente, assorbire i profili del lavoro subordinato.
La riforma della disciplina dei rapporti di lavoro pubblico, nel segno della
privatizzazione, come si sa, ha seguito percorsi diversi: la dirigenza è stata, infatti, a
completamento dell’articolato percorso di riforma, “contrattualizzata” anch’essa,
insieme a tutti gli altri dipendenti. Resta, comunque, aperta, a distanza di anni, la
riflessione sulla posizione della dirigenza, almeno di quella di vertice, per la quale,
effettivamente, l’adozione di un regime contrattuale sembra generare, come detto (cfr.
supra cap. 2, par. 3), non pochi problemi di coerenza sistematica con l’impianto
generale della normativa.
2. Centralità della dirigenza nella riforma dell’amministrazione
Nel decreto n. 29/93 (e, quindi, nel d.lgs. n. 165/2001), la posizione della
dirigenza è di assoluto primo piano. Su di essa il legislatore scommette le sue scelte di
74
È l’impostazione adottata da M. RUSCIANO, Contro la privatizzazione dell’alta dirigenza
pubblica, in DLM, 2005, p. 622.
75
Rapporto, punto 4.6.
42
riforma: sul piano sia organizzativo-gestionale, sia, più specificamente, dei rapporti di
lavoro, individuali e collettivi.
Questa posizione centrale della dirigenza è ben sintetizzata dalla sistematica del
d.lgs 165 medesimo, che inserisce le norme relative alla dirigenza nel titolo II,
concernente appunto l’ “Organizzazione”; anzi, di tale titolo le norme sulla dirigenza
costituiscono la parte decisamente predominante. In sintesi, il legislatore ha individuato
nel dirigente colui che deve impersonare l’organizzazione: colui che deve applicare la
‘logica dell’organizzazione’, ispiratrice della riforma, al posto della tradizionale e ormai
anacronistica ‘logica burocratica’. Com’è noto, i dirigenti sono ora “gli organi preposti
alla gestione”: sono i dirigenti a dover esercitare il potere organizzativo e gestionale
nelle pubbliche amministrazioni. Ed il loro operato, nell’impostazione della riforma, si
sottopone anche a controlli diversi da quelli tradizionali, aventi ad oggetto non l’atto,
bensì l’“attività” dell’amministrazione nel suo complesso.
Tale approdo normativo è il portato di una evoluzione storico-giuridica molto
significativa, che ha visto intrecciarsi questo discorso sulla dirigenza con il versante dei
rapporti collettivi.
La legge quadro (la legge n. 93/1983), infatti, scommetteva sull’apporto del
sindacato alla razionalizzazione e alla gestione del personale, nonchè
dell’organizzazione degli uffici. In un certo senso, la legge quadro coinvolgeva il
sindacato nella cura degli interessi dell’organizzazione. La delimitazione di campo e di
competenza fra fonti unilaterali e fonti negoziate, tracciate dagli artt. 2 e 3, ne era la più
chiara dimostrazione. Quell’esperienza, com’è noto, non ha funzionato.
L’estensione del metodo negoziale, sostenuta da norme procedurali ma
realizzatasi anche di fatto, è stata tale da attuare quella diffusa “espropriazione” del
datore di lavoro pubblico, denunciata come una delle distorsioni delle relazioni di
lavoro nel settore pubblico. E l’allargamento della negoziazione e il suo sconfinare
continuo, fino a trasformarsi in vera e propria cogestione hanno finito per rendere la
scelta del legislatore dell’83 controproducente. Da qui nasce l’esigenza del
cambiamento, che si è concretizzato nella restituzione degli esiti e degli ambiti
contrattuali alla libera espressione degli interessi socio-economici, salvo i limiti
specifici di legge. Il d.lgs. 165 ricalca, pertanto, quanto avviene nel privato: dove non
esistono - eccetto specifiche ipotesi - contrattazione collettiva necessaria o obblighi a
contrarre. Da questo punto di vista, si può dire che il significato della riforma sta nella
‘ricostituzione’ del potere datoriale. In breve, si è restituito a ciascuno il suo e al
dirigente si è rimesso il compito di impersonare l’organizzazione76.
A queste premesse di ordine teorico-sistematico non ha fatto seguito, com’è
evidente, nell’esperienza applicativa delle norme, un rendimento organizzativo
soddisfacente: molti i fattori di tale insuccesso, sui quali ci si è già intrattenuti in
precedenza (nella parte I), tali da condurre a sostenere, come emerge dalle realistiche
parole del Ministro della Funzione Pubblica nel 1999, che “non appare superabile
soltanto con interventi legislativi, sia pure incisivi, la diversità culturale del settore
pubblico, poco improntato all’esercizio di autonomia e quindi ad un regime di
responsabilità piena per gli andamenti economici ed i risultati della gestione”77.
76
V. A. ZOPPOLI, Dirigenza, organizzazione e contratto di lavoro, Esi, Napoli, 2000,
Così il Rapporto introduttivo del Ministro per la Funzione Pubblica su “Lo stato
dell’amministrazione pubblica a vent’anni dal Rapporto Giannini”, Roma, 16 novembre, 1999, p. 86.
77
43
L’allusione è quindi, con ogni evidenza, ad altri fattori, politici, istituzionali,
economico-sociali - lo abbiamo visto ampiamente nella parte I - che influenzano
fortemente l’applicazione della normativa.
3. Il nodo della formazione dei dirigenti pubblici
Le descritte distorsioni applicative trovano una spiegazione, quindi, in fattori di
ritardo, che sono anzitutto culturali: l’applicazione al settore pubblico della logica
manageriale, sull’esempio dell’impresa privata, si è rivelata un’operazione complessa,
che richiede necessariamente una spinta sul versante della formazione professionale, sia
sul piano normativo (legge e contrattazione collettiva), sia sul piano del comportamento
organizzativo.
Tale spinta sul versante della formazione e della professionalità, in ambedue le
direzioni indicate, è stata, in questi anni, a dir poco deludente.
Certo, oggi, si può dire che è a tutti chiaro il modello ideale di amministrazione
pubblica: un’amministrazione che deve fondarsi non su un modello statico-burocratico
ma dinamico-manageriale, o se si preferisce un’amministrazione non dominata da una
legalità meramente formale ma orientata per obiettivi, in cui, senza negare quella
legalità davvero necessaria, rilevano la realtà organizzativa e le finalità dell’operare.
Ma quando si tratta di concretizzare questo modello vengono fuori tutti i
paradossi e le vischiosità della riforma, talmente gravi da esporre le stesse norme alla
ineffettività.
Al centro di questi paradossi c’è anzitutto la professionalità, e dunque la
formazione, del ceto dirigente amministrativo e del personale. A questi profili il
rapporto Giannini dedicava ampia attenzione, rimarcando la funzione “strategica” della
formazione nella riforma dell’amministrazione: formazione che non è da intendersi
come mero aggiornamento delle competenze professionali, che si presumevano
possedute in partenza. La formazione, oggi più che mai, deve essere intesa in una
prospettiva dinamica, relativa all’apprendimento di tecniche innovative, ancora poco
conosciute o adottate: in questa accezione allora essa rimanda ad una dirigenza ancora
più preparata nella promozione e gestione di siffatti processi professionali.
Si è detto che la “professionalità” nel lavoro pubblico si colloca al centro di un
vero e proprio paradosso. Ed il discorso investe non solo i dirigenti, ma anche il restante
personale: sia perché proprio la realtà delle amministrazioni pubbliche italiane particolarmente significativa è l’esperienza di alcuni enti locali - ci consegna infatti il
dato di “figure” professionali, non dirigenziali in senso formale, che attendono a
funzioni direttive in senso lato (ci vuole dunque, in questo caso, una particolare
attenzione ai profili relativi alle concrete mansioni svolte più che allo status di dirigente
in senso formale), sia perché, per un’elementare regola dell’organizzazione, si rinviene
un intreccio strutturale tra il ruolo delle dirigenza e le risorse a sua disposizione, ivi
comprese quelle umane (e quindi il personale restante), di cui la stessa dispone per
realizzare i suoi obiettivi gestionali.
Il paradosso innescato dalle norme della privatizzazione è che la dirigenza si è
trovata ad essere, nello stesso tempo, soggetto attivo e passivo della trasformazione,
chiamata cioè a pilotare un grande cambiamento che doveva cambiare prima di tutto se
stessa, quanto a cultura, professionalità e mentalità. Il dirigente, nelle intenzioni del
legislatore, rispetto al personale alle sue dipendenze, doveva agire con “la capacità e i
poteri del privato datore di lavoro” (art. 5, comma 2, d.lgs. n. 165/2001): questa norma
contiene una indubbia carica innovatrice, che rischia di essere smorzata se solo si riflette
44
sul fatto che se il dirigente non viene posto nella condizione, soggettiva e oggettiva, di
operare, la stessa norma rischia di restare senza effetti.
Ciò implica, tra l’altro, che la formazione della dirigenza è un fattore necessario,
ma non sufficiente del cambiamento, se non procede, di pari passo, con la formazione
anche degli altri livelli dell’impiego pubblico.
Ebbene, rispetto all’ambizioso ed articolato disegno legislativo di riforma
amministrativa - che, si può dire, di per sé comporti una domanda crescente di
formazione della dirigenza - colpisce la sorprendente esiguità di previsioni normative
sia sul diritto-dovere alla formazione, riconosciuto ai funzionari in servizio, sia sul
reclutamento dei giovani, che vogliano diventare manager pubblici, per i quali
evidentemente andrebbero pensate tecniche di selezione e formazione del tutto nuove.
In questa direzione, scarso rilievo hanno le norme del d.lgs. 165/2001.
Inoltre, nella produzione normativa in tema, sia legale sia contrattuale, è ancora
assente un profilo che meriterebbe, invece, maggiore attenzione. Si allude alla necessità
che le politiche di formazione professionale della dirigenza pubblica debbano prendere
le mosse dalla constatazione che la formazione della dirigenza amministrativa è una
formazione da considerare, per molti aspetti, (non per tutti), diversa da quella del
management privato, anche, e specialmente, in una prospettiva giuridica. Certo, è
auspicabile che la formazione di base sia comune: tuttavia, la formazione non può non
tenere conto delle specificità dell’attività del dirigente pubblico, che lo distinguono da
quello privato. Si pensi, ad esempio, alla indubbia rilevanza che la “formalizzazione”
delle decisioni acquista per il “pubblico”, a differenza del “privato”; alla necessità che
l’attività pubblica sia sempre conformata a doveri di collaborazione istituzionale, con le
altre amministrazioni pubbliche78; all’assenza, nel settore pubblico, di quelle regole del
mercato, tipiche invece della concorrenza tra i privati. Sono questi alcuni dei profili in
cui risalta, in maniera più evidente, la differente posizione del manager pubblico
rispetto a quello privato. E, allora, proprio su siffatte diversità dovrebbe lavorarsi, per
assicurare cioè una formazione ad hoc per chi assume responsabilità gestionali per lo
svolgimento di funzioni pubbliche.
4. Connessioni con la formazione del restante personale
Si è detto, allora, che non meno importanti per l’efficienza organizzativa sono la
formazione e l’addestramento del personale (dirigenziale e non dirigenziale) delle
amministrazioni pubbliche: proprio su questo tema insisteva Giannini nel Rapporto del
1979, quando rimarcava le lacune normative al riguardo, frutto anche di un
ingabbiamento delle scuole di formazione (il riferimento era anzitutto alla scuola
superiore della pubblica amministrazione) in “reti di norme e prescrizioni”79, che
incidono negativamente sulla loro possibilità di azione.
Il legame con la prospettiva dell’organizzazione determina anche un’altra
conseguenza nel discorso che si sta facendo: la formazione, proprio perché misura che
incide sull’organizzazione di un apparato, non può essere pensata “una volta per tutte”,
e per giunta legificata secondo un unico modello, ma va adattata alle esigenze delle
diverse amministrazioni e delle diverse realtà locali.
A questo proposito, Giannini riporta ciò che accade in altri Paesi: “altrove alla
formazione, non solo dei direttivi, ma anche dei dipendenti di altre categorie,
78
Spesso, invece, nelle amministrazioni pubbliche, si affermano logiche diverse, improntate ad
una scarsa “comunicazione interna” alla stessa dirigenza.
79
Rapporto, punto 4.11.
45
provvedono direttamente le singole amministrazioni mediante piccoli gruppi di
formatori, i quali sono stati a loro volta formati ed addestrati da una scuola centrale. I
corsi si svolgono presso gli uffici, in tempi brevi e concentrati. È un sistema che,
secondo gli esperti, è preferibile. Con gli stessi criteri si provvede alla riqualificazione
del personale che passa dall’una all’altra amministrazione (aspetto da noi addirittura
ignoto)”80.
Ebbene, rispetto alle indicazioni di Giannini, oggi come oggi, è innegabile che si
siano fatti taluni passi in avanti, anche se purtroppo pochi e lenti. Ad ogni modo, è
pacifico che la difficoltà di realizzare moderni meccanismi di efficienza, adeguati
sistemi di controllo e metodi di formazione non dimostra certo che la delineata
“prospettiva organizzativistica” di Giannini sia sbagliata: al contrario, dimostra che
essa, per essere innovativa, non può che incontrare molte e proporzionate resistenze.
Giannini già allora ne era perfettamente cosciente: nel Rapporto, ad esempio, egli si
soffermava a lungo pure sulla necessità di unificare le metodologie di “misurazione
della produttività” e sulla “analisi di attuabilità amministrativa delle leggi”, prima di
affrontare i problemi di “tecnologia delle amministrazioni”, la quale dovrebbe costituire
la vera chiave di volta della riforma, perché è sulla tecnologia che, in larga misura, si
scommette il futuro.
Su questi versanti, la strada da percorrere è ancora lunga. È dei giorni nostri il
dibattito tra Governo e parti sociali sulla necessità di “legare” le retribuzioni nel
pubblico impiego, o almeno parte di esse, alla “produttività” dei dipendenti,
sull’esempio di ciò che avviene nel settore privato81. Com’è evidente, questi temi,
relativi
alla
misurazione
della
produttività
nell’ottica
dell’efficienza
dell’amministrazione, si legano, a doppio filo, con il discorso sulla formazione. E la
stessa circostanza che la fase di confronto sul tema sia ancora aperta dimostra come la
divaricazione tra “norme” esistenti e “fatti” sia ancora forte.
Il quadro normativo esistente, infatti, non si rivela incisivo. L’art. 7, rubricato
“Gestione delle risorse umane” - uno dei pochi frammenti normativi che sia riuscito a
superare indenne la corposa attività modificativa, operato dal legislatore delegato con i
decreti legislativi nn. 396/1997 e 80/1998 - nella prima parte del comma 4, propone una
formulazione normativa, per certi versi, ovvia, a dimostrazione di come il tema della
formazione sia, per il settore pubblico, difficile da interiorizzare.
Va anche considerato che già la legge-quadro del 1983 conteneva alcuni
richiami ad una formazione che adeguasse le capacità professionali dei dipendenti alle
esigenze di efficienza dell’amministrazione.
Forse qualche segnale più incoraggiante proviene dalla contrattazione collettiva,
che è, sulla carta, lo strumento più adatto a realizzare uno “scambio negoziale” tra le
nuove esigenze organizzative delle amministrazioni pubbliche e le corrispondenti
esigenze formative del personale, ivi incluso quello dirigenziale. Questa, anche per
influsso di iniziative politico-sindacali più incisive affermatesi negli ultimi anni82, ha
80
Rapporto, p. 304.
In questo senso, cfr. anche le indicazioni contenute nel “Memorandum d’intesa su lavoro
pubblico e riorganizzazione delle Amministrazioni Pubbliche”, del 18 gennaio 2007, specie quanto alla
valutazione delle prestazioni dirigenziali.
82
Si allude, in particolare, al Protocollo di intesa sul lavoro pubblico, siglato da Governo e
Confederazioni il 12 marzo 1997 e al “Patto sociale per lo sviluppo e l’occupazione. Intesa del 22
dicembre 1998”, firmato da Governo e parti sociali. Nel primo accordo, per la prima volta, la formazione
viene inserita nel più ampio quadro strategico di trasformazione degli apparati pubblici, anticipando
quelle che saranno le linee-guida della legge n. 59/1997. Alla formazione sono attribuite tre funzioni
81
46
cominciato, già a partire dal quadriennio 1998-2001, a prevedere espresse clausole
dedicate alla formazione. Le indicazioni che emergono dalla contrattazione collettiva
nazionale paiono così porsi nella prospettiva di considerare la formazione non tanto
come un “costo”, quanto come un “investimento organizzativo”: questa consapevolezza,
tuttavia, incontra ancora parecchie difficoltà nella fase di attuazione, demandata al
livello decentrato di contrattazione, che non sempre riesce a dare concretezza alle
dichiarazioni di principio, fissate a livello nazionale.
Qualche attenzione al tema della formazione dedica il “Memorandum d’intesa su
lavoro pubblico”, siglato nello scorso gennaio tra Governo e parti sociali: la sezione
riguardante “formazione e aggiornamento” indica l’obiettivo di lunga durata, che
consiste nello svincolare la formazione da meccanismi di progressione interna e nel
legarla alla sua effettiva funzione di incremento della qualità e delle opportunità, per il
personale, di aggiornamento, in corrispondenza con l’evoluzione del fabbisogno di
capacità. Il punto più qualificante delle previsioni contenute nel Memorandum in
oggetto è, tuttavia, a nostro parere, condensato in poche righe del documento medesimo:
là dove si aggancia il predetto obiettivo al miglioramento della offerta formativa, al
monitoraggio del peso che alla formazione del personale viene dato da ogni singolo
dirigente e alla valutazione, in modo continuativo, degli esiti formativi. Ecco, specie
quello della valutazione continuativa degli esiti della formazione, sembra essere la vera
questione su cui concentrare gli sforzi. Ogni obbligo o imposizione di “fare formazione”
rischia, infatti, di rimanere lettera morta, se non accompagnata da un controllo,
continuativo, appunto, sui risultati prodotti dalla formazione.
Insomma, il problema di fondo in materia è di effettività delle previsioni
normative, legali e contrattuali. Né si sottrae a questa critica la formulazione normativa,
contenuta nell’art. 7-bis del d.lgs. 165/2001, articolo introdotto dalla legge n. 3/2003
(art. 4), recante “Disposizioni ordinamentali in materia di pubblica amministrazione”.
Si tratta di una disposizione normativa molto articolata: essa impone alle
amministrazioni pubbliche (con esclusione delle università e degli enti di ricerca) di
predisporre annualmente, nell’ambito delle attività di gestione delle risorse umane e
finanziarie, un “piano di formazione del personale”. Tale piano deve tenere conto “dei
fabbisogni rilevati, delle competenze necessarie in relazione agli obiettivi, nonché della
programmazione delle assunzioni e delle innovazioni normative e tecnologiche” (art. 7bis, comma 1, d.lgs. 165/2001). Il piano di formazione indica gli obiettivi e le risorse
finanziarie necessarie disponibili, prevedendo l’impiego delle risorse interne, di quelle
statali e comunitarie, nonché le metodologie formative da adottare in riferimento ai
diversi destinatari.
Ebbene, immaginiamo che per parecchie amministrazioni pubbliche la principale
difficoltà nel predisporre il piano di formazione abbia riguardato la impossibilità
concreta di programmazione delle assunzioni, dal momento che, a livello nazionale e
generalizzato, è stato imposto il blocco delle assunzioni e del turn over. Tali fattori,
“esterni” all’organizzazione amministrativa, come detto, sono in grado di determinare
forti squilibri, anche sul versante della formazione.
principali: a) informatizzazione; b) sicurezza sul lavoro; c) riqualificazione a sostegno di eventuali
processi di mobilità. Nel secondo patto, non solo si ribadisce l’obiettivo, già contenuto nel precedente
protocollo, di raggiungere un utilizzo di disponibilità economiche destinato alla formazione pari all’1%
del monte salari, ma si prevedono precisi impegni per il Governo, quanto alla presentazione di un “piano
straordinario per la formazione” e all’attivazione immediata di progetti previsti e finanziati nella
programmazione pluriennale straordinaria del Dipartimento della funzione pubblica e coordinati dal
Formez.
47
Più in generale, poi, quel che in siffatte previsioni normative non convince appieno
è l’assenza di previsioni sanzionatorie per i comportamenti di quelle amministrazioni
che eludono gli adempimenti imposti dalla legge.
5. La disciplina degli incarichi dirigenziali tra “imparzialità” e “buon
andamento” dell’azione amministrativa: necessità di operare distinzioni in base al
tipo di amministrazione e in base alla posizione del dirigente
La separazione funzionale dell’indirizzo politico dall’attività gestionale
amministrativa trova il suo momento di concreta attuazione con il conferimento
dell’incarico dirigenziale. Tale profilo, come si sa, ha ricevuto, nella riforma della
dirigenza pubblica - operata prima con gli interventi legislativi del 1998 sul testo del d.
lgs. n. 29/1993 (in primis, il d. lgs. n. 80) e poi con la legge n. 145/2002 - un notevole
impulso normativo83. Con il risultato, come anticipato, di un ampliamento delle aree di
criticità della disciplina, incrementato ulteriormente dai nuovi assetti di competenze
normative, determinati dalla riforma costituzionale del Titolo V.
Il tema degli incarichi consente di mettere alla prova le osservazioni, svolte in
precedenza, a partire dal Rapporto Giannini. Esso, infatti, rimanda anzitutto alla
considerazione del ruolo, di assoluto primo piano, che il legislatore della
“privatizzazione” riconosce al dirigente, in ragione del suo essere il soggetto che deve
“impersonare” l’organizzazione84 Per la dirigenza pubblica, la centralità si riconnette ai
profili, del tutto nuovi, legati proprio alla separazione funzionale tra “politica” e
“amministrazione”, principio intorno a cui il legislatore costruisce il sistema normativo
della “privatizzazione” e sul quale si regge l’intero assetto di interessi realizzato dal
contratto di dirigente. In ragione della quale, il dirigente si trova ad operare in una
doppia veste: quella di interlocutore indispensabile del soggetto politico e quella di
elemento di compensazione della parzialità dello stesso, e quindi fattore di equilibrio
istituzionale85.
La disciplina degli incarichi risente inoltre di quella opportuna diversificazione,
anch’essa contenuta nella prospettiva tracciata da Giannini, in tema di dirigenza
pubblica: quando si parla di dirigenza bisogna operare distinzioni in base al tipo di
amministrazione pubblica che si prende a riferimento (statale, regionale, locale), ed in
base alla posizione che il dirigente medesimo occupa nel sistema di inquadramento
dell’amministrazione (apicale, non apicale, funzionario con funzioni direttive). Tali
distinzioni sono quanto mai essenziali per cogliere il differente atteggiarsi della
dirigenza, a seconda del contesto organizzativo in cui si muove e a seconda dell’ambito
istituzionale politico in cui è destinata ad operare: con sensibili differenziazioni del suo
concreto agire, che si riverberano, in maniera diretta, sullo stesso regime giuridico del
rapporto di lavoro dirigenziale, e in particolare sugli incarichi.
83
Numerosi sono stati gli interventi normativi in materia, sia pure con innovazioni contenute, il
più delle volte, in maniera frammentaria, nelle pieghe di provvedimenti più ampi. Per un’analisi critica, al
riguardo, cfr. G. D’ALESSIO, Nuove norme sulla dirigenza: il legislatore miope e le voci amiche, in LPA,
2005, p. 445 ss.
84
Si tratta di posizioni ormai consolidate nel dibattito scientifico: v. U. ROMAGNOLI, La
revisione della disciplina del pubblico impiego, cit., p. 252; M. RUSCIANO, Contributo alla lettura della
riforma, cit., p. XVII; A. GARILLI, La “privatizzazione” del rapporto di pubblico impiego: appunti per il
legislatore, in LD, 1992, p. 657; A. ZOPPOLI, Dirigenza, cit., p. 218.
85
F. MERLONI, Amministrazione “neutrale” e amministrazione imparziale, in DP, 1997, 2, p.
340; M. RUSCIANO, Contro la privatizzazione dell’alta dirigenza pubblica, in DLM, 2005, p. 621 ss.
48
Tale prospettiva si rivela molto utile, altresì, nella individuazione degli spazi di
autonomia normativa che le Regioni e gli Enti locali hanno sulla materia del lavoro
dirigenziale: non c’è dubbio, che, sotto questi profili, per l’alta dirigenza il discorso
dell’autonomia regionale conduce ad esiti ben diversi rispetto a quanto avviene per la
dirigenza non di vertice.
Insomma, in generale, quella prevalenza della “funzione” sulla “prestazione”, di
cui si diceva in premessa, trova, per l’alta dirigenza, e solo per essa, significative
ripercussioni sul piano della disciplina di significativi aspetti del rapporto di lavoro
dirigenziale.
6. Gli orientamenti giurisprudenziali sul problema della qualificazione
dell’atto di conferimento dell’incarico
Com’è noto, a seguito della riscrittura dell’art. 19 del d.lgs. n. 165/2001, ad
opera della legge n. 145/2002, sul versante degli incarichi dirigenziali prende corpo un
nuovo sistema. Più precisamente, il dato normativo propone un sistema binario, comune
a tutti i livelli dirigenziali. Infatti, sia per i dirigenti di livello generale sia per quelli
chiamati a svolgere funzioni subordinate, opera la coppia «provvedimento più contratto
individuale».
Quanto alla natura giuridica dell’atto di conferimento dell’incarico, la normativa
del 2002, dunque, su un piano dell’interpretazione letterale, sembra sciogliere
definitivamente i dubbi circa la natura dell’atto di conferimento, attratto ora, dovrebbe
concludersi, nell’area «pubblicistica».
Tuttavia, ciò è vero solo in apparenza. Il profilo della natura giuridica dell’atto
resta dibattuto. Più in generale, come bene sottolineato in dottrina, la questione non va
però sopravvalutata, in considerazione dell’espressa attribuzione alla giurisdizione del
giudice ordinario delle relative controversie, disposta dall’art. 63 del d.lgs. n. 165/2001.
Quest’ultimo contribuisce a rendere, in pratica, inutile anche un’eventuale
qualificazione dell’atto di conferimento come appartenente al diritto pubblico, stante il
fatto che innanzi al giudice ordinario non possono trovare tutela gli interessi legittimi, e
dunque anche la funzionalizzazione dell’atto diventa priva di effettiva rilevanza86.
Ciononostante, il punto resta ancora molto dibattuto e, in dottrina, le opinioni
sono assai diverse.
In effetti, il nomen di «provvedimento» non sembra essere decisivo nella
soluzione del problema interpretativo, come sempre accade quando un frammento
normativo cozza contro la coerenza sistematica dell’intero impianto normativo. Ed
infatti, a sostegno della interpretazione di segno opposto - cioè a sostegno della natura
privatistica dell’atto in questione - volgono argomenti solidi, attinenti al sistema delle
fonti come strutturato dall’art. 2, comma 1 del d.lgs. n. 165, e dall’art. 5, comma 2, dello
stesso decreto. In sostanza, leggendo le norme citate87, sembrerebbero residuare pochi
dubbi sul fatto che il conferimento degli incarichi sia un atto di gestione del rapporto di
86
M. G. GAROFALO, Politica e amministrazione nella riforma della dirigenza pubblica, in A.
ZOPPOLI (a cura di), La dirigenza pubblica rivisitata, cit., p. 52.
87
L’art. 2, comma 1, del d.lgs. n. 165/2001 attribuisce al regime pubblicistico «i modi di
conferimento della titolarità degli uffici» non il loro concreto conferimento. In relazione a questa norma,
poi, l’art. 5, comma 2, dello stesso decreto, afferma la natura privatistica delle «determinazioni per
l’organizzazione degli uffici e per la gestione dei rapporti di lavoro» nell’ambito degli atti organizzativi di
cui all’art. 2, comma 1.
49
lavoro dirigenziale, che la norma appena citata riconduce al potere negoziale privato del
datore di lavoro88.
Sul punto, la giurisprudenza, specie quella di merito, procede con minore
convinzione, o meglio con minore organicità argomentativa rispetto alle tesi della
dottrina. Talvolta i giudici hanno supportato, già nel vigore del precedente quadro
normativo, l’argomentazione attinente al profilo delle fonti con un’altra riflessione,
comunque discutibile, circa il significato della contrattazione collettiva. Si riteneva, in
particolare, che la materia della revoca (ma il discorso può essere esteso anche al
conferimento), proprio in quanto oggetto di delegificazione, sarebbe per ciò solo attratta
nell’orbita contrattuale: rispetto a tale atto si sarebbe in presenza «di un potere che trae
origine ed è disciplinato dalla contrattazione collettiva, e quindi da una fattispecie
negoziale di diritto privato che non può costituire la fonte dell’attribuzione di un
pubblico potere»89.
Ma soprattutto, è interessante rilevare che, nell’approccio alla complessa
tematica della qualificazione giuridica dell’atto, il ragionamento dei giudici resta
ancorato saldamente sulla tradizionale alternativa contratto/provvedimento
amministrativo, con la connessa dicotomia diritto soggettivo/interesse legittimo,
lasciando nell’ombra la categoria concettuale degli “interessi legittimi di diritto
privato”, pur proposta dalla Cassazione, come situazione giuridica soggettiva di
riferimento nella materia degli incarichi dirigenziali90, in un’importante pronuncia
giurisprudenziale91.
88
Così M. G. GAROFALO, Politica e amministrazione, cit., p. 53. Nella stessa direzione, sia pure
con un diverso iter logico-argomentativo, A. CORPACI, Su natura e regime giuridico degli atti di
conferimento degli incarichi dirigenziali nel settore pubblico, in DLM, 2004, sp. p. 379.
89
Così Trib. Napoli, ord. 10 giugno 1999.
90
V. M. CASOLA, Gli incarichi dirigenziali nella giurisprudenza romana e napoletana, in DLM,
2005, p. 461.
91
Si allude alla sentenza 20 marzo 2004, n. 5659. Per una ricostruzione del dibattito relativo a
tale importante pronuncia v. A. BOSCATI, Atto di conferimento dell’incarico dirigenziale: la Cassazione
riafferma la natura privatistica, in LPA, 2004, p. 170 ss.; G. D’AURIA, Aggiornamenti sulle dirigenze
pubbliche: la dirigenza statale, in FI, 2005, p. 1530 ss. In effetti, la Cassazione - in presenza di un quadro
interpretativo molto complesso - prende una posizione chiara a favore della natura privatistica dell’atto di
conferimento. Il cuore delle sue argomentazioni è tutto incentrato su due profili strettamente connessi tra
loro: la posizione soggettiva del dirigente rispetto alla determinazione dell’amministrazione e l’ambito di
cognizione del giudice ordinario. In sostanza, la Corte ritiene che la posizione di interesse legittimo in cui
viene a trovarsi il dirigente rispetto alla futura determinazione dell’amministrazione non può essere
ricondotta nell’alveo del diritto pubblico, che presupporrebbe a monte la configurazione dell’atto di
conferimento quale espressione di discrezionalità amministrativa. Se ciò fosse vero, infatti, prosegue la
Corte, il giudice del lavoro verrebbe a conoscere in via principale, e non solo incidentale, del corretto
esercizio del potere amministrativo discrezionale ed a tutelare una situazione soggettiva del dirigente di
mero interesse legittimo e non di diritto soggettivo pieno, in contrasto con la previsione dell’art. 103,
comma 1, della Costituzione. Nel caso di specie, a differenza delle altre ipotesi in cui il legislatore ha
attribuito al giudice ordinario il potere di annullare gli atti amministrativi illegittimi, invece non assume
rilievo la prospettiva «difensiva» contro atti lesivi, «trattandosi di tutelare adeguatamente il dirigente nei
confronti delle scelte organizzative dell’amministrazione, caratterizzate da amplissima discrezionalità e
nei cui confronti la situazione giuridica del dirigente è prevalentemente di segno ‘pretensivo’, cui non
gioverebbe la mera demolizione di atti». Pertanto, ad avviso della Cassazione, non è possibile configurare
in questo caso poteri ed interessi legittimi «pubblicistici», in quanto solo la prospettiva del potere
«privato» e della categoria degli «interessi legittimi di diritto privato» sono in grado di tutelare la
posizione del dirigente a che l’amministrazione tenga comportamenti positivi in adempimento di obblighi
formali e sostanziali. La riconduzione del potere di conferimento nella categoria dei poteri del privato
datore di lavoro costituisce, secondo la Cassazione, «il giusto punto di equilibrio tra le esigenze di
50
7. La valutazione della dirigenza in funzione dell’attuazione della
distinzione tra “politica” e “amministrazione”: tra ostacoli strutturali e diffidenze
politiche e culturali
La valutazione della dirigenza pubblica è, senza dubbio, un tema centrale
nell’assetto normativo del lavoro pubblico: da essa dipende la reale capacità delle norme
di entrare nell’effettività dell’azione delle pubbliche amministrazioni. Dei molteplici
profili che essa presenta, ci si limiterà qui a prenderne in considerazione quelli più
strettamente attinenti al tema di queste riflessioni.
La valutazione rileva, anzitutto, per districare il complicato nodo di
responsabilità che il legislatore vuole che siano tenute distinte: la responsabilità della
“politica”, da un lato, quella della dirigenza amministrativa, dall’altro lato. Quindi, in
questo senso è strumentale alla concreta attuazione del principio di distinzione tra
“politica” e “amministrazione”. Senza valutazione dell’operato del dirigente, non si può
tenere fede al fondamentale canone, dettato per la dirigenza statale (ma contenente un
principio generale), secondo il quale “per il conferimento di ciascun incarico di
funzione dirigenziale si tiene conto, in relazione alla natura e alle caratteristiche degli
obiettivi prefissati, delle attitudini e delle capacità professionali del singolo dirigente,
valutate anche in considerazione dei risultati conseguiti con riferimento agli obiettivi
fissati nella direttiva annuale e negli altri atti di indirizzo del Ministro” (art. 19, comma,
1, primo periodo, d.lgs. 165/2001).
La valutazione è però in funzione anche del buon andamento e dell’imparzialità
amministrativa: in questa chiave vanno lette le aperture che la stessa Corte
costituzionale opera sul versante dello spoils system, ovvero di meccanismi di selezione
di alcune figure dirigenziali, astrette da un rapporto di fiduciarietà col potere politico,
talmente forte da consentire di disegnare (per esse) un regime giuridico del tutto
peculiare92. Siffatte compressioni delle formali garanzie, che riguardano tutto il
personale pubblico, non troverebbero, infatti, sostegno costituzionale qualora proprio la
necessità di centrare gli obiettivi di efficienza e di trasparenza dell’azione
amministrativa venisse inesorabilmente lasciata priva di una verifica oggettiva.
Se questi sono i fini della valutazione, riflettere sullo scenario politicoistituzionale per la valutazione consente invece di cogliere le ragioni della crescente
difficoltà di avere, oggi, meccanismi di valutazione dirigenziale efficaci.
La principale difficoltà della valutazione è relativa al fatto che essa, specie
quando riguarda l’alta dirigenza, coinvolge lo stesso dirigente politico, in qualità di
soggetto passivo, “perché un eventuale giudizio negativo lo espone alla censura di avere
commesso una culpa in eligendo nella stessa misura in cui un giudizio di segno opposto
lo gratifica”93.
Allora, la classe politica preferisce anteporre, all’obiettivo della responsabilità
decisionale, esigenze interne al circuito politico-elettorale, che la inducono a rifiutarsi di
assumere il peso della responsabilità decisionale o, comunque, a spostarlo in avanti, con
un elevato tasso di estemporaneità94: questa condotta non può che impedire la diffusione
della stessa cultura della valutazione. Questo discorso implica poi che il modulo
flessibilità (perseguite con la ‘privatizzazione’) e quelle di garanzia del personale dirigenziale, con
risultati conformi ai precetti costituzionali».
92
Su questi aspetti cfr. il capitolo ottavo, par. 2.
93
Così U. ROMAGNOLI, Dirigenti pubblici: lo scenario politico-istituzionale per la valutazione,
in DLM, 2004, p. 604.
94
U. ROMAGNOLI, Dirigenti pubblici, cit., p. 604.
51
relazionale tra “politica” e “amministrazione”, più volte richiamato, se, in prima battuta,
rischia di mettere fuori gioco la responsabilità gestionale della dirigenza amministrativa,
in secondo luogo, impedisce alla stessa dirigenza politica di valutare con intransigenza
la capacità gestionale occorrente per la realizzazione, in concreto, degli obiettivi
prefissati. Tutto ciò determina una scarsa trasparenza delle decisioni, ulteriore supporto
per una scarsa valutazione. E, come ultima conseguenza di questo susseguirsi di
condotte omissive, l’assenza di valutazione impedisce altresì di mettere in piedi efficaci
politiche delle risorse umane.
CAPITOLO OTTAVO
PROBLEMI IN TEMA DI DIRIGENZE LOCALI
1. Uno sguardo alla legislazione regionale, successiva alla riforma
costituzionale del 2001, in tema di incarichi dirigenziali
L’indiscutibile processo di decentramento istituzionale, che le riforme, sinora
descritte, hanno avviato, da qualche anno a questa parte, inizia a determinare i primi (e
per la verità ancora timidi) tentativi delle Regioni e degli Enti locali di dare concretezza
alla propria autonomia normativa, principalmente sul lato dell’organizzazione. Si è già
accennato alla centralità della dirigenza in questo discorso: e proprio sulla dirigenza
regionale, che è opportuno allora soffermarsi per cogliere tendenze e criticità della
emergente normativa locale.
In questa logica, risulta interessante leggere la legislazione regionale post Titolo
V sul tema degli incarichi: sotto un duplice profilo. Da un lato, nella prospettiva di
verificare se, ed in che misura, le Regioni abbiano, in questi ultimi anni, effettivamente
sfruttato i nuovi spazi di competenza normativa loro attribuiti dalla riforma
costituzionale; e, dall’altro lato, di valutare la eventuale influenza esercitata sulla
legislazione regionale più recente dalla riforma della dirigenza pubblica statale,
realizzata dalla l. n. 145/200295.
Diciamo subito che un primo esito dell’analisi è il numero limitato di interventi
regionali: e già questo potrebbe costituire un risultato dell’indagine. Anche a causa di
un dato normativo costituzionale molto ambiguo, si registra un evidente ritardo
nell’adeguamento dei sistemi regionali alle innovazioni normative costituzionali. E il
risultato non cambia anche rispetto all’influenza esercitata sulle discipline regionali
dalle previsioni normative della l. n. 145/2002.
Nella sostanza, poi, va anche detto che le Regioni preferiscono intervenire in
materia non sempre con leggi organiche. Le normative organiche sulla disciplina della
dirigenza sono poche96; per il resto si registrano interventi di modifica dei vecchi
impianti normativi, con innovazioni soprattutto in tema di incarichi dirigenziali97.
95
Tale legge formalmente dichiara di intervenire soltanto per il riordino della dirigenza statale.
Tuttavia, essa, incidendo sul tessuto normativo del d.lgs. n. 165/2001 - che, com’è noto, contiene le
norme generali del lavoro nelle amministrazioni pubbliche - finisce per incidere, sia pure indirettamente,
anche sulle Regioni.
96
V. l.r. Umbria n. 2/2005, in tema di organizzazione e dirigenza. Sicuramente interessante è
notare come venga mantenuta, in questa legge, se non addirittura valorizzata, l’impostazione normativa
tesa a tenere distinti Consiglio e Giunta: con un riconoscimento di disciplina trainante alle disposizioni
sulla struttura organizzativa e sulla dirigenza della Giunta.
97
È il caso della Regione Marche, intervenuta con due leggi regionali susseguitesi in un
brevissimo lasso di tempo (l.r. n. 14/2005 e l.r. n. 19/2005). V. anche la l.r. Friuli Venezia Giulia, n.
52
Oppure si scelgono, specialmente là dove evidentemente gli equilibri politici sono
precari, normative molto “leggere”, indirizzate su aspetti specifici, e che lambiscono
appena i profili strutturali dell’organizzazione e della dirigenza regionale98. Ciò
condurrebbe alcuni a sostenere la valenza trainante che il modello della dirigenza statale
esercita sulle Regioni, anche nel nuovo quadro costituzionale.99
In una direzione diversa, vanno invece a collocarsi i due versanti dell’accesso e
del rapporto tra politica e amministrazione. In questi casi, si riscontra una progressiva e
rilevante controtendenza. Soprattutto con riguardo al principio di distinzione tra politica
e amministrazione, i legislatori regionali risultano assai solleciti nel predisporre
discipline più o meno divergenti rispetto alla normativa statale, “adeguando” il principio
in maniera da spostare il punto di equilibrio più vicino al vertice politico-istituzionale
che alla dirigenza: si pensi agli organi di direzione politica che sono spesso dotati del
potere di avocazione, talvolta senza necessità di particolari presupposti.
In realtà, può dirsi che il principio viene recepito, quasi in tutti i casi, tra i
“principi generali” della normativa regionale. Tuttavia, nel porre la disciplina degli
incarichi e delle funzioni dirigenziali, le Regioni spesso introducono elementi di
peculiarità, allontanandosi dal modello statale100. In taluni casi, tale scostamento in sede
regionale è funzionale alla effettiva applicazione delle logiche proprie della c.d.
“privatizzazione”101.
Sul versante degli incarichi, il discorso si fa ancora più complicato.
Quanto al conferimento, esso, in alcuni casi, avviene con un regime giuridico
unico, valevole per ogni graduazione della qualifica dirigenziale, e così anche per gli
“esterni” e per i dipendenti dell’amministrazione regionale “appartenenti alla categoria
immediatamente inferiore a quella dirigenziale”102. In altri casi, la disciplina è articolata
in base alla collocazione del dirigente103. Il conferimento può avvenire con
“contratto”104 (a volte si specifica “di diritto privato”). In effetti, in questi casi, dietro le
diverse formule normative adoperate c’è la stessa sostanza: il contratto che crea il
rapporto di lavoro e quello che ne definisce il concreto contenuto si identificano, senza
che residui spazio per atti unilaterali dell’amministrazione-datore di lavoro. Al limite, in
10/2002, che prevede una disciplina anch'essa di modifica dell'impianto previgente, ma abbastanza
articolata.
98
V. l.r. Valle d’Aosta n. 20/2005.
99
F. CARINCI, Il lento tramonto del modello unico ministeriale: dalla “dirigenza” alle
“dirigenze”, in F. CARINCI, S. MAINARDI (a cura di), La dirigenza nelle pubbliche amministrazioni, cit.,
LV.
100
V. l.r. Regione Umbria n. 2/2005. Particolare interesse rivestono, inoltre, le disposizioni
normative contenute nella l.r. Regione Calabria n. 12/2005 (Norme in materia di nomine e di personale
della Regione Calabria): in particolare, l’art. 1, commi 6, 7 e 8. Su tali disposizioni normative, come
visto, è stata chiamata ad intervenire, di recente, la Corte costituzionale, con la sentenza del 16 giugno
2006, n. 233.
101
È il caso della l.r. Friuli Venezia Giulia n. 10/2002, che all’art. 7 propone una peculiare
articolazione della dirigenza, all’interno della quale spicca il ruolo del «coordinatore del dipartimento»: si
tratta di una peculiare funzione dirigenziale, assegnata ad «un dirigente con incarico di direttore
generale», che «sovrintende e coordina le attività di attuazione dei programmi secondo le direttive
generali impartite dalla Giunta regionale, con riferimento alle aree omogenee interessate dalle politiche di
intervento regionale». Tali previsioni si ricollegano a quanto stabilito in apertura della legge (all’art. 1,
comma 3), dove si rimarca la volontà di favorire «il perfezionamento del processo di privatizzazione del
rapporto di impiego».
102
L.r. Umbria n. 2/2005, art. 11, comma 5.
103
V. l.r. Lazio n. 6/2002, art. 19.
104
L.r. Lazio n. 6/2002.
53
alcune leggi, vengono richiamati atti unilaterali, ma non per la loro diretta efficacia nei
confronti del dirigente, ma semplicemente come tappa nel processo di formazione della
volontà della Giunta.
Altre Regioni, invece, prevedono una diretta incidenza di atti unilaterali sulla
disciplina degli incarichi: la legge della Toscana stabilisce che i direttori generali sono
nominati con deliberazione della Giunta, ma che l’incarico è loro conferito con contratto
di diritto privato105. Alla stessa maniera, la legge dell’Umbria prevede che l’incarico di
dirigente è conferito dalla Giunta, su proposta del direttore competente, ed è disciplinato
con contratto di diritto privato106.
Differente la posizione della Regione Marche. Essa prevede che gli incarichi di
dirigente di servizio sono conferiti dalla Giunta regionale, su proposta del segretario
generale; gli incarichi di posizione dirigenziale di progetto e di funzione sono conferiti
su proposta del Comitato di cui all’art. 8. Per il conferimento di questi incarichi la legge
poi richiama il “contratto a tempo determinato di diritto pubblico”. L’incarico a soggetti
esterni è, invece, attribuito con “atto motivato”107.
2. Limiti costituzionali dello spoils system della dirigenza regionale nella
giurisprudenza costituzionale
In questa logica, è di particolare interesse la già citata pronuncia della Corte
costituzionale 16 giugno 2006 n. 233, in tema di dirigenza regionale108. E’, questa, la
prima pronuncia che affronta, in maniera diretta, il tema, sinora poco esplorato, del
riparto di competenze normative tra Stato e Regioni, a proposito del lavoro dirigenziale
regionale109. Essa ha avviato un’elaborazione interpretativa della Corte costituzionale
molto articolata: non a caso, alla citata pronuncia hanno fatto seguito, a distanza di
pochi mesi, altre due sentenze (n. 103 e n. 104 del 23.03.2007), che, indubbiamente,
offrono alla riflessione sul tema preziosi indicazioni110.
Ma il motivo dell’interesse della sentenza n. 233 è anche un altro. Con questa
pronuncia la Corte va a toccare proprio una di quelle zone di maggiore criticità della
privatizzazione, e cioè il rapporto tra “politica” e “amministrazione”111.
105
L.r. Toscana n. 44/2003, art. 11.
L.r. Umbria n. 2/2005, art. 11.
107
L.r. Marche n. 19/2005, art. 23.
108
Per un accurato commento alla sentenza cfr. M. CERBONE, Limiti costituzionali dello spoils
system della dirigenza regionale, in DLM, 2006, p. 732 ss.
109
In precedenza, la Corte - pur non affrontando frontalmente il tema - è intervenuta, tuttavia, su
alcune specifiche questioni, relative al personale regionale, inclusa la dirigenza: prima, con la sentenza 24
luglio 2003 n. 274, poi, con la sentenza 13 gennaio 2004 n. 2, sullo Statuto della Regione Calabria.
110
Corte costituzionale 23 marzo 2007, n. 103 riguarda giudizi di legittimità costituzionale
dell’articolo 3, commi 1, lettera b), e 7, della legge 15 luglio 2002, n. 145 (Disposizioni per il riordino
della dirigenza statale e per favorire lo scambio di esperienze e l’interazione tra pubblico e privato); Corte
costituzionale 23 marzo 2007, n. 104 riguarda disposizioni normative della legge della Regione Sicilia 26
marzo 2002, n. 2 (Disposizioni programmatiche e finanziarie per l’anno 2002), nonché di alcune
disposizioni regionali contenute nella legge Regione Lazio 11 novembre 2004, n. 1 (Nuovo Statuto della
Regione Lazio), legge della Regione Lazio 17 febbraio 2005, n. 9 (Legge finanziaria regionale per
l’esercizio finanziario 2005), legge Regione Lazio 28 aprile 2006, n. 4, recante “Legge finanziaria
regionale per l’esercizio 2006”.
111
La pronuncia della Corte tocca, simmetricamente, ambedue i versanti dell’agire
amministrativo, da considerare fondamentali per il funzionamento anche della Regione: quello politico,
riguardante i criteri per le nomine, appunto, politiche (artt. 1 e 2 della l.r. Abruzzo 12 agosto 2005 n. 27;
art. 1, commi da 1 a 5, della l.r. Calabria 3 giugno 2005 n. 12), e quello tecnico-gestionale, concernente
gli incarichi dirigenziali (art. 1, commi 6, 7 e 8, l.r. Calabria 12/05).
106
54
Nel decidere sulle normative regionali, essa arriva a sostenere la praticabilità
costituzionale di scelte, adottate in sede regionale, di spoils system, limitato però alla
sola dirigenza “fiduciaria” (o di staff). Diciamo subito che questo approdo è
condivisibile, anche se va chiarita meglio la distinzione interna alla dirigenza.
La Corte propone quattro passaggi fondamentali: a) bisogna tenere distinte le
posizioni della dirigenza di vertice rispetto all’altra dirigenza: in ragione della stretta
fiduciarietà della prima, e soltanto di essa, con il potere politico (l’“intuitus personae”,
più volte richiamato in sentenza); b) questa stretta contiguità dell’alta dirigenza, rispetto
al processo di decisione politica, si giustifica principalmente con la necessità di
determinare il buon andamento dell’azione amministrativa ex art. 97 Cost.; c) tale
contiguità risulta compatibile anche con il principio di imparzialità, in ragione della
stretta strumentalità di questo modello dei rapporti tra “politica” e “amministrazione”,
rispetto all’obiettivo del buon andamento; d) soltanto la dirigenza di vertice esprime
questa contiguità; per gli altri dirigenti, il meccanismo dello spoils system, come
costruito dalla Regione Calabria, non può, pertanto, ritenersi costituzionalmente
legittimo.
Decisiva è la distinzione che, in apertura del suo ragionamento, la Corte opera,
in maniera marcata, tra le dirigenze, “apicale” e “non apicale”. Da siffatta distinzione di
posizione, essa fa poi discendere una profonda differenziazione sul regime giuridico di
disciplina del rapporto di lavoro del dirigente medesimo. Siffatta distinzione prende le
mosse da quella elaborazione che, più in generale, si è consolidata nel tempo, intorno
alla nozione di dirigente (in questa fase, non interessa distinguere “pubblico”/“privato”),
come ricavata dalla giurisprudenza. Un’elaborazione interpretativa che, per la dirigenza
privata, si è, da tempo, assestata sul riconoscimento di fatto della indubbia centralità del
dirigente112. Questa rappresentazione empirica della dirigenza si può dire venga
recepita, per il settore pubblico, nel patrimonio genetico del d. lgs. 3 febbraio 1993 n. 29
prima, del d. lgs. 165/01 dopo113.
Adottando siffatta prospettiva, la Corte spinge fino in fondo il suo approccio alla
questione, ragionando sull’elemento della “fiduciarietà” della dirigenza apicale, rispetto
al potere politico. Tale fiduciarietà attrae il dirigente nell’area del potere,
allontanandolo, nella distanza massima, dalla sfera della mera prestazione di lavoro
subordinato. La fiduciarietà determina, in altre parole, un’alterazione dello schema di
base che governa la relazione “politica/dirigenza”114. La sfera del lavoro dell’alto
dirigente - quella cioè che più è vicina all’esercizio del potere - configurerebbe così un
profilo sottratto alla competenza statale e potrebbe condurre le Regioni addirittura a
scegliere un regime giuridico diverso da quello adottato dal d.lgs. 165/01.
La citata pronuncia della Corte va letta con interesse anche per quello che non
dice. Restano fuori dall’indagine della Corte, infatti, i profili concernenti le differenze
112
Sul tema, in dottrina, per tutti, v. G. PERA, Dirigenti d’azienda, disciplina limitativa dei
licenziamenti e statuto dei lavoratori, in OGL, 1972, p. 435; P. TOSI, Il dirigente d’azienda. Tipologia e
disciplina del rapporto di lavoro, Giuffrè, 1974, sp. cap. II; da ultimo, v. la ricostruzione di A. ZOPPOLI,
Dirigenza, contratto di lavoro e organizzazione, Esi, Napoli, 2000, p. 81 ss.
113
Le norme relative alla dirigenza sono inserite, infatti, nel titolo II del d.lgs. 165/01,
concernente appunto l’“Organizzazione”. Significative sono poi le disposizioni normative che
individuano nei dirigenti “gli organi preposti alla gestione” (v., in particolare, l’art. 4, co. 2, l’art. 5, co. 2,
gli artt. 16 e 17, del d.lgs. 165/01).
114
Cfr., già alla fine degli anni ’70, sulla scia di M. S. GIANNINI, Impiego pubblico (teoria e
storia), Voce, in ED, 1970, vol. XX, p. 304, M. RUSCIANO, L’impiego pubblico in Italia, il Mulino,
Bologna, 1978, p. 327.
55
tra la dirigenza “fiduciaria” e la dirigenza “amministrativa”: quest’ultima, da intendersi
come quella dirigenza che non può piegarsi alla precarietà di scelte improntate a logiche
fiduciarie.
Così come andrebbe chiarito un altro profilo, appena toccato dalla citata
giurisprudenza costituzionale, intrecciato con il discorso sullo spoils system: si allude
alla temporaneità dell’incarico dirigenziale. Al riguardo, in questa sede, ci si può
limitare ad affermare la necessità di legare la ‘rimozione’ del dirigente (non fiduciario)
alla valutazione delle sue prestazioni, a garanzia dell’imparzialità e del buon
andamento, di cui all’art. 97 Cost.
3. La dirigenza degli enti locali: i paradossi dei Comuni privi di dirigenza
Il Rapporto Giannini, in apertura, segnala la necessità che, nel discorso sulla
dirigenza pubblica, bisogna prendere atto di un dato, economicamente valutabile: e cioè
che è a partire dal livello comunale dell’amministrazione, quello cioè più prossimo al
cittadino, che si determina l’andamento amministrativo complessivo. Ragion per cui
disfunzioni e lacune organizzative che dovessero prospettarsi in quello stadio rischiano
di propagarsi sull’intera filiera istituzionale, con possibilità di incremento dei guasti
organizzativi e istituzionali, oltrechè di non soddisfacimento delle istanze dei cittadiniutenti.
Appare allora utile, proprio seguendo l’approccio gianniniano, guardare
all’esperienza concreta che viene dalla dirigenza locale, e in particolare da quella
comunale. Tralasciando l’ipotesi dei cc.dd. Comuni polvere - quei Comuni, cioè, per i
quali le ridotte dimensioni demografiche e territoriali hanno indotto lo stesso legislatore,
attraverso discutibili disposizioni, dal dichiarato carattere finanziario, ma
dall’inevitabile impatto sulla sistematica della disciplina generale, a ridimensionare (se
non ad eliminare), la tanto invocata distinzione tra politica e amministrazione115 - è il
caso di soffermarsi su alcuni dati che riguardano taluni Comuni di dimensioni medie.
Al di là dell’incidenza statistica rappresentativa del dato di tali Comuni - che il
presente contributo non si propone certo di affermare - a noi interessa riflettere, ancora
una volta, sugli effetti negativi di assetti dei poteri pubblici e dei rapporti tra “politica” e
“amministrazione” poco chiari e perciò ambigui. La degenerazione applicativa di un
criterio direttivo condivisibile, insieme ad un perenne situazione di deficit finanziario
che caratterizza la vita politico-amministrativa di parecchi Comuni, specie del Sud, si
pone alla radice della singolare condizione di taluni Comuni, che, a fronte delle enormi
potenzialità aperte dalla riforma costituzionale, continuano a operare con livelli
organizzativi decisamente sottodimensionati: fino al punto che essi si trovano ad
operare, in parecchi casi, privi addirittura di una classe dirigente, preferendo riempire
gli spazi vuoti lasciati dalla dirigenza con l’affidamento delle funzioni dirigenziali, in
via temporanea, a funzionari di qualifica apicale in organico116. Con il risultato finale
115
Un primo cedimento al principio di autonomia gestionale dei dirigenti si è avuto, sul piano
normativo, con l’art. 53, comma 23, della legge 23 dicembre 2000, n. 338 (c.d. Finanziaria 2001), con
riferimento ai piccoli Comuni. La disposizione in oggetto consente agli Enti locali con popolazione
inferiore a cinquemila abitanti, anche a fini di contenimento della spesa, di “adottare disposizioni
regolamentari organizzativa … attribuendo ai componenti dell’organo esecutivo la responsabilità degli
uffici e dei servii ed il potere di adottare atti anche di natura tecnica gestionale”, e ciò anche in deroga a
quanto disposto dall’art. 3, commi 2, 3, e 4, del d.lgs. n. 29/1993, e successive modificazioni, e dall’art.
107 del d.lgs. n. 267/2000.
116
A. VISCOMI, Problemi in tema di dirigenza comunale, in M. RUSCIANO, L. ZOPPOLI (a cura
di), L’impiego pubblico nel diritto del lavoro, Giappichelli, Torino, 1993, p. p. 91 ss.
56
che si trovano a gestire processi di innovazione organizzativa, che la normativa impone,
il più delle volte con personale o non qualificato professionalmente o poco motivato,
talora integrato da apporti consulenziali esterni, naturalmente onerosi117.
Certo, non andrebbero trascurate le ragioni di tali situazioni, sulle quali spesso non
c’è adeguata riflessione. Ad esempio, si è già rimarcato l’impatto negativo che possono
avere sull’organizzazione amministrativa di tali enti scelte come quelle adottate, a
livello nazionale, di blocco delle assunzioni e del turn over. Siffatte decisioni, specie se
non accompagnate da provvedimenti di razionalizzazione degli organici, possono
contribuire a frenare lo sviluppo organizzativo degli enti ed a pregiudicare la
competitività dell’ente medesimo.
Insomma, ancora una volta, alla base della sostanziale inefficienza delle decisioni
organizzative si pongono difetti di interconnessione tra i livelli istituzionali. Il vero
paradosso è che se la riforma si gioca sul ruolo “neo-manageriale” assunto dai dirigenti,
non è azzardato ipotizzare che l’assenza di costoro, nella gran parte dei Comuni, ne
riduca notevolmente, già in partenza, le chances di successo.
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Maggioli Editore, Rimini, 1995, p. 205.
117
Per colmare siffatta disfunzione organizzativa, la prassi propone almeno altre due soluzioni,
oltre a quella, già indicata, della valorizzazione degli impiegati di qualifica apicale in organico. In
particolare, in alcuni casi si è percorsa la strada, per la verità impervia, dell’affidamento al sindaco dei
“poteri” dirigenziali. In altri casi, si è andati avanti con l’assegnazione al segretario comunale delle
funzioni gestionali ed amministrative (al riguardo, cfr. l’analisi di A. VISCOMI, Problemi in tema di
dirigenza comunale, cit., p. 98, sulla tenuta delle soluzioni possibili). Le recenti integrazioni al
Memorandum d’intesa sul lavoro pubblico, proposte da Regioni, Province e Comuni, in data 22 marzo
2007, valorizzano, invece, quanto ai piccoli Enti, privi di dirigenti, “il ruolo delle posizioni
organizzative”.
57
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- V. LUCIANI, La giurisprudenza in tema di selezioni concorsuali nel lavoro pubblico tra questioni risolte
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- F. MERLONI, Amministrazione “neutrale” e amministrazione imparziale, in DP, 1997, 2, p. 340;
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PROPOSTE E RACCOMANDAZIONI
I. Eccesso di norme e difficoltà di interpretazione
È necessario aprire il catalogo delle “proposte e raccomandazioni” con
un’indicazione di carattere generale, sul metodo da seguire per eventuali interventi di
modifica del quadro normativo.
Nel corso della trattazione, si è insistito, più volte, su un dato di fondo, trascurato
nelle proposte di riforma, avanzate in Parlamento: con riguardo a specifici punti della
disciplina dei rapporti di lavoro nelle pubbliche amministrazioni (ad esempio:
trasferimenti e mobilità, turni di lavoro, procedure disciplinari e licenziamento, etc.), la
scarsa effettività della disciplina non dipende dalla scarsità delle norme, bensì, tutto al
contrario, da un eccesso di regole, che sovente rende difficile reperire la normativa
applicabile. Anche perché alle norme di legge e di regolamento spesso si
sovrappongono le clausole dei contratti collettivi (accordi intercompartimentali,
contratti di comparto, eventuale contrattazione integrativa).
Questa situazione paradossale è frutto di tre fenomeni.
a) Il primo, molto noto e ben messo in luce nel Rapporto Giannini, è costituito
dall’intreccio, nella materia dell’impiego pubblico, tra norme sull’organizzazione degli
uffici, norme sulle procedure e norme sul personale. Ciò rende ovviamente difficile: la
distinzione delle competenze a regolare i vari aspetti; la posizione e l’interpretazione
delle norme medesime.
b) Il secondo dipende dalla difficoltà di stabilire un preciso regolamento di confini
tra le regole di origine unilaterale (legislative e regolamentari/organizzative) e le
clausole della contrattazione collettiva: sia perché esiste quell’intreccio di cui sub a); sia
perché il sindacato pretende di “contrattare” ogni aspetto dell’organizzazione
amministrativa e non soltanto quanto attiene ai rapporti di lavoro: a dimostrazione che
distinguere tra macro e micro-organizzazione è poco più che una elucubrazione
intellettuale.
c) Il terzo dipende dalla tendenza del legislatore ad emanare leggi e leggine
settoriali, rivaleggiando con la contrattazione e accavallandosi alla stessa (a poco
rilevando il pur raffinato meccanismo dell’art. 2, comma 2, del d. lgs. 165/2001).
È necessario allora che la legge definisca con più precisione i confini tra
legislazione e contrattazione - la quale ultima non può invadere la sfera
dell’organizzazione, di competenza e responsabilità della dirigenza - e ancora meglio
sarebbe che fosse addirittura la Carta costituzionale a prevedere una riserva di
contrattazione per gli istituti tipici del rapporto di lavoro.
II. Scarsa effettività della normativa
Per altro verso, la scarsa effettività segnalata (su cui il legislatore è intervenuto nel
corso degli ultimi quindici anni) è conseguenza del comportamento sia della dirigenza
politica, sia della dirigenza amministrativa, spesso inadeguate alle funzioni ed alle
responsabilità contemplate dal legislatore ed incapaci di interiorizzare, dal punto di vista
culturale, le logiche proprie della riforma amministrativa.
Allora, un intervento che si ponesse l’obiettivo di incrementare il quadro delle
norme in materia, senza tenere conto delle ragioni della ineffettività, pare destinato a
fallire già in partenza. Se proprio si dovessero rintracciare aree in cui esistono ambiguità
o confusione, ci si dovrebbe limitare ai soli interventi di razionalizzazione delle regole
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esistenti, per semplificare e meglio definire gli aspetti legati alla responsabilità dei
soggetti per determinate condotte.
A titolo esemplificativo, si prenda la materia disciplinare, assai importante per
imporre ai lavoratori maggiore efficienza e produttività. Qui sarebbe opportuno
prevedere adeguati sistemi di controllo dell’operato della dirigenza, che rimane inerte,
nonostante i mediocri risultati della elementare comparazione tra standards di efficienza
dei servizi erogati e rendimento del personale, secondo indicatori privilegiati (come
assiduità nel lavoro; sanzioni disciplinari a carico dei dipendenti; livello delle
retribuzioni, etc.).
III. La qualità della legislazione
Maggiore attenzione andrebbe dedicata alla qualità delle regole (per intendersi: alla
c.d. “confezione” legislativa), valorizzando la tecnica della ‘delegificazione’ ed
evitando norme farraginose e sovrabbondanti rispetto agli obiettivi.
Come per la quantità delle norme, anche per la qualità di esse occorrerebbe una
razionalizzazione più seria di quella del d. lgs. 165/2001, che solo impropriamente viene
chiamato “testo unico”.
Il problema della qualità delle regole riguarda, naturalmente, anche la
contrattazione collettiva, su cui v. in seguito.
IV. Contesto economico-sociale e rapporti di lavoro
a) Molte perplessità suscitano le scelte politiche, adottate negli ultimi anni, di
blocco delle assunzioni e del turn over.
È necessario che tali meccanismi, solitamente imposti da ragioni di spesa pubblica,
non siano generalizzati e indiscriminati, ma tengano conto del rendimento e dei bisogni
oggettivi di ciascuna amministrazione.
b) Senza dubbio, la funzione di ammortizzatore sociale che la pubblica
amministrazione si trova a svolgere, specie nel Mezzogiorno, è impropria e andrebbe in
ogni caso evitata, essendo totalmente incompatibile con l’efficienza
dell’organizzazione. Se proprio non si può evitare tale funzione, occorre individuare
criteri di assunzione, agganciati il più possibile alla professionalità, e, comunque,
ispirati all’interesse generale, come pure strumenti di controllo rigorosi, onde evitare
che, al danno di un reclutamento “taroccato”, si accompagni la beffa dello scarso
rendimento o addirittura della mancata prestazione. Anche perché non sono pochi i c.d.
“precari” delle pubbliche amministrazioni, che svolgono invece un lavoro di grande
utilità, spesso più apprezzato professionalmente di quello svolto dai dipendenti stabili.
Tali precari andrebbero progressivamente stabilizzati, a patto che siano sottoposti alle
opportune valutazioni comparative, a seconda della amministrazione e della
professionalità.
V. Il nodo politico delle riforme amministrative
a) Nonostante la freddezza, sul tema, del potere politico - probabilmente dovuta al
timore di una indiretta valutazione anche del proprio operato - costituisce un’assoluta
priorità il potenziamento degli organismi di controllo di gestione e dei nuclei di
valutazione della dirigenza, da costituire con soggetti esterni all’amministrazione, come
tali imparziali. Questa attività ben può coniugarsi con l’introduzione, anche in via
sperimentale, di meccanismi che prevedano la “partecipazione” di cittadini-utenti alla
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valutazione, mediante apposite sedi, deputate al “controllo sociale” dell’attività
amministrativa (strumenti informativi, trasparenza, soprattutto negli enti locali).
b) E’ assolutamente necessario e prioritario rivedere la scelta della
“contrattualizzazione” dell’alta dirigenza pubblica. Tale contrattualizzazione non è
compatibile con una seria distinzione tra “politica” e “amministrazione”. L’alta
dirigenza di vertice, personificando il datore di lavoro nell’amministrazione pubblica,
non può che avere uno status pubblicistico, stabilito dalla legge, che ponga in risalto la
sua autorevolezza e la sua autonomia dalla politica, nelle scelte organizzative. Ciò è
auspicabile, viste le contraddizioni create dal regime contrattuale e, soprattutto,
l’assoluta necessità di assicurare la continuità istituzionale dell’amministrazione, a
prescindere dal “colore” del potere politico in una determinata fase storica.
c) L’adozione di meccanismi di spoils system va limitata, per le intuibili ragioni
connesse a quanto detto sub b), alla sola dirigenza di vertice c.d. “fiduciaria” (o di staff).
Sul punto, comunque, è ormai intervenuta la Corte costituzionale, la cui decisione
inciderà sull’assetto della disciplina.
VI. Dinamismo dell’organizzazione
Per incrementare la diffusione e il radicamento di una “cultura
dell’organizzazione”, occorre dotare ogni pubblica amministrazione di appositi “uffici
di organizzazione”, deputati alla continua ideazione di procedure innovative e di metodi
di organizzazione più efficienti, nonché alla raccolta delle istanze dei cittadini-utenti,
nell’ottica della partecipazione di questi ai procedimenti e nella prospettiva del controllo
sociale (di cui si è detto al punto V, lett. a).
VII. Ambiguità ed equivoci della partecipazione sindacale
a) Non c’è dubbio che, come detto al punto I, lett. b), è necessario definire, con
maggiore chiarezza, sul piano normativo, i confini tra “potere unilaterale di
organizzazione” e “area della contrattazione”, prevedendo una salvaguardia del potere
autonomo datoriale, sulle materie della organizzazione degli uffici e della gestione del
personale. Ciò ha grandissima importanza anche per evitare ogni tendenza al
consociativismo tra dirigenza e sindacato nei luoghi di lavoro, che si ripercuote, tra
l’altro, assai negativamente, sulla chiarezza delle clausole contrattuali.
b) Sul versante della parte datoriale della contrattazione collettiva, occorre far sì
che l’Aran recuperi il suo ruolo essenziale di “cabina di regia” della contrattazione,
distante tanto dalla “politica” quanto dal sindacato.
c) Inoltre, una via d’uscita ai numerosi problemi, in tema di contrattazione, creati
dalla riforma costituzionale, potrebbe essere, pur mantenendo l’attuale struttura della
contrattazione collettiva pubblica, quella di valorizzare il livello regionale, quanto al
potere di indirizzo e di regolazione della contrattazione collettiva integrativa.
VIII. Professionalità e capacità dei dipendenti pubblici per la competitività
del paese
1. Rilevanza di una vera logica contrattuale
Costituisce la pre-condizione di una vera contrattualizzazione di tutti i rapporti di
lavoro pubblico (ad eccezione dell’alta dirigenza: v. parte V, lett. b) il recupero, sul
piano logico-giuridico, e l’affermazione, sul piano operativo, dello “spirito contrattuale”
del rapporto di lavoro: secondo il quale l’obbedienza, la diligenza e la fedeltà (ai sensi
degli articoli 2104 e 2105 cod. civ.) costituiscono, insieme alla collaborazione, elementi
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strutturali del contratto di lavoro, come contratto di scambio, a prestazioni corrispettive
(art. 2094 cod. civ.)
È paradossale che, mentre la grande impresa industriale, attraverso il contratto,
esige una “fidelizzazione” sempre più forte dei propri dipendenti, nelle pubbliche
amministrazioni - nelle quali il dipendente è stato, per anni, vincolato da uno status di
particolare soggezione e fedeltà - proprio il discorso della fidelizzazione venga
totalmente trascurato, anche sul piano culturale, e, per giunta, quando si richiede
maggiore produttività e maggiore efficienza.
2. Formazione e concorsi
- Al fine di valorizzare tutte le finalità del “concorso pubblico”, secondo la
Costituzione, occorre assicurare un più stretto collegamento tra il “concorso” e le
“mansioni”, per le quali esso si bandisce. Ciò può avvenire, anche attraverso la
valutazione delle esperienze prodromiche all’impiego, come i titoli di studio e gli
stages; inoltre incrementando, nelle commissioni giudicatrici, la quota di commissari
impiegati a tempo pieno in tale attività (E va, comunque, trovata una soluzione, ispirata
al decentramento, per quei concorsi nei quali la selezione riguarda migliaia e migliaia di
candidati per qualche diecina di posti).
- Nella stessa prospettiva, è necessario creare una rete più stabile di controllo e di
certificazione della formazione, con l’apporto delle Università. Vanno inseriti, nei
percorsi didattici di queste e nei percorsi post-laurea, insegnamenti e corsi, orientati
specificamente alla formazione manageriale pubblica (come, ad esempio, ora avviene
per le Scuole di specializzazione per le professioni legali).
- Essenziale, per una programmazione seria della formazione, è il monitoraggio e
la verifica, per ogni amministrazione, degli esiti della formazione, con adozione di
sanzioni per la dirigenza inadempiente.
3. Mansioni e posizioni organizzative
- Appare molto delicato il tema delle “posizioni organizzative”: bisogna fare
attenzione a come esse vengono configurate dalla contrattazione collettiva ed, in
particolare, ai criteri in base ai quali vengono conferite. Occorre evitare di creare
percorsi di crescita professionale nelle pubbliche amministrazioni, del tutto sganciati dal
meccanismo dell’art. 52 d. lgs. 165/2001. E’ necessario, inoltre, agganciare la
“posizione organizzativa”, nell’ambito dell’equivalenza, sotto la responsabilità della
dirigenza, alla “particolare diligenza” del lavoratore, alla sua elevata professionalità, e al
suo effettivo “coinvolgimento” nell’organizzazione.
4. Mobilità
- Nella logica contrattuale, appaiono ispirate all’idea del privilegio del pubblico
impiego - con gravi ripercussioni sulla rigidità dell’organizzazione - le procedure sulla
mobilità dei dipendenti, specie quelle connesse a situazioni di eccedenza di personale
(art. 33, d. lgs. 165/2001). Si fatica a cogliere, infatti, in che cosa consista la specialità
del “pubblico”, rispetto al rapporto di lavoro privato.
- Innegabile, in materia, il ruolo della contrattazione collettiva. Ma, in primo luogo,
questa dovrebbe, in una prospettiva di modifica del vigente quadro normativo,
contribuire a rimuovere alcuni ostacoli alla “mobilità intercompartimentale”,
omogeneizzando, in questa ottica, i profili professionali ed i corrispondenti livelli
retributivi, esistenti nei vari comparti. Così come essa potrebbe essere chiamata ad
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individuare e gestire i casi in cui la mobilità si profilerebbe come “necessaria” (ad
esempio, per evitare che eccedenze di personale incidano, in maniera pesante, sul buon
andamento dell’amministrazione).
5. Retribuzione, orario di lavoro, orario di servizio
- Nella prospettiva della competitività delle pubbliche amministrazioni, è
necessario avviare una comparazione e un ragionevole adeguamento delle retribuzioni,
per posizioni simili, nelle varie amministrazioni e con il settore privato (senza trascurare
un utile riferimento alle retribuzioni degli altri paesi dell’Unione europea). Il
trattamento retributivo è, infatti, per ragioni facilmente intuibili, un vettore privilegiato
per la competitività.
- E’ necessario agganciare la parte variabile delle retribuzioni dei dipendenti
pubblici ai risultati conseguiti: ciò vale anzitutto per la dirigenza, ma anche per il
personale non dirigenziale, attraverso un sistema di incentivi e premi. Va evitata
assolutamente la distribuzione forzosamente omogenea dei premi a tutto il personale
(c.d. “a pioggia”).
- Non c’è dubbio, inoltre, che debba essere meglio equilibrato il rapporto tra
retribuzione e orario di lavoro: anche perché è necessario garantire una più lunga
apertura degli uffici ed una assoluta continuità dei servizi pubblici, per venire incontro
alle esigenze dei cittadini-utenti, anche attraverso la predisposizione di turni di lavoro
adatti agli obiettivi indicati, la cui realizzazione pure incide in misura rilevante sulla
competitività.
6. Sanzioni disciplinari
- Nell’area disciplinare (fino a lambire i licenziamenti), lo sforzo normativo deve
orientarsi a trovare percorsi di responsabilizzazione della dirigenza, anche attraverso
l’istituzione di Commissioni di disciplina, sul presupposto del continuo legame tra
“rendimento organizzativo” e “apporto e condotta individuale dei dipendenti”: ad
esempio, se il primo si attesta su livelli bassi, ad esso non potrà mai corrispondere un
livello alto di retribuzioni, oppure una totale assenza di contestazioni dell’adempimento
per i dipendenti. Il rendimento va misurato anche in relazione a fattori come
l’assenteismo, il numero di sanzioni disciplinari, etc.
IX. La dirigenza
- E’ noto che, nel processo di trasformazione delle pubbliche amministrazioni, il
fulcro è la dirigenza amministrativa. Riconoscendo che quella attuale è, in larga misura,
inadeguata, il primo problema da considerare è la formazione. Su questo versante, come
detto al punto VIII, 2, va valorizzato l’apporto delle Scuole di pubblica amministrazione
e delle Università, nonché lo scambio di esperienze con altri paesi dell’Unione europea.
Va inoltre considerato che, almeno sino a quando la tendenza non si arresterà, è
opportuno includere, nelle politiche di formazione della dirigenza, anche i funzionari
direttivi, specie nei Comuni.
- Anche per le dirigenze locali, occorre limitare i meccanismi di spoils system
esclusivamente alla dirigenza “fiduciaria” (o di staff).
- Il sistema normativo si regge sulla premessa che l’attività dirigenziale venga
sottoposta a valutazione: al riguardo, vista l’inadeguatezza dei sistemi di valutazione
sinora utilizzati, pare necessario potenziare i meccanismi di valutazione delle
prestazioni dirigenziali, affidandola a soggetti esterni all’amministrazione, come tali
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imparziali, e legandola alle istanze dei cittadini-utenti, filtrate dagli “uffici di
organizzazione” (v. supra, punto VI) .
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