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La collina di Malakie Dun
versione negativo ridotta
PAOLO PARI
2009-
-2010
PAOLO PARI
La collina
di Malakie Dun
Una storia fatta a pezzi
versione normale
versione normale
Via Piero della Francesca 42 - 20154 Milano
www.dbooks.it
versione per applicazioni ridotte
Copyright 2010 Dbooks.it
Editing: Luigi
Lo Forti
versione negativo
Copertina di: Antonio Dessì
versione negativo ridotta
La Collina di Malakie Dun
NOTA DELL’AUTORE
La collina di Malakie Dun è una raccolta di fatti misteriosi accaduti nei primi
anni del... (nel ritrovamento delle carte manca una data attendibile dello svolgimento dei fatti), in un paese che in origine era conosciuto col nome di Caw Town
(il paese è stato così nominato in alcune transazioni originarie del bestiame dai
primi cittadini del luogo, oggi probabilmente possiede un altro nome, tuttavia non
si conosce né a quale regione, nè a quale stato farlo risalire in quanto la cartina
ritrovata non fornisce indizi specifici).
L’autore ha scelto di far precedere i racconti da due indici.
Un indice Nero che rivela l’ordine delle storie nella sequenza occasionale in cui
gli sono state raccontate e quindi successivamente disposte nel libro.
Un indice Bianco che suggerisce invece l’ordine di lettura per meglio comprendere l’origine del mistero della collina di Malakie Dun.
Al lettore, come sempre, l’arbitrio di scegliere il proprio percorso.
Walter Stoyen
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Una Storia Fatta a Pezzi
INDICE NERO
-
La guarigione
-
Matmalamanu
-
L’odore
-
Uomo blu
-
Jhoansonn ‘quattro secondi’
-
All’incirca
-
Ad opera del dolore
-
L’allucinatore
-
L’uomo e la cimice
-
Epeira
-
Al vecchio ponte
-
Malakie Dun
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La Collina di Malakie Dun
INDICE BIANCO
-
Malakie Dun
-
Epeira
-
La guarigione
-
Uomo blu
-
Jhoansonn ‘quattro secondi’
-
Ad opera del dolore
-
Matmalamanu
-
L’allucinatore
-
L’uomo e la cimice
-
L’odore
-
Al vecchio ponte
-
All’incirca
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Una Storia Fatta a Pezzi
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La Collina di Malakie Dun
LA GUARIGIONE
Lui si era alzato.
Non era mutato nulla dai giorni precedenti. Quanti anni erano trascorsi! molti?
Non era importante. Dal giorno in cui morì sua madre, il tempo aveva cominciato
a smarrirsi in una regolare forma di inconsistenza. Il giorno era l’avanzo prima
della notte e la notte quello prima del giorno.
Tutto era divenuto residuo di qualcosa che aveva perduto per sempre la propria interezza. Si potrebbe dire che la sua fosse l’arida attesa d’una conclusione;
eppure, senza tempo, anche all’attesa era stato tolto ogni privilegio.
Che fosse l’infinito? Quello? Così normale, senza rotture? Infernale quanto quei
fatti di cui non è possibile risalire l’inizio quanto assurdo prevederne una fine.
Di questo lui era malato: d’un’esistenza decisagli!
Abitava solo nella vecchia casa sopra la collina, quella dietro l’immenso campo
di frumento del signor Klocher.
Il signor Klocher era l’unico con cui lui parlava a voce alta, mentre dalla finestra
lo guardava lavorare nel campo con l’asino.
Klocher non lo sentiva, era sempre troppo distante e non s’era mai avvicinato
alla sua casa, ma in un eccitante movimento del caso, quel vecchio, sopra le proprie volontà, gli rispondeva per effetto dei suoi duri movimenti campestri.
“Oh! Buongiorno signor Klocher! Vi siete alzato presto stamane! …”
E Klocher tirava una zappata forte al terreno. Quella era la solida risposta affermativa. Poi caricando in aria la zappa, guardava in cielo. Così lui dalla sua finestra
diceva: “No, no! Non preoccupatevi signor Klocher, oggi non verrà a piovere!”.
Allora lo zappatore affondava nuovamente il suo colpo pesante nella terra.
Un giorno lui si era alzato e aveva aperto l’agenda di Margaret, sua madre,
gremita dagli episodi della propria vita. Lui non ricorda cosa lo spinse a prendere
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Una Storia Fatta a Pezzi
un’iniziativa di tale avventatezza, ma, come unico frastuono nel suo silenzio irrazionale, ricorda ancora la gioia che conquistò aprendo quel diario.
Da quando la madre morì, ogni foglio, come ogni giorno, era stato dettagliatamente compilato per lui. Da chi? Lui presunse dalla madre stessa, prima che
morisse. Come faceva a sapere, lei, anche dopo la morte? Eppure… Ma in fondo
era andata sempre così: Lui era stato sempre deciso da sua madre. Ancora oggi
la morte non bastava perché ciò smettesse.
Il fatto che però gli riservò la maggiore compiacenza fu che, senza sapere di
quei precetti tracciatigli nel quaderno, sino a quel giorno, lui li aveva sempre premurosamente riveriti. Persino quello di aprire il quaderno. Proprio in quella data
era scritto:“Oggi alzati. Squarcia la mia vita”. Per tutti gli altri giorni non sarebbe
stato difficile, certo! Era sempre la stessa, ordinaria disposizione ad essere scritta: “Oggi alzati. Vai alla finestra. Parla con il signor Klocher.”
Su ogni pagina era scritto così. Lui lo attuava. Ogni giorno.
Peccato che in lui non esistesse la consapevolezza del tempo; almeno per
poter dire in quanti di quei giorni riuscì a conservare la propria fede in quella d’un
cadavere. Ma per molto, ancora per molto parlò alla finestra guardando lavorare,
lontano nel campo, il signor Klocher.
Quel mattino lui si era alzato. Aveva aperto l’agenda ed era trasalito: “Oggi alzati. Vai nella mia stanza. Impiccati”.
Allora aveva cominciato a voltare su sé stesso. Non gli servì niente chiudere
e poi riaprire le parole di sua madre. La volontà era stata decisa; a lui spettava il
naturale compimento. Gli venne un’improvvisa sete, ma i tubi erano sedimentati
nella muffa. Non c’era più acqua in quella casa. Non gli servì gridare. Andò alla
finestra per parlare al signor Klocher. Questi era nel campo ma non aveva più la
zappa e nemmeno l’asino. Guardava verso la sua finestra con quella sua faccia
livida e dilatata per via d’uno strano incidente capitatogli qualche anno prima
quando lavorava allo sfasciacarrozze.
Non aveva mai guardato nella sua direzione. Muoveva la testa in una negazione
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lenta ma continua. Diceva no? Non doveva forse rispettare quella volontà?
Allora lui disse: “Seppellitemi voi, signor Klocher. Quì nella mia casa.” Ma quello stava già venendo verso di lui, verso la sua casa. Non era mai venuto in quella
direzione. Lui restava alla finestra. Klocher entrò. Il sordo dei suoi passi echeggiava nelle sue orecchie come
un’ovatta spettrale.
Lui disse: “Io devo compiere la volontà di mia madre. Devo impiccarmi. E’
scritto.”.
Klocher non gli diede ascolto e appiccò il fuoco ad una sedia. Quella volta sarebbe riuscito a distruggersi! Presto quel legno intaccò quello delle pareti e del
vecchio piancito. In un attimo la casa agitò la sua sagoma fibrosa nell’ondulazione istantanea delle fiamme.
Lui non gridò.
Klocher non gridò.
Per una volta era riuscito a non rispettare la disposizione. Quella volontà l’avrebbe voluto impiccato, mentre, ora, per lui accadeva morte diversa. Era guarito. Il
signor Klocher l’aveva guarito. Qualcuno potrebbe obiettare che non si trattò di
guarigione, in quanto non fu lui a scegliere di soverchiare la disposizione suprema. Fu Klocher a... Ma lui scelse di interrogarlo. Lui era corso alla finestra. Lui
l’aveva atteso nella casa. E poi non gli aveva impedito di appiccare il fuoco. Aveva
scelto che qualcun altro scegliesse per lui. Non è forse una scelta anche questa?
Scegliere che qualcuno ci decida. Non è forse uno straordinario principio di guarigione? E poi nel dolore del fuoco sentì persino la lentezza del tempo. Era tornato
anche il tempo. Se si fosse impiccato nulla sarebbe mai più ritornato. Non fu forse
un eclatante principio di guarigione?
Non vi sono equivoci.
Il corpo di Klocher Towels viene ritrovato, morto per impiccagione, dal signor
Edward Kure, il proprietario dell’emporio del paese. Da tre giorni s’è tolto la vita
dopo aver appiccato l’incendio in cui morirono sua madre e il suo somaro da trai-
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Una Storia Fatta a Pezzi
no; e nel quale svanì per sempre in nera polvere la sua vecchia casa sulla collina,
quella dietro l’immenso campo di frumento.
Sul tavolo, appena sotto il suo corpo pendulo dal soffitto, viene rinvenuta
un’agenda. In data corrente, con calligrafia materna, declama: “Oggi viene ritrovato il tuo cadavere.”
La madre di Klocher
La vecchia casa del mulino sopra la collina
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La Collina di Malakie Dun
MATMALAMANU
Alan Cavin si alzò dal letto, prese il suo cappello da sopra la scrivania e frugò
nelle tasche della giacca del fratello più grande che dormiva da poco più di un’
ora. Non stava cercando denaro, in vero non stava neppure frugando, stava lasciando un addio, una decisione presa.
Nella tasca del fratello, Alan, lasciava una lettera di sole quattro righe. Breve
coincisa e semplicemente incredibile. Guardò Alfred, dormire inconsapevole, con
quella sua faccia grossa e serena, dispensatrice anche nel sonno di buona vita.
Ma da quel giorno non sarebbero più bastate le sue parole serie a spiegare un
male sostenibile. In quel giorno appena iniziato, Alan seppe che nulla sarebbe più
bastato a trattenerlo dal suo desiderio.
Scese, senza fare rumore, dalle scale dello scantinato che portano direttamente al cortile sul retro. E’ lì che trascorreva la notte il suo due ruote ereditato dal
padre di suo padre. Una leggenda della strada, a quanto si ricordava Alan dai
racconti del vecchio. Quello fu il favore più bello che ricevette in tutta la sua vita.
La moto era ancora contenuta da un telo color sabbia con qualche macchia d’olio
più scura, e la sua sagoma ricoperta faceva ancora più impressione.
Alan non stette molto a pensare. Messo a nudo l’antiquario a motore, vi caricò
le sacche sul retro e vi montò. Appena superata l’aia dopo casa, cavalcò di tallone, per almeno tre volte, la pedalina dell’accensione, e la moto si svegliò di colpo.
Partì.
Lo attendevano i suoi compagni alla vecchia casa abbandonata sopra la collina. Lo aspettavano Manuel, Matt e Reve, coloro con i quali la sua tremenda aspirazione avrebbe compiuto il grande slancio verso il vero.
Sulla strada, a quell’ora del primo mattino, non c’era nessuno. Soltanto la vecchia signora Lise sull’uscio di casa, a nettare verdure; il vento in faccia, così forte
che pare ti gridi addosso la sua direzione, sempre opposta alla tua; e il rumore
della motrice vibrare nella braccia e nelle gambe come se nelle vene potessero
scorrere, portandole al cuore, le scosse della velocità e della potenza! ‘Vai, vai,
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Una Storia Fatta a Pezzi
Alan… Sempre più forte… Vola via e non pensarci. Vai Alan e non pensare, non
ti girare mai! ’. I suoi occhi si strizzavano di vento e lacrime, il suo cavallo aveva
raggiunto il limite delle sue forze, ma nessuno dei due sembrava volersi abbandonare all’ esaurimento.
A poche centinaia di metri, in linea d’aria, dal punto di adunata sulla collina,
Alan fermò la sua moto proprio in cima al Crestaverde, il picco più alto del colle
che domina il paese. Appena sotto l’immensa veduta, si spalanca un anfratto da
cui emergono soltanto le punte dei pini secolari.
Quel giorno, però, non furono la curiosità, l’avventura, a spingere Alan sulla
cima. Quel giorno giunse soltanto per guardare.
Guardò la lontananza, quella che più è vicina e più non riesci a distinguere;
quella del paese, dei suoi tetti caduti in ordine a valle come rovine sgretolatesi
del monte. Guardò le nuvole e il loro mischiarsi in fondo al cielo, la loro forma mai
uguale, e il bosco fermo, immobile, eppure così sfuggente a tutto che, se l’abitudine a vederlo sempre lì non interdisse alla nostra ragione, lo scopriremmo come
uno dei più grandiosi miracoli terreni. Guardò tutto, Alan, e non volle perdere nulla
ora, di ciò che avrebbe perduto poi. In quell’attimo scopriva la pienezza e la totalità che solo l’abbandono riesce a conferire alle cose. Ma non pianse. Ogni abbandono, così gli disse Manuel, ogni abbandono attua un’origine. Non si partirebbe
mai se non si trovasse un qualcosa da lasciare. E quando parti nuovamente, nulla
di ciò che hai trovato prima ti può seguire, nulla! Perché ogni tasca deve svuotarsi
prima d’essere riempita ancora, ancora e poi ancora; così diceva sempre Manuel:
‘ l’unica tasca che non puoi svuotare, e nella quale tutto è sempre contenuto,
sei tu stesso, il tuo cuore.’
Ora Alan, sulla collina, sul monte più alto, stava riempiendosi quella tasca misteriosa, voleva metterci dentro tutto, non lasciare nulla che poi, partendo, avrebbe dovuto togliere da tutte le altre tasche.
Guardò anche tutta la sua motocicletta: le impugnature dello sterzo logore di
mani, il pezzo di spugna grigia penzolante dalla sella nera, gli spruzzi di fango sul
treppiede e il serbatoio rosso, caldo di sole, unto e profumato di miscela; le gomme alte e i raggi fitti e sottili come lame di pioggia intrappolate in un cerchione
selvaggio. Quella moto che vuol dire cammino, quella moto che vuol dire vita ed
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evasione, rotta incessante, quella moto che vuol dire Alan! Alan la guardava ed
essa entrava nella sua grande tasca, la ricopriva col telo, la accarezzava e l’assicurava a se stesso per sempre.
Scese dal motore; ne liberò le sacche dal laccio, e accompagnò il suo fedele
cavallo al burrone; lo lasciò cadere lentamente nel vuoto: prima lento, poi confuso, subito veloce. Cadde e rotolò nel precipizio, sbucava dalla polvere della sua
caduta facendo un rumore di morte metallica e rimpiccioliva sempre di più. Batté
sulla guglia d’un albero, poi, un ramo ribellandosi all’incurvatura del suo peso, la
fiondò contro un altro tronco, di più non si vide; solo il rumore franante di alberi
continuò ancora, come il tuono dopo il lampo, a dilatare l’evento.
Alan, in quel salto guardò morire la sua storia e la rese immortale.
Ora doveva andare.
S’incamminò a piedi con le sacche sulle spalle e in poco meno di mezz’ora fu
alla casa dell’incontro.
Reve era ricurva contro il muro della baracca, avvolta in braccia e gambe; forse
stava dormendo o fingeva di farlo per difendere la sua legittima preoccupazione:
a lei era richiesta più forza di tutti gli altri.
Dalla casa invece si udivano brevi risate; la voce inconfondibile di Manuel e il
silenzio e lo spirito invisibile di Matt. Quest’ ultimo fu, dei quattro, il primo a dare
forma concreta al loro sogno; lui li fece capire, li aiutò a non voltare le spalle al
sogno. Fu lui a divellere i loro ripari, le loro paure; entrò nelle loro teste passando
per il sangue e l’aria, entrò loro dentro e li fece sedere, li interrogò, li investigò, e
scoprì la loro eccitazione. Lo spasimo che mascheri ogni giorno con un saluto e
con un intento, quello stesso che in certi giorni ti sembra sparire, eppure sta solo
ordendo il ritorno più violento verso la tua illusione. Matt scoprì ognuno di loro in
sé stesso e diede un’altra possibilità alla loro vita dandola alla propria.
Il cielo era azzurro, raffinato a terra dal madore dell’erba; tutto sembrava congiungersi sul breve ponte del mattino. Sulla sua balaustra s’appoggiavano rimiranti i giovani passeri scrollandosi il fresco del volo dalla morbidezza delle piume
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del petto. Così piccoli eppure così in grado di percepire tutto senza perfino accorgersi di niente.
Alan giunse da un sentiero del bosco, proprio ai piedi della lieve altura su cui
nasceva la vecchia baracca. Rallentò il passo, perché in quel tragitto avrebbe
dovuto pensare a come si presenta un uomo che non ha avuto timore della propria scelta durante la notte; cosa dice un uomo che non conosce il suo domani?
e come guarda, un uomo che si sta per allontanare? Alan pensava a dove mettere le braccia; se lasciarle penzolare ai fianchi nell’anonimia della stanchezza; se
conservarle al petto nell’impronta della serietà, o se lanciarle avanti a parlare di
sé al posto della sua voce. Pensava alla propria bocca e alla propria voce, al suo
tono: indifferente come chi non prende decisioni ma lascia ch’esse lo prendano
durante la disattenzione del sonno. Oppure quel tono grave, vicino a colui che
domina la situazione ma conosce il limite delle proprie forze e richiede fermezza
per non vedersele esaurire, col tempo, a scapito della tenacia. A questo pensava
Alan, senza rendersi ragione che ai suoi occhi non poteva che decidere la verità!
Reve non s’ accorse del suo passaggio, forse stava davvero dormendo. Alan
entrò nella casa senza bussare e si fermò appena dopo la soglia. Un flabello di
luce bianca scorse stretto sul pavimento per dilatarsi poi tenue sul tavolo dove
sedevano Matt e Manuel.
“Bene ora ci siamo tutti... non perdiamo altro tempo.” Matt non salutò Alan
nemmeno con ironia; lo guardò come si guardano le cose scontate, senza importanza, perchè Matt aveva capito che era quello di cui Alan aveva bisogno: sentirsi
infallibile! E nient’altro gli avrebbe conferito tale sicurezza se non il lasciare che se
la procurasse da solo!
Matt chiese a Manuel di andare a svegliare Reve. In poco tempo avrebbero
dovuto, secondo gli accordi presi la sera prima, leggersi a vicenda, uno alla volta,
la copia della lettera lasciata a chi si stava abbandonando per sempre. Ognuno
di loro avrebbe lasciato scritto il senso dell’evasione; e quel senso come acqua
attinta dal medesimo pozzo, sarebbe stato per sempre, per ognuno di loro, lo
stesso motivo di partenza, di inizio e qualora di fine.
Reve entrò sfregandosi gli occhi dal sopore e dalla nuova luce scura della casa;
si sedette attorno al tavolo, al fianco di Manuel.
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La Collina di Malakie Dun
Matt prese nuovamente parola, rivolgendosi proprio a quest’ultimo:
“Manuel!” disse con tono ordinante.
Questi trasse di tasca il suo foglio arrotolato, lo spiegò stirandolo fra l’altezza
delle mani e cominciò a leggere le sue parole:
‘Eccomi madre, eccomi padre!
Sono Manuel Weyss, figlio di due splendidi ragazzi innamorati. Giovani come
è giovane ogni giorno il giorno; non so ancora cosa mi stia aspettando dietro alla
porta socchiusa di queste mie parole, così come non conosco tremolio nello scriverle. Ma so che non è un giorno strano questo, in cui svegliandovi scoprirete un
nuovo modo di scegliere: il mio! Voi avete sempre scelto per ciò che vi ha fatto
sentire uniti, oggi io scelgo per ciò che non sono mai riuscito ad unire dentro di
me! Per questo parto. Non è la vostra colpa, né il vostro inconsapevole merito a
essersi combinato al mio decreto: sono io ed io soltanto che sto andando a cercarmi. Non tornerò mai più, per questo vi prego di non piangermi e di non sprecare sofferenza per una speranza o una ragione che non sarà comunque mai accolta
dalla realtà! Sono estinto! E voi avete la fortuna di poterlo sapere e di saperne il
motivo. Quale altro figlio potrà mai spiegare a suo padre il perché della sua scomparsa? Nessuno. E sapete perché? Perché nessuno conosce il motivo, a meno
che non lo scelga egli stesso. E quale altro figlio potrà mai spiegare l’origine del
suo vivere, che non sia il ventre di sua madre? Nessuno. E sapete perché? Perché
non esiste altra radice alla vita che non sia il ventre d’una madre; a meno che un
giorno non si decida di morire e di rinascere per conto proprio, con la sola maternità dei nostri giorni e del nostro nuovo viaggio.
Oggi non avete perduto un figlio… ne è fiorito uno imminente, ma che voi non
potrete mai conoscere lontano da queste mie parole!!
Eccomi madre! Eccomi padre!’
Manuel
Manuel chiuse la sua lettera riarrotolandola fra i pugni; manteneva la testa bassa e gli occhi sul tavolo.
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Matt intervenne:
“Sono buone parole, Manuel; parole sincere e folli! In esse non è detto il vero
motivo della tua scelta, ma solo il beneficio che dovrebbe dare a te e a chi ti ama!”
“Hai ragione Matt!”, rispose pronto Manuel “per questo ho lasciato un altro
scritto nella cucina di mia sorella. Le ho nascoste nella manica della maglietta che
indossava.”
“E’ a tua sorella che hai comunicato la ragione della tua volontà?”
“Sì, Matt! Soltanto a lei.”
Matt fece una brave pausa;
“Per quale ragione Manuel oggi hai scelto di andartene per sempre?”
“Soltanto a lei… Matt!”
“Non puoi Manuel, lo sai, conosci le regole: ognuno di noi deve conoscere il
motivo degli altri che partiranno con lui!”
Manuel alzandosi di scatto in piedi, rovesciando la sedia alle spalle, e trattenendosi alla sponda del tavolo coi due pugni non si contenne e si mise ad urlare:
“Soltanto a lei, Matt… soltanto a lei, soltanto a lei!!”.
Abbandonò il tavolo e si dispose in ginocchio contro la parete di fronte al tavolo
senza deplorarsi in lacrime.
Matt lo fissò per qualche secondo. Scrollò due volte il capo poi guardò Alan,
dall’altra parte, che prontamente comprese la sua volta e iniziò a leggere il suo
pezzo di carta già stirato sul tavolo; quelle parole abbandonate nella tasca di Alfred.
‘Ti amo Alfred! Me ne vado perché sono innamorato di Reve, e non posso lasciare che se ne vada per sempre da me, foss’anche solo un mio illuso rincorrere,
è pur sempre amare! Troverai la mia moto a valle della collina più alta, distrutta
dalla caduta. A tutti dì pure che sono scomparso per una dannatissima distrazione, quella stessa per cui tutti mi hanno sempre ritenuto divertente! Sono caduto in
fondo al precipizio con la mia moto e là sono sepolte le nostre anime. Dì a tutti che
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non torneremo più perché siamo morti, solo così ci crederanno davvero! Sono
morto davvero, Alfred: anche per te!
Ti amo Alfred. Addio.’
Alan Cavin
Alan chiuse di scatto la sua copia e non guardò in volto nessuno. Dopo qualche istante di silenzio, un’anta della finestra alle loro spalle sbatté prima contro il
muro, poi, più violenta ancora, ritornò al suo incastro. Il vento stava spiando.
Matt si rivolse dunque a Reve con lo sguardo. Reve era il motivo della partenza
di Alan e non riusciva ancora a parlare. Fissava Alan con l’immobilità negli occhi,
con le labbra socchiuse di stupore. Reggeva in mano il suo foglio stropicciato, ma
non riusciva ancora a leggerlo.
“Bene Reve, leggerò io la mia fede, così avrai il tempo per riacquistare la tua!”
Matt Lo disse in modo secco e slegato, deciso, cinico e importante. Poi lesse.
“Io non lascio nessuno, non abbandono nessuno, nessuno mi perde. Per questo scrivo a me stesso!
‘E’ più difficile andarsene senza avere qualcuno da dimenticare, perché è meno
definita la partenza, l’origine e il nuovo a cui si decide conoscenza. Io non lascio
nessuno se non un ennesimo io che è già partito da giorni e giorni. Parto lasciando un vecchio “parto”, che a sua volta lasciava un altro “vado”. E’ più difficile continuare ad andarsene, senza conquistare mai quella consapevolezza della
partenza. Il mio porto è già lontano, la mia barca è già lontana, solo il sole vede
la distanza di entrambi e nemmeno la sua luce riesce a colmarla. Io sono il mio
oceano, in cui mi perdo senza allontanarmi, senza mai partire. Quella che per voi
oggi è una follia, una tragedia che cercherete di conservare nel vostro sentimento,
e nella vostra vita, per me non è che un minuscolo ceppo di normalità. Voi potete
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partire, voi soli! Perché avete chi e cosa lasciare, possedete il rimorso della vostra
scelta e quel rimorso vi rende veri viaggiatori. E’ una dote, la sofferenza. Voi siete
coloro a cui è concesso di avere paura, perché con essa conoscerete il vostro
coraggio. Io non posseggo né l’una né l’altro. Eppure me ne vado ancora. Io sono
l’oceano. Ecco il mio motivo. Cercare di trovare il fondo d’esso passando attraverso la superficie della mia storia. Mentre mi vedrete camminare con voi, sarò
fermo. Mentre voi sarete stanchi io sarò riposato. Quando voi sentirete mordere
allo stomaco il significato della vostra scelta, il rimpianto d’essa e poi ancora la
voglia di ingannarvene per sempre come fate ora; quando in voi si consumerà, di
minuto in minuto, la contraddizione di voi stessi che vi arricchisce dal fondo del
patimento sino al picco dell’esaltazione, io non sarò ancora partito e sarò come
un sasso lanciato in un fiume desolato, un sasso che non fa più un rumore che
qualcuno possa udire.
Ecco il mio motivo: io…voi e la sordità della mia vita! Per questo parto.’
Matt Truksor
Alan intervenne quasi senza lasciar pausa allo scritto del suo compagno:
“Matt…tu parti con noi! Non avrei mai preso la decisione di andarmene senza
la certezza che tu fossi stato con noi: in qualunque modo. Riuscirai a trovare il tuo
fondo Matt, te lo prometto!”
Matt non si smise; accartocciò la sua lettera e la lanciò ai piedi di Manuel che
nel frattempo si era spostato alla finestra, per chiuderla, con le spalle voltate ai
compagni. Poi riprese lo sguardo interrotto a Reve. La giovane si guardò intorno,
sospirò tre volte mondando la voce in gola e iniziò:
“Non …n..non..non so come…come cominciare!”
“Comincia con ciò che hai scritto Reve!” disse Matt.
“Già.. non ho scelta! Ma non sono riuscita a scrivere nulla.. Bene.” Disse Reve
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socchiudendo le palpebre.
“Io non posso partire… credetemi ci ho pensato tanto, ho pianto tutta la notte
e tutti i giorni che l’ hanno preceduta. Voi tutti avete un motivo. Certo! Anche la
vostra decisione sebbene sia motivata è comunque un azzardo… ma… ma, io
non posso allontanarmi dalla mia casa, dalla malattia di mio nonno; e poi quando
morirà, io dove sarò, come farò a sapere di dover piangere?...”
Manuel la interruppe con impaccio: “ Ma.. tuo nonno è morto anni fa, Reve…il
pozzo, ricordi?...”
Ma Reve fu come se nemmeno se ne accorse e continuò:
“… E Quando mio padre avrà bisogno di me io dove sarò? Mi basterà mai
abbracciare un ricordo? Ho pensato tanto a Matt, perché per lui provo amore,
sebbene abbia sempre cercato di non svelarne. Ma poi quando mi guarda e mi
legge dentro come una luce senza ombre, provo paura e quella paura infiamma
ancora maggiormente il mio amore, la voglia di aspirare dalle sue labbra il sublime
vapore di ciò che ha visto in me; ma quello strano amore non si trasforma e rimane paura. Oggi inoltre apprendo dalle parole di Alan che io sono il suo motivo di
fuga! Proprio io che non riesco a fuggire, divento l’imperscrutabile ragione d’ una
follia amorosa, d’una partenza! Ma chi ha pensato a tutto questo? Chi ha unito
le nostre strade e ora come se fossero di carta scende con le mani fradice d’un
temporale e decide per noi la nostra tragedia? E’ Dio? …io non mi sottrarrò alla
mia vita, giacché solo la volontà di pensarlo mi ha resa incerta e tremolante. Mio
padre ha detto: l’ultima foglia desidera staccarsi dal proprio ramo per diventare
un albero, ma poi oscillando da un suo braccio nell’aria, s’accorge delle altre foglie a terra e capisce che il vero pericolo è non capire d’essere già albero mentre
gli si appartiene e già morte quando non gli si appartiene più!
Perdonami Alan… se avessi saputo, te ne avrei parlato molto prima, ma non
sono mai riuscita a sfogliare i tuoi occhi da vicino e non … io non… perdonatemi
tutti ma io non posso partire!!”.
Alan restava fermo. Un freddo affilato, ma inesistente nell’aria, lo raggelava.
Ecco tutto il suo senno, la comprensione nel suo fare, ecco come aveva dimostrato in un solo istante tutta la sua precaria fragilità. Ora se ne stava stralunato
a fissare un vuoto di acciaio: ignoto, estraneo. Ora aveva perso il motivo; il suo si
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Una Storia Fatta a Pezzi
era fermato ancor prima di partire, e così Alan scoprì di non avere una causa, la
sua era sempre stata Reve!
Ora, senza l’amore, ancora fasciato nel drappo della speranza, senza quell’immagine che noi diamo a noi stessi della nostra aspettativa, frantumata dalla rivelazione della realtà, Alan conosceva la disperazione.
Matt intervenne sbalordendo quanto più non era pensabile dalle ultime parole
di Reve:
“Bene, Alan, soltanto ora possiedi un tuo vero motivo per partire!”
La stima e il richiamo della figura di Matt, quell’orlo seducente e cupo della sua
voce colpirono bene! Assomigliarono a due braccia capaci di strozzare per dare
ossigeno.
Alan trovò la forza di alzarsi e di uscire dalla porta senza una parola. Manuel nel
passaggio gli strinse il suo sostegno all’avambraccio, quasi per trattenerlo, quasi
per lasciarlo andare.
Reve reggeva la testa sull’asse del gomito e della mano infilata fra i capelli.
Come fu incantato il suo silenzio, la sua timidezza, il suo immenso, violento lascito. Come fu bella.
“E’ la tua decisione Reve, raccoglierai da sola, in frantumi, il resto di ciò che ti
rimane da vivere.” Così concluse Matt.
Reve s’abbandonò ad un pianto che ormai da troppo tempo s’era inutilmente
nascosto dietro le sue parole meditate. La testa crollò dalla mano sull’incurvatura
del gomito, e i capelli come una cateratta d’un albore scuro, inondarono parte del
tavolo.
Matt fece col capo un breve cenno a Manuel. Questi guardò in alto e strizzò il
labbro fra i denti sino ad illividirlo. I suoi pugni consumavano aria come se ad essa
ci si potesse attaccare per tornare indietro, ma intanto, ligie e trascurate, le sue
gambe trasportavano, senza fermarsi, il suo corpo verso il canapo appeso allo
steccato dei tegami.
Matt si alzò lentamente dalla sua sedia.
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La Collina di Malakie Dun
Da fuori non si udì nulla.
Alan stette ancora per qualche minuto a guardare il sole crescere sopra il bosco. Poi scelse di entrare e affrontare il piccolo corteo di disperazione che gli si
era dischiuso in un lampo di sguardi e parole.
Alan non immaginava ancora.
Quando riaprì la porta della casa, dal soffitto, vide, già estinto, con gli occhi risucchiati dalla fronte e la lingua stagliata viola nel pallido del viso, il corpo di Reve
oscillare come quella giovane foglia dal ramo a cui è stato deciso, suo malgrado,
l’ abbandono del proprio albero. Le sue mani come essiccate di vita restavano
rigide al fondo di braccia pesanti, mosse ormai soltanto dall’ inerzia della fune. I
piedi subivano ancora qualche sussulto dal principio delle ginocchia: la nervatura
che ancora non trovava pace fra le pareti d’un corpo che ormai aveva smesso di
lottare.
Alan disse:
“Ora ho un motivo per partire!”
Matt rispose:
“…io soltanto per non tornare!”
Manuel guardava la sua compagna, appesa in alto, non cambiare espressione.
Cercava a terra i frantumi di Reve. Non riuscì a dire nulla, soltanto gli parve che le
dita delle sue mani indicassero il numero tre.
Sulle pareti, col sangue delle braccia di ognuno, i tre scrissero: ‘Matmalamanu’
che in lingua nera significa: la mano giovane del diavolo.
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Una Storia Fatta a Pezzi
Scorcio del rifugio dove è stata trovata impiccata Reve Miller
Reve Miller un anno prima della sua scomparsa
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