Welfare condiviso

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Welfare condiviso
Welfare condiviso
La ridefinizione dello spazio pubblico
nella progettazione partecipata
di
Michela Pace
Paper for the Espanet Conference
“Innovare il welfare. Percorsi di trasformazione in Italia e in Europa”
Milano, 29 Settembre — 1 Ottobre 2011
Michela Pace, Università Iuav di Venezia
Esplorare il legame tra politiche, soggetti, depositi fisici e di significato è un’operazione tanto
complessa quanto delicata, poiché chiama in causa gli strumenti della città contemporanea nella
definizione dello spazio pubblico. Questa operazione è tanto più interessante se riferita al contesto
europeo dove, tra il XX e XXI secolo, gli spazi del welfare si sono definiti come luoghi per la
socializzazione, le attività comuni e i servizi, tanto importanti da trasformare il territorio in termini
qualitativi e depositare, assieme alle forme fisiche, anche immagini e valori culturali.
In Italia, la costruzione e la trasformazione di luoghi collettivi nella città contemporanea
evidenziano una distanza spesso marcata tra le politiche sociali e il «progetto dello spazio fisico e
delle attrezzature» collettive (Tosi 2010). In particolare, superati gli anni in cui sia gli interventi che
le rivendicazioni legate a questi spazi assumevano un carattere prevalentemente unitario e ad ampio
raggio, quello a cui si assiste oggi è il moltiplicarsi di voci, soggetti, iniziative legate alla richiesta
di benessere, parallelamente alla frammentarietà che coinvolge la dimensione urbana e sociale.
La scarsa attenzione dedicata ai luoghi collettivi trova una delle sue ragioni principali proprio nella
difficoltà di concretizzare una risposta adatta ad una realtà tanto mutevole e varia: la velocità con
cui si trasformano le esigenze e le aspettative legate alla domanda supera di molto la velocità di un
sistema necessariamente burocratizzato (Secchi 2010), spesso in ritardo, che abbandona facilmente i
progetti per mancanza di fondi o dopo ogni cambio di amministrazione, e che a volte sembra
occuparsi con pigro senso del dovere alla destinazione di quantità, escludendo dal cambiamento
quelle stesse tensioni che lo generano e lo tengono in vita.
Tuttavia, se da un lato non si può più credere che i servizi sociali siano uno strumento privilegiato
dello Stato per rimediare ai processi disgreganti innescati dal mercato (Clementi 2010), dall’altro si
nota come, ultimamente, il ritrovato interesse per gli spazi del welfare abbia spinto diversi soggetti
ad un dialogo più intenso e spesso proficuo. La conversazione su questi temi evidenzia come il
welfare non sia più una prerogativa delle sole istituzioni, ma una questione diffusa e accessibile: la
partecipazione di interlocutori esterni alle amministrazioni non è concessa ma ricercata, tanto che la
legittimazione e la riuscita del progetto sembrano a volte dipendere dalla reciproca consultazione.
Questo simultaneo movimento delle parti non è necessariamente fruttuoso ma, per così dire, agita la
soluzione, infittendo la rete di legami tra i componenti e provocando una reazione trasversale alla
dimensione fisica – perché agisce contemporaneamente a scale differenti - e relazionale – perché
coinvolge gruppi più o meno formalizzati. Parallelamente, chiama in causa l’idea di capitale sociale
che si produce investendo in beni collettivi, e ci impone di riflettere sulle forme, le quantità, ma
soprattutto sulla qualità di questi spazi come generatori di senso del vivere in comunità (Pomilio
2009).
Il ruolo della progettazione spaziale, in questo contesto, è tanto più importante se si assume
l’ipotesi, avanzata da Bernardo Secchi, secondo cui l’urbanistica ha definito il suo carattere
disciplinare attraverso la «paziente ricerca delle dimensioni fisiche e concrete del benessere
individuale e collettivo» (Secchi 2006). Il rapporto tra città e welfare si basa sulla possibilità che
quest’ultimo sia «rappresentato e praticabile» nella sua dimensione fisica oltre che in quella
regolativa, legata cioè a facilities e «benefits» ad accesso controllato (Baiocco in press): la
dotazione di servizi per la città riguarda l’articolazione di strategie molteplici legate all’evolversi di
pratiche e contesti differenti, oltre che la più semplice costruzioni di edifici pubblici, la cui
distribuzione nel territorio è talvolta legata a politiche generali e coprenti. Molto spesso queste
stesse politiche fornisco, per così dire, un prodotto del «welfare settorializzato» (Munarin, Tosi in
press), per cui il singolo edificio diventa depositario simbolico dell’offerta, destinato tuttavia a
rimanere isolato - risposta temporanea ad un bisogno temporaneo - se non pensato come parte di
una politica strutturante e diffusa. La «spazializzazione dei servizi» va intesa invece come un
possibile strumento in grado di costruire e consolidare i rapporti tra istituzioni e cittadinanza e
capace di sostenere opportunità individuali e collettive legate alla partecipazione, all’uguaglianza e
più in generale all’esercizio dei diritti nel lungo periodo. In questo senso, la «modellazione» della
materia urbana attiva localmente alcuni spazi pubblici preservando l’unicità dell’intervento così
come la sua occasionale estemporaneità, ma contribuisce contemporaneamente alla definizione di
una risposta diffusa, che punta sulla molteplicità più che sulla specializzazione, sulla flessibilità
piuttosto che sulla sorveglianza e investe sul rapporto tra capitale urbano e capitale sociale
attraverso il coinvolgimento del pubblico. Se si assume poi che il rafforzamento di una cultura è
inseparabile dalle condizioni spaziali in cui vive la società stessa, e che i progetti di modificazione
di alcuni ambienti sono la prima azione tangibile che essa può comprendere e fruire, diventa ancora
più chiaro come il progetto dello spazio del welfare sia un fattore chiave non solo per interpretare la
storia della città ma anche per promuoverne lo sviluppo. Nella definizione delle sue forme, in
questa «modellazione» che fa coincidere politica di welfare e politica urbana, la qualità spaziale
diventa un concetto complesso perché deve fare i conti con una serie di fattori tutt’altro che
immobili ed omogenei, se pur egualmente importanti. Gli interventi devono considerare anzitutto un
contesto in evoluzione, che si trasforma a volte in modo controllato, altre in maniera indipendente e
spontanea; in secondo luogo una realtà «transcalare» che si muove in tempi differenti, dove accanto
alla piccola scala, più maneggevole e pronta al cambiamento, devono essere valutati i movimenti
lenti della cosiddetta «area vasta»; infine l’inevitabile integrazione dei settori coinvolti e la
negoziazione tra i bisogni e gli strumenti che i diversi attori mettono in campo come parte
fondamentale per la definizione degli interventi e per la «legittimazione della loro validità sociale
ed economica» (Baiocco in press).
A partire da queste riflessioni, alcuni casi oggetto di studio a Mestre e in particolare quello di via
Piave hanno fornito l’occasione per osservare quali aspettative, quali strumenti e quali azioni i
diversi soggetti intraprendono nello sforzo di restituire qualità agli spazi collettivi.
Il rapporto tra welfare e urbanistica prende forma attraverso lo sviluppo di «pratiche di socialità»
(Munarin, Tosi in press) e la ridefinizione dei luoghi in cui esse possono esprimersi e maturare; le
biografie di questi spazi, i materiali e le cronache che li attraversano raccontano la volontà di
lavorare e riflettere sulle condizioni dell’abitabilità attraverso la riscoperta di un benessere non più
solo privato. I contributi si sommano e variano nel tempo così come i luoghi di progetto e le
condizioni di partenza, ma proprio questo alternarsi di voci, esperienze ed interessi definisce il
welfare non come un prodotto fisso ma come un bene ampliabile e condiviso.
Attraverso una serie di esplorazioni preliminari compiute all’interno della Direzione Politiche
Sociali Partecipative e dell’Accoglienza (Area Politiche Sociali del Comune di Venezia), sono stati
considerati gli attori (amministratori, tecnici, associazioni, abitanti), i materiali (sezioni stradali,
attrezzature, spazi pubblici) e gli strumenti attuali e potenziali (politiche, piani, regolamenti) con cui
viene costruita e trasformata concretamente l’infrastruttura collettiva dello spazio del welfare. «Tali
esplorazioni sono pensate come uno strumento di lavoro per mettere in tensione un approccio di
tipo analitico-comparativo con uno di tipo immaginativo-progettuale. Il loro obiettivo consiste nel
fornire gli strumenti non solo per interpretare, ma anche e soprattutto per rendere praticabile un
tema così articolato e sfaccettato, che chiama in causa lo spazio quotidiano abitabile della città
contemporanea» (Pace, Renzoni in press).
Lo strumento della mappatura, spesso assente nella gestione dei progetti e delle attività che fanno a
capo alle politiche sociali, ha permesso di mettere in evidenza non solo le quantità delle
trasformazioni, ma di collocarle anche temporalmente, chiarendo le ragioni di alcuni scostamenti
programmatici: le finalità con cui nascono i progetti, così come alcuni servizi sociali, sono
continuamente soggette alle aspettative di attori differenti e agli strumenti che essi chiamano in
causa, siano essi materiali, legislativi o legati all’immaginario collettivo, al significato, al valore dei
luoghi. È necessario infatti tener conto della variabilità di alcuni fattori: le condizioni cambiano
continuamente sia in relazione agli obiettivi perseguiti da attori singoli o collettivi che ai diversi
modi di concretizzare nel territorio valori culturali e funzionalità tecniche.
Questo processo non deve essere visto però in semplici termini di causa-effetto: ogni azione
riverbera i propri esiti con intensità ed in tempi differenti, cercando un equilibrio continuo tra
l’alterazione della forma fisica e quello della realtà sociale (Calafati, 2000).
Quali sono, in questo contesto, le ricadute sistemiche e puntuali nella costruzione e gestione delle
politiche sociali pubbliche? I bacini di utenza, il raggio di influenza che tali interventi sono in grado
di mettere in gioco e la dimensione dei processi che vengono innescati, sono parametri che possono
mettere in luce alcune questioni in particolare. Da un lato la committenza: da chi è composta, quali
sono i soggetti coinvolti, a quali reti formalizzate e non fanno capo, ecc. Dall’altro gli strumenti
progettuali: qual è il bagaglio fisico e spaziale cui le politiche sociali fanno riferimento nel
momento in cui si occupano di una strada, un quartiere, un gruppo di cittadini?
Dopo aver ricostruito un primo organigramma della complessa rete di attori operanti nel territorio
mestrino, sono stati seguiti tre servizi sociali, e sono state elaborate le prime mappature con lo
scopo di raccontare la complessità dei rapporti e dei processi decisionali che si attivano nella
costruzione e trasformazione dei luoghi dell’abitare e di parti di «infrastruttura collettiva».
I Servizi Sociali osservati sono: il progetto «Riduzione del danno» (Adulti / Lavoro di strada –
Interventi a bassa soglia), «Venezia città solidale» (supporto alla progettazione e sviluppo del terzo
settore), «Unità Operativa Complessa ETAM» (Sviluppo di comunità e accompagnamento di
processi partecipativi).
«Ad una prima analisi è apparso possibile identificare due geografie dai caratteri differenti: una
geografia delle sedi, più “dura” e stabile (di cui fanno parte alcune sedi operative delle istituzioni
locali, delle associazioni di cittadini coinvolte, ecc.) e una geografia dei progetti, più instabile e
temporanea, che segue movimenti e obiettivi dei diversi progetti messi in campo» (Pace, Renzoni in
press). Ne emerge una rete complessa di attori ed intenzioni, qui presentati attraverso un focus
progressivo che, partendo dalle relazioni a scala più vasta, si concentra su un servizio sociale in
particolare - ETAM, approfondendo l’analisi delle attività in corso, per poi analizzare un progetto
che ha impegnato l’unità operativa nel corso degli ultimi anni.
ETAM
L’unità operativa ETAM (Equipe Territoriale Aggregazione Minorile) è stata istituita nell’ambito
del servizio promozione e inclusione sociale del comune di Venezia alla fine anni ’80 con la prima
giunta di Massimo Cacciari.
In questo periodo e grazie alla nascita di ETAM, viene introdotta la figura l’educatore di strada,
inteso come soggetto facilitatore nei rapporti tra istituzioni e cittadini. Il ruolo degli educatori di
strada ha assunto nel tempo un ruolo importante, tanto che l’Assessorato alle Politiche Sociali si è
dotato di oltre 80 di questi tecnici e, anche se ora il loro numero è molto ridotto, essi continuano ad
avere un ruolo privilegiato nel dialogo con la popolazione (Tosi 2010). In particolare, «ETAM fa
diventare la partecipazione dei cittadini il tramite tra le politiche sociali e quelle territoriali,
attivando forme di ascolto e di condivisione dei progetti di trasformazione e riqualificazione della
città, dell’articolazione e dell’organizzazione dei servizi e delle attrezzature» (Tosi 2010).
L’importanza rivestita da questo ufficio è particolarmente significativa se si pensa che «[…] ETAM
costituisce uno dei pochi servizi di questo tipo interni a un’amministrazione, essendo questi, assai
più di frequente, affidati ad associazioni o cooperative esterne, privandoli quindi della forza e della
legittimazione derivanti dall’essere parte integrante dell’istituzione pubblica» (Tosi 2010). Ciò
nonostante, tale servizio incontra talvolta forti resistenze all’interno delle stesse istituzioni
pubbliche e da parte degli altri uffici che, se pur con finalità del tutto simili, faticano in qualche caso
a riconoscerne l’importanza.
Le esperienze e i progetti che ETAM ha seguito nel corso degli anni sono numerosi.
In particolar modo, negli anni ’80 e ‘90, ETAM si è occupata principalmente di politiche legate alla
casa e di riqualificazione urbana: tra i progetti maggiori si ricordano «Mai più periferie», il
Contratto di Quartiere della zona denominata «Altobello», i programmi legati agli alloggi protetti
per anziani e il progetto «Casa Bimbi».
Attualmente ETAM segue la riqualificazione del quartiere «Vaschette» a Marghera e ha organizzato
l’incontro degli abitanti con l’Assessorato alla casa al fine di coordinare il trasferimento delle
famiglie che vivono nei palazzi di cui si è programmata la demolizione e la successiva
ricostruzione. In quest’ottica, ETAM ha organizzato alcuni incontri tra progettisti e futuri abitanti
favorendo un utile scambio di opinioni sul progetto dei servizi e degli spazi comuni.
Un'altra esperienza che chiarisce l’importanza e l’efficacia dell’approccio di ETAM è il progetto di
ricollocazione del campo Sinti e Rom all’interno della stessa città di Mestre. In questo caso, gli
educatori di strada hanno contribuito all’integrazione della comunità nel nuovo quartiere e alla
creazione di un sito adatto alle loro esigenze: sono stati organizzati incontri tra comunità Sinti e
tecnici al fine di individuare le principali esigenze della stessa comunità ed evitare al contempo
occasioni di conflitto con gli altri abitanti (Tosi 2010).
Negli ultimi anni, assieme a progetti dalle grandi dimensioni, ETAM ha seguito la riqualificazione
della zona di via Piave, strada di collegamento tra la stazione ferroviaria e il centro di Mestre.
Ciò che caratterizza gli interventi più recenti in questa zona rispetto a quelli della fase precedente è
il cambio di dimensioni e di frequenza: si tratta di una serie di piccoli progetti che tendono ad
aumentare la continuità spaziale nel sistema di servizi e attrezzature - attraverso la trasformazione
fisica di alcuni luoghi - e la loro la frequentazione, attraverso attività di animazione.
La qualità diffusa a cui contribuiscono si perpetua proprio grazie ai differenti momenti in cui essi
hanno preso forma e dalla volontà, da parte dei vari soggetti, di tenere vivo l’interesse nei confronti
di quest’area attraverso un dibattito continuo.
VIA PIAVE
Quando parliamo di via Piave non possiamo riferirci ad una semplice strada di attraversamento, ma
dobbiamo considerare piuttosto una vera e propria area che, partendo dalla stazione dei treni,
prosegue verso il centro di Mestre ed è attraversata da una complessa rete di relazioni, avvenimenti,
iniziative. In particolar modo, la zona di via Piave costituisce uno degli elementi più delicati del
tessuto urbano e sociale della Terraferma veneziana ed è stata interessata negli ultimi anni da un
intenso dibattito a causa di alcuni episodi di microcriminalità legati alla scarsa qualità dei luoghi e
alle loro frequentazioni: casi di spaccio, prostituzione, raduni di persone definite «poco
raccomandabili», chiasso notturno, sono alcuni dei motivi che hanno spinto gli abitanti di questa
zona a lamentare un disagio collettivo e la volontà di riappropriarsi di alcuni luoghi per riqualificarli
e tornare ad usarli collettivamente. Oltre a questo, il forte incremento di stranieri residenti e di
esercizi commerciali gestiti o di proprietà di stranieri ha portato alcuni commercianti italiani a
denunciare una perdita di appetibilità della via ed il conseguente calo di frequentazioni dei negozi
nella stessa area. Un altro problema rilevato dagli abitanti del quartiere è l’abbandono delle case da
parte dei residenti. F.P., che vive in questa zona da anni e fa parte di un gruppo di volontari
impegnati nella riqualificazione dell’area, spiega: «Ci sono molti caseggiati che avrebbero bisogno
di un recupero di fondo e invece c’è la tendenza di andarsene in una casetta a schiera dove c’è del
verde, per esempio a Spinea o a Maerne anche a costo di fare un’ora di strada per venire qui.
Alcune persone, inoltre, dichiarano che la sicurezza in questa zona non è alta e poi, naturalmente,
non riescono a rivendere la casa neanche alla metà del prezzo di mercato. Le case vuote nel
frattempo vengono affittate e anche vendute e siccome hanno un costo più basso gli acquirenti son
sempre più spesso stranieri, tant’è che certe aree tendono a ghettizzarsi. Questo ha portato un certo
disagio tra i cittadini che sono qui da più tempo e molti si sono lamentati della qualità dell’area.
Nonostante la ghettizzazione sia un fenomeno da evitare, via Piave presenta in realtà caratteristiche
del tutto simili a quelle che si registrano in altre zone periferiche di Mestre, ma l’attenzione spesso
allarmistica della stampa locale, e il fatto di essere un luogo molto frequentato perché vicino alla
stazione, hanno alimentato una sorta di pubblicità dell’insicurezza che ha reso superiore la
percezione delle problematicità sia da parte dei gli abitanti che dei frequentatori occasionali. Lo
stesso calo di affluenza verso i negozi in zona semicentrale si può notare anche in altre aree assieme
alla nascita di alcuni grandi poli commerciali e all’abitudine, sempre più diffusa per molti, di
frequentarli regolarmente».
L’intervento di ETAM in via Piave ha inizio nel 2006, quando l’Assessorato alle Politiche Sociali
chiese all’Unità Operativa di prendere parte ad un’assemblea pubblica tra cittadini e istituzioni, in
cui venivano discussi alcuni temi sulla sicurezza. Durante l’assemblea, gli operatori ETAM
avvicinarono alcuni cittadini particolarmente interessati ai quali fu proposto di fondare un Gruppo
di Lavoro impegnato in modo continuativo nella riqualificazione dell’area. Come racconta I.T.,
cofondatore del Gruppo di Lavoro via Piave, «[…] il gruppo nasce da un comitato. La situazione
scatenante è stato il degrado sempre maggiore della piazzetta S. Francesco che era divenuta il luogo
di ritrovo di alcune persone con problemi di droga. Così un gruppo di cittadini (eravamo in 4) si è
riunito per vedere cosa si poteva fare, e discutendone abbiamo capito che il problema non era
isolato alla piazzetta ma era molto più diffuso. Abbiamo chiesto al Comune di organizzare
un’assemblea pubblica per sentire i pareri degli altri abitanti: è venuta fuori un’assemblea
terrificante dove i mal di pancia sono esplosi tutti insieme con disordine. All’assemblea erano
presenti la municipalità, ETAM e la questura. Dopo la riunione ETAM ha contattato alcuni di noi e
abbiamo fatto una prima riunione nel mio salotto per cercare di riassumere i problemi e capire quali
erano le possibilità; successivamente abbiamo allargato il gruppo di lavoro a tutte le persone
interessate, fatto una seconda riunione e organizzato le nostre proposte. È così che abbiamo iniziato
un percorso insieme. Eravamo una ventina, ora siamo rimasti in cinque, ma siamo abbastanza
operativi».
L’idea sottesa era quella di sollecitare un processo di consultazione e collaborazione con gli
abitanti, i commercianti e tutti gli altri soggetti disponibili ad attivarsi, e di permettere
contemporaneamente ai cittadini coinvolti di acquisire competenze per cambiare le condizioni nelle
quali vivevano in relazione ai propri bisogni/interessi e nella direzione che essi avrebbero deciso
(Martini, Torti 2003) . ETAM ha favorito, in questo senso, la partecipazione dei cittadini alla
costruzione di proposte e progetti che si ponevano come alternativa al sempre più reclamato
intervento delle Forze dell’Ordine da parte della maggioranza. Una volta convenuto che questi
interventi sarebbero stati il modo più semplice e veloce per acquietare temporaneamente l’opinione
pubblica, ma che non avrebbero risolto le problematicità dell’area poiché non proponevano alcuna
alternativa, si è cercato di considerare il valore positivo degli spazi, incrementando la loro sicurezza
tramite l’aumento di socialità piuttosto che di sorveglianza.
Come conseguenza, l’intervento ha spostato la sua attenzione da un’azione eccezionale alla
dimensione quotidiana, permettendo ai progetti di misurare i propri effetti sulla media durata, di
testare i legami tra i soggetti coinvolti, la resistenza o la mutevolezza di alcune condizioni,
accogliendo momenti di conflitto e contesa come parti necessarie alla maturazione dei progetti
stessi.
In particolare, l’amministrazione Comunale e la Municipalità di Mestre Centro hanno promosso
alcuni interventi allo scopo di riqualificare la zona dal punto di vista ambientale (parchi pubblici,
viabilità, sistemazione di alcune porzioni stradali), economico (contatti tra commercianti italiani e
stranieri) e sociale (iniziative culturali ed di animazione).
Il Gruppo di Lavoro via Piave, dall’altro lato, ha preso parte ai progetti in quanto soggetto
competente, poiché composto da cittadini residenti nelle aree oggetto d’indagine e conoscitori delle
problematiche che esse presentano. Il ruolo trainante del Gruppo di Lavoro è stato in questo senso
essenziale perché ha spronato i malumori cittadini innescando nelle persone il desiderio di proporre
soluzioni, suggerire alternative, prendersi cura di un pezzo di città come qualcosa di proprio. «Il
processo di coinvolgimento dei cittadini nel progetto di riqualificazione è diventato così garanzia di
riappropriazione del quartiere, di “adozione” degli spazi, dei servizi e delle attrezzature collettive da
parte dei cittadini, che in questo modo attenuano la sensazione d’insicurezza, contribuendo a far
percepire via Piave come luogo dignitosamente abitabile» (Tosi 2010). Un esempio in tal senso è
rappresentato dai giardini aromatici, piccole aiuole che raccolgono essenze diverse in alcuni
giardini nella zona di via Piave. Come racconta F.P.: «[…] ad alcuni di noi è venuta l’idea di
piantare delle erbe aromatiche in piazzale Bainsizza a cui tutti potevano avere accesso: potevano
prenderne se servivano in cucina, per esempio, e coltivarle. Pensavano sarebbero state divelte dopo
poco, in realtà sono passati due anni e oggi sono ancora lì. Ogni tanto ci troviamo in quattro o
cinque e le curiamo, le innaffiamo, andiamo lì con la vanga io mi diverto un mondo. Alcuni
all’inizio era diffidenti ma curare qualcosa di comune ha aiutato la socializzazione. Con lo stesso
spirito abbiamo ritentato l’esperimento vicino al Centro Civico in via Sernaglia: c’è un portone
dove si siedono sempre gli spacciatori e a noi sembrava una sorta di offesa alle istituzioni. Abbiamo
pensato di fare un’aiuola anche lì e per un anno è resistita bene. Ora se viene un po’ mossa o
calpestata noi reimpianteremo le piante, non ci fermiamo, è una dimostrazione che un cittadino non
si rassegna».
È infatti «evidente come il progetto di trasformazione degli spazi possa funzionare come deterrente
rispetto ad alcune pratiche sociali marginali, ma è altrettanto chiaro che ciò non è sufficiente se
contemporaneamente non è attivato un processo di socializzazione di tali spazi» (Tosi 2010).
In particolare, nell’esempio del Gruppo di Lavoro via Piave, la pratica delle relazioni risulta
centrale e fondante nella prospettiva del lavoro di comunità: attraverso la costruzione e lo sviluppo
di legami sociali, è possibile sostenere percorsi di fiducia e promuovere a livello locale forme di
responsabilizzazione e cittadinanza attiva (Martini, Torti 2003).
Da non dimenticare, in questo contesto, il contributo dei privati. A.M., direttore dell’Hotel Plaza,
spiega come la trasformazione del bar al piano terra dell’hotel, Soul Kitchen, sia diventata
l’occasione per fornire un servizio non solo agli ospiti dell’hotel, ma a tutti ai cittadini: «Soul
Kitchen è l’unico bar della zona a restare aperto fino a tardi, quando nella stessa area era stato
instaurato una sorta di coprifuoco. La qualità dell’intervento è diventata catalizzante, ha attratto un
certo tipo di frequentatori e sta diventando un punto di riferimento. Il problema, più generale, era
legato allo scarso interesse delle persone per i problemi della zona: sembrava che la gente accettasse
la situazione così com’è, assumendo il degrado come qualcosa di inevitabile, senza considerare la
possibilità di fare qualcosa per migliorare la situazione, anche se a volte, è vero, è faticoso, Noi
abbiamo alzato la testa come a dire no non ci sta bene questa cosa, favorire questo degrado
progressivo, io faccio il mio, poi vediamo se gli altri possono fare altrettanto».
La collaborazione tra soggetti (istituzioni, gruppi di cittadini, associazioni, professionisti) deve
essere perciò considerata non più una pratica opzionale, ma un’attività decisiva per la buona riuscita
di un progetto che trasformi il territorio in termini qualitativi depositando, assieme alle forme
fisiche, anche immagini e valori culturali.
Prendere coscienza delle dimensioni del collettivo e del capitale che esso incorpora, vuol dire
insomma considerare anche le potenzialità legate all’azione individuale, all’associazionismo, alla
capacità dei soggetti diversi di produrre e depositare forme specifiche su un dato territorio: è
necessario considerare gli spazi del welfare non come un prodotto del singolo fruibile da «altri», ma
come un atto collettivo e complesso, sensibile a spinte molteplici e in continua trasformazione.
Questo avvicinamento deve tenere necessariamente conto, come sosteneva De Carlo, dell’
«alternanza illimitata di proposte e verifiche entro la quale continuamente si aggiustano non solo i
mezzi in relazione alla precisione dei fini, ma i fini stessi in relazione al rinnovamento dei mezzi»
(De Carlo 1966).
Il caso di Mestre ci mostra alcuni progetti di spazi pubblici che non sono semplicemente
superimposti dall’amministrazione, accordati come routine legata agli standard, o parte di un
maquillage urbano che confonde riqualificazione e decorazione spaziale. Essi accolgono invece
proposte che procedono, in modo non sempre lineare, attraverso volontà, strumenti e tempi
differenti. In questo processo, la volontà delle diverse parti di coinvolgersi a vicenda diventa un
momento catalizzante capace di promuovere attività e nuovi significati attraverso progetti spaziali.
Quello che fa la differenza, e che rende così importanti queste occasioni, è la consapevolezza dei
soggetti di essere fattori fondamentali di costruzione del sociale, e l’aumento di interesse, da parte
dei cittadini, verso alcuni pezzi città: il progetto diventa un incentivo all’osservazione, alla
comprensione dei luoghi e al dibattito. Quel che alimenta questi spazi, quindi, è il formarsi di un
significato legato non solo alla loro frequentazione (Bianchetti 2008) ma contemporaneamente alla
loro (tras)formazione e ad un dialogo sempre attento ad intrecciare spazio e società in un processo
che non si può fermare, ma anzi evolve e si trasforma così come la città.
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