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Notiziario settimanale n. 614 del 25/11/2016
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Questa versione stampabile del notiziario settimanale contiene, in forma integrale, gli articoli più significativi pubblicati nella
versione on-line, che è consultabile sul sito dell'Accademia Apuana della Pace
"Se voi però avete il diritto di dividere il mondo in italiani e
stranieri allora vi dirò che, nel vostro senso, io non ho
Patria e reclamo il diritto di dividere il mondo in diseredati
e oppressi da un lato, privilegiati e oppressori dall'altro.
Gli uni sono la mia Patria, gli altri i miei stranieri"
don Lorenzo Milani, "L'obbedienza non è più una virtù"
25/11/2016: Giornata contro la violenza alle donne.
27/11/2016: Giornata mondiale del non acquisto.
29/11/2016: Giornata internazionale per i diritti del popolo palestinese.
01/12/2016: Giornata mondiale della lotta contro l'AIDS.
02/12/2016: Anniversario della morte di Ivan Illich avvenuta nel 2002
Indice generale
Evidenza...........................................................1
Buona accoglienza l'anticorpo del razzismo (di Grazia Naletto) ................1
Gli argomenti della settimana........................2
Contro le banalizzazioni. Un ragionamento su Costituzione, referendum,
pace e guerra (di Pasquale Pugliese[Movimento Nonviolento]) .................2
“No a riforma che sottrae al Parlamento decisione su dichiarazione di
guerra” - intervista al generale Fabio Mini (di R. Guadagnini) ..................3
Appunti sul referendum di modifica della Costituzione (di Enrico Peyretti)
................................................................................................................... 7
Approvate una riforma che prevede la vittoria come il fine della politica e
la società divisa in vincitori e sconfitti? (di Raniero La Valle) ...................8
Che cosa prevede la Riforma Costituzionale (di Maria Luisa Pesante)......8
Sull'elezione di Trump (di Antonio Perillo).............................................. 10
Approfondimenti...........................................11
Perché abbiamo bisogno dei centri antiviolenza(di Elisa Ercoli) ..............11
Il “giro dell’oca” dei trasferimenti coatti: dal Nord Italia a Taranto (di
Coordinamento Comasco per la pace, Andrea Quadroni, Michele Luppi) 12
Perché Dylan non va a Stoccolma (di Gian Luigi Ago)............................ 13
1
Evidenza
Buona accoglienza l'anticorpo del razzismo (di
Grazia Naletto)
La buona accoglienza: un anticorpo efficace contro il razzismo. E'
inevitabile che l'arrivo e la presenza dei profughi, dei richiedenti asilo e
dei rifugiati divida e squarci il nostro paese e l'Europa in universi
contrapposti? E' proprio necessario che le strategie e le scelte politiche e
istituzionali debbano lasciarsi attraversare e condizionare dalle pulsioni
xenofobe? La domanda torna attuale dopo i fatti di questi giorni.
Le barricate ignobili e razziste di Gorino contro l'accoglienza di 12 donne
e 8 bambini richiedenti asilo non sono un caso isolato. Il rifiuto dei
richiedenti asilo si è espresso già in altre forme a Capalbio, Savona,
Marino, Contrada San Nicola, Burcei, Chieve, Santa Croce sull'Arno, sino
ad arrivare a quello più noto di Tor Sapienza, a Roma, del novembre 2014.
Sullo sfondo le voci di amministratori che si rifiutano di ospitare centri di
accoglienza sul proprio territorio o dichiarano di aver raggiunto livelli di
presenza “insostenibili”, ultimi i sindaci di due Comuni importanti,
Firenze e Prato, della rossa Toscana.
Tra le dichiarazioni rassicuranti del governo, la crescita delle proteste
razziste e xenofobe a livello locale e le loro rappresentazioni mediatiche,
le disfunzioni e le criticità quotidiane delle politiche di accoglienza
italiane tendono a restare sullo sfondo e ad essere rimosse. Servirebbe
invece affrontarle e esaminarle in dettaglio per poter accogliere bene le
circa 168mila persone che ad oggi sono ospitate nel nostro paese.
Parliamo di Roma. Quasi due anni fa, i primi arresti e la pubblicazione
delle ordinanze di custodia cautelare relative all'indagine Mondo di mezzo
gettarono un'ombra più che oscura sul sistema di accoglienza per
richiedenti asilo e rifugiati della capitale. Le politiche pubbliche di
accoglienza italiane ne uscirono delegittimate: l'attenzione si concentrò sul
“malaffare” connesso alla gestione dei centri e sulla quantità di risorse
pubbliche a questa destinate. Da qui il diffondersi di un luogo comune che
associa l'accoglienza, ben oltre le mura della capitale e senza
discriminante alcuna, solo ed esclusivamente a un business. L'inchiesta ha
in effetti portato alla luce vere e proprie patologie sistemiche nelle
procedure di affidamento, nell'erogazione, nel monitoraggio e nel
controllo dei servizi di accoglienza gestiti per conto dello Sprar e della
Prefettura. Perché si è arrivati a questo punto e cosa è successo a distanza
di due anni?
Nel dossier il Mondo didentro, Lunaria propone una sua lettura partendo
da una tesi di fondo: la cattiva accoglienza deve essere denunciata e
perseguita ma non dovrebbe legittimare il disimpegno istituzionale nella
predisposizione di servizi di accoglienza pubblici efficienti e capaci di
favorire effettivamente la progressiva autonomia delle persone ospitate. Ci
sono precise responsabilità politiche e amministrative, nazionali e locali,
all'origine delle criticità che a tutt'oggi caratterizzano il sistema di
accoglienza romano, articolato in strutture di grandi dimensioni
concentrate in alcune aree della città, spesso periferiche, con un rapporto
tra ospiti e operatori inappropriato a garantire la corretta e personalizzata
erogazione di tutti i servizi previsti nei bandi di gara pubblicati dalla
Prefettura o nelle Linee guida del sistema di accoglienza ordinario Sprar,
coordinato dal Comune. Permangono condizioni di sfruttamento del
Gruppo di redazione: Antonella Cappè, Chiara Bontempi, Maria Luisa
Sacchelli, Maria Stella Buratti, Marina Amadei, Daniele Terzoni, Federico
Bonni, Giancarlo Albori, Gino Buratti, Massimo Pretazzini, Michele Borgia,
Oriele Bassani, Paolo Puntoni, Roberto Faina, Severino Filippi, Studio 8 Elisa Figoli & Marco Buratti (photo)
lavoro degli operatori. L'affidamento diretto dei Cas è proseguito anche in
tempi recenti, nonostante la pubblicazione di bandi di gara sicuramente
più puntuali di quello del giugno 2014. La scadenza del progetto Sprar il
prossimo 31 dicembre consentirebbe di ripensare profondamente il
modello di accoglienza cittadino se solo si volesse. Il Comune, la Regione
e la Prefettura, potrebbero coinvolgere in un percorso condiviso di
programmazione e progettazione degli interventi per i prossimi tre anni
tutte le realtà presenti sul territorio: i municipi, gli enti gestori, le
associazioni antirazziste, i sindacati, i movimenti delle occupazioni e degli
operatori e le associazioni dei migranti. Ciò forse consentirebbe di evitare
che tutto tornasse a funzionare come prima.
(fonte: Il Manifesto del 29 ottobre 2016 - segnalato da: Matteo Bartolini)
link: http://www.aadp.it/index.php?option=com_content&view=article&id=2648
Gli argomenti della settimana...
La riforma della costituzione
Contro le banalizzazioni. Un ragionamento su
Costituzione, referendum, pace e guerra (di
Pasquale Pugliese[Movimento Nonviolento])
Mentre la semplificazione mediatica banalizza le questioni oggetto del
referendum costituzionale, facendolo passare per un plebiscito sul
presidente del consiglio o, peggio, per uno scontro generazionale,
propongo un ragionamento su alcuni elementi di fondo in ballo nella
scelta del 4 dicembre. Sono ragioni di linguaggio, di metodo, di merito e
di legittimità. Sono ragioni complesse che – a mio avviso- meritano
attenzione per esercitare con responsabilità il diritto e il dovere di
esprimersi nel referendum costituzionale. Consapevolmente.
Il linguaggio
In un convegno promosso dal Senato della Repubblica, alcuni anni fa, su
Il linguaggio della Costituzione il linguista Tullio De Mauro raccontava
della lingua scelta da coloro che scrissero la Costituzione italiana. Alla
base della scelta linguistica ci furono due fattori: le condizioni culturali
dell’Italia del tempo – “quando la Costituzione è stata scritta, tra il 1946 e
la fine del 1947, le capacità di comprensione del testo costituzionale della
popolazione italiana erano pessime, perché l’Italia prefascista e l’Italia
fascista avevano lasciato in eredità alla Repubblica una massa sterminata
di persone senza istruzione scolastica, che non avevano completato la
scuola elementare, e, dentro questi, di analfabeti” – e poi la qualità umana
dei Costituenti – “il processo di formazione di queste persone che era il
frutto di una selezione durissima (le carceri, l’esilio, il riparo di Santa
madre chiesa, in qualche caso) nella resistenza al fascismo, e poi nella
lunga resistenza, anche armata, al fascismo e al nazismo. Era personale di
alta qualità umana a raccogliere quelle esigenze”. Per queste ragioni i
Costituenti scelsero consapevolmente una lingua che poteva essere
compresa da tutti, un linguaggio semplice, efficace, inequivocabile: “non
solo scelgono le parole più trasparenti, ma scelgono di scrivere frasi
esemplarmente brevi. La Costituzione italiana è scritta con una media
esemplare di un po’ meno di 20 parole per frase. Questi due elementi
danno alla nostra Costituzione un grado altissimo di leggibilità”.
Un’estetica del linguaggio che corrisponde ad un’etica della
comprensibilità: tutti i cittadini avrebbero dovuto comprendere i principi, i
diritti, i doveri e l’organizzazione dello Stato, ossia il funzionamento della
democrazia, come stabilito dalla Costituzione.
L’attuale riforma costituzionale costruisce invece articoli monstrum di
lunghezza abnorme (il nuovo articolo 70 è composto da 432 parole), con
decine di rimandi interni, che rendono il linguaggio oscuro e
incomprensibile ai cittadini. La Costituzione, da testo esemplare alla
portata di tutti, viene trattata come un qualsiasi “decreto milleproroghe”,
comprensibile (forse) ai soli addetti ai lavori, in un Paese nel quale, oggi –
secondo i dati OSCE – il 70% della popolazione è incapace di
comprendere il significato di un testo complesso.
2
Il metodo
Anch’io – come il Movimento Nonviolento che ha diffuso un proprio
documento sul referendum costituzionale – non ritengo immutabile la
Costituzione italiana, ma sono convinto che diversi aspetti possano essere
migliorati, per esempio, in un’ottica di maggiore apertura federalista,
disarmista, ecologista, nonviolenta, aggiungendo ulteriori strumenti di
democrazia partecipativa.
Tuttavia, la Costituzione vigente è stata scritta da un’Assemblea
costituente eletta con metodo rigorosamente proporzionale, in modo che
tutte le componenti politiche – espressione della società civile – potessero
essere rappresentate. L’unica esclusione fu rivolta al partito fascista, che
aveva soppresso la democrazia e trascinato il Paese nella tragedia della
guerra. Tutte le culture politiche democratiche contribuirono attivamente
alla costruzione della Carta costituzionale del 1948, cercando punti di
equilibrio tra le diverse sensibilità, in un’ottica inclusiva, perché quella
che si andava a definire era la Casa di tutti gli italiani, a prescindere dai
diversi orientamenti politici. Per comprendere la tensione ideale che
sorreggeva gli uomini e le donne che parteciparono alla stesura della
Costituzione è utile ricordare quanto raccontava Teresa Mattei, la più
giovane tra le madri costituenti: “Al momento della votazione per l’art 11,
cioè quello contro la guerra – “L’Italia ripudia la guerra”, è stato scelto il
termine più deciso e forte – tutte le donne che erano lì, ventuno, siamo
scese nell’emiciclo e ci siamo strette le mani tutte insieme, eravamo una
catena, e gli uomini hanno applaudito”.
La riforma attuale, al contrario, è stata fortissimamente voluta dal governo
in carica, anzi dalla maggioranza del partito del Presidente del Consiglio,
contro tutte le opposizioni – parlamentari e non – contravvenendo anche al
principio della separazione dei poteri, così enunciato dal padre costituente
Piero Calamandrei, fin dal 1947: “Quando l’Assemblea discuterà
pubblicamente la nuova Costituzione, i banchi del governo dovranno
essere vuoti; estraneo del pari deve rimanere il governo alla formulazione
del progetto, se si vuole che questo scaturisca interamente dalla libera
determinazione dell’Assemblea sovrana “.
Infine, prima di essere modificata, la Costituzione andrebbe pienamente
rispettata, attuata e sviluppata in tutte le sue potenzialità. Penso in
particolare all’articolo 11, sul ripudio della guerra, e all’articolo 52,
sull’istituzione di una Difesa che contempli anche forme civili, non armate
e nonviolente. Invece, negli ultimi 25 anni nei quali il nostro Paese ha
partecipato direttamente e indirettamente a innumerevoli imprese belliche,
non solo la Costituzione non è stata attuata – attraverso la costruzione dei
“mezzi” alternativi alla guerra per la “risoluzione delle controversie
internazionali” – ma è stata più volte ripudiata (anziché la guerra) dai
governi che si sono succeduti. Compreso l’attuale.
Il merito
Facendo parte di un Movimento fondato da personaggi che sono stai messi
in galera dalle istituzioni italiane – Aldo Capitini da quelli fasciste perché
oppositore, Pietro Pinna da quelle repubblicane perché obiettore di
coscienza al servizio militare – non ho l’idolatria istituzionale, neanche di
quella parlamentare, anche perché – come scrive il Movimento
Nonviolento – “nella nostra esperienza abbiamo verificato che molta della
migliore politica si svolge nei movimenti che crescono dal basso e che i
cambiamenti reali avvengano all’esterno delle aule istituzionali”. Tuttavia,
ho assoluto rispetto per le istituzioni repubblicane che sono espressione
della sovranità popolare, attraverso le forme della partecipazione e della
rappresentanza, e penso che occorra maggiore apertura delle sedi
parlamentari, non una loro ulteriore chiusura.
La cosiddetta “riforma costituzionale” ha, invece, tra i suoi obiettivi la
riduzione del numero dei senatori – cioè dei rappresentanti dei cittadini – e
la sottrazione di una camera parlamentare, il Senato della Repubblica,
all’elezione diretta da parte dei cittadini, consegnandola a un manipolo di
politici nominati dai consigli regionali, che già rivestono un ruolo di
rappresentanza politica (consiglieri regionali e sindaci). “E’
l’introduzione” – scrive il Movimento Nonviolento – “anziché di un
elemento di democrazia diretta, come noi auspichiamo, di una
superfetazione di ceto politico, che non risponde più direttamente ai
cittadini elettori. Inoltre la diminuzione del numero di eletti direttamente
dal popolo di fatto toglie rappresentanza e quindi potere agli elettori,
scavando un ulteriore solco tra corpo elettorale e istituzioni
democratiche”.
Perché questa sostanziale modifica nell’equilibrio degli organi dello Stato
e nella restrizione della sovranità popolare? Per velocizzare l’iter delle
leggi, dicono i promotori della riforma, e per realizzare un risparmio sui
costi della politica. Sulla prima motivazione è stato ampiamente
dimostrato, per esempio da Zagrelbesky e Pallante, che “dal punto di vista
quantitativo, la produzione legislativa del Parlamento italiano è in linea
con quella dei Parlamenti dei più grandi Paesi europei” – le leggi che non
vanno avanti sono fermate dai disaccordi tra le forze politiche – semmai il
problema è di fare buone leggi, ma questo non è un problema che riguarda
le istituzioni, ma chi le governa. Sui costi della politica, la Ragioneria
generale dello Stato ha fatto sapere che il risparmio effettivo della riforma
del Senato è di circa 50 milioni. Ebbene, i dati presentati in anteprima
dall’Osservatorio italiano sulle spese militari agli “Stati generali della
difesa civile non armata e nonviolenta” di Trento del 4 e 5 novembre,
dimostrano che il governo italiano spende 23 miliardi di euro all’anno in
spese per la guerra, che divisi per i giorni dell’anno fanno 65 milioni al
giorno. Dunque il governo stravolge la Costituzione della Repubblica per
risparmiare 50 milioni di euro all’anno, mentre spende 65 milioni al
giorno per preparare la guerra in spregio alla stessa Costituzione.
Al nuovo Senato saranno sottratti diversi importanti compiti costituzionali
– come dare la fiducia al governo – ma non tutti. Anzi i futuri senatori a
part time potranno/dovranno intervenire su molti temi, attraverso un
complesso groviglio di tempistiche differenziate (e molti costituzionalisti
si chiedono come i consiglieri regionali e i sindaci senatori potranno
esercitare la funzione primaria per la quale saranno stati eletti dai cittadini,
dovendo – al contempo – rincorrere a Roma tutte le complicate scadenze
per stare dietro all’attività legislativa del Senato). Eppure, tra i temi
sottratti al Senato c’è la responsabilità sulla più grave delle decisioni che il
parlamento può assumere: la possibilità di “dichiarare guerra”. La
dichiarazione di guerra, normata come extrema ratio – all’interno di una
Costituzione che nei “principi fondamentali” ripudia la guerra – è
attribuita, dall’art. 78 della Carta, ad entrambe le Camere. La riforma
dell’articolo 78 attribuisce questa possibilità alla sola Camera dei deputati
“a maggioranza assoluta, conferendo al governo i poteri necessari”.
Poiché la Camera dei deputati sarà eletta con una legge elettorale, il
cosiddetto italicum – elaborata, in parallelo, dallo stesso governo e con le
stesse modalità, che ha elaborato la riforma costituzionale – che consente
alla più numerosa delle minoranze politiche di diventare, appunto,
“maggioranza assoluta” alla Camera dei deputati e di guidare
automaticamente il governo, ecco che la dichiarazione di guerra potrà
essere decisa da una minoranza politica rispondente direttamente al
governo. Con un’ulteriore gravissima conseguenza istituzionale, perché la
Costituzione prevede (art. 60 Cost) che lo “stato di guerra” è l’unica
condizione per la quale possa essere prorogata la durata delle Camere, e
dunque rinviate le elezioni… Un pericolosissimo stravolgimento
commentato anche, lucidamente, dal generale Fabio Mini: “non posso
condividere una riforma che sottrae al Parlamento la decisione sulla più
drammatica evenienza di uno Stato: la dichiarazione di guerra. La norma
proposta indica infatti nel Governo, attraverso la sua ovvia e artificiosa
maggioranza monocamerale, il responsabile di tale decisione. E’ vero che
sul piano pratico la cosa può sembrare ininfluente: nessuno più dichiara
apertamente la guerra, ad eccezione degli Stati Uniti che ormai scendono
in guerra per ogni cosa. Tuttavia, se la norma che equipara la
dichiarazione di guerra a qualsiasi altro atto amministrativo può sembrare
ininfluente sul piano pratico, non lo è affatto sul piano istituzionale e della
filosofia del diritto. In questo caso, l’abolizione del bicameralismo
perfetto è la chiara manifestazione della volontà di banalizzare il ruolo
delle istituzioni a partire dall’atto più drammatico delle loro funzioni: la
deliberazione sulla guerra. Di fatto, il nuovo Parlamento e lo stesso
Governo cessano di essere organi legislativi rappresentativi di tutto il
Paese e perdono la qualità fondamentale per autorizzare la guerra in nome
del popolo italiano”
3
La legittimità
La riforma costituzionale oggetto del referendum è stata elaborata da un
Parlamento eletto con il più antidemocratico e discriminatorio dei sistemi
elettorali che la storia della Repubblica registri, l’unico dichiarato
incostituzionale dalla Corte costituzionale.
“La democrazia è una cosa seria” – scrive ancora il Movimento
Nonviolento – “e dunque riteniamo che un Parlamento eletto con una
legge elettorale incostituzionale – perché antidemocratica – avrebbe
dovuto trovare velocemente un accordo su una nuova legge elettorale
rispettosa delle indicazioni offerte dalla Corte costituzionale, con la quale
andare, il più presto possibile, a nuove elezioni: è un principio basilare di
democrazia. Un Parlamento azzoppato, costituito prevalentemente da
nominati, non può fare la più importante “riforma costituzionale” della
storia della Repubblica italiana: è un principio di legittimità”. In questo
senso, molti autorevoli costituzionalisti si sono ampiamente espressi.
Ma accanto a questa evidente illegittimità politica esiste un altrettanto
grave problema di legittimità morale. Il governo che ha voluto la riforma
costituzionale “Renzi-Boschi” è lo stesso che è stato ripetutamente
denunciato presso la magistratura dalla Rete italiana disarmo, perché
consente la fornitura di armi prodotte in Italia all’Arabia saudita, che le
scarica sulla popolazione civile dello Yemen. E’ una palese violazione
delle legge 185/90 sul commercio delle armi – che, in coerenza con la
Costituzione italiana, vieta il commercio di armi verso “Paesi in stato di
conflitto armato” – in merito alla quale sono aperte due indagini, dalla
Procura di Brescia e dalla Procura di Cagliari. In ultimo, il governo che
vuole riformare la Costituzione italiana è lo stesso che ha dato mandato al
rappresentante italiano presso le Nazioni Unite, lo scorso 27 ottobre, di
votare contro l’avvio delle procedure per la realizzazione del “Trattato
internazionale per la messa al bando delle armi nucleari”. Una vergogna.
Ecco – fuori dalle semplificazioni banalizzanti – mi pare che ci siano
sufficienti ragioni di linguaggio, di metodo, di merito, di legittimità –
politica e morale – per votare No al referendum costituzionale del 4
dicembre.
(fonte: Azione Nonviolenta, rivista del Movimento Nonviolento)
link:
http://www.azionenonviolenta.it/le-banalizzazioni-un-ragionamentocostituzione-referendum-pace-guerra/
“No a riforma che sottrae al Parlamento decisione
su dichiarazione di guerra” - intervista al generale
Fabio Mini (di R. Guadagnini)
Riforme, democrazia, governabilità e inganni. Ne parliamo con una voce
fuori dal coro, un uomo che per 46 anni è stato nelle Forze Armate e oggi
si definisce molto progressista. Ci racconta di una legge ‘immaginaria’ e
di un Parlamento ‘defraudato’, di una maggioranza non rappresentativa
del Paese e di una ‘guerra fredda interna’ all’Italia. Di spazi informativi
pubblici a favore del marketing governativo e di una grande festa della
dis-unità a cui, volenti o no, siamo tutti invitati.
D. Generale Fabio Mini cosa pensa delle riforme costituzionali?
R. Non sono contrario alle riforme costituzionali, ma sono nettamente
contrario a questa riforma. Respingo il sillogismo che chi vota “sì” vuole
un’Italia “efficiente, stabile e responsabile, e quindi capace di esercitare il
suo ruolo in Europa” e chi vota No vuole “un’Italia idiosincratica ed
eccentrica, eternamente prigioniera delle proprie ombre”. E’ un sillogismo
apodittico che squalifica sul piano intellettuale chi lo propone e offende
chi non lo condivide. E’ il primo segnale che la riforma proposta intende
dividere gli italiani ed io penso invece che una Costituzione debba unire i
cittadini.
D. Il fronte del No è molto variegato e ispirato da ideologie addirittura
opposte: come si conciliano?
R. Personalmente, mi schiero con il No proposto da un Movimento di
cittadini e non da un partito, mi riconosco negli idealisti e non negli
ideologi, nelle persone responsabili che pensano al futuro dell’Italia unita
e non in coloro che operano per dividerla ulteriormente e intendono
affondare la nave per assumere il comando di una scialuppa. Non
condivido l’obiezione che il No sia improponibile perché voluto anche da
partiti e movimenti d’ispirazione fascista, veterocomunista, populista e
quant’altro, che vogliono soltanto la caduta del governo. Non condivido le
loro finalità, ideologie e prassi, ma riconosco legittime e fondate alcune
delle loro motivazioni. Sono infatti queste comuni motivazioni a fare del
No un fronte trasversale espressione di molte anime, e non di un pensiero
unico, e quindi – nel suo complesso – essenzialmente democratico.
D. Con il No cosa succederebbe al Governo ?
R. Non collego il No alla caduta del Governo. Penso che sia stata una
grossa sciocchezza legare il Referendum alla sopravvivenza politica del
capo del Governo: un narcisismo inopportuno che non è finito con la
tardiva e strumentale ammissione dell’errore. Anzi è stato fatto qualcosa
di peggio, perché tutto l’esecutivo, a partire dal suo vertice, ha riversato
sull’Italia la prospettiva di fallimento e sfascio nazionale in caso di
prevalenza del No, alimentando così la disunione all’interno e i sospetti
d’instabilità nazionale all’esterno. Viste le conseguenze in campo
internazionale e nella speculazione economica a danno dell’Italia, questa
operazione, in altri tempi e Stati, sarebbe stata considerata e perseguita
come “Alto tradimento”. Da noi è una “furbata”. Dopo il voto ciascuna
parte politica dovrà trarre le conclusioni e agire di conseguenza, ma se il
Referendum non realizza una massiccia affluenza alle urne nessuno potrà
veramente cantare vittoria: avrà perso l’Italia. E il conteggio dei voti dovrà
far riflettere invece di far gioire. La prevalenza risicata del “si” inasprirà
ancor di più il clima politico e indurrà il Governo a irrigidirsi su posizioni
non condivise. Secondo me, tutto questo porterà nel giro di breve tempo
alla fine dell’esecutivo o della stessa legislatura. Se dovesse prevalere il
No, tecnicamente sarebbe soltanto il rinvio della Riforma e con questo
Parlamento il Governo potrebbe restare in carica fino al termine di
legislatura. Ma gli equilibri politici sarebbero mutati e il Governo non
potrebbe imporsi sul Parlamento come ora. Non è detto che questo sia
necessariamente un male. Inoltre, se oggi il No di altri gruppi tende solo
allo sfascio del Governo bisogna riflettere sulle ragioni e le responsabilità
di tale atteggiamento. In questi ultimi anni il dissenso democratico non ha
avuto né attenzione né alternativa onorevole. Quando quasi mezzo
Parlamento è costretto a lasciare l’aula, per non essere coinvolto in uno
schema che non condivide e i restanti festeggiano come allo stadio, si
celebra l’effimera vittoria di una parte e si detta il necrologio della
democrazia.
D. Entrando nel merito della riforma, perché vota NO?
R. E’ stato detto che questa riforma, “dopo un dibattito trentennale
infruttuoso e controverso”, era diventata improcrastinabile. Non è stato
detto che la controversia non derivava dalla carenza di norme, ma dalla
necessità (riconosciuta dalle stesse commissioni bilaterali e da tutti gli altri
proponenti di riforme alla Costituzione) di procedere alle riforme con il
più largo consenso delle forze politiche. Lo stesso meccanismo
dell’articolo 138 della Costituzione, prevedendo più esami incrociati tra
Camera e Senato, cauti passi successivi e tempi di riflessione intendeva
promuovere un largo consenso. Tant’è che nel caso esso fosse venuto a
mancare si prevedeva la possibilità di ricorrere alla consultazione diretta
del popolo. Ora, si è arrivati a questa riforma pasticciata e opaca perché
invece di ricercare il largo consenso si è preferito imporre la volontà di
una maggioranza non rappresentativa della Nazione. Abbiamo assistito a
manovre di qualsiasi genere, a ricatti politici, disinformazione,
emarginazione dei dissidenti o soltanto dei non favorevoli, sostituzione di
membri di commissioni parlamentari scomodi, agitazione di spauracchi,
promesse populistiche, ghigliottine, canguri, sedute fiume e molto altro.
Di peggio è avvenuto nell’ombra. La forma non è stata violata, ma il
metodo si è rivelato ingiusto e scorretto perché nel frattempo la
rappresentatività parlamentare e governativa era passata, con successive
“porcate” e “leggi incostituzionali”, dal sistema proporzionale a quello
maggioritario a sbarramento. E soprattutto perché le finalità della riforma
4
erano e rimangono tanto confuse da giustificare ogni sospetto di
manipolazione.
D. Lo ritiene un fenomeno nuovo?
R. No, ma nel passato, quando gli obiettivi delle riforme costituzionali
erano chiari, puntuali e condivisi sono state promulgate leggi
costituzionali senza difficoltà. Dal 1948 ad oggi sono state approvate 38
leggi costituzionali tra cui provvedimenti importanti come le pari
opportunità, l’abolizione della pena di morte anche per i reati militari in
tempo di guerra, il voto degli italiani all’estero, l’estradizione per delitti di
genocidio, il giusto processo, il pareggio di bilancio ecc. I problemi si
sono posti quando le riforme si presentavano strumentali o soltanto
imparziali e soprattutto quando rispecchiavano interessi di potere
particolari e clientelari.
D. La riforma vorrebbe snellire la burocrazia legislativa, ridurre i
costi della politica.
R. Purtroppo questa riforma non snellisce e non fa risparmiare. Si sarebbe
invece risparmiato molto utilizzando strumenti legislativi ordinari senza
scomodare la Costituzione. E anche ammettendo che ci sia qualche
risparmio sul piano contabile, la riforma comporta costi enormi in
credibilità delle istituzioni, bilanciamento dei poteri e quindi in
democrazia. Non sono costi teorici o morali, a ognuno di tali elementi
sono collegate pratiche politiche e amministrative che se non
adeguatamente controllate generano corruzione, sprechi, abusi di potere,
imposizioni di tasse esose, aumento del debito e dissoluzione dei rapporti
di fiducia tra Stato e cittadini. E’ vero, ci è stato detto che “Abbiamo
bisogno di capacità decisionali e di procedimenti legislativi più rapidi e
non di un sistema immaginato e pensato a quei tempi, in cui forse si
credeva si dovesse decidere raramente”. Ebbene, dobbiamo ricordare che
la rapidità non è sinonimo di migliore qualità o efficacia dei
provvedimenti. Anzi. Siamo ancora impantanati nei problemi creati dalla
fretta dei governi e dalle loro false priorità. Inoltre, il sarcasmo fuori posto
è sempre una forma di denigrazione e, in questa frase, è chiara la volontà
di delegittimare un’Italia che i denigratori non hanno né conosciuto né
studiato.
D. Cosa trascurano?
R. Più che trascurare, in realtà non sanno e quindi non possono nemmeno
ricordare. Questo progetto fa parte dello schema di rottamazione non di
ciò che non funziona, ma di ciò che non si conosce. Siccome l’ignoranza è
molta, non deve stupire che la cosiddetta rottamazione colpisca a vanvera
in molti settori. Se i denigratori non possono ricordare, potrebbero
ascoltare, ma di solito l’ignoranza va di pari passo con l’arroganza e
perciò bisogna accontentarsi di dire cose che non ascolteranno mai. Noi
però possiamo ricordare che quel sistema immaginato nel 1948 è stato
realizzato e ha preso le decisioni più difficili della nostra storia. Con
successi e insuccessi abbiamo recuperato credibilità internazionale,
risollevato l’economia, affrontato emergenze naturali senza scandali,
combattuto il terrorismo e la mafia, ristrutturato le Forze Armate e le
abbiamo spedite in ogni angolo della Terra a rappresentare l’Italia e
abbiamo raggiunto il quarto posto fra sette delle maggiori economie (G-7).
Poi, con una breve stagione di “decisionisti” e fantasiosi innovatori
abbiamo decuplicato il debito nazionale, aumentato la disoccupazione e il
precariato, diminuito la nostra competitività. Infine, grazie alle virtù
taumaturgiche del mercato, dei tecnocrati e dei rottamatori abbiamo
centuplicato il debito e siamo stati malamente coinvolti in una crisi che
non ci avrebbe riguardato così da vicino, se non avessimo avuto
immaginifici finanzieri di Stato e speculatori privati rivolti esclusivamente
allo sfruttamento delle bolle finanziarie.
D. E oggi come siamo messi?
R. Andiamo a votare per una legge veramente immaginaria e siamo più
deboli in Europa, sminuiti nella capacità di sicurezza, succubi delle
decisioni altrui, allontanati dai tavoli di discussione globali ed europei,
ultimi nella graduatoria del G7, incapaci di provvedere al rilancio
dell’economia e costretti ad elemosinare non denaro (che nessuno regala),
ma la possibilità di fare altri debiti. Non si può addossare la responsabilità
di tutto questo solo al sistema bicamerale o ai governi del passato. Negli
ultimi dieci anni sono state approvate più leggi richieste dal Governo che
quelle promosse dal Parlamento. In alcuni periodi delle legislature passate
e di quella presente si è legiferato con le procedure di urgenza su cose che
non erano affatto urgenti, si sono blindate leggi e leggine d’iniziativa
governativa (109 in questa legislatura), facendo ricorso eccessivo ai colpi
di maggioranza, alle deleghe al governo (13 a quello attuale su temi
fondamentali come lavoro, scuola, comunicazione pubblica ecc.) e al voto
di fiducia al governo (ben 56 volte negli ultimi due anni e mezzo). Oggi
non andiamo a votare per migliorare, ma per istituzionalizzare un
Parlamento defraudato del potere legislativo e assoggettato al potere
esecutivo molto di più di quanto non lo sia già ora.
che non ha più senso visto che l’integrazione europea è più lontana che
mai, la governance europea è in crisi grazie anche agli atteggiamenti
estemporanei del nostro governo (prima, durante e dopo Bratislava) e che
nella cosiddetta riforma non c’è nulla che risponda alle sfide
“dell’internazionalizzazione economica”. Oggi in campo internazionale
siamo ad un livello di guerra fredda molto vicino alla guerra calda tra
blocchi contrapposti, come nel 1946, in Europa, in Asia e quindi in tutto il
mondo. Gli equilibri stanno cambiando rapidamente e in modo pressoché
incontrollato. Gli stessi Stati Uniti non sanno dove andare e domani forse
scopriranno di non voler e non poter andare da nessuna parte. Oggi, in
Italia siamo sicuramente in piena guerra fredda interna: da vent’anni
siamo prigionieri di una dicotomia fra destra e sinistra che ancora parla di
comunismo e fascismo. Grazie all’arroganza di partiti personalizzati il
Paese è spaccato apparentemente in due, ma sostanzialmente in cento
pezzi.
D. E’ una questione che riguarda esclusivamente i partiti politici?
D. Un altro elemento su cui insistono i fautori della riforma è la
governabilità. Argomento convincente, a suo parere?
R. La “governabilità” è ormai un dogma. Ma non è un’invenzione di oggi.
Il tema è stato sollevato per primo da Bettino Craxi (fine anni ‘70),
quando con i voti di un partito largamente minoritario voleva guidare per
sempre l’intero Paese. Non a caso parlava di governi di legislatura (che
stessero al governo “certamente” almeno per turni di 5 anni) o di “governo
presidenziale”, pensando di diventare presidente. Ma i governi erano
comunque coalizioni di grandi partiti che godevano anche dell’appoggio
esterno di alcune opposizioni. La democrazia non era in pericolo, semmai
era evidente l’insofferenza di un leader carismatico nei confronti dei
grandi partiti. Lo stesso tema fu affrontato da Spadolini nel 1982 in
maniera geniale, anche se inattuabile. Anche lui leader carismatico,
esponente di un partito abbondantemente minoritario, ma giuridicamente
molto più preparato di Craxi, individuò il collante fra le coalizioni, non
nell’egemonia del partito più numeroso, ma in una presunta forza
istituzionale del Presidente del Consiglio. Di fatto, sostituiva la forza dei
partiti con la forza del ruolo di Capo del Governo. Intendeva istituire il
“regime del primo ministro” al posto del “regime dei partiti”. “Perché
-diceva- il governo della Repubblica deve governare anche per chi gli vota
contro, anche per i senza partito, anche per gli extraparlamentari, anche
per chi ancora non vota e voterà domani». Era una proposta al limite della
liceità costituzionale e valeva finché ci si credeva. Ma lui era Spadolini e
governò a modo suo, non per molto, ma senza modificare una sola virgola
della Costituzione. Nel caso si fosse resa necessaria una riforma, Spadolini
ebbe a dire: “Il governo ricercherà sempre con l’opposizione lo “idem
sentire de Constitutione”. Questa riforma è lontana anni luce dall’idem
sentire di Spadolini e di tutti i Padri costituenti. Non vuole eliminare “il
regime dei partiti”, ma istituire il regime di un partito, anche se
oggettivamente non maggioritario, come lo sono tutti i grandi partiti di
oggi.
D. E’ stato detto che la riforma è necessaria per realizzare “un
processo organico di riforma in grado di razionalizzare in modo
compiuto il complesso sistema di governo multilivello articolato tra
Unione Europea, Stato e Autonomie territoriali”.
R. Magari lo fosse, e magari fosse stato spiegato chiaramente cosa sarebbe
necessario. E’ stato invece raffazzonato un discorso che parla di
razionalizzare “alla luce dei provvedimenti già presi in relazione allo
spostamento del baricentro decisionale connesso alla forte accelerazione
del processo di integrazione europea e, in particolare, l’esigenza di
adeguare l’ordinamento interno alla recente evoluzione della governance
economica europea (da cui sono discesi, tra l’altro, l’introduzione del
Semestre europeo e la riforma del patto di stabilità e crescita) e alle
relative stringenti regole di bilancio (quali le nuove regole del debito e
della spesa); le sfide derivanti dall’internazionalizzazione delle economie
e dal mutato contesto della competizione globale”. Sono parole testuali
della proposta, ma più che un proposito, lo sproloquio sembra una
“captatio benevolentiae” nei confronti dell’Europa. Una inutile piaggeria,
5
R. No, è dovuta anche all’avidità dei poteri economici, industriali e
finanziari che sostengono i partiti per i propri interessi, i quali non
necessariamente coincidono con l’interesse collettivo, meno che mai con il
bene pubblico. Ma i partiti hanno un’aggravante: hanno interpretato
l’articolo 49 della Costituzione come l’investitura di ciascuno di essi alla
rilevanza costituzionale. Il segretario di un partito si sente – e di fatto è
stato considerato dagli stessi presidenti della Repubblica – come un
“organo costituzionale”. In realtà l’articolo 49 stabilisce la libertà dei
cittadini di associarsi in partiti, ma non assegna a essi altra funzione se
non quella di permettere che i cittadini concorrano con metodo
democratico a determinare la politica nazionale. La rilevanza
costituzionale è dei cittadini, non dei partiti. In realtà i tre partiti maggiori
del panorama italiano non assicurano affatto il metodo democratico, ma
quello monocratico o al massimo oligarchico, autoritario e personalizzato.
Non danno alcuno spazio di dissenso al loro interno e sono da tempo
impegnati in una delegittimazione reciproca che ha prodotto la sclerosi
delle strutture interne e la completa sfiducia dei cittadini nella politica in
generale.
D. Eppure questa riforma è passata con l’avallo del Parlamento.
R. Certo, ma non nella misura necessaria alla sua promulgazione. Tant’è
che andiamo al Referendum proprio perché non è stato raggiunto
l’accordo richiesto dalla stessa Costituzione. In compenso ci è stato detto
che questa riforma ha rispettato tutti i parametri costituzionali e
democratici. In realtà, l’iter di questa riforma, come quella bocciata nel
2006, è stato caratterizzato dalla prevalenza del metodo “a colpi di
maggioranza”, abbandonando l’equilibrio previsto dalla Costituzione tra
leggi “consensuali” e “maggioritarie”. Si è invece rafforzata la presunta
equivalenza fra principio democratico e principio maggioritario. Le
modifiche alla Costituzione o alla forma di governo e della rappresentanza
(come nel caso della legge elettorale) scaturiscono dalla convenienza della
maggioranza di turno: nel periodo 2000-2015, ben nove (su dieci) leggi di
revisione della Costituzione sono state approvate con i soli voti della
maggioranza parlamentare, senza cercare larghe intese all’interno delle
forze.
D. La nuova legge ha il sostegno di intellettuali, sindacalisti, forze
economiche e finanziarie.
R. Non mi sorprende. Molti sono in buona fede perché attratti dal canto
delle sirene sui risparmi e sulla limitazione dei politici o soltanto dalla
voglia di punire il sistema o i partiti avversari. Alcuni poteri cosiddetti
forti sono attratti dalla prospettiva di avere un governo a propria
disposizione. Altri pensano alla pancia quotidiana e sostengono chi
promette di più o elargisce elemosine elettorali. Qui il governo ha buon
gioco perché è l’unico in grado di promettere, anche se sa benissimo di
non poter mantenere. Ma è soltanto un escamotage che deve durare un
mesetto ed è una sorta di competizione sleale perché gli oppositori, non
essendo in campagna elettorale per la legislatura, non possono promettere
niente altro che la fine del governo. Aumentando così l’incertezza di chi
spera nei bonus e la diffidenza degli stranieri.
D. A detta dei fautori del Sì, non vengono alterate le Istituzioni
democratiche. E’ così?
R. Secondo la definizione socio-economica più moderna e coerente, lo
scopo di una “Istituzione” (e il Senato è una Istituzione) è quello di
garantire la corretta applicazione delle norme stabilite tra l’individuo e la
società o tra l’individuo e lo Stato, sottraendole all’arbitrio individuale e
all’arbitrio del potere in generale (Haidar J.I.-2012). Ebbene, questa
riforma nega e offende le Istituzioni democratiche: nei fatti stravolge
l’impianto istituzionale dello Stato aumentando l’arbitrio individuale, o di
un gruppo, e l’arbitrio del potere in generale. Il mio non è un giudizio
teorico o di principio. Come uomo, soldato e cittadino con oltre 46 anni di
servizio nell’ambito di una istituzione fondamentale come le Forze
Armate, deputate alla difesa della Patria, anche in guerra, non posso
condividere una riforma che sottrae al Parlamento la decisione sulla più
drammatica evenienza di uno Stato: la dichiarazione di guerra. La norma
proposta indica infatti nel Governo, attraverso la sua ovvia e artificiosa
maggioranza monocamerale, il responsabile di tale decisione.
D. Ma la guerra non è un’evenienza remota?
R. E’ vero che sul piano pratico la cosa può sembrare ininfluente: nessuno
più dichiara apertamente la guerra, ad eccezione degli Stati Uniti che
ormai scendono in guerra per ogni cosa. Ma anche loro, pur chiamando
‘guerra’ qualsiasi sforzo interno ed internazionale, pur individuando
nemici in ogni interlocutore, pur usando gli strumenti di guerra come
prima risorsa d’emergenza e pur avendo inventato la guerra preventiva che
non previene, ma anzi anticipa la guerra, sono ben attenti ad evitare con
cura qualsiasi dichiarazione formale di guerra. Oggi, specialmente da
parte dei Paesi europei e della Nato, la guerra si fa senza dichiararla o
semplicemente cambiandone il nome. E, comunque, neppure l’impegno
della Nato nella difesa collettiva (articolo 5 del Trattato) costringe in
modo automatico ad intervenire con le armi. Ogni Paese membro può (e
deve) scegliere in che maniera contribuire alla difesa collettiva.
Tuttavia, se la norma che equipara la dichiarazione di guerra a qualsiasi
altro atto amministrativo può sembrare ininfluente sul piano pratico, non
lo è affatto sul piano istituzionale e della filosofia del diritto. In questo
caso, l’abolizione del bicameralismo perfetto è la chiara manifestazione
della volontà di banalizzare il ruolo delle istituzioni a partire dall’atto più
drammatico delle loro funzioni: la deliberazione sulla guerra. Il
Parlamento riformato ha uno squilibrio a favore della Camera e questa, per
effetto della legge elettorale maggioritaria e dei premi di maggioranza
esagerati, ha uno squilibrio a favore del Governo. Di fatto, il nuovo
Parlamento e lo stesso Governo cessano di essere organi legislativi
rappresentativi di tutto il Paese e perdono la qualità fondamentale per
autorizzare la guerra in nome del popolo italiano e quindi anche la facoltà
di assumere ogni altra decisione che comporti analoghi sacrifici per tutta
la popolazione e il trasferimento di risorse, poteri e funzioni da una
istituzione all’altra.
D. Sono squilibri pericolosi ?
R. Nella sostanza sì. Se tali squilibri consentono di accelerare le decisioni
del Governo in nome della cosiddetta governabilità, non è detto che
favoriscano solo i provvedimenti giusti ed equanimi, adottati in nome e
per conto del bene pubblico. Abbiamo continuamente esperienze di
provvedimenti ad personam e a favore di gruppi di potere e di avventure
che non hanno nulla a che vedere con il bene pubblico. Il Senato riformato
che non è più una Istituzione, perché non ha poteri equilibratori
nell’ambito del Parlamento, è una costosa conferenza saltuaria di
amministratori locali, la cui legittimazione nell’incarico “complementare”
dipende dall’arbitrio di chi li ha designati. Voto No all’eliminazione
dell’equilibrio dei poteri e dei contrappesi istituzionali che di fatto
conduce all’arbitrio del potere del partito di maggioranza del momento.
Voto No al vilipendio delle istituzioni parlamentari (e non solo) esercitato
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da un partito che designa parlamentari e senatori non per esigenze di
rappresentatività, ma per clientelismo e corruzione. Voto No perché non
voglio essere rappresentato in Parlamento e nelle altre istituzioni nazionali
ed europee da personaggi ignoranti, compromessi, immorali e
pregiudicati. Abbiamo già vissuto il tempo del disprezzo nei confronti
delle nostre Istituzioni quando a occuparle venivano designati amici,
clienti e compagni o compagne d’alcova. Me ne sono vergognato
profondamente quando in campo internazionale, politico e militare, si
lanciavano battutacce sui nostri governanti. Voto No perché ciò non si
ripeta. E comunque non si ripeterà con il mio sostegno o la mia
indifferenza.
D. Riflessioni come le sue hanno avuto la possibilità di raggiungere i
cittadini?
R. Se lo hanno fatto non è certo per merito del Governo o della
comunicazione pubblica. Ci avevano detto di voler rispettare le regole
democratiche anche nella comunicazione. In realtà le voci di coloro che,
come me, hanno servito lo Stato e difeso le istituzioni democratiche con
disciplina e onore, e quelle di coloro che, come tantissimi, hanno lavorato
per l’Italia rappresentandone l’eccellenza culturale, tecnologica,
economica, istituzionale e di solidarietà sono state soffocate dal vocio
della propaganda di Stato. Ben prima della decisione di ricorrere al
Referendum il Governo intero ha occupato tutti gli spazi di
comunicazione, tramutando il legittimo sostegno a una propria proposta in
bagarre affaristica e campagna ideologica a dispetto e scapito
dell’equilibrio e dell’unità nazionale. Con il ricorso al referendum, la
consultazione si è trasformata in una sfida tra sì e no, a prescindere da
cosa significassero. C’è stata la conta degli amici e dei nemici, dei clienti
riconoscenti e dei candidati a posti e poltrone accondiscendenti. La giusta
perorazione della causa riformistica è stata volutamente personalizzata,
fino a farla diventare una scommessa sulla stessa sopravvivenza del
Governo. Come tutte le scommesse è stato un gioco, un azzardo, un bluff,
un rischio e un ricatto sostenuti da una mobilitazione mediatica senza
precedenti. Ogni canale di discussione moderata e costruttiva è stato
occupato da comizi e spettacoli celebranti una grande festa della DisUnità. Gli spazi d’informazione pubblica (una risorsa di e per tutti) sono
stati spesi (anche in senso economico) solo a favore del marketing
governativo, in Italia e all’estero.
D. Come definirebbe la sua posizione, conservatrice o progressista?
R. Direi molto progressista. Esprimo il mio No a questa riforma con
spirito costruttivo, perché non voglio che il mio Paese rimanga
intrappolato in un sistema che assegna i poteri dello Stato a una
maggioranza risicata e faziosa, frutto dell’allontanamento dei cittadini
dalla politica, senza nessun organo di controllo e bilanciamento dei poteri.
Mi è stato fatto osservare che in tutti i Paesi del mondo “va al comando” il
partito di maggioranza relativa, e che l’evanescenza delle opposizioni non
dipende dalla legge elettorale. E’ vero, e infatti non ho mai apprezzato il
concetto di un partito “al comando”. I partiti dovrebbero essere al servizio
della comunità, esattamente come le istituzioni, i governi e le
amministrazioni pubbliche.
Ma anche dove i partiti godono di ampia maggioranza ci sono differenze
sostanziali. Ho vissuto abbastanza a lungo nei due paesi a sistemi opposti
per capirne gli effetti: la democrazia americana e il regime del partito
comunista cinese. La democrazia americana non è tale perché votano i
cittadini, che fra l’altro non votano per eleggere l’uomo al comando, ma
perché esistono istituzioni in grado di limitare gli abusi del potere. Il
Congresso, a prescindere dalla maggioranza del momento, è il più feroce
censore del potere esecutivo. La magistratura suprema segue a ruota, ma
una serie di comitati parlamentari hanno poteri che possono indirizzare e
raddrizzare la politica del governo. Inoltre, spesso sono gli stessi partiti, i
media, le lobby e i comitati di cittadini a limitare i propri leader.
In Cina c’è un partito che occupa tutto e impone la propria politica a tutti.
Si avvale di strutture legislative permanenti per gli affari correnti e di
un’assemblea annuale dei rappresentanti del popolo per approvare le
grandi leggi: si vota per alzata di mano su ogni proposta e si torna a
lavorare. C’è anche una sorta di senato: è la Conferenza Consultiva che
raggruppa i rappresentanti dei partiti, varie etnie, associazioni popolari,
amministratori locali e personalità indipendenti. Non ha alcun potere
effettivo ed è diretta dallo stesso Partito Comunista, che comunque la
utilizza come foglia di fico per spacciare una parvenza di democrazia. In
Cina il vero equilibrio fra i poteri e la garanzia di una dialettica politica si
realizzano all’interno del partito stesso che è tutt’altro che monolitico o
cristallizzato. L’ostentata ammirazione per il sistema americano da parte
del nostro Governo è smentita proprio dalla riforma: il sistema che vuole
instaurare con la riforma è lontanissimo da quello americano e vicinissimo
al sistema cinese. Con due differenze: da noi il partito di regime non
assicura alcuna dialettica equilibratrice interna e i rappresentanti alla
Camera bivaccano in permanenza a Roma.
D. E l’intervento popolare tramite il Referendum?
R. E’ importante ma non sarà determinante finché la partecipazione non
sarà veramente significativa. Non si può ricorrere sempre ai referendum
per colmare le incapacità della politica, anche perché gli stessi referendum
costituzionali, che dovrebbero essere i più importanti, dimostrano la
disaffezione popolare nei confronti della politica e s’indeboliscono nella
capacità effettiva di rappresentare la Nazione. Alla prima consultazione
referendaria sulla Costituzione della nostra storia, il 7 ottobre 2001, si
recò a votare solo il 34,1 % degli aventi diritto e i voti validamente
espressi furono per il 64,2 % favorevoli alla modifica costituzionale: erano
appena il 21% degli aventi diritto. Alla seconda, quella del 25-26 giugno
2006, votò il 52,30% degli aventi diritto e la legge voluta da Berlusconi fu
respinta dal 61,32% dei votanti: appena il 32% degli aventi diritto.
D. Come riassumerebbe le sue motivazioni?
R. Voto No ad una riforma che spacca il paese e prelude ad una frattura
ancora più ampia e pericolosa fatta di disprezzo per le Istituzioni, rigetto
delle opposizioni, soppressione delle minoranze e ghettizzazione delle
intelligenze non allineate: tutti segni storicamente premonitori di dittatura
e guerra civile.
Voto No perché il sistema proposto è già in atto e non funziona, anzi
mortifica le istituzioni e minaccia la democrazia. Soltanto con il No si
può pensare di rettificare questo stato di fatto e avviare la stagione delle
riforme equilibrate ed efficaci.
Voto No perché il governo, qualunque esso sia, e le istituzioni nazionali a
partire dal 5 dicembre si dedichino a risolvere i problemi strutturali che
gravano sulla nostra nazione, i problemi della ripresa economica, di
compattazione sociale e di disaffezione politica e formuli finalmente un
progetto per riunire i cittadini italiani e le forze politiche attorno ad una
Costituzione rinnovata ma condivisa.
Voto No oggi per avere domani (e non dopodomani) la possibilità di
vedere una riforma seria e corretta.
Voto No perché mi si chiede di esprimermi con un monosillabo su un
insieme di elementi disomogenei, appartenenti a materie molto diverse e
dagli effetti indecifrabili se non indagati dal punto di vista tecnicogiuridico. Invece di approfondire e sviscerare tali aspetti, mi si chiede di
votare senza considerarli, quasi a voler nascondere il fatto che proprio tra
essi si annidano tutti gli elementi distruttivi e destabilizzanti della
riforma. Mi si chiede un voto di fiducia cieca, ideologico, che non lascia a
me, e a nessun cittadino libero di ragionare con la propria testa, altra
alternativa che il No.
D. Secondo lei, è questa l’ultima occasione per fare le riforme?
R. Il No è l’ultima occasione per stroncare sul nascere i propositi
inaugurali di una stagione di continue ulteriori modifiche alla
Costituzione, rese via via più facili e incontrollate da questa stessa
riforma, tendenti a stravolgere completamente l’assetto istituzionale del
7
nostro Stato. In questo senso, non mente chi dice che il 4 dicembre non è
un traguardo finale, ma uno striscione di partenza. Tuttavia, soltanto con il
No parte l’Italia Unita, di tutte le fedi e convinzioni, per riaffermare la
Democrazia, la Giustizia e la Libertà volute da tutti gli Italiani che per
esse hanno sofferto privazioni, vessazioni, torture e che per esse hanno
versato il proprio sangue in guerra e in pace. In caso contrario, con il Sì,
parte la vera corsa al potere assoluto di una maggioranza di palazzo.
Anche questa è stata una delle cause storiche delle dittature, delle guerre
civili, dei colpi di stato, delle rivoluzioni.
(*) Fabio Mini, generale di Corpo d’Armata, è stato capo di Stato
maggiore del Comando Nato per il Sud Europa e, a partire dal gennaio
2001, ha guidato il Comando Interforze delle Operazioni nei Balcani.
Dall’ottobre 2002 all’ottobre 2003 è stato comandante delle Operazioni di
pace a guida Nato, nello scenario di guerra in Kosovo nell’ambito della
missione KFOR (Kosovo Force).
(fonte: Sinistra in Rete - segnalato da: Gino Buratti)
link:
http://www.sinistrainrete.info/index.php?
option=com_content&view=article&id=8456
Appunti sul referendum di
Costituzione (di Enrico Peyretti)
modifica
della
Oggi (19/11/2016 ndr) una bella assemblea dell'Anpi, a Torino, sul
referendum costituzionale. Sono stati espressi diversi pareri (non tutti per
il no) sulle due ampie relazioni di Maria Grazia Pellerino (è stata assessora
con Fassino, per il no) e da Anna Rossomando (parlamentare Pd, per il si).
Le due relazioni, serie e argomentate, mostrano che i contenuti della
riforma sono estremamente controversi e anche abbastanza confusi e
pasticciati (più che mai sul nuovo Senato), cioè non chiari, interpretabili in
modi opposti, portatori di effetti assai discutibili (p. es. il Senato sarà
un'assemblea a composizione continuamente variabile; la legislazione
rimane paritaria su una quantità di materie; ogni governo, anche pessimo,
detterà l'agenda della Camera; ...).
Basta questo per dire che quei contenuti non valgono come materia
costituzionale. La Costituzione e le sue modifiche sono superleggi, non
come le leggi comuni, valide se approvate col 51%, volute dalla
maggioranza del momento. Questa riforma è divisiva, divide le famiglie,
le amicizie, i partiti (per fortuna anche il Pd). Divide il Paese. Quindi le
modifiche su cui voteremo non sono vere regole costituzionali, le quali
sono regole del gioco, super partes, forma e limite di ogni potere
istituzionale, che non possono essere dettate da una parte sola, calcolando
che tornino a proprio vantaggio. Questo invece è ciò che fa Renzi, illuso
da quel 41% alle europee: ci ha messo la faccia e la testa, e continua a
farlo anche oggi. Fa una propaganda semplicistica, sommaria, illusoria,
come la pubblicità commerciale. Brutto segno.
Il governo deve lasciare al Parlamento la materia costituzionale. Se
auspica regole che stabilizzino il proprio potere (come Renzi fa capire
ogni giorno) sfiora la dittatura della maggioranza, degenerazione della
democrazia.
Inoltre, il Parlamento attuale - eletto col Porcellum condannato come
incostituzionale - è, sì, in funzione, per la necessaria continuità dello
Stato, ma doveva avere il pudore e la sensibilità civile di limitarsi alla
ordinaria amministrazione e non toccare la materia costituzionale, perché
non è correttamente rappresentativo (sentenza Corte Cost. 1/2014).
E' una carenza di cultura giuridico-costituzionale, un grave errore, quello
che Renzi commette nel giocare tutto su questa riforma (col ricatto di quel
che potrebbe succedere politicamente) perché dimostra di non distinguere
la politica variabile dalla struttura costituzionale: le colonne e il tetto della
casa, chiunque sia oggi o domani a lavorare in cucina.
La nostra decisione di cittadini verte non su governo e politica, che non
sono in gioco diretto, ma sulla Costituzione, sulla garanzia costituzionale
da difendere, perciò è bene votare no a questa riforma.
Enrico Peyretti
link: http://www.aadp.it/index.php?option=com_content&view=article&id=2658
Approvate una riforma che prevede la vittoria come
il fine della politica e la società divisa in vincitori e
sconfitti? (di Raniero La Valle)
Chi vincerà il prossimo referendum? Ormai da molti mesi l'unico scopo,
l'"oggetto immenso" della politica italiana è la vittoria nel referendum.
Renzi non pensa ad altro, e attribuisce all'esito del referendum
conseguenze epocali sia per il vincitore - che dovrebbe essere lui - sia per i
perdenti che dovrebbero essere tutti gli altri (D'Alema, Bersani,
Zagrebelsky, i Cinque Stelle, i gufi, i parrucconi).
Alla Leopolda, il 5 novembre, tirava una brutta aria: come ha sintetizzato
"la Repubblica": "abbracci agli amici, botte ai nemici". Scrive Michele
Prospero sull'"Espresso": "Renzi cerca continuamente un nemico,
qualcuno a cui stare antipatico: se ne è creati molti, spesso
scientificamente. Renzi cerca la contrapposizione così come cerca
continuamente l'acclamazione. La cerca alla Leopolda o durante le
direzioni del Pd, che sono entrambi luoghi di obbedienza e celebrazione".
E la parola d'ordine alla Leopolda era di dare battaglia anche in caso di
sconfitta, di "non farsi rosolare" a Palazzo Chigi.
Come riferiva il "Corriere della Sera" quello stesso giorno, Renzi avrebbe
detto che in ogni caso avrebbe deciso di andare avanti e di "non mollare",
perché è meglio "morire da Renzi che vivere da pecora".
In questa visione la vittoria è ciò che fa la differenza; se poi non si vince
bisogna rilanciare e giocarsi tutto, perché, parafrasando ciò che si diceva
una volta, è meglio vivere un giorno da Renzi che cent'anni da pecora.
Ciò mette la vittoria al centro della visione della politica. Non è affatto
una visione peregrina, perché corrisponde ad una illustre dottrina elaborata
durante il nazismo dal grande giuspubblicista tedesco Carl Schmitt,
secondo cui la politica consisterebbe nella dialettica amico-nemico, e
avrebbe perciò nella vittoria il suo naturale e necessario obiettivo.
Questa visione non è però quella della Costituzione Italiana che coltiva il
progetto di una società di liberi e di eguali, in cui non ci siano sconfitti e
perciò nessuno sia considerato nemico.
Ora il problema non è che il Presidente del Consiglio abbia personalmente
un'altra opinione, com'è legittimo. Il problema è che la riforma
costituzionale sottoposta a referendum insieme alla legge elettorale che
l'accompagna, assume precisamente la vittoria come criterio supremo
della politica, e disegna un progetto di società divisa in vincitori e vinti.
È questo infatti l'obiettivo più ambizioso dei riformatori, continuamente
riproposto nel facile slogan secondo cui la sera delle elezioni si deve
sapere chi ha vinto e chi, invece, è rimasto sconfitto, e lo dovrà
necessariamente rimanere nella migliore delle ipotesi per cinque anni, fino
alle successive elezioni. La proposta referendaria sposta l'accento da una
società in cui non ci sono sconfitti (e in cui anzi è compito della
Repubblica rimuovere le cause, anche di ordine economico e sociale che
limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini ne fanno degli
sconfitti) a una società di vincitori e di vinti.
Questa non è una buona cosa. Il massimo beneficio di un sistema
elettorale non è di far sapere subito chi vince, e mettere fuori gioco chi
perde; questa è la cosiddetta democrazia governante dei riformatori,
secondo la quale chi vince vince tutto, chi perde perde tutto, e il trofeo e il
frutto della vittoria sono lo spoils system, cioè la divisione delle spoglie. È
questo il valore che oggi viene innalzato sugli scudi dai fautori della
semplificazione e dell'efficienza di una democrazia decisionista, questa è
la nuova morale politica, che in realtà è la vecchia, reazionaria concezione
politica del Principe secondo Machiavelli.
Io credo invece che per salvare la politica e per salvare la democrazia
dobbiamo reagire contro l'ideologia della vittoria. È questa l'ideologia del
potere incontrollato, l'ideologia di Cesare: "veni, vidi, vici" (venni, vidi,
vinsi); è l'ideologia di Brenno contro i Romani: "vae victis" (guai ai vinti);
è l'ideologia di Costantino che con il suo sogno a Ponte Milvio ha
inquinato 1700 anni di storia cristiana trasformando il cristianesimo in
cristianità: "in hoc signo vinces"; la croce massimo simbolo di amore e di
condivisione usata come insegna e totem di vittoria, toponimo delle
crociate e stigma d'identità; un marchio selettivo e ostile, rappresentativo
di un'identità nazionale e politica, atea e devota, cosa che è durata fino a
ieri, fino a papa Francesco che ha deciso di uscire dalla cristianità per
tornare al cristianesimo, che è la vera riforma oggi in corso.
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In effetti la vittoria non è tutto. Nel mondo ci sono ben altri problemi che
vincere o perdere. Tra Israele e Palestina il problema è di chi vince? Tra
chi vuole salvare i profughi e chi vuole abbandonarli al mare, il problema
è chi vince? Tra la gente accampata nella giungla di Calais e gli inglesi
che sbarrano il tunnel della Manica, il problema è chi vince?
La vittoria rimanda al potere. Il discorso sulla vittoria è un discorso sul
potere. La vittoria è il movente e il fine della politica moderna intesa come
scontro tra nemici. Ma la vittoria non è affatto il movente e lo scopo della
politica, non è il criterio di giudizio sulla qualità del potere, e non è per
niente tra i principi e i valori fondamentali su cui è costruita la
Costituzione Italiana e l'ordinamento dello Stato. Il potere non deve
vincere per dividere, ma deve governare per unire; il consenso, la
mediazione, il sostegno ai poveri e ai perdenti dovrebbero essere la norma
per il potere. I re dell'Antico Medio Oriente, ai tempi del codice di
Hammurabi, erano i difensori degli sconfitti, avevano il compito di
compensare con la forza del potere la debolezza dei poveri. Antichi codici
parlano del re come del padre dell'orfano, marito della vedova, sostegno di
chi non ha madre.
L'ideologia della vittoria fa brutti scherzi; la Germania umiliata dopo la
sconfitta nella Grande Guerra produsse Hitler, le democrazie del
dopoguerra nell'Italia stremata e nella Germania divisa rinacquero con il
piano Marshall.
L'ideologia della vittoria è quella che ci sta facendo rischiare la
Costituzione, che non è più considerata in se stessa, ma solo come
strumento di una battaglia campale per innalzare o abbattere un potere;
essa fa da capro espiatorio di una contesa tutta politica, sicché perfino i
filosofi dicono che la Costituzione proposta è un orrore, però la votano per
far vincere Renzi; la vittoria diventa così il massimo bene, la grande
occasione offerta all'Italia, perché grazie alla riforma ci sarà sempre un
vincitore e ci saranno dei perdenti, e l'ultima parola della storia non sarà
più nè capitalismo nè democrazia, ma sarà vittoriocrazia. Chi vince è il
sovrano, tutti gli altri tornano ad essere sudditi. Questo è il futuro? No,
questo di certo è il passato, non è il nuovo che avanza, è il vecchio che
ritorna.
Intervento di Raniero La Valle dal titolo "Il vero quesito: Approvate una
riforma che prevede la vittoria come il fine della politica e la società divisa
in vincitori e sconfitti? Quinto discorso su 'La verità del referendum'"
tenuto nella Parrocchia del Volto Santo di Salerno
Fonte: Centro di ricerca per la pace e i diritti umani
link: http://www.aadp.it/index.php?option=com_content&view=article&id=2654
Che cosa prevede la Riforma Costituzionale (di
Maria Luisa Pesante)
Dal nuovo ruolo delle Regioni al combinato disposto tra la legge elettorale
e nuove norme costituzionali. Un’analisi punto per punto dei contenuti
della Riforma voluta da Renzi.
Dicono gli oppositori della nuova Costituzione che essa è scritta male; e
anche molti dei suoi sostenitori lo ammettono, ma quasi sempre senza
spiegare il come e il perché dell’inadeguata stesura dopo il lungo periodo
di gestazione. Non è un fatto estetico, semplicemente essa non è scritta
come una costituzione. Contiene troppi rimandi interni, che la rendono
poco leggibile, come lo sono le leggi italiane; contiene troppi dettagli da
legge ordinaria anziché principi e criteri generali tipici delle carte
costituzionali. Soprattutto è reticente, incompleta e inconcludente proprio
secondo quella “visione d’insieme” con cui essa veniva presentata al
Parlamento l’8 aprile del 2014. Questo fatto non può essere casuale; al
contrario ci induce a guardare più esattamente come le singole norme
rispondano a un disegno non dichiarato, ma reale che si tratta di approvare
o respingere il 4 dicembre. Al di là della pubblicità ingannevole di chi
vuol far credere che ad una serie di problemi, più o meno utilmente
individuati, esistesse un’unica soluzione, e soprattutto solo la soluzione di
un’ampia revisione costituzionale, bisogna guardare al nocciolo duro della
rivendicazione dei suoi apologeti: questo testo porta finalmente a
compimento quella riforma che i partiti italiani non erano riusciti a fare,
per più di trent’anni, almeno dal 1982. [1] Ora l’obbiettivo che con
trasversale pertinacia tutte le maggiori forze politiche, una quindicina di
governi, e quasi tutti i presidenti (dovrebbe mancare all’appello Scalfaro)
hanno perseguito è il presidenzialismo strisciante con cui hanno tentato di
rispondere alla crescente insoddisfazione, anch’essa trasversale, dei
cittadini nei confronti di ciò che i loro rappresentanti compivano nelle
proprie funzioni. Sono infatti trent’anni (1982-2013) che hanno visto
crescere costantemente, fino al 25%, l’astensione alle elezioni politiche,
che hanno visto il consenso ai due maggiori schieramenti sommati ridursi
al limite del 50%.
Proprio perché l’obbiettivo condiviso era un presidenzialismo spurio,
privo delle garanzie istituzionali che in un sistema liberaldemocratico
tutelano insieme i perdenti delle elezioni e i cittadini in generale, i
tentativi sono falliti: nessuno degli schieramenti maggiori si fidava
veramente di consentire che di un tale rafforzamento del potere del
governo potessero godere gli avversari. Il fallimento della Commissione
bicamerale, presidente d’Alema, è emblematico. Non a caso l’aspirazione
a un presidenzialismo concepito come governo eletto direttamente e
insieme alla propria maggioranza – modello ignoto a tutte le democrazie
liberali – si è accompagnata a continui tentativi di manipolare in questa
direzione le leggi elettorali, e a continui attacchi, svilimenti, e forzature
della carta costituzionale. Alla conclusione di questa storia Renzi, che
nella presentazione alla Camera ha riconosciuto il fallimento dei tentativi
di ottenere attraverso la sola legge elettorale la desiderata concentrazione
nelle mani del governo di poteri non rallentati da controlli, si è trovato in
una congiuntura particolarmente favorevole potendo godere al tempo
stesso di un vantaggio politico prodotto da una legge elettorale illegittima
e di una consistente opportunità di trasformismo. La stessa congiuntura ha
consentito di approvare una legge elettorale che, mentre è libera
dall’irrazionalità della legge Calderoli, può trasformare in maggioranza
parlamentare e costituire in potere di governo anche una minoranza infima
di votanti.
In questa sequenza si capisce allora che un’ampia revisione costituzionale
come la presente è necessariamente attuata con una maggioranza esigua, e
non può godere di un ampio consenso né tra le forze politiche del
centrodestra, che la temono nelle mani degli avversari e non possono
condividere la diminuzione dei poteri regionali, pena la propria sicura
disunione, né tra i cittadini, molti dei quali ne avvertono le pericolose
linee di faglia. La ratio della revisione è dunque quella di creare uno
spazio relativamente vuoto di poteri potenzialmente contrapposti nel quale
l’egemonia politica e istituzionale del governo possa dispiegarsi senza
essere costituzionalmente definita, e quindi senza rendere manifesto lo
slittamento verso un sistema che non è né realmente parlamentare né
presidenziale nelle debite forme.
Cosa succede alle Regioni
Gli ampi poteri legislativi delle regioni erano un ovvio bersaglio. La
riforma del titolo V, parte II, della Costituzione, 2001, varata da un
governo di centrosinistra alla fine della legislatura, apparentemente per
tutelare prerogative dello stato centrale contro la minaccia di una
trasformazione assai più radicale voluta dal centrodestra, non ha prodotto
buoni risultati. La propaganda a favore della contro-revisione attuale
insiste sulle difficoltà di gestire la legislazione concorrente tra Stato e
Regioni, e sull’impossibilità di distinguere adeguatamente “per materie”
tra le rispettive competenze. Dunque la legislazione concorrente viene
abolita (art. 117.3 e 4); competenze prima regionali vengono avocate
esclusivamente allo Stato (art.117.1), con ulteriore riserva di legiferare dal
centro, su proposta del Governo, anche in quelle residue (art.117.4). Di
passaggio “la tutela della concorrenza” diventa “tutela e promozione della
concorrenza” (art. 117.2): uno slittamento da difesa contro posizioni
monopolistiche e dominanti ad allineamento con quello che sempre più sta
diventando il principio cardine della giurisdizione europea, ad esempio in
materia di cause di lavoro, e con lo smantellamento di funzioni pubbliche
in favore di imprese private; e a conferma di una deriva in cui si
inseriscono nella Costituzione scelte politiche della Ue anziché usare il
9
dettato costituzionale come criterio di distinzione.
Che consistenza hanno le residue competenze legislative regionali? Alcuni
esempi possono chiarire la vacuità della nuova norma. Che cosa vuol dire
“pianificazione del territorio regionale e mobilità al suo interno” quando
sono di competenza esclusiva dello Stato, così che chi governa il territorio
non ci può mettere bocca, “infrastrutture strategiche e grandi reti di
trasporto e di navigazione di interesse nazionale”, “porti e aeroporti civili
di interesse nazionale e internazionale”? Ciò che è di interesse nazionale e
internazionale non sta a un livello diverso dalla terra su cui vivono e si
muovono i “locali”: le stazioni piombano sui centri delle città o
condizionano le loro periferie, gli aeroporti ridefiniscono il territorio, i
porti hanno un impatto su strutture urbane complesse. I casi dietro la
norma hanno nomi noti. La pianificazione del territorio della Valle di Susa
(e scelgo un caso in cui non c’è stato conflitto tra Stato e Regione) vuol
dire decidere che cosa fare in una valle non larga con un fiume, due strade
statali, una ferrovia, un’autostrada, a cui aggiungere un “trasporto di
interesse nazionale”, un Tav. La mobilità nelle Regioni vuol dire lasciare a
queste ultime il disastro delle ferrovie regionali, volutamente disconnesse
dal sistema ferroviario “di interesse nazionale”. Vuol dire peraltro lasciare
al loro arbitrio la follia della BreBeMi o del Mose. L’interesse del
trasporto nazionale vuol dire poter imporre, se si vuole, la follia del ponte
sullo stretto di Messina in zona sismica.
Oppure, su un altro terreno, che vuol dire lasciare alle Regioni non più “la
tutela della salute” (art. 117.3), come ora, ma “la programmazione e
organizzazione dei servizi sanitari e sociali” (art. 117.3 della revisione)?
Non vuol dire che si tutela l’omogeneità del diritto alla salute dei cittadini
italiani come obiettivo e regola dell’intervento pubblico (i Lea hanno
ormai parecchi anni, a costituzione vigente); al contrario, si definisce una
funzione amministrativa. La distinzione per materie, illogicamente
reintrodotta battezzando qualche cosa “nazionale” o “internazionale”, ha
in realtà una logica congiunturale che può essere rivelata in infiniti
particolari. Ma i casi citati rimandano a un punto cruciale. È scomparso
con la legislazione concorrente “il coordinamento della finanza pubblica e
del sistema tributario”, ossia il luogo dove Stato e Regioni potevano e
dovevano discutere di acquisizione, ripartizione e spesa delle risorse
finanziarie attraverso cui passa una politica dei servizi ai cittadini. Le
risorse autonome degli enti locali erano rimaste indeterminate nel vecchio
Titolo V (art.119.2), e tali sono ovviamente rimaste. Di quanti soldi essi
possano disporre per erogare servizi (sanitari, sociali, scolastici) dipende
da quanto il bilancio dello Stato conferisce loro. È problema della virtù
civica, capacità politica ed efficienza amministrativa delle autorità locali
impiegarli al meglio, ma c’è un limite al buon uso di risorse insufficienti.
Come è noto, in tutti questi anni di restrizioni i tagli dei trasferimenti agli
enti locali sono stati molto maggiori che non quelli ai ministeri, per non
parlare della sparizione di interi cespiti, come l’Imu. Né sono sempre stati
premiati i più virtuosi, anzi.
La nuova costituzione forma quindi il quadro entro il quale il welfare
erogato dagli enti pubblici tende a spostarsi dalla prestazione di servizi
organizzati stabilmente sul territorio a elargizioni governative, permanenti
o transitorie, di somme monetarie senza programmazione, contro tutte le
indicazioni proposte in questi anni nella riflessione del centrosinistra sul
tema: bonus 80 euro, bonus giovani, bonus mamme, quattordicesime, e
così via. C’è uno stile di governo implicito in questa revisione. Così il
governo può sostituirsi “ai titolari di organi di governo regionali e locali
nell’esercizio delle rispettive funzioni quando è stato accertato lo stato di
grave dissesto finanziario dell’ente” (nuovo art. 120.2).
In compenso non vengono minimamente toccati i due peccati originali
dell’ente regionale secondo il vecchio Titolo V, quelli che hanno delineato
in esso un potere privo di contrappesi, e perciò non già capace di decisioni
rapide ed efficienti, ma al contrario incline alla mala gestione. Le Regioni,
lasciate libere di scegliere la propria forma di governo (art. 123.1) hanno
scelto quella presidenziale, mentre l’art. 126.2 e 3 imponeva che ogni
impedimento del presidente eletto direttamente, non solo una sfiducia
votatagli dal Consiglio, comportasse lo scioglimento dell’assemblea, che
dunque è in ostaggio. Le leggi elettorali maggioritarie che le Regioni
hanno scelto, in molti casi con la mostruosità aggiunta del “listino del
presidente”, hanno completato quel quadro di presidenzialismo spurio,
cioè senza separazione di poteri e contrappesi che è sempre stato
l’obbiettivo ultimo dei vari tentativi di riforma costituzionale. Dalla
demenza del “sindaco d’Italia” come modello politico nazionale,
attraverso il presidenzialismo bastardo degli statuti regionali, fino alla
Commissione Letta-Napolitano il percorso è stato coerente: nessun
governo dal 2001 in poi ha sollevato davanti alla Corte costituzionale la
questione di legittimità per una forma di governo regionale che avrebbe
dovuto essere “in armonia con la Costituzione”.
È questo nucleo oscuro dell’ordinamento regionale che la presente
revisione lascia intatto, e che probabilmente spiega la complice docilità
con cui le Regioni hanno accettato di essere spogliate di gran parte delle
loro competenze legislative.
Il “nuovo” ruolo della Corte Costituzionale
Gli apologeti della revisione contrappongono a quella che considerano una
forma orami irrimediabilmente obsoleta di garanzia, ossia quella di un
equilibrio costituzionale di poteri, una forma nuova che sarebbe costituita
da rafforzamento di organi di controllo e potenziamento degli strumenti
per la partecipazione popolare. Di rafforzamento della Corte
costituzionale, cioè di maggiori garanzie della sua autonomia dal potere
politico non c’è traccia. Al contrario, è previsto che sulle leggi elettorali al
suo giudizio possa ricorrere preventivamente ¼ della Camera o 1/3 del
Senato (art.73.2). Il controllo preventivo di costituzionalità, previsto dalla
Costituzione francese del 1958, trascina la Corte in un ruolo di consulenza
alle forze politiche che deforma il reciproco rapporto. Mentre il controllo a
posteriori lascia interamente al potere politico la responsabilità delle sue
scelte, con la Corte come controllore ultimo e una distanza anche
temporale dalla decisione politica, il controllo preventivo la costringe in
un ruolo di antagonista o concorrente con la maggioranza parlamentare in
carica (il lettore può provare a immaginare che cosa sarebbe successo se
questa norma fosse stata in vigore al momento in cui fu approvata la legge
Calderoli 2005). Invece, una maggiore apertura del diritto di accedere alla
Corte per i cittadini avrebbe risultati costituzionalmente assai più
fisiologici (sulla medesima legge il giudizio di legittimità costituzionale
avrebbe avuto luogo dopo le elezioni dell’aprile 2006, ma prima di quelle
del 2013).
Le leggi di iniziativa popolare e il referendum abrogativo
A loro volta, le nuove norme che dovrebbero disciplinare una maggiore
partecipazione popolare sono del tutto vuote di potenzialità. Le leggi di
iniziativa popolare richiederanno il triplo delle firme (così, dicono,
avranno “maggiore forza propulsiva”: nessuno ci aveva pensato), e la
Camera con suo regolamento stabilirà come e quando esaminarle e votarle
(art. 71.3), mentre, a quanto pare, finora non poteva farlo. Sono anche
previsti referendum propositivi o di indirizzo (art. 71.4: regolamento
demandato a una legge ordinaria). Invece i referendum abrogativi (art.
75.4) cambiano solo nel senso che, se si raccolgono 800.000 firme, il
quorum scende al livello dei votanti alle precedenti elezioni politiche.
Tutti capiscono che il problema fondamentale del referendum abrogativo
nella storia degli ultimi trent’anni è stato che, quando si sono raccolte le
500.000 firme valide, quando si è raggiunto il quorum, quando si è
ottenuta la maggioranza dei votanti, poi il Parlamento, il Governo, e ogni
ente locale che lo abbia voluto se ne sono infischiati, e tutto è andato
avanti come se il referendum non ci fosse stato. L’unica vera riforma di
questa vergognosa prassi sarebbe una norma costituzionale che stabilisse
come, in che tempi, con quali vincoli il potere legislativo è tenuto a
prendere atto dei risultati referendari. Il resto sono favole per i gonzi.
Le conseguenze della nuova legge elettorale
Mentre nella sua pubblicità il governo continua a dire semplicemente che
con la revisione nulla è stato aggiunto ai poteri del governo, i più abili
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apologeti del testo, come Stefano Ceccanti, illustrano un’argomentazione
più complessa, che compare in controluce nella Relazione e che possiamo
usare per segnalare la ratio della riforma renziana. In questa
argomentazione i poteri dei governi sono ineluttabilmente cresciuti di fatto
in tutti i più importanti sistemi politici. Questo fatto avrebbe giustamente
prodotto un mutamento dei sistemi elettorali in direzione tale che
l’elezione del premier, diventata di fatto diretta, renderebbe i cittadini
“arbitri dei governi”, e riequilibrerebbe verso la democrazia un sistema
che aveva già perduto irrimediabilmente il suo vecchio equilibrio tra
legislativo ed esecutivo. Basterebbe il fatto che il legislativo può
sfiduciare il governo a garantire che il sistema rimane parlamentare.
Questa posizione spiega a sufficienza perché l’Italicum, ancorché
approvato prima della riforma costituzionale, è pensato in realtà come una
sua conseguenza, è intrinseco ad essa, ed è irrinunciabile proprio per il
ballottaggio a livello nazionale, l’unico che garantisce di fatto l’elezione
diretta del premier (un ballottaggio su base uninominale, collegio per
collegio, non servirebbe allo scopo). Naturalmente bisognerebbe capire
con quali costi politici e istituzionali un parlamento potrebbe sfiduciare un
premier che gode di una legittimazione diretta. Che cosa significa in effetti
la fiducia conferita a un premier che è già stato eletto dal popolo? Il punto
fondamentale di un regime parlamentare è, in effetti, che solo il legislativo
è eletto, il governo è nominato. Il punto di un presidenzialismo
liberaldemocratico è che l’organo esecutivo, il presidente, è anch’egli
eletto direttamente, ma non con il suo parlamento, non con la sua
maggioranza incorporata, bensì in un circuito diverso. Questo è invece
quello che succede nella combinazione tra revisione costituzionale e
nuova legge elettorale. Il potere efficace, ma limitato, che è stato
l’obbiettivo delle costituzioni moderne dipende da un equilibrio che sta,
da un lato, nella possibilità per i cittadini di eleggere un potere legislativo
ragionevolmente pluralista, senza l’artificiosa riduzione operata dalle leggi
elettorali ipermaggioritarie; dall’altro, nella loro libertà di eleggere
separatamente legislativo ed esecutivo, che risultino essi poi politicamente
omogenei oppure eterogenei. Si richiede infinita ingenuità dei cittadini ed
enorme capacità di manipolazione del governo per far credere che un
nuovo equilibrio, ossia un’efficace limitazione del potere dell’unico
soggetto politico-istituzionale, il bicefalo governo legislatore, si possa
formare grazie al potenziamento di organismi di garanzia (che non sono
poteri, e non hanno legittimazione democratica propria), alla
responsabilità dei vari livelli di governo (le nuove potenti regioni?), e al
ruolo delle opposizioni (demandato ai regolamenti parlamentari in mano
alla maggioranza), come propone Ceccanti.
Il 4 dicembre non si vota sul governo Renzi, ma non si vota neppure solo
su questo testo portatore di un disegno istituzionale confuso, incoerente e
opaco. Si vota contro il disegno politico trentennale che esso porta a un
primo compimento, in attesa di ulteriore evoluzione.
[1]
Per l’autointerpretazione dei responsabili e dei difensori della revisione
uso, oltre alla citata Relazione alla Camera, i testi di costituzionalisti
raccolti in Perché sì. Le ragioni della riforma costituzionale, con
prefazione di Maria Elena Boschi, Bari, 2016. Sulla lunga stagione dei
tentativi falliti cfr. in particolare l’intervento di Carlo Fusaro.
(fonte: Sbilanciamoci Info)
link: http://sbilanciamoci.info/cosa-prevede-la-riforma-costituzionale/
L'elezione di Trump
Sull'elezione di Trump (di Antonio Perillo)
La colpa di quanto accade negli Usa non è della Clinton.
E' sempre stata una donna del potere, che è stata scelta, lei candidata
debolissima, proprio per la sua fedeltà ai poteri forti.
E si avvia a perdere nonostante l'oro di cui è stata ricoperta, tutti i media e
i governi esteri a favore e persino i brogli della leadership del suo partito
per indebolire Bernie Sanders alle primarie.
La colpa non è nemmeno di Obama, che in 8 anni ha fatto i compiti a casa
assegnati dal potere riuscendo contemporaneamente a raccontare al mondo
una favoletta fatta di riforme, progresso, pace, sorrisi. Se avete creduto a
questa storia, mentre i posti di lavoro crollavano, i droni volavano e
bombardavano e i neri venivano ammazzati come mosche dalla polizia
fedele ad un presidente afroamericano, vuol dire che di politica non capite
moltissimo, senza offesa. Il grande mausoleo di sabbia della sua
presidenza vola via con la grottesca cena con Renzi e Benigni e con questa
sconfitta gigantesca dopo una campagna elettorale fittissima al fianco di
Hillary. Precipitino nell'oblio lei e tutto l'apparato economico-mediatico
neoliberista che l'ha sostenuta.
Grande colpa politica è di Sanders stesso, che ha scelto di immolare il
vasto movimento giovanile e di sinistra che aveva creato quasi dal nulla
nell'impossibile missione di coprire a sinistra Hillary e "vincolarla" ad un
programma progressista. Una posizione che ignorava tutta la storia della
Clinton e che quindi non aveva alcuna credibilità.
A quest'ora, nella parte dell'outsider candidatosi contro il suo partito e
contro l'establishment politico ed economico, capace di intercettare il voto
dei lavoratori impoveriti e dei giovani poteva esserci lui, non il populista
di destra che è Trump. Che vince la presidenza sul voto dello stato operaio
del Michigan, dove naturalmente le primarie del Pd americano le aveva
vinte Bernie. E dove i posti di lavoro evaporarono dopo i trattati di libero
scambio firmati da Bill Clinton.
La colpa è anche di Madonna, di Springsteen, di Michael Moore, di De
Niro e persino di Joan Baez. Di comici che amo come Bill Maher, Louis
CK, Sarah Silverman, John Oliver e tanti altri. Tutta intellighenzia di
sinistra e progressista, ma senza cultura politica e quindi incapace di
comprendere il sistema politico americano. E che ha cercato di dare ad
Hillary una dignità che non meritava e soprattutto che non ha mai avuto.
Credevano che le questioni di stile, per cui Trump era indegno di fare il
presidente, potessero decidere il voto, che hanno presentato appunto come
un referendum sulla "decency" e non sulla politica.
Un sorriso va invece a chi da sinistra in Italia, peraltro impossibilitato ad
influire anche minimamente nelle elezioni americane, ha ripetuto come un
automa la storia del voto utile e del meno peggio, dimostrando di capirci
anche meno.
#ElezioniUsa
Ps: una prece per Giovanna Botteri.
(fonte: Post pubblicato su FB - segnalato da: Irene Bertozzi)
link: http://www.aadp.it/index.php?option=com_content&view=article&id=2652
Approfondimenti
Femminicidio
Perché abbiamo bisogno dei centri antiviolenza(di
Elisa Ercoli)
Piano antiviolenza, fondi stanziati e mai erogati dalle regioni. È
indispensabile un controllo sociale allargato, avverte Elisa Ercoli di
Differenza donna. La storia dei centri ci spiega perché.
Con l’approvazione della legge 119 del 2013, della convenzione di
Istanbul e del piano nazionale antiviolenza le istituzioni in Italia hanno
preso parola sulla violenza maschile e sul suo contrasto. Noi donne dei
centri abbiamo pensato potesse essere un nuovo inizio di collaborazione
con le istituzioni per poter agire insieme, in una relazione che fosse
strategica a livello sistemico, ma così non è stato. Proprio a partire da
questo momento, infatti, i centri hanno iniziato a vivere una nuova e
travolgente insicurezza economica che, leggendo il report della corte dei
conti, appare del tutto immotivata visto che i fondi sono stati stanziati ma
non erogati.
È quindi indispensabile un controllo sociale allargato che si faccia carico
di richiedere certezze per il futuro dei centri antiviolenza. Anche per
questo con Differenza donna prenderemo parte alla manifestazione
nazionale del 26 novembre a Roma. All’interno di questa crisi importante
e trasversale – istituzionale, economica e politica – e all’interno della
quale sentiamo una forte necessità di ri-centrarci come protagoniste.
11
La situazione in corso ci porta a rilanciare un’azione politica in cui la
difesa dei centri antiviolenza non rappresenti solo un vantaggio per le
donne dei centri ma anche per tutte le donne, per la cittadinanza, e per la
società civile.
I centri antiviolenza sono nati in Italia grazie al lavoro del movimento
delle donne e all’esperienza dei consultori, che a supporto della legge
sull’interruzione volontaria di gravidanza, hanno permesso diffusamente
alle donne di incontrarsi tra loro per prendere parola su corpi, sessualità,
relazioni con gli uomini, e quindi, di conseguenza, sulle violenze e gli
stupri subiti in famiglia, oltre che nei contesti amicali e lavorativi.
A Roma, si avviarono gruppi di auto-aiuto e un centro antiviolenza
sperimentale all’interno dell’occupazione del Governo Vecchio. Per
consolidare tale esperienza serviva una indagine accurata, un confronto
con le donne dei paesi che sono più avanti nella realizzazione di politiche
di contrasto alla violenza, che facilitassero la denuncia della violenza
maschile, la rendesse visibile, favorendo una reazione sociale collettiva di
rifiuto della violenza contro le donne, bambine e bambini, risposte
adeguate e una trasformazione dei costumi del paese, per un avanzamento
culturale e di diritti.
Dal convegno internazionale femminista di Roma – che si tenne proprio al
Governo Vecchio il 25 e 26 marzo 1978 – dedicato alla violenza contro le
donne, emergeva chiaramente come i centri antiviolenza potessero
costituire uno strumento strategico di queste politiche. Le donne avevano
bisogno di luoghi che sapessero dare loro ascolto e solidarietà, nei
confronti di una violenza che univa tutte e dalla quale tutte erano impedite
a uscire a causa degli ostacoli messi in atto dagli stereotipi e dei pregiudizi
patriarcali, luoghi che diffondessero una nuova ondata culturale.
Stiamo parlando di un periodo storico particolarmente innovativo ed
efficace, per la particolare collaborazione tra donne di istituzioni e donne
di movimento. È proprio in questo clima, nel 1989, che nasce Differenza
donna, con l’obiettivo di ottenere la legge regionale per l’apertura dei
centri antiviolenza nel Lazio.
Nel 1992, ancor prima dell’approvazione della legge, che avvenne il 15
novembre del 1993, Differenza donna apriva il centro antiviolenza della
provincia di Roma. Il centro nasceva come luogo gestito da donne e per le
donne, un luogo a cui era affidata la responsabilità di bilanciare il potere
agito dagli uomini a livello individuale e collettivo all’interno della
società.
Da poco era stata anche ratificata dall’Italia la convenzione
sull'eliminazione di ogni forma di discriminazione della donna (CEDAW)
[1], che obbliga gli stati dell’Ue a contrastare le discriminazioni di genere
e la violenza maschile contro le donne, a eliminare gli stereotipi associati a
ruoli tradizionali di uomini e donne nella famiglia e nella società come
causa ed effetto della stessa problematica.
Le donne dei centri, accolte e operatrici, allo stesso modo e
contemporaneamente lavorano all’emersione del fenomeno e per dare una
nuova lettura della violenza maschile contro le donne. È complesso e
difficile comprendere davvero e profondamente gli impedimenti strutturali
e culturali che sono invece percepiti da tutte e tutti come “naturali” e non
invece come sono realmente, vale a dire una “costruzione difensiva della
cultura patriarcale per mantenere le donne in una sudditanza”.
Sono state proprio le narrazioni autentiche delle donne, bambine/i in
uscita dalla violenza che hanno svelato realtà per le quali noi operatrici e
avvocate dei centri abbiamo voluto sensibilizzare i decisori politici policy
makers, i soggetti della rete territoriale e promuovere proposte di legge e
avviare cambiamenti che prendessero atto di questo.
Nella relazione tra donne accolte e operatrici è anche emerso
profondamente che gli impedimenti a uscire dalla violenza hanno poco a
che fare con le caratteristiche psicologiche soggettive delle donne
coinvolte ma appartengono a chiunque ci si trovi, senza nessuna
distinzione di livello culturale, sociale, economico, perché strutturali alle
società.
“All’incirca dal mese di luglio – spiega il direttore dell’hotspot – sono
iniziati i trasferimenti verso Taranto di migranti che arrivano da
Ventimiglia, Como e, in qualche caso, Milano. In media abbiamo transiti
giornalieri di 40-50 persone, per un totale di 2 o 3 mila”.
Il legame tra violenza maschile contro le donne e discriminazioni di
genere emerge nei centri antiviolenza con molta naturalezza sino a far
percepire più morbidi i confini tra violenza intima e differenze salariali,
tra bambini testimoni di violenza e divisione dei lavori di cura tra uomini
e donne, in un continuum che è la lettura delle donne delle società
contemporanee e causa principale di molti problemi specifici dei nostri
tempi.
In un documento pubblicato alla fine di agosto l’Associazione studi
giuridici per l’immigrazione (Asgi), denunciava come molti dei migranti
respinti alla frontiera di Chiasso (300 nei mesi di luglio e agosto secondo
l’associazione Firdaus) fossero stati trasferiti direttamente dal posto di
polizia di frontiera all’hotspot di Taranto. «Non sono fornite informazioni
circa la meta finale di destinazione – scrive l’Asgi – e le stesse vengono
trasportate su pullman di aziende private con personale di polizia di
scorta». I viaggi con cadenza bisettimanale sono stati confermati da molti
migranti tornati a Como e da informazioni raccolte presso la polizia di
frontiera di Chiasso.
«Posto che i migranti trasferiti sono già stati identificati – continua il
documento – e considerate le gravi difficoltà che la Puglia incontra
nell’accogliere tutti i migranti che giungono sul proprio territorio
nell’ambito degli sbarchi, è difficilmente comprensibile la ratio di tali
trasferimenti, che rischiano di apparire non tanto come interventi
finalizzati a una gestione efficiente dell’accoglienza e delle procedure
d’identificazione, quanto come misure punitive volte a scoraggiare i
cittadini stranieri respinti dal tentare nuovamente l’attraversamento
irregolare della frontiera italo-svizzera: misure che ledono i diritti delle
persone coinvolte oltre a comportare uno spreco di risorse pubbliche».
Viene infatti normale chiedersi se, in presenza di necessità, non si possa
procedere all’identificazione nel Nord Italia, evitando un viaggio di oltre
mille chilometri. «Se già è difficile comprendere perché un migrante
debba essere trasferito per l’identificazione a Taranto e non nelle questure
di Milano e Como o nell’hub regionale di Bresso – specifica Dario
Belluccio, avvocato di Asgi – ancora di più lo è accettare che questo venga
fatto a persone già identificate».
Obiettivo dei centri è quindi quello di avviare un gender mainstreaming
che sappia attraversare orizzontalmente tutti gli ambiti di competenza
politica, e quindi di vita delle persone, per garantire alle donne opportunità
oggi ancora strutturalmente negate.
La violenza non è un’esperienza lontana, ma è collegata a ogni aspetto
dell’esistenza.
Note
[1] Redatta nel 1979, entrata in vigore nel 1981 e ratificata dall’Italia nel
1985
(fonte: ingenere.it - segnalato da: Marina Amadei)
link:
http://www.ingenere.it/articoli/perche-abbiamo-bisogno-dei-centriantiviolenza
Immigrazione
Il “giro dell’oca” dei trasferimenti coatti: dal Nord
Italia a Taranto (di Coordinamento Comasco per la
pace, Andrea Quadroni, Michele Luppi)
Da luglio 40-50 persone al giorno arrivano all'hotspot di Taranto: si tratta
di migranti già identificati che arrivano da Ventimiglia, Como e, in
qualche caso, Milano. Probabilmente queste misure vengono usate come
deterrente, spesso sembrano punitive e volte a scoraggiare un nuovo
attraversamento della frontiere, di certo ledono i diritti delle persone
coinvolte. E sembrano non risolvere il problema.
C’è chi le chiama “operazioni di alleggerimento della frontiera”, chi parla
genericamente di “trasferimenti” e chi arriva a definirli con il pesante
appellativo di “deportazioni”. Espressioni diverse per indicare la stessa
cosa: il sistematico trasferimento di migranti dalle città di frontiera –
Ventimiglia e Como (a cui si è aggiunta recentemente Milano) – verso il
Sud Italia.
Si ha notizia dei primi trasferimenti di questo tipo (qui un video che
mostra una partenza) già nel maggio scorso, quando vennero utilizzati
alcuni aerei di Poste Italiane per portare i migranti dal confine francese
verso Trapani e Bari, ma è soprattutto a partire dai mesi di luglio e agosto
che questa pratica è andata strutturandosi tanto da Ventimiglia quanto da
Como, come ammesso dallo stesso capo della polizia Gabrielli in visita
nella cittadina ligure. Al centro di questo sistema c’è l’hotspot di Taranto,
uno dei quattro attivi in Italia, insieme a Trapani, Pozzallo e Lampedusa.
A confermare a Open Migration la prosecuzione di questa prassi è
Michele Matichecchia, comandante dei vigili della città pugliese e capo
della Protezione Civile cittadina, che è stato chiamato dal sindaco Ippazio
Stefàno a dirigere l’hotspot aperto il 29 febbraio scorso. In questi mesi
(dati forniti dallo stesso Matichecchia il 3 novembre) sono passati dal
centro circa 12 mila persone: 9500 uomini, 1320 donne e 1300 minori. Tra
questi ci sono i migranti che sbarcano direttamente al porto di Taranto
(l’ultimo arrivo di 520 persone risale al 25 ottobre scorso) e quanti
vengono trasferiti dai porti di Reggio Calabria, Crotone, Messina e
Catania.
Ma c’è anche una terza via.
Di conseguenza, una motivazione potrebbe essere la deterrenza verso i
cosiddetti movimenti secondari: «Non voglio dire – continua Belluccio –
che sia un meccanismo punitivo verso specifiche persone con determinati
atteggiamenti, per esempio quello di provare ad attraversare la frontiera,
perché non ho gli elementi per dirlo. La deterrenza, invece, mi sembra una
ragione plausibile».
A spiegare il senso di questo sistema è stato il sottosegretario alla difesa
Domenico Rossi che rispondendo ad un’interrogazione parlamentare
dell’onorevole Cozzolino (Movimento Cinque Stelle), il 21 ottobre scorso,
ha spiegato come i trasferimenti da Como e Ventimiglia siano disposti con
una duplice finalità: “Prevenire turbative dell’ordine pubblico ed evitare
che l’alta concentrazione di migranti potesse dare luogo ad emergenze
igienico-sanitarie”.
“In concreto – continua il sottosegretario Rossi – alle prefettura di Imperia
e Como è stato richiesto di organizzare i trasferimenti verso l’hotspot di
Taranto a mezzo di autobus, affidando il servizio a società da selezionare
tramite procedure ad evidenza pubblica. Allo stato, peraltro, Taranto
risulta essere l’unico hotspot operativo sulla terra ferma, eventuali
trasferimenti verso gli altri, tutti localizzati in Sicilia, comporterebbero un
significativo aggravio dei costi”.
L’indagine esplorativa per l’affidamento del servizio da parte della
Prefettura di Como risale al 15 luglio 2016. Ad aggiudicarsi il servizio è
stata l’unica società ad aver presentato un’offerta, la Rampinini Ernesto
srl. L’offerta, valida fino al 31 dicembre 2016, è di 2,18 euro al chilometro
(iva esclusa) per trasporto da 30 a 50 persone oltre i 600 km complessivi.
Considerando la distanza tra Como e Taranto, più di 1200 chilometri,
significa attorno ai 5 mila euro a viaggio (per ogni pullman). Cifra analoga
a quella versata dalla Prefettura di Imperia alla Riviera Trasporti spa che si
è risultata la migliore tra le tre aziende che si sono presentate con un costo
tra i 2 e i 2,25 euro al chilometro.
Stando alla relazione del sottosegretario Rossi, la spesa a carico dello stato
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al 21 ottobre ammontava a 770 mila euro. Una cifra che non tiene conto
dei costi sostenuti per la scorta e il personale delle forze dell’ordine.
Restano però ombre su un sistema che trasferisce i migranti verso quel
sistema hotspot fortemente criticato pochi giorni fa da Amnesty
International.
Le persone che arrivano da nord – spiega Michele Matichecchia –
“compiono lo stesso iter di chi arriva via mare: all’ingresso avviene
l’identificazione, si legge loro i diritti grazie all’azione dei mediatori
culturali. Compilano una scheda con le informazioni legali, chiedono loro
se vogliono aderire alla richiesta di asilo e poi passano alla scientifica
dove sono foto segnalati e identificati tramite impronte digitali».
Critico sui trasferimenti da nord è lo stesso sindaco di Taranto, Ippazio
Stefàno, che ha segnalato la questione al ministero dell’Interno: «Noi
siamo abituati a fare il nostro dovere, lo vogliamo e lo dobbiamo fare.
Non mi lamento di questo, però le persone fanno mille chilometri e invece
potrebbero magari farne solo 200».
Persone come T., 52 anni, operato di ernia, ora in attesa di relocation, che
ha subito un trasferimento da Ventimiglia via bus, particolarmente
doloroso per via dei suoi problemi di salute. «La polizia – racconta – mi
ha preso alla stazione e trattenuto. Successivamente, mi hanno caricato in
un bus insieme con altri 25 migranti e a 5-6 poliziotti. Non sapevo dove
stavo andando, nessuno mi ha detto dov’eravamo diretti. Ho dormito
perché non stavo bene. Arrivato a Taranto, mi hanno operato e poi sono
stato accolto in struttura».
Abdu, invece, è arrivato in Italia il 29 settembre. Ha 42 anni e porta le
stampelle. Accolto alla chiesa di Sant’Antonio a Ventimiglia, è stato
fermato e portato su uno dei pullman dopo un controllo. Il viaggio è
durato «giorno e notte. Ci siamo fermati diverse volte, la polizia è stata
molto gentile, ci ha portato acqua e cibo».
È capitato addirittura – come denunciato da alcuni associazioni tarantine –
che fosse trasferito un migrante da Milano già affidato ad una comunità di
accoglienza.
«Succede – aggiunge Matichecchia. Può capitare, ci vuole però un
controllo maggiore a Milano, dalla zona in cui arriva».
Alle persone già identificate non è però permesso restare nel campo e
vengono così letteralmente messi alla porta. “Nella maggior parte dei casi
i migranti portati qui da nord ripartono subito”, ci racconta Francesco
Ferri, attivista della Campagna Welcome Taranto. “Lasciano il centro e
vanno a piedi alla stazione dove salgono sul primo treno”; dove per alcuni
di loro il circolo ricomincia.
Un andare e venire per la penisola con il rischio di essere risucchiati
dentro il caporalato e il lavoro nero: «Molti migranti a Taranto finiscono
nelle mani di gente che non si fa scrupoli se ti deve mettere davanti ai
supermercati a chiedere l’elemosina o in campagna – spiega Maristella
Bagiolini, direttrice di TvMed, emittente cittadina – dove il fenomeno è
ancora molto forte. C’è sempre bisogno di manodopera: c’è un pulmino
che accompagna i ragazzi a fare l’elemosina, ed è lo stesso che porta le
persone a prostituirsi. La gestione del fenomeno migratorio ha tante facce.
E in questo giro dell’oca dei trasferimenti, molti ne perdiamo».
Merita un’annotazione il contesto ambientale in cui si trova l’hotspot,
collocato fra Ilva, Cementir e raffineria dell’Eni. La tempesta perfetta per
quanto riguarda l’inquinamento. Condizioni denunciate in due
comunicazioni da parte della Cgil di Taranto e del suo sindacato di polizia:
«In risposta – spiega Giuseppe Massafra, segretario della Camera del
lavoro cittadina – ai poliziotti sono stati dati in dotazione occhiali e
mascherine per le polveri».
Il luogo, come specificato bene in una nota dal sindacato di polizia Silp,
«non pare certo brillare d’igiene e salubrità a causa della concentrazione
di emissioni di vario genere dalle alte ciminiere dei siti industriali
circostanti. Ciò è dimostrato dal fatto che le coperture delle tende, che
originariamente erano bianche, hanno assunto in breve tempo una
colorazione rossastra».
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“Effettivamente il ministero poteva trovare un altro sito -, ha ammesso il
sindaco Stefàno – anche se questa collocazione offre dei vantaggi data la
vicinanza al porto e la possibilità di garantire un facile controllo.
Purtroppo l’inquinamento è un problema generale che non riguarda solo
l’hotspot ma tutti i cittadini di Taranto, a partire dagli abitanti del
quartiere Tamburi che si trova a cento metri dall’Ilva».
Per realizzare questo reportage i giornalisti Andrea Quadroni e Michele
Luppi hanno inoltrato regolare richiesta per accedere all’hotspot alla
Prefettura di Taranto. Il ministero dell’Interno “non ha inteso autorizzare
l’accesso”.
link:
http://us10.campaign-archive2.com/?
u=41c987d5175e824bbb379912a&id=5bc1c1f649&e=e12ef0356b
Stili di vita
Perché Dylan non va a Stoccolma (di Gian Luigi
Ago)
Bob Dylan, imprendibile come sempre.
Non ha rifiutato il Premio Nobel, anzi ha ringraziato, ha scritto di essere
onorato e di essere rimasto senza parole quando lo ha saputo ma che non
può andare perché il 10 dicembre ha già degli impegni…
Qualcuno ha parlato di arroganza, altri di snobismo o di superbia, di senso
di superiorità (ne avrebbe anche motivo a voler ben vedere).
Credo però che la questione sia molto più complessa e credo che abbia
poco a che fare con arroganza o snobismo.
Dylan sfugge da una vita all’essere “trafitto come una farfalla”, all’essere
cristallizzato in una qualsivoglia dimensione o icona.
La sua vita parla da sé. Dal passaggio plateale dal folk al rock sul palco
del Festival di Newport che scandalizzò chi lo vedeva solo come il
cantante folk di protesta, dal fatto che non esegue in concerto mai una
canzone nello stesso modo rendendole tutte irriconoscibili, scontentando
gli “inseguitori di miti” che rimangono delusi.
E ancora dal fatto che su Youtube non troverete una canzone di Dylan che
non sia dal vivo oppure riprodotta in maniera non ufficiale.
E anche dal suo dedicarsi ultimamente a cimentarsi con canzoni di Frank
Sinatra.
Consiglio la visione di quel capolavoro di film che è “I’m not there“in cui
diversi attori interpretano la parte di Dylan, anzi ognuno interpreta una
delle molte facce del caleidoscopio Dylan (Cate Blanchett, una donna che
meglio di tutti riproduce Dylan, Richard Gere e molti altri). Si capirà
molto di più della psicologia dylaniana.
Dylan si è reso conto fin da subito che sarebbe diventato un mito ed è
sempre sfuggito al pericolo di farsi schiacciare da esso.
Figuriamoci se vuole evidenziare troppo addirittura un Nobel per la
Letteratura.
Lo farà ma col tempo e con discrezione e soprattutto a modo suo.
“I’m not there” (Io non ci sono) questo è lo sfuggire di Dylan, il non farsi
trovare mai dove uno se lo aspetta.
Bob Dylan (suo vero nome perché ha cambiato ufficialmente all’anagrafe
il vecchio nome Robert Zimmerman) vuole essere un uomo, non un mito e
lo fa in maniere anche bizzarre come quando, qualche anno fa, fu fermato
dalla Polizia mentre si aggirava in una zona residenziale per vedere le case
di altri suoi “colleghi miti”.
La poliziotta, vedendo quell’uomo con capelli lunghi, vestiti trasandati e
cappellaccio in testa aggirarsi tra le case, scese dall’auto, lo fermò e gli
chiese le generalità.
“Sono Bob Dylan” rispose.
E la poliziotta, guardandolo con sufficienza, replicò:
“Sì, e io sono Marilyn Monroe”.
Gian Luigi Ago
(fonte: https://gianluigiago.wordpress.com - segnalato da: Roberto Faina)
link:
https://gianluigiago.wordpress.com/2016/11/17/perche-dylan-non-va-astoccolma/