i comportamenti negativi sul lavoro

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i comportamenti negativi sul lavoro
Psicologia per il lavoro e le organizzazioni
Gabriele Giorgi e Vincenzo Majer
MOBBING: VIRUS
ORGANIZZATIVO
Prevenire e contrastare il mobbing
e i comportamenti negativi sul lavoro
PSICOLOGIA PER IL LAVORO
E LE ORGANIZZAZIONI
COLLANA
DIRETTA DA
VINCENZO MAJER
e-book omaggio di
Bucarest, Budapest, Firenze, Istanbul, Kiev, Milano, Mosca, Parigi, Roma, Shanghai, Sofia
www.hdu.it
[email protected]
Gabriele Giorgi e Vincenzo Majer
MOBBING: VIRUS ORGANIZZATIVO
Prevenire e contrastare il mobbing
e i comportamenti negativi sul lavoro
Psicologia per il lavoro e le organizzazioni
Editor: Vincenzo Majer
Co-editor: Annamaria Di Fabio
Mobbing: virus organizzativo. Prevenire e contrastare il mobbing
e i comportamenti negativi sul lavoro
Autori: Gabriele Giorgi e Vincenzo Majer
Redazione: Elena Viganò
Impaginazione: Eugenio Ortali
Copertina: Paolo Turini
PROPRIETÀ LETTERARIA RISERVATA
Nessuna parte di questo libro
può essere riprodotta
senza il consenso scritto dell’Editore
ISBN 978-88-09-74309-0
© 2009, Giunti O.S. Organizzazioni Speciali – Firenze
PREFAZIONE
Il presente volume si propone di essere il manuale più completo e articolato pubblicato in
Italia dedicato a un fenomeno relativamente nuovo nella psicologia del lavoro e delle organizzazioni: il mobbing. Se ne tratta il costrutto ripercorrendone con cura le radici, i modelli e gli
approcci, e presentando gli strumenti più riconosciuti nel panorama internazionale per riconoscerlo, prevenirlo e contrastarlo. La prospettiva storica, nel primo capitolo, individua gli studi
pionieristici e cerca di evidenziare la paternità psicologica del mobbing, oggi rivendicata anche
da altri approcci di studio. Si tratta di un fenomeno intimamente e strutturalmente psicologico,
e come tale deve essere studiato e combattuto proprio da coloro che per primi ne hanno saputo
individuare gli effetti patogeni, contrastandolo fin dai suoi segni più precoci, vale a dire da quando l’individuo inizia a sentirsi a disagio e come vittima. La percezione soggettiva, che può essere considerata metaforicamente il cuore del mobbing, è in Italia scarsamente considerata, in
quanto si preferisce intervenire sul fenomeno quando l’individuo è ormai una vittima conclamata, è diventato un “caso all’interno dell’azienda”, e ha manifestato disturbi psicologici e
“oggettivi” di varia natura.
Nel presente manuale vengono presi in esame e trattati ampiamente gli effetti patogeni del
mobbing, che non sono soltanto quelli più citati, quali il disturbo d’adattamento e il disturbo
post-traumatico da stress. Il mobbing, e le azioni negative su cui esso si fonda, creano effetti
patogeni anche nel breve termine che, pur non arrivando alla gravità dei sopracitati disturbi, tuttavia ledono la salute, l’autostima e la dignità del mobbizzato. In Italia sembra esserci una considerazione del mobbing soltanto quando il caso è ormai chiuso e gli unici interessi in gioco
rimasti sono quelli sul piano medico-legale, o al massimo su quello della “cura e riabilitazione”, comunque sempre “ex post”. Perché prendersi cura della vittima soltanto quando è stata
vessata e svuotata della propria dignità, quando è possibile, adottando un approccio psicologico, riconoscere anche i segnali deboli, e tenere in considerazione il filtro soggettivo di ogni persona e la sua percezione soggettiva di sentirsi vittima?
L’esperienza di docenti, consulenti e studiosi ha messo frequentemente gli Autori di fronte
al fatto che professioni e discipline diverse da quella psicologica, e spesso con capacità e poten-
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Mobbing: virus organizzativo
ziali di determinazione ben maggiori di quanto non abbia la psicologia, attribuiscono un certo
grado di “evanescenza” e scarsa scientificità alla misurazione di percezioni individuali, humus
della psicologia del lavoro e delle organizzazioni. Nel modello di mobbing, come esposto in tutto
questo testo, è invece chiaramente evidenziato come solo intervenendo proprio su questo filtro
soggettivo/percettivo si può fermare il fenomeno nel suo diffondersi. Infatti, riconoscendo fin da
subito chi è a maggior rischio di mobbing, chi sono coloro che si percepiscono vittime, è possibile evitare che tale percezione si trasformi in un mobbing cronico e oggettivo.
Il mobbing nel presente volume è definito come virus organizzativo proprio perché è in
grado non solo di creare circoli viziosi all’interno dell’organizzazione, avvelenando il clima organizzativo, le relazioni sul lavoro e contribuendo all’abbassamento della performance, ma anche
di produrre nuovi casi di mobbing o generare altre azioni vessatorie, che vanno a ricadere nel
“concetto ombrello” dei comportamenti negativi sul lavoro (Giorgi, 2004), oggi quanto mai presenti nella cronaca italiana. Il fenomeno, inoltre, sembra diffondersi sempre più a macchia d’olio nel tessuto organizzativo italiano. Una ricerca degli Autori, avvalorata dalla condivisione
della piattaforma teorica e dell’impianto metodologico dei più importanti studi internazionali e
da confronti cross-culturali, indica l’Italia come uno dei Paesi al mondo più a rischio di mobbing. Tali ricerche evidenziano ormai una situazione di tipo “epidemico”: il mobbing, o almeno
la percezione soggettiva di essere mobbizzato, non sembra essere un fenomeno occasionale, limitato nello spazio e nel tempo, ma appare come il risultato di un malessere ampiamente diffuso,
intrinseco all’attività lavorativa.
Nel volume viene anche presentato il Negative Acts Questionnaire Revised Italia (NAQ-R
Italia; Giorgi e Majer, 2008), lo strumento più efficace nella misura della prevalenza del mobbing e nell’identificazione di quelle che sono le aree più a rischio di mobbing in una determinata azienda, tanto da essere un efficiente barometro del malessere/benessere organizzativo. Esso,
inoltre, è la base per una valutazione del rischio mobbing di un’azienda, in congiunzione con
l’analisi di altre variabili, in particolare di natura organizzativa.
La prospettiva di questo manuale, infatti, è di dimostrare, sulle orme di Leymann, come il
mobbing sia un fenomeno organizzativo e come, per prevenirlo e contrastarlo, si debba intervenire sull’organizzazione del lavoro, sulla leadership, sulle cosiddette “costrittività organizzative”. È proprio a partire dallo studio e dal successivo intervento su queste variabili che si può
agire efficacemente per contrastare il fenomeno sul suo nascere.
Infine, l’ultima parte del testo è dedicata alla descrizione pratica e operativa di procedure
e modelli di intervento sul fenomeno, mentre in Appendice vengono riportati gli strumenti che
possono essere utilizzati da quanti si occupano di mobbing all’interno delle organizzazioni.
Gabriele Giorgi
Vincenzo Majer
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PARTE PRIMA
STORIA E TEORIA
CAPITOLO PRIMO
Origini e sviluppi del mobbing
1. Le radici del mobbing
Il termine “mobbing” deriva dall’inglese to mob: “assalire con violenza”.
Il primo a utilizzare tale termine, in ambito etologico, è stato Konrad Lorenz (1963)
per indicare il comportamento aggressivo di alcune specie di uccelli nei confronti dei
potenziali aggressori che tentano di assalirne il nido. Successivamente Heinemann
(1972), medico svedese, utilizzò il termine mobbing in modo specifico per riferirsi a un
gruppo di bambini che adotta un comportamento deviante verso un altro bambino. È
stato poi Olweus, nel 1978, nei suoi lavori pionieristici, a considerare il fenomeno in
un’accezione più ampia, estendendo tale definizione al soggetto singolo e introducendo
il termine bullying.
Seguendo questa tradizione di ricerca, Heinz Leymann – professore, psicologo clinico e terapeuta, che ha svolto negli anni Settanta studi sui conflitti familiari e che dagli
inizi degli anni Ottanta si è dedicato allo studio del conflitto presso organizzazioni –
quando si trovò di fronte a comportamenti aggressivi sul posto di lavoro, utilizzò il termine mobbing. È del 1986 il primo libro in svedese sul costrutto: Vuxenmobbing – om
psykiskt vald i arbetslivet (Mobbing – violenza psicologica sul posto di lavoro). Leymann
decise deliberatamente di non utilizzare il termine anglosassone bullying, usato dai ricercatori inglesi e australiani, in quanto tale tipo di manifestazione ostile non aveva le
caratteristiche proprie del bullismo, anche se comportava effetti in ugual misura altamente disfunzionali. Suggerì di mantenere il termine bullying per la descrizione del fenomeno quando si manifestava tra bambini e adolescenti a scuola, e di utilizzare la parola
mobbing per il medesimo comportamento tra adulti nei contesti organizzativi. Il primo
report scientifico di Leymann risale a una ricerca svolta nel 1982 e pubblicata nel 1984
dal National Board of Occupational Safety and Health a Stoccolma (Leymann e Gustavsson,
1984): Psykiskt vald i arbeitslivet. Tva esplorativa undersokknigar (Violenza psicologica. Due
ricerche esplorative). Nel 1986, ulteriori studi dell’Autore sul mobbing misero in luce le
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Mobbing: virus organizzativo
conseguenze, soprattutto nella sfera neuropsichica, dell’esposizione a un comportamento ostile protratto nel tempo.
Leymann, nel 1990, propose una prima definizione articolata di mobbing: il terrore psicologico o mobbing lavorativo consiste in una comunicazione sistematicamente
ostile e non etica – da parte di una o più persone – diretta generalmente a un singolo che
si viene a trovare privo di appoggio e difese a causa delle continue attività mobbizzanti.
Queste azioni si verificano con una frequenza piuttosto alta (almeno una volta alla settimana) e su un lungo periodo di tempo (una durata di almeno sei mesi). Classificò le
azioni mobbizzanti in quattro differenti categorie sulla base degli aspetti sui quali agiscono i comportamenti negativi: reputazione della vittima; possibilità della vittima di
continuare ad essere efficiente sul lavoro; possibilità della vittima di continuare a comunicare con i propri colleghi; situazione sociale della vittima.
Inoltre Leymann (1992) sottolineò che i fattori di personalità non erano rilevanti
nel determinare il mobbing riconoscendo nelle condizioni di lavoro la causa primaria
del fenomeno. In sintesi, secondo Leymann l’ambiente di lavoro è caratterizzato da conflitti che possono scaturire dalla non ottemperanza di norme che regolano il comportamento delle persone; tali conflitti rischiano di ingenerare processi di escalation in grado
di portare a episodi di mobbing se il management aziendale, disconoscendo il problema,
non li gestisce, o li gestisce in modo approssimativo e comunque inadeguato.
È in questi anni che il fenomeno del mobbing inizia ad attrarre crescente interesse
nei ricercatori e in chi, all’interno delle organizzazioni, si occupa di sicurezza e salute sul
posto di lavoro. Sono di questo periodo gli articoli e libri di Svein Kile1 (professore norvegese di psicologia delle organizzazioni) sugli effetti disfunzionali sulla salute provocati dall’esercizio di una leadership negativa. La ricerca norvegese sul harassment e sul mobbing iniziata alla fine degli anni Ottanta (Einarsen, Raknes, Matthiesen e Hellesøy, 1990;
Matthiesen, Raknes e Rokkum, 1989) è ispirata dalla lunga tradizione di ricerca sul bullismo nelle scuole, che già dagli anni Settanta aveva suscitato un forte interesse anche
nella stampa divulgativa. Nonostante ciò, fino ai primi anni Novanta gli studi sul mobbing sono prevalentemente limitati ai Paesi nordeuropei con poche pubblicazioni in lingua inglese (ad esempio, Leymann, 1990).
In America, invece, già nel 1976 lo psichiatra Brodsky parla di harassed worker e per
la prima volta sono studiati casi tipici di mobbing. Tuttavia va rilevato che Brodsky non
era interessato nello specifico all’analisi di tali casi: in realtà gli stessi erano presentati
nell’insieme di una trattazione concernente numerosi costrutti, come la sicurezza lavorativa, lo stress, la fatica e la monotonia. Inoltre è doveroso notare che, a causa del background di tipo medico di Brodsky e di un’oggettiva difficoltà a discriminare possibili
situazioni di stress da quelle derivanti dalle molestie sul lavoro, tale testo ha avuto scarsa considerazione nel panorama della letteratura scientifica dell’epoca. È grazie a una
nuova legge svedese del 1976, promulgata per migliorare l’ambiente lavorativo, e a un
fondo nazionale di ricerca che offriva grandi possibilità per effettuare indagini nell’area
della psicologia del lavoro e delle organizzazioni, che i ricercatori scandinavi, sulla scia
di una lunga tradizione di indagini empiriche e di attenzione particolare alla qualità
della vita di lavoro, incominciarono a occuparsi del mobbing. Essi sono stati i primi a
studiare in modo sistematico i disagi psicofisici sul posto di lavoro, al fine di tutelare il
1. Cfr. Kile (1990).
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Origini e sviluppi del mobbing
benessere dei lavoratori per migliorarne la qualità della vita, ottenendo già nel 1993 in
Svezia specifiche norme legislative in materia.
In Inghilterra è il giornalista Andrea Adams (1992) che, attraverso il suo libro
Bullying at work e alcune trasmissioni radiofoniche, ha permesso a molte persone di
attribuire un nome alla situazione che stavano vivendo e/o avevano vissuto nell’ambiente lavorativo. Nonostante l’approccio divulgativo al costrutto, Adams cercò di
costruire, sulle orme degli studi di Sigmund Freud e Erich Fromm, un modello teorico
che concepiva il mobbing come un tipo di aggressività umana che aveva radici nella
personalità e nelle esperienze di abuso subite dall’aggressore, in particolare nell’infanzia. Un approccio più rigoroso e sistematico è legato, nell’Inghilterra di quegli anni, al
nome di Rayner (1995), che individuava invece le radici del mobbing nell’ambiente
socioeconomico e organizzativo.
La consapevolezza del fenomeno si diffuse anche fra i media grazie alla divulgazione dell’opera di Heinz Leymann (1993), in lingua tedesca, Mobbing – Psychoterror am
Arbeitsplatz und wie man sich dagegen wehren kann (Mobbing – terrorismo psicologico sul
posto di lavoro), orientata a un ampio pubblico.
Con il trascorrere degli anni, il mobbing iniziava in Europa ad attrarre crescente
interesse sia da parte dei media, sia nel panorama di ricerca della psicologia del lavoro e
delle organizzazioni. Nel 1996, un numero speciale dell’European Journal of Work and
Organizational Psychology pubblica otto articoli di altrettanti studiosi di sei Paesi europei
sul tema del mobbing. Essi si riferivano a ricerche presentate in anteprima al simposio
sul mobbing tenuto al 7° congresso europeo di psicologia del lavoro e delle organizzazioni organizzato a Gyor in Ungheria nel 1995. Tale simposio è stato il primo di una serie
di succesivi simposi europei tenuti nel corso del congresso biennale dell’European Work
Organizational Psychology (EAWOP): a Verona nel 1997, a Helsinky nel 1999, a Praga
nel 2001, a Lisbona nel 2003, a Istanbul nel 2005 e a Stoccolma nel 2007. Nel 2001, un
altro numero dell’European Journal of Work and Organizational Psychology è stato dedicato
al costrutto del mobbing.
Un’ulteriore ricerca, che ha costituito un importante punto di riferimento nel settore e stimolato molti studi successivi, è stata quella di Einarsen e Raknes (1997),
Harassment in the workplace and the victimization of men. In quegli anni le molestie sul
lavoro erano prevalentemente investigate in quanto parte integrante del costrutto di
sexual harassment di cui le donne, come rilevato da molti studi scientifici, erano vittime
in numero più elevato rispetto ai colleghi uomini. Einarsen e Raknes (1997), prendendo
in considerazione un campione di 400 lavoratori uomini presso una compagnia di navigazione norvegese, rilevarono frequenti casi di azioni mobbizzanti che non avevano
niente a che fare con le molestie sessuali, ma erano pur sempre azioni vessatorie. Tali dati
misero in evidenza il rischio di focalizzarsi troppo sulle molestie a scopo sessuale, trascurando tutta una serie di azioni di natura meno manifesta, più sottile, ma non per questo meno vessatoria, che poteva essere esercitata nei confronti di tutti lavoratori, uomini o donne che fossero. Il progredire delle ricerche in Europa portava sempre più a chiarire i molteplici aspetti del fenomeno mobbing.
Negli Stati Uniti, in Australia e in Canada, negli anni Novanta, si poneva invece particolare attenzione ad azioni violente estreme di natura fisica, come aggressioni sul posto
di lavoro, furti e violenza. La psicologia del lavoro e delle organizzazioni era, inoltre,
concentrata maggiormente su comportamenti antisociali sul lavoro o su altre forme di
comportamenti ostili, che non rientravano nel fenomeno in questione. La consapevo-
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Mobbing: virus organizzativo
lezza del mobbing negli Stati Uniti, in Australia e in Canada si è diffusa quindi in tempi
più recenti rispetto all’Europa, ma suscitando comunque un interesse crescente.
In Italia, Harald Ege 2 ha pubblicato, nel 1996, il primo testo sul fenomeno del mobbing in lingua italiana, ma si è iniziato a parlare diffusamente di mobbing soltanto dal
1999, quando si sono tenuti i primi due convegni nazionali sul tema, uno a Milano, il
24 febbraio, organizzato dalla Clinica del Lavoro Devoto, e uno a Roma, il 4 giugno, a
cura dell’ISPESL, l’Istituto superiore per la prevenzione e la sicurezza sul lavoro, organo
del ministero della Sanità.
La discussione e il confronto sul fenomeno sono in rapida crescita su tutti i media
nazionali e da allora sono state effettuate numerose ricerche. Nell’ambito degli studi della
psicologia del lavoro si registrano numerose pubblicazioni, quali il libro di Marco Depolo
(2003) Mobbing: Quando la prevenzione è intervento, i numeri 2-3/2004 e 2/2008 della rivista scientifica Risorsa Uomo, il libro di Giuseppe Favretto (2005) Le forme del mobbing.
2. La violenza fisica e la violenza psicologica
Nel 1995, la Commissione Europea concorda una definizione di violenza sul lavoro (Wynne, Clarkin, Cox e Griffiths, 1997), che può essere considerata una pietra miliare sulla strada del costrutto di mobbing:
Incidenti dove le persone sono abusate, minacciate o aggredite in situazioni di lavoro che comprendono un rischio implicito o esplicito per la sicurezza, il benessere e
la salute (Di Martino, Hoel e Cooper, 2003, p. 3).
Questa definizione consente di distinguere tra i diversi tipi di violenza sul posto di
lavoro: abuso, ossia comportamenti negativi che implicano l’uso di potere di natura fisica o psicologica; minaccia, ovvero la minaccia di morte e/o la manifestazione dell’intenzione di ferire o colpire una persona, o di danneggiarne le proprietà; e aggressione,
cioè il tentativo di ferire e attaccare una persona. Il concetto di abuso porta alla luce tutte
le forme di molestia morale e psicologica: molestia sessuale, molestia razziale, mobbing/bullying.
Prima di questa definizione, già nel 1989 la Commissione Europea aveva introdotto alcune misure per garantire la sicurezza e la salute dei lavoratori. La direttiva CEE n.
391 del 12 giugno 1989 conteneva le disposizioni di base per la salute e la sicurezza sul
lavoro e attribuiva ai datori di lavoro la responsabilità di garantire che i lavoratori non
soffrissero di danni per colpa del lavoro, anche come conseguenza del mobbing. L’emergenza della violenza sul posto di lavoro e del mobbing si stava sempre più delineando
come un nuovo e sostanziale problema che le organizzazioni dovevano considerare. La
considerazione delle risorse umane anche in tal senso portò a una consapevolezza politica della questione, stimolando azioni e iniziative degli Stati europei atte a prevenire e
contrastare il mobbing.
Anche altre organizzazioni internazionali europee hanno studiato ben presto il
fenomeno della violenza morale. Nel 1998 l’International Labour Organization (ILO),
2. Dottore di ricerca in psicologia del lavoro e delle organizzazioni. Fondatore dell’associazione contro il mobbing
PRIMA.
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Origini e sviluppi del mobbing
nel suo report When Working Becomes Hazardous. Punching, Spitting, Swearing, Shooting:
Violence at Work Goes Global, identificò la violenza come un tema centrale anche sul
posto di lavoro e ne rimarcò, nella definizione che propose, non solo le azioni negative
di natura fisica, ma anche quelle di natura psicologica come il mobbing.
L’attenzione crescente in Europa per la violenza psicologica si rifletté anche nella
definizione adottata il 29 novembre del 2001 dall’Advisory Committee on Safety,
Hygiene and Health Protection at Work della Commissione Europea:
La violenza può essere definita come una forma di comportamento negativo o azione tra due o più persone, caratterizzata da aggressività, qualche volta reiterata, qualche volta inaspettata, che ha effetti disfunzionali sulla sicurezza, sulla salute e sul
benessere dei lavoratori.
L’aggressività può prendere forma come comportamenti intimidatori attraverso il linguaggio del corpo, la mancanza di rispetto e il disprezzo, la violenza verbale e fisica.
La violenza si manifesta in molte forme, come nell’aggressione fisica e negli insulti
verbali, nel mobbing e nella molestia sessuale, nella discriminazione sulla religione,
sulla razza, sulla disabilità, sul genere e può essere perpetrata da una persona sia
all’interno che all’esterno dell’ambiente di lavoro (Di Martino et al., 2003, p. 4).
Inoltre, sempre nel 2001, il Parlamento Europeo, legiferando in materia, ha ritenuto che il mobbing costituisse un grave problema nel contesto della vita lavorativa e che
fosse opportuno prestarvi maggiore attenzione e rafforzare le misure per farvi fronte. La
ricerca di nuovi strumenti per contrastare e, soprattutto, prevenire il fenomeno diventa
chiaramente urgente.
La commissione deve chiarificare o estendere lo scopo della direttiva base sulla salute e sicurezza sul lavoro o, in alternativa, redigere una nuova direttiva di base come
strumento legale sia per contrastare il mobbing che per assicurare il rispetto della
dignità umana dei lavoratori, della privacy e dell’integrità, enfatizzandone l’importanza di un lavoro sistematico sulla salute e la sicurezza e di un’azione preventiva
(Di Martino et al., 2003, p. 6).
Il Parlamento Europeo esorta gli Stati membri a rivedere e, se necessario, a completare la propria legislazione vigente sotto il profilo della lotta contro il mobbing e le molestie sessuali sul posto di lavoro, nonché a verificare e a uniformare la definizione del
mobbing. Inoltre raccomanda:
• di fare in modo che le organizzazioni private e pubbliche, nonché le parti sociali, attuino politiche di prevenzione efficace;
• l’introduzione di un sistema di scambio di esperienze;
• l’individuazione di procedure atte a risolvere il problema per le vittime e a evitare sue
recrudescenze;
• l’informazione e la formazione di lavoratori dipendenti, del personale di inquadramento, delle parti sociali e dei medici del lavoro, sia nel settore privato che nel settore pubblico.
Una delle indagini più recenti e maggiormente riportata dai media nazionali, condotta nel 2000 dall’European Foundation for the Improvement of Living and Working
Conditions, ha mostrato come il 9% dei lavoratori europei (circa 12 milioni di persone)
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Mobbing: virus organizzativo
avrebbe sofferto di mobbing/bullying negli ultimi 12 mesi, sia nel settore pubblico che
nel settore privato (cfr. fig. 1-1).
Figura 1-1
La prevalenza del mobbing in Europa secondo l’European Foundation
for the Improvement of Living and Working Conditions
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A giudizio di chi scrive, questo risultato va preso con cautela, in considerazione
delle difficoltà che ancora oggi si presentano nella definizione e misurazione del costrutto di mobbing/bullying e della conoscenza dello stesso da parte dei soggetti rispondenti
all’indagine. In Italia, ad esempio, una recente ricerca dell’istituto IREF (Istituto di
Ricerche Educative e Formative), condotta presso 3000 lavoratori, ha messo in luce che
il 70% dei rispondenti dichiara di non conoscere il fenomeno del mobbing/bullying.
Tuttavia, diversi studi dimostrano che il fenomeno del mobbing è diffuso in tutta
Europa, pur presentando delle variazioni fra gli Stati indotte dalle diverse consapevolezze del fenomeno, dalle differenze culturali, dei sistemi legali e dei sistemi economici.
Un altro dato rilevante mette in evidenza che la violenza psicologica sul posto di
lavoro e, in particolare, il mobbing sembrano fenomeni in netto aumento nei Paesi occidentali (cfr. fig. 1-2).
Se, inoltre, in una prima fase era la violenza fisica a destare maggiore interesse e
preoccupazione, adesso nella comunità europea gli studi si concentrano soprattutto sulla
violenza morale (Di Martino et al., 2003).
Anche in Australia, in Canada, negli Stati Uniti e in Giappone il mobbing e la violenza psicologica sono temi molto dibattuti e ciò ha favorito lo sviluppo di una consapevolezza politica ed economica di questi problemi.
Nel 1997, Mullen suggerì che la violenza psicologica stava diventando un tema
oggetto di un vivace dibattito perché nelle società industriali si era sempre meno dispo-
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Origini e sviluppi del mobbing
Figura 1-2
La violenza sul luogo di lavoro
percentuale dei casi riportati
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1996
3
2000
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violenza fisica
sexual
harassment
mobbing/molestia
morale
sti a tollerare la violenza a causa degli effetti estremamente negativi che poteva comportare sul posto di lavoro. L’Autrice australiana commentò che tali società non erano
più preparate ad accettare atti di intimidazione e di violenza come norme sociali, come
un tempo era successo con l’impiego delle forze di polizia per contrastare la violenza
negli stadi e nei pub.
In Australia, nel 1993, un gruppo di persone diede vita alla Beyond Bullying
Association, un’organizzazione no profit e volontaria. L’associazione aveva quattro scopi:
a) aumentare la consapevolezza pubblica del mobbing e delle conseguenze che detto
fenomeno può comportare per la società; b) porre l’attenzione sull’uso distruttivo del
potere nelle moderne istituzioni e promuovere ricerche per una migliore qualità della
vita lavorativa; c) provvedere a un meccanismo di supporto e counseling alle vittime;
d) sensibilizzare la comunità e il governo sul problema del mobbing.
Uno dei contributi più importanti sul mobbing in Australia è costituito dal report
di McCarthy, Sheehan e Kearns (1995). La ricerca fu commissionata dal Worksafe
Australia. Inoltre, nel 1997, un progetto sul mobbing fu condotto dal Working Women
Centre in South Australia, commissionato dalla Comcare. Lo scopo del progetto era
quello di documentare la natura e il processo di mobbing, identificarne le conseguenze sulla salute della vittima, calcolare il costo del mobbing subito dalle organizzazioni
e sviluppare strategie per contrastare il fenomeno. In quegli anni si assistette a un
aumento crescente di richieste di indennizzo per malattie da stress lavorativo e ciò
diventò ben presto una delle preoccupazioni principali per i datori di lavoro e gli assicuratori australiani.
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Mobbing: virus organizzativo
La ricerca di Toohey (1992) mostrò che le richieste di indennizzo per lo stress lavorativo relative ai casi contenuti negli archivi della Comcare rappresentavano solo una
ridotta percentuale di tutte le richieste pervenute. Inoltre Toohey scrisse che, come la
violenza domestica era il riflesso del genere e delle relazioni di potere entro la comunità/famiglia, non avrebbe dovuto sorprendere che anche la violenza sul posto di lavoro riflettesse le relazioni che vi si creavano all’interno. Mise così in luce che qualsiasi strategia aziendale per contrastare la violenza sul posto di lavoro doveva riconoscere come
quest’ultima fosse un problema della gestione delle risorse umane e non una malattia del
lavoratore, e doveva essere interpretata alla luce della cultura organizzativa in cui si
manifestava. Toohey aggiunse che un fallimento nel trattamento della violenza sul posto
di lavoro, includendo in tale concetto anche la minaccia, la violenza morale e l’abuso,
poteva portare a una grossa perdita di risorse finanziarie per l’organizzazione.
In Canada, invece, il mobbing/bullying non fu preso nella dovuta considerazione
fino al 6 aprile 1999, quando Pierre Lebrun, un impiegato dell’OC Transport in Ottawa,
uccise quattro colleghi e si tolse a sua volta la vita (McLaughin, 2000). L’inchiesta successiva del pubblico ufficiale appurò che Pierre Lebrun era stato soggetto a molestie
morali e mobbing da parte dei colleghi. Anche in conseguenza di questo episodio, la
definizione di violenza sul lavoro arrivò a includere non solo la violenza fisica ma anche
la violenza psicologica. Inoltre, non esistendo una giurisprudenza in merito, la giuria
dell’OC Transport stimolò i governi federali e provinciali a impegnarsi a legiferare sulla
prevenzione della violenza sul lavoro. Da allora numerose ricerche si sono focalizzate
sullo studio della violenza sul posto di lavoro e sul mobbing (ad esempio, Courcy, Savoie
e Brunet, 2003), e nel 2004 in Quebec è stata promulgata una legge il cui obiettivo è di
rendere consapevoli i datori di lavoro e i dipendenti della violenza psicologica e della
molestia morale sul posto di lavoro e di permettere così immediate azioni correttive.
Negli Stati Uniti, la letteratura di ricerca si era focalizzata prevalentemente sulla violenza sul posto di lavoro (Baron e Neuman, 1996). Fatti di cronaca avvenuti in quegli anni,
come sparatorie sul posto di lavoro e nei cortili delle scuole, avevano provocato un grande
shock nella società americana. Le analisi giornalistiche avevano evidenziato che i colpevoli erano per lo più soggetti emarginati e molestati da altri lavoratori o datori di lavoro per
un lungo periodo di tempo. L’avere identificato dei comportamenti ostili che potevano
essere all’origine di episodi violenti sul posto di lavoro incrementò l’attenzione da parte dei
ricercatori, dei media e, di conseguenza, aumentò la presa di coscienza su larga scala della
complessità del fenomeno del mobbing. In anni più recenti anche negli Stati Uniti è stato
riconosciuto che la violenza fisica è soltanto la punta dell’iceberg dei comportamenti negativi sul posto di lavoro, e sono state così condotte le prime ricerche ad ampio respiro sul
fenomeno del mobbing, come la U.S. Hostile Workplace Survey (Namie, 2000) e la Campaign
against workplace bullying svoltasi nello stesso anno (cfr. Namie e Namie, 2000).
In Giappone, la letteratura di ricerca sul mobbing è stata invece ispirata da studi
sullo stress organizzativo e sulla salute mentale. Era la metà degli anni Ottanta quando
si iniziò a usare per la prima volta la parola Karoshi. Tradotto letteralmente Karoshi significa “morte da superlavoro”, che rappresenta lo stadio finale di una “malattia sociale”
che si evolve fino a uccidere, distruggendo l’equilibrio del bioritmo umano: l’eccesso di
carico di lavoro e di responsabilità porta l’organismo a uno sforzo esasperato, spingendo
il cuore a cedere o provocando un’emorragia cerebrale. La letteratura di riferimento ha
individuato un nesso tra Karoshi e forme estreme di stress, anche derivante dal mobbing,
riconoscendo così la serietà del problema della violenza morale sul posto di lavoro.
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Origini e sviluppi del mobbing
Negli anni Novanta, insieme al Karoshi, prese a diffondersi in Giappone il
Karojisatsu, anch’esso dovuto allo stress da lavoro. La morte per questa patologia però
avviene per scelta e dopo un percorso più ambiguo e inquietante: il Karojisatsu è, infatti, una forma di suicidio. Il legame tra Karojisatsu e mobbing emerge chiaramente nel
“caso Dentsu” (Giorgi, Asakura e Ando, 2008). Nel 1990, il neolaureato Ichiro Oshima –
al suo primo impiego – fu assunto dalla compagnia pubblicitaria Dentsu Inc. Un anno
dopo, impegnato in un progetto difficoltoso, il giovane iniziò a prolungare sempre più
il proprio orario di lavoro, restando in ufficio solitamente fino all’alba e quindi dormendo in media due ore per notte. Ichiro Oshima, inoltre, subiva azioni mobbizzanti
frequenti, come ad esempio quella di essere obbligato a bere grosse quantità di sostanze
alcoliche. Nell’estate del 1991, una volta portato a termine il progetto che stava seguendo, Ichiro Oshima si suicidò. I suoi genitori fecero causa alla Dentsu, sostenendo che la
morte del figlio era stata provocata da una depressione dovuta all’eccesso di straordinari. Nel 1996 vinsero la causa presso il tribunale di Tokyo che condannò l’agenzia pubblicitaria a pagare un’ingente somma a titolo di risarcimento dei danni.
3. La questione terminologica
Un altro rilevante aspetto storico del fenomeno mobbing è quello delle numerose
modalità lessicali con le quali è stato denominato. In origine, i concetti di bullying (che
si riferiva a una situazione in cui un individuo era soggetto a molestia morale) e di mobbing (che si focalizzava su situazioni di molestie morali di un gruppo) erano distinti.
Alcuni ricercatori (ad esempio, Zapf, 1999) avevano distinto il bullying dal mobbing,
sostenendo che il mobbing fosse associato ad azioni negative e molestie di un gruppo di
persone e che questa manifestazione ostile fosse diretta a una singola persona. Anche
l’International Labour Organization (ILO) si riferisce al mobbing come processo in cui
un gruppo di lavoratori agiscono contro qualcuno, il quale è vittima di molestie morali
(Chappell e Di Martino, 2000, 2001). Inoltre, mentre gli studi sul mobbing si focalizzavano su antecedenti e fattori di rischio organizzativi, gli studi sul bullying indagavano
principalmente gli antecedenti individuali, ovvero la personalità e le caratteristiche individuali degli attori coinvolti nel fenomeno. Per alcuni studiosi il bullying si manifestava
quando un manager aggressivo perpetrava azioni negative nei confronti dei suoi subordinati concentrandosi su un bersaglio specifico. Il mobbing, viceversa, si verificava quando le azioni non erano dirette sul singolo ma su gruppi di lavoratori, collaboratori e
dipendenti (Davenport, Distler Schwartz e Pursell Eliott, 1999).
Oggi la maggior parte dei ricercatori non distingue i due concetti, dato che la numerosità di aggressori e vittime coinvolte non viene più considerata uno spartiacque fra i
due fenomeni, in quanto il processo psicologico e i criteri basilari caratterizzanti situazioni di mobbing e bullying appaiono essere gli stessi (Di Martino et al., 2003). Nel panorama di ricerca della psicologia del lavoro e delle organizzazioni si assiste, pertanto, a
un’assimilazione dei due termini. Sia il mobbing che il bullying implicano comportamenti offensivi attraverso azioni vendicative o crudeli che hanno l’obiettivo di colpire
un individuo o un gruppo di lavoratori.
Il mobbing/bullying sembra perciò un fenomeno univoco, che ha però diverse manifestazioni e tipologie (cfr. capitolo quinto). Comportamenti che in qualche Paese, come
ad esempio in Germania e nei Paesi del Nord Europa, vengono chiamati azioni mobbiz-
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Mobbing: virus organizzativo
zanti, in Irlanda e in Gran Bretagna vengono etichettati con la parola bullying/workplace
bullying. Inoltre, in alcuni Paesi sono presenti termini specifici come harcèlement moral
(Francia), acoso o maltrato psicológico (Spagna) e coacção moral (Portogallo). La fusione dei
due termini mobbing e bullying facilita il confronto delle ricerche a livello internazionale, favorendo anche lo scambio delle diverse conoscenze ed esperienze riguardo al fenomeno, al fine di una sua comprensione globale, pur nel rispetto delle possibili differenze giocate dai sistemi socioculturali.
4. Riflessioni critiche
Nell’ultimo decennio è emersa una nuova pista di ricerca relativa al mobbing, inteso in un’accezione diversa rispetto alla molestia sessuale e razzista e considerato primariamente come violenza di natura non fisica. In sintesi, si può notare che esistono due
scuole di pensiero in merito al fenomeno del mobbing: una di tradizione europea e l’altra di tradizione americana. Semplificando, emerge come differenza caratterizzante che
la tradizione europea pone l’attenzione sulla vittima e la tradizione americana sull’aggressore. È da notare, inoltre, come interessanti ricerche sul fenomeno del mobbing si
svolgano anche in altri Paesi quali Australia, Canada e Giappone.
In Italia la ricerca psicologica sul mobbing ha una storia molto recente e per di più
caratterizzata da alcuni elementi di criticità: da un lato la mancanza di modelli teorici di
riferimento esplicativi e sufficientemente potenti, dall’altro la scarsa presenza di ricerche
condotte con rigore scientifico che utilizzino metodologie e strumenti metricamente
solidi e validati. Ancora troppo poche sono le pubblicazioni scientifiche che possano
costituire una base solida da cui potere sviluppare ulteriori ricerche e conoscenze atte a
contrastare il mobbing.
È bene tuttavia sottolineare che l’approccio psicologico, soprattutto in Europa, ha
ormai ampiamente individuato modelli teorici di riferimento del mobbing e numerose
ricerche sono state condotte con rigore scientifico. Ciò non dovrebbe sorprendere più di
tanto, in quanto il fenomeno in questione è psicologico e la tradizione di ricerca sul
fenomeno è nata proprio agli inizi degli anni Ottanta con Heinz Leymann. Sembra pertanto doveroso ricordare la paternità “psicologica” di questa tradizione di ricerca, in
quanto in Italia il mobbing è diventato ben presto anche business e marketing ed è stato
“cannibalizzato” da altri approcci di studio nella maggior parte dei casi soltanto divulgativi. In essi sono state avanzate ipotesi su quali potessero essere i disturbi di personalità del mobber e del mobbizzato, senza però fornire sicure garanzie da parte degli Autori
sul possesso di reali competenze psicologiche/psichiatriche. Se è vero che il mobber e il
mobbizzato possono presentare un quadro psicologico con qualche instabilità, è vero
anche che il mobbing è un fenomeno che si sviluppa all’interno di un determinato contesto organizzativo, condizione in cui risulta arduo pensare che la “patologizzazione” del
mobber e del mobbizzato siano la causa fondante del problema. Di fatto, comunque, questa abbondanza di ricerche, spesso superficiali, cela quelle condotte con rigore scientifico dagli studiosi della psicologia; il risultato finale è che la conoscenza scientifica sul
mobbing nel nostro Paese risulta ancora limitata e difficile da svilupparsi.
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CAPITOLO SECONDO
Definire il mobbing
1. La definizione di mobbing
Nonostante numerosi studi abbiano fornito molteplici spunti per un’approfondita
comprensione del fenomeno mobbing, al punto da giungere a una precisa definizione
del costrutto, la conoscenza sulla tematica in questione presenta ancora delle zone d’ombra. A giudizio di chi scrive, ciò è dovuto al fatto che soltanto in questi ultimi anni si
possono identificare dei punti fermi di individuazione generalmente condivisi del mobbing, mentre, in un passato ancora troppo vicino, il costrutto si presentava come troppo elusivo perfino per i ricercatori e per chi se ne occupava all’interno delle organizzazioni.
In secondo luogo, l’uso di terminologie diverse riferite al mobbing e la varietà di
definizioni rintracciabili nella letteratura internazionale hanno generato difficoltà a confrontare diverse ricerche condotte (cfr. fig. 2-1).
La fusione dei concetti di bullying e mobbing è inoltre avvenuta solo di recente e
quindi le ricerche pregresse di alcuni studiosi si erano talvolta focalizzate su attori diversi
del processo. Se nel bullying, così come concettualizzato da alcuni, l’aggressore veniva
individuato nella figura del superiore e la vittima nella figura del subordinato e del dipendente, nel mobbing le azioni e le molestie erano esercitate da un gruppo di persone e la
vittima non necessariamente veniva individuata nella figura di un subordinato, ma poteva essere anche un collega di pari grado o un manager. Tutto ciò ha comportato una difficoltà nell’integrare i due concetti e i risultati emersi dalle ricerche condotte. Va tenuto
anche presente che non tutti i comportamenti molesti e indesiderati nell’ambiente di
lavoro sono azioni mobbizzanti. Nonostante siano state enucleate le categorie di vessazione più rappresentative del fenomeno (ad esempio, Einarsen e Hoel, 2001; Giorgi e
Majer, 2008; Giorgi, Matthiesen e Einarsen, 2006), nella letteratura internazionale si è
riscontrata la tendenza a considerare la molestia sessuale e la molestia razziale come strategie mobbizzanti (Einarsen, Raknes e Matthiesen, 1994; Einarsen e Raknes, 1997).
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Mobbing: virus organizzativo
Figura 2-1
Termini e definizioni usate da vari Autori per descrivere
il fenomeno del mobbing/bullying
Autore
Termine
Definizione
Brodsky (1976)
Harassment
Persistente e ripetuto tentativo da
parte di un aggressore di tormentare, creare frustrazione o cercare
una reazione da una persona, provocando, opprimendo, spaventando, intimidendo, o comunque, suscitando sconforto
Thylefors (1987)
Scapegoating
Esposizione di una o più persone,
per un certo periodo di tempo, ad
azioni negative ripetute da parte di
uno o più individui
Leymann (1990)
Mobbing/
psychological terror
Comunicazione sistematicamente
ostile e non etica – da parte di una
o più persone – diretta generalmente a un singolo
Wilson (1991)
Workplace trauma
Disintegrazione del sé di un impiegato, risultante da un comportamento doloso, percepito o effettivo,
continuativo e deliberato, da parte di
un supervisore o un collega
Adams (1992)
Bullying
Persistenti critiche e abuso personale, in pubblico o in privato, che
umiliano o screditano una persona
Ashforth (1994)
Petty tyranny
Imposizione da parte di un leader
del suo potere sui colleghi attraverso azioni mirate a disprezzare i
subordinati, mostrare scarsa considerazione, utilizzare uno stile
dominante per risolvere i conflitti,
punire senza reale necessità
Bjorkqvist, Osterman,
e Hjelt-Back (1994)
Harassment
Ripetizione di azioni con l’obiettivo di portare sofferenza psicologica
(ma talvolta anche fisica), dirette
verso uno o più individui che, per
diverse ragioni, non sono capaci di
difendersi
Keashly, Trott
e MacLean (1994)
Abusive behavior
Comportamenti ostili verbali e
non verbali, che non sono di natura sessuale o razziale, diretti da una
o più persone verso un’altra con lo
scopo di screditarla, al fine di assicurare l’accondiscendenza degli altri lavoratori
segue
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Def inire il mobbing
Figura 2-1 – continua
Autore
Termine
Definizione
Einarsen
e Skogstad (1996)
Bullying
Attività frequente e prolungata nel
tempo che intercorre fra attori con
diverso potere
O’Moore, Seigne,
McGuire e Smith
(1998)
Bullying
Comportamento distruttivo, aggressione ripetuta di tipo verbale,
psicologica e fisica da parte di un
individuo o un gruppo verso altri
soggetti
Zapf (1999)
Mobbing
Azioni tese a molestare, offendere,
escludere o assegnare compiti degradanti a qualcuno che nel corso del
processo si trova in una posizione
di inferiorità di potere rispetto all’aggressore
Salin (2001)
Bullying
Azioni negative ripetute e persistenti che sono dirette verso uno o più
individui, creando un ambiente lavorativo ostile. Nel processo di bullying la persona che diventa target
delle azioni negative ha difficoltà di
difesa; il bullying non è un conflitto
in cui tra le parti intercorre la stessa
relazione di potere
Depolo (2003)
Mobbing
Forma di aggressione psicologica e
morale sul lavoro, esercitata e reiterata nel tempo, più o meno intenzionalmente, da uno o più aggressori per mezzo di azioni negative volte
a spingere la persona nella condizione di non potersi difendere e al suo
isolamento ed espulsione dal contesto socioproduttivo
Le definizioni del mobbig/bullying hanno inoltre assunto sfumature e connotazioni
diverse in base alle aree disciplinari di ricerca che se ne sono occupate. Il mobbing non è
solo oggetto di studio della psicologia del lavoro e delle organizzazioni, ma si sono sviluppate diverse prospettive di studio anche nell’ambito della psicologia clinica, della
medicina del lavoro, della giurisprudenza, dell’economia e della sociologia, e si sono diffuse una forte sensibilità e consapevolezza a livello politico soprattutto in Europa. Anche
i media e i giornalisti sono molto sensibili al fenomeno e numerose sono le pubblicazioni
in merito su riviste e quotidiani. L’informazione sul mobbing si è estesa a macchia d’olio
anche attraverso Internet, e se ciò ha comportato da una parte un aumento della consapevolezza del fenomeno, dall’altra spesso i dati vengono comunicati in modo più divulgativo che scientifico, favorendo una conoscenza della tematica parziale, se non erronea.
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Mobbing: virus organizzativo
Infatti, il risultato che può emergere da quest’ultimo tipo d’informazione è che la
rappresentazione sociale del fenomeno cambi il suo significato più profondo e che il termine mobbing sia usato per descrivere qualsiasi comportamento negativo sul posto di
lavoro, come del resto è accaduto anche in Norvegia quando si iniziò a prendere in considerazione il fenomeno:
Durante gli anni Ottanta il termine mobbing veniva usato per descrivere tutto ciò
che di negativo poteva accadere sul posto di lavoro (anche in modo ironico); ciò
comportava che il mobbing fosse considerato come qualcosa di relativa gravità e,
quindi, più facilmente accettato e tollerato. Se qualcuno denunciava episodi di mobbing e riportava di essere stato molestato, era visto come un nevrotico o una persona ipersensibile, e quindi poteva essere colpevolizzato più facilmente per i propri
problemi personali (Munthe, 1989, p. 23).
Per non creare equivoci nell’uso di terminologie diverse indicanti spesso fenomeni
uguali o simili, si è quindi giunti a una precisa definizione del costrutto del mobbing
condivisa dai più insigni studiosi del fenomeno:
Il mobbing può essere definito come un’aggressione psicologica, una forma di offesa morale, volta a spingere una persona alla sua esclusione dal contesto lavorativo o
a danneggiare alcuni aspetti del ruolo lavorativo e della mansione.
Per etichettare come mobbing determinate attività e processi, i comportamenti di
vessazione devono essere esercitati ripetutamente e regolarmente (ad esempio, ogni
settimana) e per un certo periodo di tempo (ad esempio, circa 6 mesi).
Il mobbing è un processo di intensificazione di un conflitto (escalation) nel corso
del quale una persona si trova in una posizione di inferiorità ed è vittima di sistematiche azioni negative da parte di uno o più aggressori.
Il mobbing non si riferisce né a un conflitto scaturito da un incidente o da un evento
isolato né a un conflitto in cui tra aggressore e vittima intercorre la stessa relazione di
potere (Einarsen, Hoel, Zapf e Cooper, 2003, p. 15, in Giorgi, 2004, p. 291).
Dalla definizione di Einarsen è possibile enucleare, in modo chiaro e preciso, i contenuti e i criteri basilari caratterizzanti situazioni di mobbing sul lavoro: a) la frequenza,
b) l’intenzionalità dell’aggressore, c) la percezione soggettiva della vittima, d) le conseguenze sulla salute, e) la durata, f) l’asimmetria di potere tra le parti, g) la natura e il pattern dei comportamenti di mobbing, h) l’intensificazione del conflitto (escalation), i)
l’ambiente di lavoro.
2. I nove criteri basilari caratterizzanti le situazioni di mobbing
a) La frequenza
Il mobbing è caratterizzato da comportamenti ostili reiterati nel tempo. Per differenziare il mobbing da altri comportamenti negativi di minore intensità, da situazioni
stressanti e di conflitto lavorativo, si considera come “soglia” una frequenza di una volta
alla settimana. Comportamenti ostili esercitati una volta al mese o anche meno frequentemente non possono essere considerati mobbing anche a prescindere dalla loro
intensità/gravità.
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Def inire il mobbing
Questo perché il mobbing si configura attraverso uno stillicidio di persecuzioni,
attacchi e umiliazioni ed è attuato in modo sistematico e regolare, e proprio nella regolarità e frequenza ha la sua forza devastante.
Inoltre è la continuità dell’azione vessatoria che manifesta l’evidente intenzione di
nuocere da parte del mobber.
Lo studio del criterio di frequenza dei comportamenti di mobbing dovrebbe prendere in considerazione anche quanto siano ripetuti e regolari gli effetti delle conseguenze delle azioni negative e la paura per la vittima del ripetersi delle molestie (Einarsen et
al., 2003). Ad esempio, nel caso in cui fosse diffuso un pettegolezzo in grado di distruggere la reputazione e la carriera della vittima, le cui conseguenze potrebbero avere effetti permanenti, si potrebbe teorizzare che il mobbing si manifesti anche senza azioni
regolari e sistematiche dell’aggressore. In questo caso, anche azioni negative sporadiche
potrebbero favorire la crescita del mobbing. Riprendendo l’esempio sopra riportato, la
vittima, che prima aveva una buona reputazione, si può trovare ben presto al centro di
ostilità da parte dei colleghi e dei superiori. Quel lavoratore cui era riconosciuta stima e
fiducia diventa improvvisamente uno “spettro” nell’organizzazione.
Tuttavia, un incidente singolo o una forma di stress acuto, nel senso di un evento
traumatico anche grave, ma isolato, non può essere considerato mobbing.
Bisogna, infine, tenere presente che la natura ripetuta delle azioni negative è spesso centrale nella definizione dell’esperienza del target di “vittimizzazione” e dell’intenzionalità dell’aggressore.
Nella definizione di mobbing, quindi, l’esposizione della vittima, in modo sistematico, a comportamenti ostili è un criterio ancora più importante rispetto alla durata delle
azioni negative subite, in quanto la vittima percepisce l’intenzione di vessazione dell’aggressore o del gruppo, riconoscendone i meccanismi sottostanti, e si viene a trovare
nell’occhio del ciclone di una vera e propria persecuzione senza possibilità di difesa
(Zapf, 2004).
b) L’intenzionalità dell’aggressore
Un aspetto cruciale del mobbing consiste nell’effettiva intenzionalità dell’aggressore di nuocere, attraverso la messa in atto di determinati comportamenti. Tale intenzionalità è volta a escludere una persona dal contesto lavorativo, a danneggiarne la reputazione o alcuni aspetti del ruolo lavorativo e della mansione. L’intenzionalità è legata in
primo luogo al dolo dell’agire dell’aggressore, in secondo luogo al probabile risultato di
danno/ferita che le azioni moleste poste in essere dal mobber comportano per la vita
lavorativa e per la salute del mobbizzato. Alcune azioni negative, in riferimento agli specifici contesti, possono creare danni estremamente gravi alla persona, e l’aggressore, più
o meno coscientemente, ne ha consapevolezza. La maggior parte delle volte il mobber
conosce i meccanismi dell’organizzazione e sa che, compiendo quelle determinate azioni, è più probabile che si verifichino determinate conseguenze che possono arrecare
danno alla persona da colpire.
Inoltre l’intenzionalità del mobber si manifesta anche nel mettere in atto azioni che
possono essere percepite dalla vittima come più lesive, magari sfruttando i punti di debolezza del bersaglio o una particolare situazione, anche extralavorativa o estemporanea.
Nell’intenzione che motiva il comportamento mobbizzante si possono riconoscere due
tipologie di aggressività:
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Mobbing: virus organizzativo
• affettiva, motivata dalla volontà di procurare un danno o una sofferenza psicologica
alla persona che ne è bersaglio;
• strumentale, in cui l’azione mobbizzante costituisce il mezzo per il raggiungimento di
un obiettivo diverso, e comunque, talvolta anche senza intenzionalità e coscienza da
parte del mobber, tale azione infligge sofferenza o cagiona dispiacere alla vittima.
Riuscire a distinguere modalità diverse di azioni aggressive, riconoscendone, in particolare, la natura affettiva o strumentale non è sempre facile, ed è possibile che una stessa azione mobbizzante sia motivata da intenzioni miste, con componenti di aggressività
affettiva, oltre che strumentali.
Oltre alla classificazione di aggressività appena proposta, è utile considerare anche
la distinzione tra intenzione e motivo. Mentre alcuni comportamenti possono avere lo
specifico obiettivo di nuocere, la motivazione sottostante può essere diversa. Ad esempio, è possibile distinguere tra aggressione reattiva (motivata dalla noia o dalla rabbia) e
aggressione strumentale (proattiva o motivata da incentivi). Nella prima, l’obiettivo è di
nuocere alla persona; nella seconda, il fatto di colpire la persona è indotto dalla volontà
di ottenere un beneficio, ad esempio una promozione o una migliore presentazione dell’immagine di sé. Numerosi studi (per un review, cfr. Zapf e Einarsen, 2003) sulle caratteristiche di personalità del mobber sembrano mostrare che la motivazione sottostante
all’intenzionalità del mobber sia per lo più di natura strumentale.
Tuttavia, come rilevato in precedenza, il mobbing consiste in un vero e proprio susseguirsi di azioni negative che perdura nel tempo, ragione per cui risulta arduo pensare
che non vi sia l’effettiva intenzione dell’agire doloso dell’aggressore. E, dall’altra parte,
la principale difficoltà nell’identificazione del mobbing risiede proprio nel fatto che è
molto difficile verificare la presenza dell’intenzionalità dell’aggressore. Nonostante l’intenzionalità sia un argomento controverso, non ci sono dubbi che la percezione dell’intenzionalità dell’aggressore sia fondamentale al fine che un individuo decida di etichettare la propria esperienza come mobbing.
Il concetto di valutazione della minaccia di stress (Lazarus e Folkman, 1984) può
essere di aiuto nel discernere i fattori che si legano alla percezione della vittima dell’intenzionalità dell’aggressore di colpire. Il modello transazionale di stress proposto da
Lazarus (Lazarus e Folkman, 1984) enfatizza la contestualizzazione psicologica e cognitiva del fenomeno. L’Autore, infatti, esplicita che lo stress si verifica quando ci sono richieste sulla persona che mettono alla prova o superano le sue risorse di adattamento,
ponendo particolare attenzione all’appraisal della situazione che la persona fa.
Vengono individuati tre processi critici: a) la valutazione cognitiva, intesa come il
momento in cui il soggetto si rende conto se un fattore ambientale è rilevante per il suo
stato di benessere psicologico; b) il coping, cioè i tentativi cognitivi e comportamentali per gestire specifiche richieste interne e/o esterne, che sono valutate eccedenti le
risorse delle persone; c) la reappraisal, concettualizzata come la ristrutturazione in termini soggettivi, emozionali e connotativi della situazione di minaccia, che tende a
ridurre così la potenzialità aggressiva. In questa prospettiva il mobbing è un fenomeno
soggettivo, le competenze possedute, le capacità percepite e l’ambiente interagiscono
generando processi di coping, ovvero le strategie poste in essere dalla vittima per far
fronte alla situazione.
Il mobbizzato, se percepisce l’intenzionalità di nuocere del mobber, aumenta le
potenzialità aggressive della minaccia, e pertanto la situazione è vista come più ostile.
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Def inire il mobbing
Infatti, Keashly e Rogers (2001) hanno messo in luce che quelle azioni mobbizzanti in
cui gli aggressori sono percepiti come intenzionati a nuocere erano valutate come più minaccianti, e quindi più ostili, di quelle in cui l’intenzionalità di nuocere non era percepita.
Il mobbizzato metterà in atto strategie di coping che possono essere adattative e maladattive. Gli effetti disfunzionali dovuti al probabile fallimento del coping sono tuttavia vissuti in modo ancora più negativo dalla vittima se la minaccia era percepita come grave, con
ricadute negative sullo stato di salute.
c) La percezione della vittima
Il mobbizzato, per ritenersi tale, deve percepire di esserlo. La percezione soggettiva
di essere una vittima è una condicio sine qua non perché si possa affermare che il mobbing
sia avvenuto o meno. L’esperienza soggettiva di essere vittimizzato è stata definita il
cuore del mobbing (Niedl, 1996). Il fatto che l’esperienza sia vera per la vittima non vuol
dire ovviamente che la versione del conflitto data da una parte sia universalmente vera.
Ad esempio la percezione del conflitto della vittima potrebbe differire molto da quella
dell’aggressore o non essere riconosciuta come mobbing su un piano legale. In molti
casi, infatti, l’altra parte (il mobber) non dirà mai che il mobbing è avvenuto, ma l’esperienza soggettiva della vittima è il punto centrale dell’approccio psicologico allo studio
del fenomeno. Ciò vuol dire che le lesioni alla sfera morale e alla dignità personale devono essere considerate vere in quanto percepite come tali da chi le subisce. La vittima
infatti quando si sente mobbizzata:
•
•
•
•
•
•
percepisce le azioni mobbizzanti come dolose;
è vulnerabile;
percepisce le sanzioni come non eque o fuori luogo;
si sente umiliata e insultata per il trattamento subito;
è convinta di non potersi difendere dagli attacchi subiti;
è soggetta a stigmatizzazione, ovvero viene considerata da chi gli sta intorno una “vittima meritevole”.
Il danno subito dalla vittima può variare, inoltre, a seconda di quanto forte è la percezione di “vittimizzazione del lavoratore”, ovvero di quanto il medesimo si senta vittima di mobbing. Infatti, più la persona si percepisce vittima di mobbing, più è probabile
che riporti gravi conseguenze sulla salute, sia sul piano emotivo sia su quello cognitivo,
sulla propria autostima e sul proprio benessere psicofisico.
d ) Le conseguenze sulla salute
Le vittime di mobbing possono soffrire di disturbi di ansia, depressione, disturbo
post-traumatico da stress o arrivare a commettere, in casi estremi, il suicidio o l’omicidio.
Si può manifestare anche una perdita di interesse per la vita sociale, un danno alle
relazioni familiari e un “effetto a onda” che può estendersi di là dall’ambiente lavorativo.
È ormai consolidato il concetto che si possono verificare una serie di disturbi psicologici, che non hanno nulla a che vedere con il mobbing, ma che sono considerati
come “reazioni a eventi” e che vanno, pertanto, valutati come patologie lavoro-correlate. Oppure si possono verificare anche casi di persone con disturbi psicologici pregressi,
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Mobbing: virus organizzativo
sui quali il mobbing può agire come fattore destabilizzante, attivando quindi una patologia preesistente, aggravandola o facilitandone la ricaduta.
Appare quindi necessario sottolineare le conseguenze delle azioni mobbizzanti subite,
affinché si possa anche intervenire aiutando la persona a far fronte al problema nella sua
interezza, ma partendo proprio dall’eziologia del disturbo originario. D’altro canto è opportuno ricordare che il mobbing non comporta soltanto disturbi gravi come quelli esposti
sopra, ma anche disturbi psichici e psicosomatici di minore intensità, associati pure ad altre
forme di stress psicosociale, che emergono già nel breve termine (cfr. capitolo decimo).
e) La durata
La maggior parte degli studi ha messo in luce che le vittime hanno un’esperienza
prolungata di mobbing. Esse riportano un’esposizione media ad azioni mobbizzanti pari
a dodici mesi (Einarsen et al., 2003).
Per differenziare l’esposizione al mobbing da altri stressor e comportamenti negativi sul lavoro, sulle orme di Leymann, si concorda su un periodo di almeno sei mesi.
La ragione di questa scelta per Leymann (1996) era dovuta al fatto che il mobbing
porta a sintomi psicosomatici, ansia e depressione che non possono essere ricondotti ad
altri stressor. Il tempo di sei mesi è considerato come soglia tipica diagnostica dei disturbi psichiatrici.
Prima di poter dichiarare, con un certo margine di sicurezza, che un individuo è
affetto da depressione piuttosto che da un disturbo post-traumatico da stress dovuto al
mobbing, è necessario che una certa configurazione di sintomi si manifesti in modo
stabile e continuativo nel tempo. È la durata dei maltrattamenti che porta a conseguenze negative per il soggetto, da un punto di vista sia clinico sia sociale. Gli effetti
del mobbing sembrano quindi iniziare dopo un periodo medio-lungo di vittimizzazione. Quelli che all’inizio possono essere considerati normali stressor e conflitti organizzativi possono, col passare del tempo, diventare esperienze sempre più difficili da tollerare per la vittima, che non vede via di uscita da una situazione percepita sempre più
minacciante.
La durata del mobbing inoltre appare in relazione con la frequenza delle azioni vessatorie subite dalla vittima. Le vittime che subiscono azioni negative con intensità e frequenza elevata riportano un’esperienza di mobbing superiore ai sei mesi. Ciò è in linea
con un modello di mobbing che mette in luce l’importanza dell’escalation del conflitto
(Einarsen et al., 2003), che diventa più intenso e personalizzato con il passare del tempo.
I conflitti e le azioni negative, che all’inizio sono sporadiche, col passare del tempo
si intensificano, la vittima, che prima riusciva a far fronte alla situazione rispondendo
alle umiliazioni e agli attacchi, esaurisce le proprie strategie di coping alimentando sempre più lo svilupparsi del mobbing.
f ) L’asimmetria di potere tra le parti
Einarsen et al. (2003) considerano determinante, nella definizione del processo di
mobbing, l’asimmetria di potere fra le parti coinvolte. La differenza tra aggressore e vittima, sia essa reale o percepita, rende quest’ultima particolarmente vulnerabile. Si è di
fronte a una persona priva di supporto, per la quale è difficile difendersi dalla situazione che si è venuta a creare. La persona sarà pertanto vittimizzata dall’esposizione ad azio-
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Def inire il mobbing
ni negative solo se si percepisce come impossibilitata e incapace di difendersi o di evadere dalla situazione.
Se le parti hanno lo stesso potere, infatti, possono controllare la situazione, hanno
qualche forma di supporto sociale e non si trovano in una posizione di inferiorità. Se la
persona si trova invece a ricevere un supporto adeguato, il conflitto si riduce di intensità
e per lo più si conclude positivamente. La letteratura di riferimento ha dimostrato che il
supporto sociale, nelle forme d’amicizia, rispetto, accesso e facilitazione alle informazioni, nonché l’aiuto nelle situazioni difficili possono ridurre lo stress, i connessi problemi
psicologici di salute e rafforzare le capacità di far fronte ai problemi. Sulle orme di House
(1981), Matthiesen, Aasen, Holst, Wie e Einarsen (2003) distinguono quattro tipi di supporto sociale in situazioni di conflitto:
• emotivo: alla persona è, ad esempio, data cura e attenzione da qualcuno nell’affrontare il conflitto;
• valutativo: alla persona vengono dati feedback costruttivi circa il proprio comportamento e l’impatto che questo ha su gli altri;
• informativo: alla persona vengono date informazioni in merito ai propri diritti e alle
alternative possibili per gestire il conflitto;
• strumentale: alla persona viene dato un aiuto diretto nelle specifiche situazioni in cui
si trova coinvolta.
La vittima di mobbing è tipicamente tormentata, frustrata, oppressa, spaventata o,
in ogni caso, intimidita e isolata. Vive una sorta di alienazione e impotenza appresa
(Ashforth, 1994), indotta dalla perdita di risorse personali, supporto sociale e controllo
(cfr. fig. 2-2), che la rendono impossibilitata a risolvere il conflitto, e se adotta strategie
per fronteggiare il problema la situazione può addirittura peggiorare (Zapf e Gross,
2001). Evitare il conflitto è spesso la strategia più ragionevole (Aquino, 2000).
I fattori scatenanti l’asimmetria di potere tra le parti possono riflettere: il potere
dato dalle strutture formali dell’organizzazione ai superiori nei confronti dei subordinati (posizione gerarchica, relazioni di potere, group membership) o il potere informale dell’aggressore dato, ad esempio, dalla sua maggiore esperienza e conoscenza dei meccanismi dell’organizzazione, o dal supporto ricevuto da persone influenti. L’asimmetria di
potere può essere anche indotta da forme di dipendenza dall’aggressore di natura diversa da quella sociale: dipendenza fisica (forza fisica), economica (mercato del lavoro, economia privata) o psicologica (personalità, capacità cognitive, stima di sé).
La percezione di vittimizzazione del mobbizzato, pertanto, in alcuni casi viene
influenzata in misura maggiore dalla posizione di potere del mobber nei confronti del
bersaglio o dalla dipendenza reale o percepita del secondo nei confronti del primo, piuttosto che dalla natura e dall’intensità dell’azioni mobbizzanti subite dalla vittima. A conferma di ciò, nella maggior parte dei casi gli aggressori sono i superiori e i manager
(Einarsen, 2000), o spesso è il gruppo che si coalizza per emarginare un collega. I subordinati, infatti, sono più dipendenti dai propri supervisori che da altri lavoratori e uno
stesso individuo può essere più dipendente dal proprio gruppo di lavoro che da altri
gruppi di lavoro. In alcuni casi, invece, l’asimmetria di potere può anche essere una mera
conseguenza delle azioni mobbizzanti poste in essere dall’aggressore. La molestia morale infatti influenza la percezione di adeguatezza, la competenza, la padronanza sull’ambiente e la self-efficacy della vittima e la rende più debole.
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Mobbing: virus organizzativo
Figura 2-2
Un modello per la comprensione del mobbing
Perdita di risorse personali
Mobbing
Appraisal
Perdita di controllo
Coping
Reazione
estrema
di stress
Perdita di supporto sociale
Modificato da: Zapf e Einarsen (2005).
Il mobber può utilizzare strategie mobbizzanti estremamente subdole e pianificate
per colpire proprio quegli aspetti della mansione lavorativa, o della personalità, che rappresentano i punti deboli del bersaglio. In tal modo l’azione negativa risulta più lesiva e
rappresenta una possibile fonte di abuso di potere in una situazione di conflitto.
L’asimmetria di potere può anche non essere evidente nei primi episodi, ma successivamente, con l’evolversi del conflitto, si può assistere a una perdita di potere da
parte del target, sia per fattori interni al processo di mobbing, sia per fattori più esterni
ma comunque collegati. La vittima, quindi, che in un primo momento riusciva a far
fronte alle azioni mobbizzanti dell’aggressore, si trova ben presto in una situazione di
impotenza e di impossibilità di reazione.
L’asimmetria di potere che si viene a creare permette all’aggressore, che diventa conscio della possibilità di raggiungere i propri scopi, di agire più liberamente e di raggiungere i propri fini. Anche i colleghi, che inizialmente potevano fornire una forma di supporto sociale, sono diventati nella percezione del mobbizzato degli spettatori del processo. La
vittima non vede più vie di uscita, perché l’aggressore è in una posizione di vantaggio.
g) La natura e il pattern dei comportamenti di mobbing
Il mobbing, per essere definito tale, deve includere specifici comportamenti, di
natura verbale più che fisica, non motivati necessariamente da molestie sessuali e raz-
28
Def inire il mobbing
ziali. Le azioni di mobbing, infatti, implicano raramente aggressioni o violenza fisica. Di
solito sono molto più velate e subdole, ma non meno vessatorie. In uno studio di
Einarsen e Raknes (1997) effettuato su un campione di soli lavoratori uomini, soltanto il
2.4% delle vittime di mobbing riportava di aver subito abusi fisici o minacce di violenza. La molestia sessuale e la molestia razzista, in un primo tempo, erano state considerate strategie mobbizzanti, ma le ultime ricerche internazionali hanno messo in luce come
queste non rientrino nel costrutto di mobbing (Einarsen et al., 2003). Appare opportuno quindi sottolineare che la molestia sessuale non è mobbing, nonostante la stampa
divulgativa italiana accomuni spesso i due fenomeni. I due costrutti hanno infatti antecedenti e outcome diversi, ed è quindi opportuno/necessario tenerli distinti ai fini di
interventi correttivi, preventivi o legali.
È possibile, tuttavia, che strategie mobbizzanti siano talvolta legate ad azioni di
molestia sessuale, o comunque che i due fenomeni si verifichino contemporaneamente.
D’altro canto, l’etnia e il genere sono variabili che potrebbero influenzare il comportamento di mobbing in contesti e situazioni specifiche: infatti, alcune categorie di lavoratori, come ad esempio gruppi di minoranze etniche e donne, potrebbero essere percepite come aventi meno potere (Salin, 2003) e l’aggressore potrebbe così sentirsi perfino
legittimato a esercitare comportamenti vessatori.
In letteratura sono individuabili molteplici classificazioni delle azioni negative
tipiche del processo di mobbing. La maggior parte di queste azioni è abbastanza comune sul posto di lavoro e può avere un carattere non così distruttivo, ma la sua frequenza e persistenza, dirette esclusivamente verso la stessa persona col preciso fine di recarle danno, possono diventare una forma estrema di stress (Zapf, Knorz e Kulla, 1996) e
causare conseguenze anche gravi per chi subisce queste azioni vessatorie (Einarsen e
Mikkelsen, 2003). Di seguito sono riportate alcune delle principali classificazioni delle
azioni mobbizzanti.
Heinz Leymann, sulla base di interviste, aveva elaborato un elenco di cinque categorie di azioni di mobbing: 1) attacchi alla possibilità di comunicare, 2) attacchi alle relazioni sociali, 3) attacchi all’immagine sociale, 4) attacchi alla qualità della situazione
professionale e privata, 5) attacchi alla salute.
Ege (1998) individua cinque categorie di mobbing: 1) attacchi ai contatti umani, 2)
isolamento sistematico, 3) cambiamenti delle mansioni lavorative, 4) attacchi alla reputazione, 5) violenze o minacce di violenze.
Bjorkqvist, Osterman e Hjelt-Back (1994) distinguono due fattori: 1) aggressione
razionale e 2) manipolazione sociale.
Niedl (1996) identifica sei fattori: 1) attacchi alla dignità e all’integrità della persona, 2) isolamento sociale, 3) assegnazione di compiti al di sotto della propria professionalità, 4) critica continua circa il lavoro svolto, 5) violenza fisica o minaccia di violenza,
6) insinuazioni su possibili disturbi mentali della vittima.
Vartia (1993) distingue sei categorie di azioni di mobbing: 1) diffamazione, 2) isolamento sociale, 3) assegnazione di compiti inferiori al proprio livello di competenza, 4)
critica o minaccia, 5) violenza fisica o minacce di violenza, 6) insinuazioni sulla salute
mentale della vittima.
Zapf et al. (1996) individuano sette categorie di mobbing: 1) misure organizzative
(ad esempio, cambio mansioni, trasferimenti), 2) isolamento sociale, 3) attacchi alla sfera
privata, 4) attacchi alla persona, 5) violenza fisica o minaccia di violenza, 6) aggressione
verbale, 7) pettegolezzi e gossip.
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29
Mobbing: virus organizzativo
Einarsen e Raknes (1997) enunciano cinque categorie: 1) attacchi alla vita privata,
2) isolamento sociale, 3) azioni negative legate al lavoro, 4) minaccia di violenza o violenza fisica, 5) molestie sessuali.
Einarsen e Hoel (2001) individuano due categorie di mobbing: 1) attacchi alla persona e 2) attacchi alla mansione e al ruolo lavorativo.
Dick e Rayner (2004) identificano per altro quattro categorie di azioni mobbizzanti: 1) attacchi all’attività lavorativa, 2) attacchi alla persona, 3) isolamento sociale, 4)
attacchi verbali.
A livello internazionale, lo studio di Einarsen e Hoel (2001) è il più condiviso dalla
comunità di ricercatori e da quanti all’interno delle organizzazioni si occupano di mobbing. Anche dal punto di vista operativo, la possibilità di dividere il mobbing in due sottospecie permette una maggiore incisività di intervento sul fenomeno, sia a livello preventivo che a livello correttivo.
Nella figura 2-3 sono elencati alcuni esempi di azioni mobbizzanti.
In un recente studio di Dick e Rayner (2004) gli attacchi all’attività lavorativa sono
risultati essere le azioni mobbizzanti più frequenti, seguiti dagli attacchi alla persona e
all’isolamento sociale della vittima. Nella maggior parte dei casi, poi, questi attacchi
Figura 2-3
Esempi di azioni mobbizzanti
Categoria di mobbing
Esempi di comportamenti
Fonte
Mobbing sulla persona
Eccessivo sarcasmo
Bjorkqvist et al. (1994); Einarsen
e Hoel (2001); Depolo (2003); Dick
e Rayner (2004); Giorgi e Majer
(2008)
Isolamento
Leymann (1990); Bjorkqvist et al.
(1994); Zapf et al. (1996); Ege
(1998); Argentero, Bonfiglio
e Zanaletti (2004)
False accuse
Leymann (1990); Bjorkqvist et al.
(1994); Zapf et al. (1996); Einarsen
e Hoel (2001); Giorgi e Majer (2008)
Pettegolezzi e gossip
Bjorkqvist et al. (1994); Einarsen e
Hoel (2001); Depolo (2003); Dick e
Rayner (2004); Giorgi e Majer (2008)
Comportamenti intimidatori
Einarsen e Hoel (2001); Depolo
(2003); Giorgi e Majer (2008)
Continue critiche
Leymann (1990); Bjorkqvist et al.
(1994); Einarsen e Hoel (2001);
Depolo (2003); Dick e Rayner (2004);
Argentero et al. (2004); Giorgi
e Majer (2008)
segue
30
Def inire il mobbing
Figura 2-3 – continua
Categoria di mobbing
Esempi di comportamenti
Fonte
Mobbing sulla mansione
e sugli aspetti
del ruolo lavorativo
Informazioni trattenute
Zapf et al. (1996); Einarsen e Hoel
(2001); Depolo (2003); Dick e Rayner
(2004); Argentero et al. (2004);
Giorgi e Majer (2008)
Scadenze irragionevoli
Zapf et al. (1996); Einarsen e Hoel
(2001); Depolo (2003); Argentero
et al. (2004); Giorgi e Majer (2008)
Pressione perché non venga
richiesto qualcosa che spetterebbe di diritto
Einarsen e Hoel (2001); Depolo
(2003); Giorgi (2007)
Sabotaggio del lavoro
Zapf et al. (1996); Depolo (2003);
Argentero et al. (2004)
Responsabilità rimosse
Leymann (1990); Einarsen e Hoel
(2001); Depolo (2003); Giorgi
e Majer (2008)
Lavoro impossibile
da gestire
Einarsen e Hoel (2001); Depolo
(2003); Dick e Rayner (2004);
Argentero et al. (2004); Giorgi
e Majer (2008)
risultavano in interazione l’uno con gli altri. L’interazione delle azioni mobbizzanti
emerse ha permesso agli Autori della ricerca di avanzare delle ipotesi sulla sequenza
temporale dei comportamenti di mobbing all’interno delle categorie prese in esame,
ovvero mettere in luce dei pattern: gli attacchi alla persona e alla mansione sono estremamente collegati e risultano basilari nella comprensione del pattern delle categorie di
mobbing. L’isolamento, nonostante sia legato agli attacchi alla persona e al ruolo lavorativo, non risulta associato agli attacchi verbali; gli attacchi verbali sono fortemente
collegati agli attacchi alla persona, ma non agli attacchi alla mansione (cfr. fig. 2-4). Il
modello presentato dagli Autori risulta pertanto utile non solo per comprendere come
il mobbing si manifesti nel corso del tempo e con quali forme, ma pure per poter intervenire precocemente sulle cause e fare opera di prevenzione perché in futuro non possa
più manifestarsi.
h ) L’escalation
Il mobbing sembra essere un processo, una sorta di escalation dello stesso conflitto,
che evolve gradualmente nel tempo attraverso delle fasi, a partire da una condizione di
conflitto non risolta. Questo processo di escalation nel mobbing è stato concettualizzato anche sulla base della severità/intensità delle azioni mobbizzanti subite dalla vittima
(Einarsen, 2000). Di solito si inizia con azioni mobbizzanti indirette (gossip, malizie, storie false), che sono difficili da identificare e controbattere dalla vittima proprio perché
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Mobbing: virus organizzativo
Figura 2-4
Il pattern delle azioni mobbizzanti
Attacchi alla mansione
Attacchi alla persona
Isolamento sociale
Attacchi verbali
velate e sottili. Successivamente appaiono azioni più aggressive e il mobbing diventa più
diretto, la vittima viene chiaramente evitata, esclusa e ridicolizzata, diventando il bersaglio da parte dell’ufficio/reparto di appartenenza di scherzi imbarazzanti e umiliazioni.
Inoltre, mentre nelle fasi iniziali la vittima sembra essere attaccata sporadicamente,
quando il conflitto si intensifica gli attacchi diventano più frequenti e diretti e, dopo un
po’ di tempo, la vittima viene attaccata settimanalmente o giornalmente.
A questo punto i colleghi iniziano a pensare che il conflitto sia risultante dalla personalità della vittima (personalizzazione del conflitto) e la vittima subisce azioni mobbizzanti sempre più frequentemente e in modo più diretto. Essa diventa meno capace di
fare fronte ai compiti e alle richieste del lavoro, divenendo, quindi, più vulnerabile e
“vittima meritevole” (stigmatizzazione), nonché colpevolizzata, della situazione che si è
venuta creare. Attraverso questo processo di “attribuzione di colpa” alla vittima (collettivizzazione) il mobber e i side-mobber trovano una giusta causa per l’esercizio del loro
comportamento ed evitano così possibili sensi di colpa. Nelle fasi finali il mobbing prende forma come minaccia diretta e possono essere usate dal mobber sia la violenza psicologica che quella fisica: attacchi alla vita privata della persona, insinuazioni che la vittima soffra di disturbi mentali gravi, minaccia di abuso fisico ecc.
Il ruolo degli osservatori è cruciale nell’escalation di questo processo. Essi potrebbero anche fermare l’intensificazione del conflitto nei primi stadi, ma la pressione di gruppo, la protezione del proprio sé e la paura di poter diventare le prossime vittime li rendono meno disposti a opporsi all’aggressore o ad aiutare il mobbizzato.
Zapf e Gross (2001) individuano cinque differenti percorsi di sviluppo del mobbing
(cfr. fig. 2-5):
32
Def inire il mobbing
1) il fenomeno si manifesta attraverso un’intensificazione del conflitto progressiva e
continuativa;
2) il fenomeno si manifesta attraverso una rapida intensificazione del conflitto fino a un
determinato livello, e su tale livello perdura nel tempo;
3) il fenomeno si manifesta attraverso un’intensificazione del conflitto progressiva e
continuativa, ma a un certo livello si assiste a una diminuzione del conflitto tra le
parti;
4) il fenomeno si manifesta attraverso un’intensificazione progressiva del conflitto
secondo delle fasi più o meno simili;
5) il fenomeno si manifesta attraverso un’alternanza di intensificazione e diminuzione
del conflitto tra le parti.
Figura 2-5
I percorsi di sviluppo del mobbing
1
2
4
5
3
Zapf (1999) ha riscontrato che, nella maggior parte dei casi esaminati, il fenomeno
si manifesta attraverso un’intensificazione del conflitto progressiva e continuativa
seguendo delle fasi specifiche (cfr. fig. 2-5, percorso numero 4). Inoltre Zapf e Gross
(2001), sulla scia di numerose ricerche sul coping e sullo stress lavorativo, hanno adattato il modello EVLN (exit, voice, loyalty, neglect) al mobbing. Tale modello spiega le strategie di coping messe in atto dalle persone per fronteggiare i disagi lavorativi e si dimostra utile nella comprensione del processo di escalation del fenomeno, confermando l’assunzione precedentemente esplicata (cfr., in questo paragrafo, il punto f) L’asimmetria di
potere tra le parti), per cui nel mobbing difficilmente si osserva un decremento sistematico del conflitto nel corso del tempo, ma anzi il conflitto aumenta.
Il modello EVLN è costruito su un asse ortogonale costituito da comportamento
attivo e passivo e su un asse obliquo costituito da comportamento costruttivo e comportamento distruttivo (cfr. fig. 2-6) mettendo in luce che le vittime di mobbing possono rispondere al problema:
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Mobbing: virus organizzativo
Figura 2-6
Il modello EVLN
attivo
EXIT
VOICE
costruttivo
distruttivo
LOYALTY
NEGLECT
passivo
• in modo attivo ma con valenza negativa, lasciando, ad esempio, il posto di lavoro
(exit);
• in modo costruttivo, cercando di migliorare la situazione tramite strategie di problemsolving attivo, quali cercare supporto e/o conforto fra i propri colleghi e familiari, o
confrontarsi con l’aggressore/aggressori o con il management aziendale (voice);
• in modo prospettico, mettendo in atto strategie di problem-solving passivo, quali continuare a svolgere la propria mansione manifestando dedizione all’azienda e sperando
nell’intervento dei vertici aziendali (loyalty);
• in modo passivo e con valenza negativa, manifestando, ad esempio, una forte riduzione del coinvolgimento lavorativo nei confronti del proprio lavoro (neglect).
Zapf e Gross affermano che le vittime, davanti a una situazione di mobbing, non
mettono in atto una sola delle strategie descritte, ma innescano un vero e proprio pattern di fronteggiamento. Tuttavia le strategie utilizzate per risolvere il conflitto il più
delle volte risultano inefficaci, e abbandonare il lavoro rappresenta la conclusione più
frequente per la vittima. Come infatti rileva Glasl (1994), strategie di coping che possono funzionare a un basso livello di conflitto possono non essere efficaci quando il conflitto è diventato intenso e aspro come nel mobbing.
Gli Autori evidenziano cinque diversi percorsi di gestione del conflitto, tra questi il
VLVNE (voice-loyalty-voice-neglect-exit) risulta il più frequente. Inizialmente il lavoratore
cerca di risolvere la situazione in modo costruttivo parlando con il proprio aggressore o
34
Def inire il mobbing
chiedendo supporto ai propri colleghi (voice), ma nella maggior parte dei casi la situazione non migliora, anzi può addirittura peggiorare, e la vittima così tende in modo passivo a prendere tempo, continuando a svolgere la propria attività lavorativa nella speranza che i vertici aziendali interverranno al più presto (loyalty). Se così non dovesse
essere, allora cercherà di nuovo di fronteggiare l’aggressore o chiederà aiuto nuovamente ai propri colleghi (voice). La situazione, col tempo, tende però a deteriorarsi e anche
queste strategie attive di risoluzione del conflitto possono risultare inefficaci, portando
così la persona, consapevole della spirale del mobbing che l’attanaglia, prima a ridurre il
proprio coinvolgimento nell’organizzazione e dopo a lasciarla.
i) L’ambiente di lavoro
La causa primaria del mobbing è riconosciuta, dalla letteratura specialistica più
recente, nelle condizioni di lavoro (ad esempio, Giorgi e Majer, 2004; Salin, 2003).
Negli ultimi anni, numerosi studiosi hanno enfatizzato la relazione fra il mobbing
e la pressione per l’efficienza, la competizione interna ed esterna (Salin, 2003), il cambiamento e le ristrutturazioni organizzative, un clima organizzativo negativo (Giorgi,
2007). Il mobbing può, inoltre, portare a un abbattimento del commitment dei lavoratori e a una percezione di ingiustizia e iniquità organizzativa (Depolo, 2003), rompendo il contratto psicologico stabilito tra individuo e organizzazione. Le percezioni del
contesto organizzativo diventano infatti, con l’intensificarsi del conflitto di mobbing,
ancora più negative, in particolare quando il management disconosce il mobbing, non
gestendolo, o quando lo gestisce in modo approssimativo. Il mobbizzato, pertanto, si
percepisce vittima anche perché si trova avviluppato in una spirale di conflitti generati in un ambiente che non gli permette una via di uscita. Qualora l’ambiente fosse
percepito più positivamente, le azioni mobbizzanti subite potrebbero essere interpretate dal mobbizzato in un’accezione meno lesiva e minacciante. È il caso di alcuni setting organizzativi (ad esempio, quelli paramilitari), dove l’effetto patogeno delle azioni negative risulta attenuato dal fatto che le stesse sono state in qualche modo istituzionalizzate dalla cultura organizzativa, facendo parte dei processi di socializzazione.
Chi appartiene a questi ambienti subisce lo stesso azioni vessatorie ma, vivendo un
clima organizzativo tutto sommato positivo, le percepisce meno minaccianti e può
addirittura non sentirsi vittimizzato.
Va evidenziato che gli effetti negativi del mobbing agiscono non solo sul benessere
dei lavoratori (Einarsen e Mikkelsen, 2003), ma anche sotto forma di outcome organizzativi in termini di incremento, di assenteismo e turnover del personale (Leymann, 1990).
Appare, quindi, necessario per lo studio del mobbing andare a ricercare nell’organizzazione non solo le cause ma anche le possibili ricadute. Ad esempio, il conflitto, condizione necessaria per lo svilupparsi del mobbing, è una delle principali determinanti dell’assenteismo dei lavoratori. Pertanto, il danno del mobbing non ricade soltanto sulla
vittima ma anche sull’organizzazione.
Per quanto risulta agli Autori, ad oggi non sussiste ancora un caso in cui un’azienda abbia denunciato per mobbing uno o più dei suoi dipendenti e abbia, di conseguenza, richiesto che le fossero risarciti i danni subiti. Tale situazione potrebbe, tuttavia, aprire nuove piste di ricerca e di intervento sul fenomeno del mobbing.
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35
CAPITOLO TERZO
Gli approcci allo studio del mobbing
1. L’approccio multidisciplinare
La gestione del fenomeno mobbing è tipicamente multidisciplinare e si realizza grazie a un team di intervento, in quanto si basa su diverse competenze, quali quelle psicologiche, mediche, giuridiche, sociologiche ed economiche. Il mobbing, infatti, presenta
delicati aspetti di carattere sociale, politico e giuridico. In un clima di grande sovraesposizione mediatica, la possibilità di fraintendimento nel riconoscimento di situazioni mobbizzanti è molto alta e ciò rende ancora più cogente la necessità di utilizzare un approccio multidisciplinare al problema, soprattutto per quanto concerne l’iter diagnostico.
Le figure del team di lavoro dovranno essere interdipendenti in una struttura funzionale unitaria della quale facciano parte anche alcuni membri dell’organizzazione, che
generalmente coincidono con la direzione del personale o con organi e commissioni di
vigilanza e prevenzione/intervento, interni all’organizzazione, deputati a gestire i problemi della tutela della salute psicofisica dei lavoratori, nonché quelli dell’efficienza/efficacia dell’azione organizzativa. È fondamentale che il team rimanga costante nella sua
composizione per la durata complessiva dell’intervento, che ha il compito di definire gli
obiettivi, pianificare il percorso e monitorare lo svolgimento del lavoro. Al suo interno
è opportuno che vi siano le seguenti figure professionali:
• medico del lavoro, con particolare riferimento all’anamnesi lavorativa;
• psicologo del lavoro, per l’analisi e la valutazione dei fattori di rischio psicosociali, dell’organizzazione del lavoro e per il riconoscimento dei criteri basilari caratterizzanti
situazioni di mobbing;
• psicologo clinico, con particolare riferimento alla valutazione e all’analisi delle manifestazioni psicopatologiche attuali e/o pregresse, attraverso il colloquio e metodi
psicodiagnostici validi e sensibili: test di personalità quali il Minnesota Multiphasic
Personality Inventory-2 (MMPI-2; Hathaway e McKinley, 1989), Rorschach ecc.;
36
Gli approcci allo studio del mobbing
• medico psichiatra, per la diagnosi psichiatrica, ovvero la determinazione della tipologia della reazione a valle dell’evento mobbizzante;
• medico-legale, per la valutazione analitica della sussistenza di un nesso di causalità e
per l’individuazione di un eventuale danno biologico.
Le competenze e le possibili sfere di azione e intervento sopra elencate sembrano
indispensabili per arrivare a una diagnosi sufficientemente affidabile del complesso
fenomeno. Nonostante ciò, ancora oggi non sempre sono chiari i meccanismi e le occasioni di insorgenza e sembrano necessari ulteriori studi e ricerche all’interno di differenti contesti organizzativi/lavorativi, utilizzando diversi approcci (si ricorda anche che
sociologi, economisti e sindacalisti sono tutt’oggi particolarmente attivi nello studio
del fenomeno).
2. L’approccio sociologico ed economico
Nella prospettiva sociologica ed economica lo studio del mobbing in Italia trova
le proprie radici a partire dagli anni Novanta. Come rileva Cristina Tosti Guerra (2004):
“È la traduzione spontanea della flessibilità in precarietà che, trasformando il mondo
del lavoro in mercato, il lavoratore-persona in merce umana, favorisce l’esplosione di
questo tipo di violenza, sottolineando l’intima connessione tra mobbing e modernità”
(p. 105).
Tra le caratteristiche del lavoro moderno che possono influenzare il fenomeno del
mobbing si possono annoverare le seguenti: in primo luogo, la globalizzazione che, con
lo spostamento di produzioni a basso costo di manodopera, ha determinato una ricerca
spasmodica della riduzione del costo aziendale, non curante di tagli del personale,
diffondendo così una cultura che tende ad anteporre sempre più il profitto alla persona.
Un’altra peculiarità dell’economia moderna è la crescente competitività tra le imprese.
Ciò condiziona i processi di riorganizzazione del lavoro: outsourcing (ricorso a fornitori
esterni), downsizing (riduzione delle dimensioni fisiche e funzionali della singola organizzazione) e alimenta l’esplosione dei lavori atipici (snellimento del lavoro attraverso la
sua precarizzazione), favorendo con ciò la ricattabilità dei lavoratori e la diffusione di
varie tipologie di mobbing. Inoltre, come sottolinea Salini (2001), l’insorgere della molestia può essere collegato al surmenage lavorativo, ovvero alla pressione per produrre sempre di più in minor tempo e con minori costi, connessa alle recenti e continue trasformazioni nella produzione.
Un fattore collegato al mobbing è la precarietà del lavoro, per cui si è giunti a considerare antieconomico un lavoratore con contratto a tempo indeterminato. Sarà pertanto maggiore il rischio di perdere il proprio impiego quanto superiore risulterà la
concorrenza tra colleghi. L’azienda utilizzerà il mobbing come tecnica di estromissione del/i soggetto/i non sufficientemente produttivo/i. Bisogna considerare, poi, l’evoluzione continua delle competenze per svolgere ai massimi livelli una professione. I
lavoratori che hanno le conoscenze più obsolete, sui quali l’azienda non vuole investire in formazione, o non vuole pagarne l’aggiornamento professionale perché preferisce
assumerne altri già in possesso di quelle conoscenze, possono essere espulsi tramite il
mobbing.
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37
Mobbing: virus organizzativo
Molti sociologi sostengono che il mobbing, sotto varie forme e denominazioni, sia
sempre esistito. Infatti è possibile ripensare a casi di mobbing del passato: ad esempio
negli Stati Uniti, negli anni Trenta, post-depressione, dove gruppi di operai esercitavano
una forma di eliminazione dal lavoro dei compagni che non si impegnavano adeguatamente; oppure, come rileva Giovannini (2004), in Italia, negli anni Cinquanta e
Sessanta, quando gruppi di operai, fortemente politicizzati, prendevano misure severissime nei confronti dei colleghi che con il loro comportamento incrinavano il senso di
appartenenza e di affiliazione (da esclusione ai riti sociali sul lavoro, a forme di violenza
e intimidazione, anche fuori dal luogo di lavoro).
In questi casi, tuttavia, l’intento persecutorio era mosso più da un interesse collettivo che da un interesse individuale. La forma di mobbing che viene esercitata oggi è,
invece, ancora più subdola e vessatoria perché individualizzata, dovuta, cioè, alla scomparsa di legami solidaristici e collettivi all’interno del luogo di lavoro, al deterioramento
delle relazioni di lavoro, allo scarso riconoscimento sociale del lavoro e all’incapacità del
lavoro di produrre identità e generare benessere. Il mobbing sembra affondare le sue
radici nell’incrinamento, forse nella scomparsa, del valore sociale del lavoro e nella progressiva perdita di senso dell’individuo, che vede prevalere i valori della competizione,
del homo homini lupus e della violenza.
Gli studi sul mobbing in ambito economico ne hanno messo in luce l’incidenza
nel processo produttivo aziendale, cercando di definire il costo in termini monetari che
ricadono sulle imprese e sulla società. Secondo le indagini svolte, il mobbing si riverbera sull’efficienza aziendale in quanto crea un corto circuito che fa diminuire la produttività del lavoro. Produce assenteismo, spesso per malattia, e spegne ogni forma di
collaborazione tra i dipendenti, creando conflitto organizzativo. Genera, inoltre, un
danno all’immagine aziendale e ai suoi singoli dipendenti. Non è poi da sottovalutare
che, quando vengono presentate cause legali per mobbing, le aziende devono far fronte a notevoli spese.
In ambito prettamente sociale, invece, si hanno effetti estremamente negativi sul
prodotto interno lordo.
Le indagini scientifiche sociologiche ed economiche aiutano quindi a comprendere alcune cause e le possibili manifestazioni del fenomeno, tuttavia risultano per adesso
ancora poche e non esaustive, anche perché condotte su popolazioni con scarsa numerosità e con l’ausilio di strumenti statistici poco consolidati e conseguentemente difficilmente generalizzabili.
3. L’approccio medico
Lo studio del mobbing rappresenta un capitolo emergente anche nel campo della
medicina. Il lavoro di Leymann (1990) ha il merito di aver inquadrato con sufficiente
chiarezza il fenomeno e di avergli dato una definizione precisa avendone individuato
alcune caratteristiche strutturali. Sulle orme di Leymann è stato, infatti, ormai ampiamente dimostrato che il mobbing ha effetti rilevanti sulla salute delle vittime e induce
una serie di alterazioni a livello neuropsichico. I segnali di allarme sono molteplici: cefalea, tachicardia, gastroenteralgie, mialgie, disturbi dell’equilibrio (a livello psicosomatico), ansia, tensione, insonnia (a livello emozionale) e anoressia, bulimia, farmacodipendenza (a livello comportamentale).
38
Gli approcci allo studio del mobbing
In ambito medico, in Italia si è iniziato a prestare la dovuta attenzione al mobbing
a partire dal 1998, per merito del Centro del Disadattamento Lavorativo coordinato da
Renato Gilioli, presso l’Istituto di Medicina del Lavoro Devoto dell’Università di
Milano. Nel 2001, lo stesso Gilioli ha coordinato la stesura del Documento di consenso,
un approfondimento critico del fenomeno, condiviso da numerosi Autori, in cui sono
delineate alcune aree di intervento. Numerosi studi sono stati effettuati per l’identificazione dei quadri sindromici da mobbing e per la messa a punto di strumenti diagnostici in grado di rilevare con sufficiente approssimazione il profilo patologico delle
sindromi mobbing correlate. Le patologie più frequentemente registrate rimandano,
prevalentemente, a quadri nosograficamente inquadrabili, secondo i criteri del
Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders, Fourth Edition, Text Revision (DSMIV-TR; American Psychiatric Association, 2000), nell’ambito del Disturbo d’Ansia
Generalizzato, del Disturbo dell’Adattamento, del Disturbo Distimico e del Disturbo
Post-traumatico da Stress.
In questo ultimo periodo ci si sta muovendo anche per cercare di mettere in luce
l’incidenza del fenomeno. In uno studio condotto presso l’ambulatorio istituito presso
la II Facoltà di Medicina e Chirurgia dell’Università “La Sapienza” di Roma, su 152
pazienti, preventivamente selezionati da un gruppo di psicologi, è emerso che il 55.4%
dei casi presentava un Disturbo dell’Adattamento, il 6.7% era associato a turbe della sfera
psichica, il 40.5% era affetto da patologie psichiatriche, che per il 16.2% risultavano essere antecedenti all’insorgenza del mobbing, il 4.1% dei pazienti non presentava patologie psichiche degne di nota. Pertanto la compatibilità con il mobbing, o stress occupazionale, è stata confermata nel 49% dei casi, ossia quando è stato diagnosticato un
Disturbo dell’Adattamento, perché è stata ritenuta significativa la correlazione tra la
patologia e gli episodi riferiti dai pazienti stessi.
Nella stessa direzione si è mossa la Fondazione Salvatore Maugeri, Clinica del
Lavoro e della Riabilitazione, che ha presentato i risultati della propria casistica. Su 45
lavoratori esaminati, invitati a recarsi all’ambulatorio direttamente dal medico di base,
è stato diagnosticato un quadro psicopatologico correlabile, con ragionevole grado di
probabilità, a una situazione di mobbing solo in 8 persone, ovvero meno del 20% dei
casi (un caso di Disturbo Post-traumatico da Stress e 7 di Disturbo dell’Adattamento). È
evidente come anche in ambito medico ci siano discrepanze nella stima dell’incidenza
del fenomeno, dovute, da una parte, a criteri di preselezione dei pazienti che accedono
agli ambulatori e, dall’altra, verosimilmente, alle differenti metodologie nell’approccio
diagnostico.
In queste situazioni il medico può essere chiamato in causa come: a) medico di base
del lavoratore, b) medico del lavoro, specialista di mobbing, a cui si rivolge la potenziale vittima, c) medico competente dell’azienda in cui è posta in essere la violenza morale. Il medico di base potrà, infatti, indirizzare il paziente verso comportamenti di difesa
adeguati, come ad esempio usufruire di periodi di recupero che, affiancati ad altri provvedimenti diagnostici, possono consentire di affrontare il problema in modo meno isolato. Il medico del lavoro, specialista di mobbing, potrà invece inquadrare la patologia
della potenziale vittima la cui causa o concausa sia l’ambiente di lavoro, ovvero effettuare una diagnosi di compatibilità causale (Cupelli, 2004).
La diagnosi delle sindromi di mobbing si basa sull’utilizzo di un protocollo che
comprende accertamenti di carattere neurologico, psichiatrico, psicologico, internistico
e di un’anamnesi lavorativa molto dettagliata, che nella maggior parte dei casi rappre-
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39
Mobbing: virus organizzativo
senta la fonte di informazione più significativa, in quanto permette di evidenziare l’epoca di insorgenza e la fenomenologia degli episodi. Si tratta di diagnosi di probabilità,
data l’impossibilità di un riscontro oggettivo nell’ambiente di lavoro da parte della
“struttura diagnostica della vittima”. Le competenze, l’esperienza clinica e l’utilizzo di
strumenti ampiamente validati e sufficientemente potenti che vengono utilizzati da
parte degli specialisti consentono, in ogni caso, un discreto grado di attendibilità. Dalla
diagnosi, se si evince un rapporto di causalità tra patologia e ambiente di lavoro, il medico potrà fornire una certificazione di compatibilità, spendibile sul piano medico-legale.
L’approccio scientifico nell’inquadramento diagnostico della patologia da mobbing
è di fondamentale importanza per consentire un adeguato riconoscimento in ambito
medico-legale e assicurativo.
Il medico del lavoro, specialista di mobbing, potrà fornire linee guida di carattere
sanitario nella gestione e nel superamento dei disturbi conseguenti alla violenza subita
e certificare all’INAIL, nonché segnalare all’organo di vigilanza e alla magistratura, i casi
di patologia riconducibili a episodi di mobbing (Cupelli, 2004).
A livello preventivo è previsto che il medico competente, ex decreto legislativo 19
settembre 1994, n. 626, collabori con il datore di lavoro e con i servizi/organi di prevenzione/protezione, affinché l’integrità psicofisica, la dignità e la salute dei lavoratori
vengano tutelate; pertanto, a livello preventivo, dovrà richiamare l’attenzione sui fattori di rischio meno tradizionali, tra cui anche quello di mobbing (Gilioli et al., 2001) e, in
casi di denunce, svolgere la funzione di referente per il potenziale mobbizzato, adempiere agli aspetti diagnostici e legali, indirizzando il lavoratore verso specialisti come uno
psicologo, un medico specialista, un avvocato, coinvolgendo, possibilmente, anche il
medico curante (Cupelli, 2004).
4. L’approccio giuridico
Dal punto di vista giuridico è determinante concentrarsi sui fatti che possono caratterizzare il mobbing, al fine di inquadrarli all’interno di categorie giuridiche tipiche adeguate. Gli strumenti diversificati che permettono di inquadrare e intervenire sul fenomeno, a partire dalle norme legislative e contrattuali, sono:
•
•
•
•
•
•
•
•
carta costituzionale;
codice civile e codice penale;
Statuto dei lavoratori (legge 20 maggio 1970, n. 300);
risoluzione del Parlamento Europeo sul mobbing sul posto di lavoro;
decreto legislativo 19 settembre 1994, n. 626;
decreto legislativo 28 febbraio 2000, n. 38;
giurisprudenza in materia (ad esempio, le sentenze);
norme contrattuali.
L’odierno sistema normativo manca di uno specifico riferimento al mobbing in
quanto tale, sebbene esso rappresenti una costante sempre più imperante nel panorama
del contenzioso giudiziario. In linea generale, dottrina e giurisprudenza tendono a inserire il danno da mobbing più o meno indistintamente all’interno di due tipologie di
responsabilità: quella contrattuale ex art. 2087 c.c., che assoggetta a una responsabilità
40
Gli approcci allo studio del mobbing
contrattuale il datore di lavoro, imponendogli determinati obblighi di protezione nei
confronti del dipendente, e quella aquiliana ex art. 2043 c.c., che riporta il fenomeno
nell’ambito del principio del neminem laedere.
L’art. 2087 c.c. incarna un limite fondamentale a quella libertà di iniziativa economica privata che la Costituzione promuove e tutela, ma che allo stesso tempo intende
contenere entro precisi confini: “L’iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi […] in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana” (art.
41 cost.).
La norma comporta a carico del datore di lavoro l’obbligo di non arrecare danno
alla sicurezza, alla libertà e alla dignità del proprio lavoratore, adottando a tal fine tutte
le misure necessarie per preservarne l’integrità psicofisica e la personalità morale, versandosi, in mancanza, in un’ipotesi di inadempimento contrattuale ai sensi dell’art.
1218 c.c.
Adottando tale inquadramento, ne consegue che le obbligazioni assunte dal datore
di lavoro (debitore), mediante il contratto di lavoro, si sostanziano anche nella relativa
soddisfazione del diritto del lavoratore (creditore) ad essere preservato da vessazioni persecutorie, sia da parte dei superiori gerarchici (mobbing verticale), sia da parte dei colleghi non sovraordinati (mobbing orizzontale) e, qualora il datore di lavoro venga meno
rispetto all’obbligo assunto, l’inadempimento verrà considerato alla stregua di qualsiasi
obbligazione contrattuale.
Per altro, anche quando il mobbing colpisce direttamente la professionalità del
lavoratore – come nei casi di demansionamento, svuotamento di mansioni o riduzione
all’inattività – la responsabilità ricadrà sul datore di lavoro. In questa ipotesi, infatti,
trova operatività l’art. 2103 c.c., norma la cui ratio di fondo è quella di tutelare la “professionalità” come espressione della libertà e dignità del lavoratore: “Il prestatore di lavoro deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto […]”.
Un simile approccio, avallato da buona parte della giurisprudenza (cfr. Cass. Sez.
Lav. 12445/06; Cass. Sez. Lav. 4774/06; Cass. Sez. Lav. 5539/03; Cass. Sez. Lav. 1307/02;
Cass. Sez. Lav. 5491/00), implica rilevanti conseguenze, sia in termini di competenza
che, soprattutto, in punto di onere probatorio. In primo luogo, è chiaro infatti che, qualora si opti per ricondurre l’azione di risarcimento danni da mobbing all’interno dell’art.
2087 c.c., il giudice competente sarà quello del lavoro, essendo dedotto in giudizio il
contratto di lavoro concluso tra le parti. In secondo luogo, l’adesione alla predetta qualificazione comporta in sede giudiziale notevoli vantaggi sul piano probatorio per il lavoratore danneggiato.
Infatti, ai sensi dell’art. 1218 c.c., spetterà al lavoratore la mera allegazione circa l’inadempimento del datore di lavoro – che nei casi di specie consisterà non soltanto nell’avere posto in essere condotte caratterizzate di per sé da sufficiente idoneità offensiva
e vessatoria, ma in generale anche nell’avere violato l’obbligo di sicurezza nascente dal
contratto – mentre a quest’ultimo spetterà il più “pesante” onere di dimostrare di avere
adottato tutte le misure possibili per evitare il danno lamentato. Buona parte della giurisprudenza non ritiene necessaria a carico del lavoratore – ai fini della prova del danno
– l’allegazione in punto di elemento psicologico, vale a dire di coscienza e volontà della
condotta mobbizzante, ritenendosi a tal scopo sufficiente la prova dell’avvenuto inadempimento dei doveri di tutela e sicurezza nascenti da contratto, mediante la causazione/tolleranza di condotte vessatorie reiterate per un arco di tempo apprezzabile (cfr.
TAR Lazio, 5 aprile 2004, n. 6254).
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41
Mobbing: virus organizzativo
Un’altra parte della dottrina – minoritaria – ritiene tuttavia più coerente ricondurre
la responsabilità del datore di lavoro per le condotte mobbizzanti subite dal dipendente
nell’ambito della responsabilità extracontrattuale ex art. 2043 c.c. In questa ipotesi
saranno qualificate illecite tutte quelle condotte dolose e colpose suscettibili di cagionare all’individuo un danno ingiusto (biologico, morale, esistenziale ecc.). È evidente che
il ricorso alla fattispecie di cui all’art. 2043 c.c. comporta un aggravio dell’onere della
prova in capo al lavoratore – il quale sarebbe tenuto a dimostrare la preordinazione dolosa/colposa della condotta, il danno e il nesso di causalità – ma, soprattutto, non permette
allo stesso di avvalersi del termine ordinario di prescrizione, dovendo l’azione essere promossa entro i cinque anni dalla cessazione delle condotte oggetto di causa.
Ulteriore fonte normativa è il d. legisl. n. 626/1994, che recepisce, accorpandole, le
varie normative europee sulla salute e sicurezza del lavoro e pone specifici obblighi ai
lavoratori, ai preposti e al datore di lavoro a salvaguardia dell’ambiente di lavoro.
L’Agenzia europea per la sicurezza e la salute sul lavoro, avente sede a Bilbao, ha dedicato la Settimana europea del 2002 alle problematiche stress e mobbing. È emerso che il
mobbing può essere considerato un rischio lavorativo, e che i datori di lavoro, in accordo con i lavoratori e i loro rappresentanti, dovrebbero mirare a impedire il mobbing,
valutarne i rischi, agire in maniera adeguata per prevenire i danni. Nel caso del mobbing
sono pertanto utilizzabili le norme sulla salute e sicurezza del posto di lavoro: anche il
rischio di mobbing risulta essere un rischio ragionevolmente prevedibile e va valutato ai
sensi dell’art. 4 del d. legisl. n. 626/1994, e dalla valutazione dovranno scaturire delle
misure da prendere anche atipiche rispetto ad altre aree del d. legisl. n. 626/1994 esplicitate invece apertamente (ad esempio, politiche di formazione, formulazione di codici
di condotta, valutazione dei rischi psicosociali, misura della percezione soggettiva di
mobbing nelle organizzazioni, analisi di clima organizzativo ecc.).
Il mobbing, dal punto di vista penale, non si concretizza in una fattispecie di reato
e di conseguenza le azioni mobbizzanti poste in essere dai mobber saranno suscettibili di
sanzioni penali soltanto nel caso in cui siano capaci di integrare le diverse fattispecie criminose di cui agli articoli del codice penale: 590 (lesioni personali colpose), 582 (lesione personale dolosa), 610 (violenza privata), 594 (ingiuria), 595 (diffamazione).
Inquadrato il mobbing in una delle categorie citate, ai fini di un risarcimento del
danno, sarà necessario fornire la prova dei fatti da parte della potenziale vittima. Deve
essere però riscontrata almeno l’alta probabilità del nesso causale, se non la certezza.
Un’ulteriore indicazione fornita dalla giurisprudenza è che, qualora la patologia sia multicausata, va percentualizzata la causa da motivi lavorativi. Il lavoratore, che sia riuscito a
provare il nesso di causalità fra la condotta molesta e il pregiudizio subito, potrà invocare il ristoro di una pluralità di voci di danno, dal biologico al morale ex art. 2059 c.c., fino
al patrimoniale da lucro cessante e danno emergente, nelle ipotesi in cui il mobbing si sia
configurato mediante condotta di demansionamento ex art. 2103 c.c. (Salini, 2001).
5. L’approccio psicologico: il mobbing soggettivo e il mobbing oggettivo
Già nel 1976 Brodsky distingueva tra una forma di aggressione soggettiva (subjective harassment), centrando il focus dell’analisi sulla percezione della vittima di essere vessata, e una di tipo oggettivo (objective harassment), laddove era riscontrabile l’evidenza
oggettiva delle molestie.
42
Gli approcci allo studio del mobbing
Secondo l’Autore, la tensione e lo stress lavorativo potevano essere percepiti dall’individuo come sintomi di mobbing, se attribuiti ad azioni ostili del management dell’azienda. Ma senza una valutazione oggettiva, non era possibile stabilire l’esistenza
effettiva delle molestie.
Nella concettualizzazione del mobbing soggettivo particolarmente significativi
risultano gli studi sullo stress organizzativo (ad esempio, Favretto, 1994). Partendo dal
concetto di mobbing come forma estrema di stress sul lavoro (Zapf et al., 1996), è apparso legittimo sostenere che fra stress1 e mobbing sussista una continuità logica e temporale (Favretto, 2005).
Frese e Zapf (1988) definiscono uno stressor soggettivo come un evento che è altamente influenzato dai processi cognitivi ed emotivi di una persona, mentre uno stressor
oggettivo è osservato indipendentemente dal processo cognitivo ed emotivo di una persona. Naturalmente nella maggior parte dei casi c’è una sovrapposizione tra i due stressor. Una persona può, quindi, provare una forma di stress per determinate azioni e comportamenti, mentre un’altra può non percepire gli stessi come minaccianti. Azioni negative che possono essere considerate poco offensive da un individuo possono essere invece percepite come gravi e lesive da un altro.
La caratteristica di sentire la situazione come lesiva e persecutoria è fortemente in
relazione con la valutazione individuale dell’evento (appraisal) e le strategie che permettono di affrontare adeguatamente gli stimoli stressogeni (coping). La persona coinvolta
nel processo vessatorio si chiederà “cosa è successo e perché” (event appraisal) e “cosa può
essere fatto” (action appraisal). Se la persona interpreta l’esperienza come minacciante per
il proprio benessere e crede di avere poco controllo (mastering) sulla situazione nei confronti dell’aggressore, è più probabile che viva gli accadimenti in un’accezione ancora
più negativa, utilizzando un coping poco efficace o non adeguato, con conseguenze
disfunzionali sul proprio stato di salute psicofisico.
Un’ulteriore spiegazione del mobbing soggettivo può essere ricercata nella teoria
delle rappresentazioni sociali2 (Moscovici, 1981). È essenziale per non sviluppare la percezione di sentirsi vittima che la persona non percepisca di essere un bersaglio di un
aggressore che intenzionalmente le vuole nuocere.
Ad esempio, quando una persona mobbizzata attribuisce le percezioni e i sentimenti
negativi provati non a se stessa, ai suoi tratti di personalità o a una tendenza generale ad
essere vittimizzata, ma a delle caratteristiche di personalità dell’aggressore, in qualche
modo si distanzia da questi sentimenti negativi e non mette in atto strategie di coping
nei confronti del mobber.
Quando invece il mobbizzato attribuisce al mobber la causa dei propri vissuti negativi e si percepisce vittima di una strategia mirata a colpirlo, utilizzerà strategie di coping
attive, in modo più o meno costruttivo, e inizierà un lungo processo di vittimizzazione,
che può arrecare gravi conseguenze al suo stato psicofisico.
1. Una definizione operativa, diffusamente utilizzata oggi, in materia di stress è quella che vede lo stress come una
risposta integrata dell’organismo a modificazioni operate su di esso (Favretto, 1994). Il costrutto di stress rimanda a ulteriori distinzioni: gli stressor, ovvero le caratteristiche dell’evento/stimolo, lo strain che si riferisce a una
risposta psicologica e/o fisiologica allo stress.
2. Alcuni fattori motivazionali possono determinare la scelta di un framework di interpretazione/rappresentazione della situazione. Qualsiasi scelta ha sicuramente componenti soggettive (ad esempio, determinate attitudini o
esperienze passate, fattori di vulnerabilità) che ne influenzano le conseguenze.
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43
Mobbing: virus organizzativo
In conclusione, l’attivazione di una rappresentazione sociale della situazione di
mobbing è un processo dinamico e soggettivo: “Improvvisamente mi trovai in una situazione dove nessuno voleva parlare con me. Non ero sicuro se fosse intenzionale. Cercai
di osservare la situazione e vedere se questa persona (mobber) si comportava anche con
gli altri come con me […] ed ero il solo: parlava con tutti ma non con me” (liberamente adattato da Liefooghe e Olaffson, 1999).
La vittima ricostruisce in modo attivo la situazione, cercando di capire se i comportamenti posti in essere nei suoi confronti siano intenzionali e ricerca maggiori informazioni, dando poi vita a una sua rappresentazione degli eventi.
Anche le caratteristiche di personalità degli attori coinvolti hanno un ruolo rilevante nella percezione soggettiva di mobbing, così come vari stili di comportamento,
bisogni ed esperienze passate possono rendere la persona più o meno vulnerabile. La
stessa frequenza di azioni mobbizzanti, infatti, può portare o meno un individuo a sentirsi vittima di mobbing, in funzione del grado di suscettibilità dello stesso. Questo
assunto è parzialmente supportato da uno studio norvegese su 85 vittime di mobbing,
che furono classificate da Mikkelsen e Einarsen (2001) in tre diversi gruppi di mobbizzati. Le vittime che presentavano un profilo di personalità più critico, riportavano un’esposizione inferiore a specifiche azioni mobbizzanti rispetto a coloro che presentavano
un profilo più normale. Le prime, quindi, percepivano di essere mobbizzate con una
soglia di azioni mobbizzanti inferiore rispetto a quella necessaria agli altri due gruppi per
giungere alla stessa conclusione.
Inoltre, come rilevano Candura, De Luise, Gazzerro, Iavicoli e Remondelli (2004, p. 186):
Tutte le situazioni mobbizzanti assumono particolare specificità nei soggetti interessati contestualmente a eventi personali o familiari traumatizzanti, quali perdita di
un parente, difficoltà finanziarie; eventi negativi in ambito familiare o in ambito
lavorativo, quali cambio di mansioni, cambio di reparto, mancata promozione ecc.,
e, in maniera ancora più significativa, in soggetti già portatori di psicopatologie reattive-depressive, pregresse o in atto, o con labilità psichica e conseguente predisposizione ad esse.
È stato approfondito (Giorgi e Majer, 2004) anche lo studio di variabili organizzative che considerate singolarmente, o in interazione tra loro, possono favorire comportamenti vessatori sul lavoro. I risultati convergenti delle ricerche prese in esame mettono
in evidenza come sia proprio l’appraisal delle condizioni organizzative a portare all’insorgenza di comportamenti mobbizzanti. Il mobbing, pertanto, anche nella sua forma
soggettiva può essere causato, o concausato, in modo prevalente, da vissuti relativi a specifiche e particolari condizioni dell’attività e dell’organizzazione del lavoro. Come rilevano D’Amato e Majer (2005b), i vissuti dei membri si strutturano nell’interazione con
l’organizzazione e le sue varie parti e determinano il comportamento dei singoli, dei
gruppi e dunque dell’organizzazione nel suo complesso. Ogni accadimento organizzativo è interpretato dai suoi membri: essi formano e trasformano giudizi, percezioni e valutazioni degli eventi organizzativi sulla base delle interazioni con gli altri membri dell’organizzazione e, più in generale, delle interazioni che hanno con altri individui nell’ambiente circostante. I lavoratori rispondono alle situazioni, nelle quali si trovano ad
essere inseriti, in base al significato che esse assumono per loro: l’interpretazione che scaturisce determina e condiziona ciò che i membri dell’organizzazione pensano, e, soprattutto, il loro comportamento e il funzionamento dell’organizzazione.
44
Gli approcci allo studio del mobbing
Ma al di là delle percezioni soggettive, per ottenere invece una maggiore accuratezza nello studio del fenomeno è necessaria la ricerca di “fatti oggettivi” certi e univoci.
L’elemento oggettivo del mobbing è costituito dall’attività persecutoria reiterata nel
tempo, caratterizzata non solo dalla volontarietà, ma anche dall’intento persecutorio
(dolo), orientato a molestare, terrorizzare, discriminare, emarginare con il fine ultimo di
danneggiare il lavoratore. Il danno prodotto dovrà essere eziologicamente riconducibile
all’attività persecutoria, o almeno dovrà essere riscontrata l’alta probabilità del nesso
causale. Per provare ciò, occorre effettuare un’anamnesi lavorativa tesa a indagare:
• eventi della vita lavorativa. Tutti gli aspetti della vita lavorativa che possono essere
considerati fonte di malessere: eventi traumatici, relazioni con i superiori e con i compagni, variazioni di posizione lavorativa, premi e punizioni ecc.;
• eventi di vita non lavorativa. L’indagine sulla vita personale è delicata e difficile da
svolgere soprattutto in un contesto non adeguato, ma è importante indagare almeno
sulle evenienze macroscopiche: nascita, matrimoni, lutti, separazioni, malattie di congiunti, furti gravi, incidenti, violenze ecc.;
• condizioni psichiche antecedenti l’evento patogeno;
• cronologia dell’insorgenza dei disturbi;
• eventuale documentazione sanitaria e terapie praticate;
• patologie organiche con particolare attenzione a quelle potenzialmente stress-correlate.
Per dimostrare che le vessazioni e i comportamenti subiti si siano realmente verificati sarà pertanto necessario rifarsi a prove documentali precise (anche a mezzo di registrazioni o fotografie) e soprattutto testimoniali, sia nell’ambiente di lavoro sia nel contesto familiare.
La ricostruzione meticolosa della cronologia è importante ai fini della determinazione del nesso causale e per individuare una logica o una strategia negli avvenimenti.
Molti elementi clinici importanti sono osservabili durante l’anamnesi lavorativa: il
modo in cui il lavoratore racconta, la capacità di ricostruire gli eventi, l’attivazione emotiva durante la narrazione permettono spesso di avere riscontri “empirici” al giudizio clinico e al dato anamnestico. Appaiono anche necessarie certificazioni mediche di natura
psichiatrica e psicologica. Le tracce documentali dell’evoluzione del disturbo che giunge
vengono tradotte in certificazioni che possono essere relative alla richiesta di congedo
per malattia oppure attestare la presenza della sindrome per la quale si richiede la prestazione assicurativa. Le certificazioni sono quasi sempre rilasciate dalle Unità operative
di salute mentale delle ASL che le custodiscono nella cartella clinica della persona. Sono,
infine, utili le certificazioni internistiche, ovvero attestazioni dello sviluppo di una condizione di sofferenza e di esposizione protratta in seguito a condizioni di tensione emotiva, oppure referti di ricorso al pronto soccorso per crisi acute d’ansia, attacchi di panico, crisi ipertensive, svenimenti ecc.
Ai fini dell’accertamento dei fatti sarà, inoltre, importante presentare una perizia
psicologica specialistica, o comunque psichiatrica o medica, a supporto della dimostrazione del nesso di causalità e del danno subito e affiancare a un’accurata analisi individuale anche un’analisi del contesto organizzativo.
Spesso, come rilevato da Einarsen et al. (1994), è frequente notare una discrepanza
sostanziale tra le interpretazioni e le percezioni che le due persone coinvolte nel processo vessatorio danno alla situazione.
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Mobbing: virus organizzativo
Alcuni accadimenti, che possono essere considerati poco offensivi e persecutori da
una parte, possono essere percepiti come lesivi dall’altra, tanto da rivolgersi all’autorità
giudiziaria. “Questa discrepanza, oltre a inficiare il grado di obiettività con cui gli esperti chiamati in causa possono giudicare la situazione, esercita una grande influenza sulla
probabilità che la persona vessata sviluppi patologie mobbing correlate”(Depolo, 2003,
p. 55). Depolo mette in luce il rischio di falso positivo sotteso a un’indagine di mobbing,
ovvero “il rischio di diagnosticare una patologia mobbing correlata, ovvero quando una
vittima manifesta disturbi psichici comuni, legati cioè ad altre cause, o addirittura un
disturbo fittizio, ovvero una simulazione cosciente del malessere” (pp. 55-56).
In mancanza di elementi oggettivi e in presenza di disturbi mentali, dovuti a una
condizione generale o specifica, è chiaro che la condizione di mobbing non può essere
dimostrata (al massimo può essere considerata come elemento aggravante).
Il mobbing, se da una parte sembra essere un fenomeno oggettivo e osservabile,
dall’altra risulta estremamente connesso alla percezione che di esso ha la vittima. Sulle
orme degli studi del sexual harassment di Lengnick-Hall (1995), una concettualizzazione del mobbing come fenomeno “oggettivo” sembra necessaria per aspetti legati alla
gestione legale del fenomeno; una concettualizzazione del mobbing come fenomeno
“soggettivo” potrebbe, invece, risultare un miglior predittore degli effetti disfunzionali
a livello individuale e organizzativo, mal funzionamento dell’organizzazione del lavoro, assenteismo, turnover per quanto riguarda l’organizzazione e, parallelamente, deterioramento dello stato di salute, stress e malessere per quanto riguarda la persona
(Einarsen et al., 2003).
46
CAPITOLO QUARTO
I modelli esplicativi della psicologia del lavoro
e delle organizzazioni
Il presente capitolo si propone di dare conto delle principali tipologie di mobbing e
dei correlati modelli esplicativi sviluppati nell’ambito della psicologia del lavoro e delle
organizzazioni.
1. Il mobbing predatorio
Il processo di mobbing si instaura senza che la vittima abbia messo in atto azioni
provocatorie tali da poter giustificare il comportamento del mobber.
1) In questo caso la vittima si trova accidentalmente in una situazione in cui l’aggressore dimostra e/o sfrutta il proprio potere su di lei. Il concetto di petty tyranny di Ashfort
(1994) sembra riferirsi a tale processo.
Questa situazione può essere spiegata facendo ricorso alla teoria X e Y di McGregor.
L’Autore prende in considerazione le modalità con le quali gli atteggiamenti dei capi
circa i fenomeni organizzativi possono influenzare l’andamento degli stessi e il modo
di lavorare dei subordinati. L’Autore descrive due configurazioni di atteggiamenti
opposte e le chiama “teoria X” e “teoria Y”. Secondo la teoria X, l’uomo fondamentalmente non ama il lavoro e, per questo motivo, è necessario che i dipendenti siano
sottoposti a un severo controllo e vengano forzati a sottostare alle direttive dei capi
attraverso la minaccia di sanzioni. Partendo dall’assunto di base della teoria secondo
la quale l’uomo non è motivato verso il proprio lavoro, soltanto i capi possono prendere le decisioni strategiche e assumersi il compito di organizzare la produzione.
Inevitabilmente, questo atteggiamento conduce a situazioni di conflitto e abuso di
potere, alimentando il rischio di comportamenti ostili sul posto di lavoro, messi in
atto da parte dei vari componenti dell’organizzazione. La teoria Y si pone in maniera
antitetica alla precedente. Partendo dal presupposto che per l’uomo il lavoro è un’at-
47
Mobbing: virus organizzativo
tività naturale, essa sostiene che il controllo non è il solo mezzo, e certamente non è
il più produttivo, per motivare i lavoratori verso il raggiungimento degli obiettivi
organizzativi, mentre risulta più efficace responsabilizzare e coinvolgere i dipendenti.
Anche Argyris (1971) propone due distinti modelli per rendere ragione degli atteggiamenti dei membri dell’organizzazione nei confronti del lavoro e delle relazioni sociali che si instaurano nell’ambiente lavorativo. Nel “modello A”, le persone tendono a
celare i propri sentimenti e raramente cercano la partecipazione di altri membri del
gruppo, nella convinzione che l’espressione dei sentimenti e delle emozioni porti all’inefficienza. I soggetti che rientrano nel modello A dimostrano delle tendenze comportamentali che aumentano la probabilità che si origini un conflitto interpersonale
e si generino comportamenti ostili: spesso sono impazienti e irritabili, vedono gli altri
come ostacoli al raggiungimento dei propri obiettivi, preferiscono lavorare da soli e,
quando lavorano con gli altri, desiderano avere il controllo della situazione.
Il “modello B” presuppone che nell’ambiente organizzativo si verifichino flussi di
informazioni che riguardano anche i sentimenti, in modo da mettere in risalto aspetti delle relazioni interpersonali come la fiducia, la capacità di cooperare e l’apertura
nei confronti delle proposte altrui.
Holmes e Will (1985) dimostrano che i soggetti del tipo A sono più inclini a comportamenti di tipo aggressivo dei soggetti di tipo B. Anche Baron (1989) indica che i soggetti del tipo A si trovano più frequentemente in situazioni di ostilità di quelli del tipo B.
Argyris, riferendosi alla teoria di McGregor, parla di una fusione della teoria X con il
modello A e della teoria Y con il modello B per la creazione di un modello del comportamento direzionale di tipo integrato.
Per quanto riguarda il mobbing predatorio, è possibile prevedere che l’assunzione di
un modello di atteggiamento del tipo XA da parte del capo aumenterà le occasioni di
conflitto e ostilità causate da un controllo troppo rigido sui lavoratori. Ciò può portare a una escalation e a episodi di mobbing, senza che il lavoratore abbia messo in
atto azioni provocatorie.
2) La vittima può essere oggetto di comportamenti intimidatori perché fa parte di un
gruppo di minoranza (ad esempio, una donna in un gruppo di soli uomini). Se un
individuo è percepito come rappresentativo di un gruppo o di una categoria di persone che non sono tollerate dalla cultura organizzativa dominante, aumenta la probabilità che si verifichino, verso di lui, azioni mobbizzanti.
La teoria dell’identità sociale (ad esempio, Tajfel, Flament, Billig e Bundy, 1971) aiuta
a definire meglio questo concetto. La teoria dell’identità sociale considera i gruppi
come categorie sociali, ognuna immersa in un ambiente più ampio formato dalle categorie definite in maniera condivisa dai membri di un gruppo e collegate fra loro da
particolari modelli di relazione (potere, status ecc.). Il concetto di identità sociale
afferma che l’immagine di sé è stabilita anche dagli esiti del confronto sociale intergruppi, cioè dalla posizione che, dopo il confronto, viene occupata dal proprio gruppo nel contesto del sistema sociale.
L’identità sociale può essere definita come un insieme di caratteristiche, di sentimenti, positivi e negativi, che una persona attribuisce e prova nei confronti di se stessa, in
relazione alla consapevolezza di sentirsi appartenente a gruppi sociali specifici. La teoria parte dal presupposto che le persone desiderino acquisire e mantenere un’identità
sociale positiva. Questo desiderio comporta un confronto tra il proprio gruppo e gli
altri, per l’ottenimento di distintività psicologica e di una posizione favorevole per il
48
I modelli esplicativi della psicologia del lavoro e delle organizzazioni
proprio gruppo (ingroup). Tale comportamento presenta alcune caratteristiche: è condiviso da un ampio gruppo di persone, che mostrano uniformità di comportamenti
nei confronti dei membri dei gruppi esterni; è collegato alla percezione stereotipica e
ai fenomeni di discriminazione nei confronti dei membri di altri gruppi; gli appartenenti all’outgroup vengono percepiti nei termini delle caratteristiche attribuite al gruppo, piuttosto che in quelli delle caratteristiche personali.
3) In situazioni in cui lo stress e la frustrazione sono causati da fonti che sono di difficile definizione o inaccessibili, oppure alle quali viene attribuito troppo potere (capi) o
verso le quali viene nutrito rispetto, il gruppo potrebbe individuare un capro espiatorio. Il fenomeno in questione non ha un’origine recente, richiamando l’archetipo del
capro espiatorio che, come noto, derivava dall’usanza degli antichi ebrei, i quali, in
certe cerimonie, caricavano simbolicamente un capro dei peccati del popolo, allontanandolo, quindi, nel deserto in segno di espiazione. Una simile pratica si è successivamente trasferita pure nei rapporti organizzativi tipici delle associazioni tribali, nelle
quali si addossavano a un solo individuo le colpe dell’intero gruppo, trovando oggi
un terreno assai fertile pure nelle attuali aggregazioni aziendali. Un individuo può,
quindi, essere mobbizzato perché ritenuto un facile bersaglio di frustrazione e stress,
causato da fattori indipendenti dalla sua persona.
Il ruolo del capro espiatorio è funzionale alla vita del gruppo, in quanto permette ai
suoi membri di canalizzare lo stress e la frustrazione e di non doversi confrontare con
parti negative della propria immagine di sé (o con eventuali minacce alla coerenza e
all’immagine di sé), proiettando il tutto su chi detiene tale ruolo. Questo individuo
può appartenere a una qualsiasi minoranza (etnica, di genere, di orientamento sessuale o politica); può essere visto come un intruso all’interno dell’azienda; avere scarsa predisposizione ai compromessi, perché legato a solidi principi etici, oppure essere
impopolare. In sostanza, secondo questa prospettiva, attraverso il meccanismo di difesa di spostare e ridirigere verso capri espiatori – che appaiono diversi o più deboli
rispetto al gruppo di lavoro – la tensione accumulata nel contesto lavorativo, si ricercherebbe un qualsiasi colpevole che, pur non essendo la causa del disagio, viene percepito come un nemico da cui difendersi.
4) Il mobbing emerge da pregiudizi createsi in processi interpersonali, come la socializzazione, il conformismo o i processi attributivi e si sviluppa come conseguenza di
interazione fra i gruppi, che, se eccessivamente competitiva, produce atteggiamenti
negativi. Il pregiudizio, che può essere definito come un atteggiamento sfavorevole
verso un oggetto che tende ad essere altamente stereotipato, è provvisto di carica
emozionale ed è difficilmente soggetto al cambiamento, anche di fronte a informazioni di senso contrario.
Le fasi del mobbing sembrano avere uno stretto legame con quelle individuate negli
studi sul pregiudizio di Allport (1954): nella prima fase i pregiudizi avvengono sottoforma di gossip e chiacchiere di un piccolo gruppo (ingroup) dietro le spalle di una
persona. Nelle fasi successive, la vittima viene prima isolata ed è poi soggetta a insulti e scherzi imbarazzanti. Nell’ultima fase avvengono, invece, atti intimidatori e/o di
violenza fisica, che possono culminare nello “sterminio” della vittima. Questa sequenza ricorda molto quella “tipica” del mobbing: anche se le vittime di mobbing
non vengono uccise, in alcuni rari casi possono arrivare sino al suicidio, oppure essere espulse dalla vita lavorativa, o venire spinte/costrette a lasciare l’organizzazione. Il
pregiudizio nel mobbing sembra, pertanto, diretto verso quei lavoratori che vengono
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49
Mobbing: virus organizzativo
percepiti come diversi all’interno del tessuto organizzativo e può avere molte funzioni tra cui:
• razionalizzare comportamenti socialmente disapprovabili (ad esempio, il pregiudizio serve a giustificare le azioni negative subite dalla vittima di mobbing);
• fornire un oggetto su cui proiettare impulsi negativi come l’aggressività e la violenza psicologica (capro espiatorio);
• valorizzare se stessi e il proprio gruppo di appartenenza attraverso la svalutazione
del diverso.
2. Il mobbing conflittuale
Il mobbing frutto di una disputa avviene come risultato di intensificazioni di conflitti sul posto di lavoro.
Il conflitto organizzativo costituisce un caso particolare di conflitto: esso si verifica
nei gruppi all’interno dei quali il comportamento delle persone è organizzato in funzione del raggiungimento di determinati obiettivi. Rahim e Bonomia (1979) definiscono il
conflitto come un fenomeno che ha luogo perché un’entità sociale percepisce (o le viene
fatto percepire) che possiede delle preferenze comportamentali la cui soddisfazione è
incompatibile con la soddisfazione delle preferenze di un’altra persona; che vuole ottenere delle risorse, solo in certa misura condivise, con la conseguenza che i desideri di ciascuno non possono essere pienamente soddisfatti; che possiede valori e atteggiamenti
importanti nel dirigere il suo comportamento, ma percepiti come in contrasto con i
valori e gli atteggiamenti posseduti dagli altri. Esistono due approcci principali allo studio di questo problema:
• l’approccio tradizionale, che attribuisce al conflitto una connotazione di tipo negativo
(conflitto patologico) e, partendo dal presupposto che sia disfunzionale per l’organizzazione, si concentra sullo studio delle tecniche per la sua diminuzione o risoluzione.
Questa concezione del conflitto viene però smentita da alcune ricerche: si riconosce,
infatti, che la presenza di un certo grado di conflitto è legata positivamente alla produttività e all’efficacia organizzativa;
• l’approccio di tipo innovativo, che contempla invece l’esistenza di un conflitto costruttivo (conflitto fisiologico), capace di far aumentare la produttività e i profitti e, nello
stesso tempo, la soddisfazione lavorativa. In questo caso, l’interesse si sposta dalle tecniche per la risoluzione a quelle per la gestione delle situazioni conflittuali.
I conflitti quindi possono anche essere positivi, verificarsi tra parti che hanno lo
stesso potere o manifestarsi in un unico episodio, e possono risolversi molto velocemente. È necessario, pertanto, stabilire linee di demarcazione tra i normali conflitti e il
comportamento aggressivo usato nel mobbing. La differenza tra il conflitto e il mobbing
non risiede tanto nel tipo o nelle modalità delle azioni negative, ma nella frequenza e
nella durata di tali comportamenti negativi e nelle abilità delle parti in causa di difendersi dalla situazione che si viene a creare. Se viene accettata una definizione di conflitto come “processo che inizia quando una parte percepisce che l’altra ha danneggiato, o
vuole danneggiare qualcosa a cui lui o lei è interessato” (Thomas, 1992, p. 563), il
costrutto di mobbing e il concetto di conflitto sono in una certa misura sovrapponibili.
50
I modelli esplicativi della psicologia del lavoro e delle organizzazioni
Tuttavia, i conflitti nel mobbing si differenziano dai conflitti organizzativi perché
hanno conseguenze estremamente dannose per la vittima, sono il risultato di un’asimmetria di potere, consistono in una serie di episodi che hanno una certa durata nel
tempo e una determinata frequenza come discusso in precedenza. Ad esempio, il clima
organizzativo può creare astio e differenze tali da provocare duri conflitti personali o
addirittura “guerre di ufficio”, dove la totale emarginazione dell’opponente è vista come
l’ultima soluzione per vincere. Non di rado si verificano situazioni in cui una delle parti
sfrutta il proprio potere, o un’asimmetria di potere, portando l’altro a una incapacità di
difendersi. Tale impossibilità porta alla vittimizzazione del mobbizzato. Inoltre, nel mobbing i conflitti dove l’identità dei protagonisti è in gioco, ad esempio quando una parte
attacca la stima e l’immagine di sé di un altro, sono spesso caratterizzati da un intenso
coinvolgimento emotivo: sensazione di essere insultato, paura, sospetto, risentimento,
disdegno, rabbia; tali emozioni portano a sentirsi vittime, talvolta anche di fronte a
pochi segni osservabili di comportamenti di mobbing perpetrati dall’aggressore.
Il modello di Glasl (1994) dell’escalation del conflitto è stato proposto dalla letteratura di ricerca della psicologia del lavoro e delle organizzazioni per spiegare il processo
che porta a un’intensificazione del conflitto nel mobbing (ad esempio, Zapf e Gross,
2001). Il modello si articola in tre fasi e nove step (cfr. fig. 4-1).
Fase 1: razionalità e controllo. Nella prima fase del conflitto, le persone coinvolte
sono interessate a risolvere il problema in modo ragionevole. Esse interagiscono con un
certo grado di cooperazione e la causa del conflitto non è messa in relazione con le parti
più profonde del Self (del sé). Le parti del conflitto sono consapevoli delle tensioni in
atto, ma cercano di controllarle in modo razionale e con strategie efficaci. Nonostante
Figura 4-1
Il modello di Glasl
3: ne e
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7
6
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8
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Distruzione della
persona
Attacchi ai nervi della persona
Strategie mirate a colpire il nemico
Ostilità
Consapevolezza del rischio di perdere la buona
reputazione
Le parti comunicano solo attraverso il canale non verbale
3
Polarizzazione delle posizioni divergenti
Perdita dell’oggetto e della causa originaria del conflitto
Tentativi delle parti di cooperare e controllo della tensione in atto
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51
Mobbing: virus organizzativo
sia accompagnato da accidentali stati di tensione e attriti, il primo step è caratterizzato
dal tentativo di cooperare. Nel secondo step si assiste alla polarizzazione delle posizioni
divergenti. Nel terzo step le persone comunicano solo attraverso il canale non verbale.
Fase 2: aggravamento della relazione. La seconda fase del conflitto è caratterizzata
dalla perdita dell’oggetto e della sua causa originaria, e il focus si sposta da “qual è il problema” a “chi è il problema”, in quanto la relazione fra le parti diventa la maggiore fonte
di tensione. Si assiste, così, a un incremento di sfiducia, di mancanza di rispetto e di ostilità. In questa fase, per le parti è molto difficile risolvere qualsiasi conflitto insieme ed
esse tendono, quindi, a escludersi l’una con l’altra. Il quarto step comprende la consapevolezza del rischio di perdere la propria buona reputazione e la coalizione/ricerca di supporto di altri lavoratori. Il quinto step è caratterizzato dalla “perdita della faccia” e dalla
consapevolezza del rischio di perdere la buona reputazione. Il sesto, dalla prevalenza
delle strategie di minaccia.
Fase 3: aggressione e distruzione. Nella terza fase, l’opponente è percepito come una
persona senza dignità, insignificante o con problemi psicologici e qualsiasi tentativo di
risoluzione del conflitto è vano. I momenti di confronto fra le parti diventano decisamente distruttivi, fino a che la distruzione dell’opponente diventa lo scopo principale
delle parti. In questa lotta, le parti hanno la volontà di rischiare il proprio benessere, e
addirittura la propria esistenza, al fine ultimo della distruzione del proprio opponente.
Il settimo step è caratterizzato da sistematiche campagne distruttive contro l’altra parte.
Nell’ottavo step si assiste ad attacchi contro la resistenza psicologica del nemico. Il nono
ha l’obiettivo della totale distruzione dell’opponente.
Zapf e Gross (2001) hanno messo in luce che il mobbing può essere considerato
come un tipo di conflitto al confine tra la fase 2 e 3. In uno studio condotto in Germania
con interviste a 19 vittime di mobbing, 14 intervistati riportarono una situazione di
intensificazione di conflitti in cui la situazione peggiorava con il passare del tempo.
Inoltre, circa la metà dei soggetti riportò una situazione che ricordava la sequenza dell’intensificazione dei conflitti teorizzata da Glasl. Nonostante Glasl sostenesse che difficilmente la terza fase del conflitto si poteva verificare, lo studio di Zaps e Gross ha suggerito la possibilità che l’azienda sviluppi la credenza di “colpevolezza” del mobbizzato
e che reputi ormai impossibile collaborare con la vittima, come rilevato in precedenza
anche da Leymann (1990) e Zapf (1999). Inoltre, alcune vittime di mobbing sono espulse dalla vita lavorativa (Leymann, 1996), estromesse dall’organizzazione (Zapf e Gross,
2001) o giungono sino all’atto estremo del suicidio (Leymann, 1993). È necessario, tuttavia, sottolineare che non sempre il mobbing segue le fasi descritte: i conflitti, ad esempio, possono raggiungere un certo grado di intensità fino dalle loro prime manifestazioni oppure alcune situazioni di mobbing possono saltare una delle fasi proposte da Glasl.
3. Il modello di Leymann
Gli studi di Leymann hanno rilevato come il mobbing sia indotto da fattori organizzativi – lo stile di leadership, il work design, il clima dell’organizzazione e dei gruppi
di lavoro – e hanno contrastato fortemente le teorizzazioni che consideravano il mob-
52
I modelli esplicativi della psicologia del lavoro e delle organizzazioni
bing come conseguenza di una predisposizione individuale. Secondo Leymann quattro
sono le cause principali del mobbing:
•
•
•
•
l’inefficienza della leadership;
l’inefficienza del work design;
la posizione sociale della vittima;
il basso morale dei reparti/uffici.
Il mobbing si verifica per una gestione approssimativa dei conflitti, o del tutto inadeguata, da parte di un’organizzazione che tende a non riconoscere il problema. Essi possono intensificarsi (escalation) nella direzione di mobbing quando i manager o i vertici
aziendali, attraverso la negazione, alimentano il problema (ad esempio, perché coinvolti nelle dinamiche di gruppo). In sintesi, gli ingredienti principali del mobbing sono
quindi da imputare all’organizzazione del lavoro e all’inadeguata gestione dei conflitti
organizzativi da parte dei responsabili aziendali.
Leymann (1996) inoltre ha definito quattro fasi in cui si articola il processo di mobbing e la sequenza logica che intercorre tra esse:
Fase 1: incidente iniziale. La situazione che dà inizio al fenomeno è una controversia
sul posto di lavoro. Questa fase, che non è propriamente mobbing, è circoscritta nel tempo.
Fase 2: inizio del mobbing e del terrorismo psicologico. Il conflitto quotidiano non risolto matura e acquista un carattere di sistematicità, trasformandosi in mobbing. Le azioni
mobbizzanti vengono perpetrate sistematicamente dall’aggressore e tali comportamenti,
che nelle interazioni normali non sono necessariamente indici di molestie e aggressione, diventano lesivi della dignità e dell’integrità fisica della persona che si percepisce
come mobbizzata.
Fase 3: errori e abusi anche non legali della direzione del personale. Arriva il momento
in cui il caso diventa ufficiale e, generalmente, la direzione del personale si posiziona
contro la persona mobbizzata. Ciò accade quasi sempre perché la vittima della violenza
psicologica subisce un calo di rendimento e si assenta spesso dal lavoro.
Fase 4: espulsione dall’organizzazione. È l’uscita dal mondo del lavoro per l’individuo.
Questa fase può generare lo sviluppo di gravi malattie poiché, spesso, assume per il mobbizzato le dimensioni di una vera e propria tragedia personale. La vittima rimane sola,
isolata da tutti e necessita di un supporto medico e/o psicologico.
Le fasi proposte da Leymann si distinguono, essenzialmente, sulla base del cambiamento delle caratteristiche del conflitto, tuttavia non sempre seguono la sequenza indicata o hanno tutte la stessa durata temporale. Non necessariamente tutti i casi di mobbing giungono alla quarta fase, in quanto può verificarsi che la persona sottoposta a violenza psicologica si licenzi già al termine di una delle fasi precedenti. Dall’altra parte,
alcuni casi poi possono risolversi anche per altre ragioni: a) il mobber cambia lavoro, b)
il mobbizzato viene spostato, c) la dirigenza interviene, d) intervengono altri fattori
esterni. Infine, Leymann rileva come alcune situazioni di mobbing possano saltare una
delle quattro fasi proposte.
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Mobbing: virus organizzativo
4. Gli sviluppi del modello di Leymann
Il progressivo approfondimento degli studi nel panorama di ricerca della psicologia
delle organizzazioni ha portato a ritenere non esaurienti, e talvolta troppo generali, le
fasi stabilite da Leymann. Altri studiosi sono intervenuti per definirle e modificarle.
Tra questi, Ege (1997), sulla base di alcuni studi condotti in Italia, ha introdotto una
pre-fase, chiamata condizione zero, e altre due fasi di mobbing, chiamate, rispettivamente, primi sintomi psicosomatici e serio aggravamento della salute psicofisica della vittima. La
condizione zero rappresenta quella condizione naturale di conflitto che non costituisce
mobbing, anche se è un terreno fertile per il suo sviluppo. Si tratta di un conflitto generalizzato, che vede tutti contro tutti e non ha ancora una vittima predefinita. Non è del
tutto latente, ma emerge saltuariamente, con banali diverbi e divergenze di opinione,
discussioni, piccole accuse e ripicche. L’elemento caratterizzante e peculiare della condizione zero è costituito sempre dal fatto che non c’è da parte di nessuno la volontà di
distruggere, ma solo quella di emergere sugli altri.
La fase comprendente la comparsa dei primi sintomi psicosomatici è inserita, da
Ege, dopo quella dell’inizio del mobbing. Nel modello di Leymann, questo stadio era
contenuto all’interno delle due fasi e non specificato particolarmente. Secondo Ege,
invece, esso costituisce una vera e propria fase del processo, che si situa chiaramente tra
l’inizio del mobbing e il suo manifestarsi in pubblico. La vittima comincia a manifestare dei problemi di salute e questa situazione può protrarsi anche per lungo tempo. I
primi sintomi riguardano, in genere, senso di insicurezza, l’insorgere dell’insonnia e di
problemi digestivi.
La fase comprendente il serio aggravamento della salute psicofisica della vittima è
inserita, invece, dopo quella degli errori e abusi da parte della direzione del personale. Il
mobbizzato entra in una situazione di vera disperazione: di solito soffre di forme depressive più o meno gravi e si cura con psicofarmaci e terapie che hanno un effetto palliativo, in quanto il problema sul lavoro non solo resta, ma tende ad aggravarsi. La vittima
finisce col convincersi di essere essa stessa la causa di tutto o di vivere in un mondo di
ingiustizie contro cui nessuno può far nulla, precipitando, ancora di più, nella spirale del
mobbing.
Lutgen-Sandvik (2003; Lutgen-Sandvik, Tracy e Alberts, 2007) ha riconcettualizzato
il modello delle fasi di Leymann, mettendo in luce gli aspetti ciclici del mobbing e chiarendo le condizioni che fanno evolvere il processo da una fase all’altra (cfr. fig. 4-2). Il
modello è caratterizzato da sei fasi:
1)
2)
3)
4)
5)
6)
incidente iniziale (generazione del ciclo);
progressive punizioni;
svolta decisiva;
ambivalenza organizzativa;
isolamento e silenzio;
espulsione (rigenerazione del ciclo).
La letteratura pertinente considera alcuni avvenimenti come possibili fattori scatenanti (starting point) il processo di mobbing: l’inizio di un nuovo lavoro, l’arrivo di un
nuovo superiore (Rayner, 1997), un conflitto sul posto di lavoro (Leymann, 1990), uno
scontro di valori/personalità, un aumento di pressione lavorativa sui manager (Hornstein,
54
I modelli esplicativi della psicologia del lavoro e delle organizzazioni
Figura 4-2
Il modello di Lutgen-Sandvik
Fase 6: espulsione –
rigenerazione
del ciclo
Fase 5: silenzio
e isolamento
della vittima
Il supporto
dei testimoni
interrompe il ciclo
Fase 4: ambivalenza
organizzativa.
L’organizzazione viene a
conoscenza del problema
Fase 1: incidente
iniziale – generazione
del ciclo
Fase 2: progressive
sanzioni disciplinari
e punizioni
Fase 3: svolta
decisiva: ripetizione,
refraiming, branding
L’intervento
dell’organizzazione
interrompe il ciclo
1996) o un cambiamento significativo nella vita privata di un datore di lavoro/manager
o del lavoratore medesimo. Un lavoratore che litiga con il suo superiore, non svolge i
compiti entro le scadenze prestabilite, è in malattia in un giorno cruciale nell’attività
lavorativa dell’azienda di cui è parte, o parla dietro le spalle e diffonde gossip riguardo al
proprio supervisore. Una lavoratrice che aveva dimostrato dedizione al lavoro in passato
annuncia uno stato di gravidanza o si rifiuta di accondiscendere alle richieste di un capo
autoritario. Un dipendente (magari arrivato da poco tempo) si comporta in un modo che
è inaccettabile per la cultura dominante dell’organizzazione. L’incidente iniziale può anche
essere legato a un aumento del carico di lavoro dei superiori che si ripercuote sui collaboratori. O, ancora, lo stress dovuto a ristrutturazioni organizzative e a tagli del personale può essere un fattore che contribuisce a spingere il supervisore, o addirittura la direzione aziendale, all’uso del mobbing (meglio parlare di bossing). Anche alcune pressioni
organizzative esterne possono favorire pressioni interne, contribuendo all’insorgere del
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55
Mobbing: virus organizzativo
mobbing: quali richieste di messa a punto di procedure, momenti di difficoltà economico-finanziaria, esigenze di accreditamento.
L’incidente iniziale dà origine al mobbing quando la comunicazione fra le parti
diventa aggressiva, si verificano azioni ostili e il problema non viene trattato in modo
costruttivo (Wyatt e Hare, 1997).
Di solito questa fase è breve e la fase successiva si sviluppa quando il bersaglio nota
azioni di stigmatizzazione. Il passaggio dalla fase 1 alla fase 2 si realizza per l’utilizzo
sistematico da parte del supervisore di “sanzioni disciplinari” che, nonostante siano
apparentemente mirate a migliorare la prestazione, camuffano l’abuso. Nonostante il
modello di Leymann non prevedesse il verificarsi di sanzioni disciplinari, LutgenSandvick sostiene la crucialità di questa fase. Soprattutto nella realtà americana, la direzione del personale è molto attenta nel presentare delle giuste cause per licenziare o
estromettere dal contesto lavorativo un lavoratore, in quanto, se non sussistessero
prove evidenti, aumenterebbe il rischio di denunce e azioni legali contro l’azienda. Per
questo motivo i lavoratori non voluti possono essere sottoposti a mobbing utilizzando
delle tecniche di pressione psicologica, come far perdere dei vantaggi acquisiti con l’anzianità di lavoro, o l’umiliazione pubblica, e al contempo far apparire tali azioni disciplinari come legittime.
I mobber, se vogliono eliminare una persona, distorcono in modo sistematico i processi comunicativi in azienda e, dato che spesso l’aggressore è una persona più potente
della vittima, riescono a creare un proprio linguaggio condiviso, formale e una condivisa
spiegazione di cosa è realmente successo. Le continue critiche subite, spesso, rendono
aliena e senza più potere la vittima, la quale ha un abbassamento dei suoi standard di produttività. Ciò, a sua volta, alimenta le accuse di incompetenza da parte del mobber. Le vittime riportano che le progressive punizioni iniziano con sporadicità e casualità, sotto
forma di rimproveri e commenti negativi sulla prestazione lavorativa. I messaggi, inizialmente di natura verbale, non mettono, inoltre, in evidenza gli errori nella prestazione e/o
i cambiamenti auspicabili o desiderati dall’aggressore/aggressori, quindi appaiono ancor
più di difficile comprensione. Successivamente, i messaggi diventano scritti e iniziano a
fare parte della valutazione della prestazione del lavoratore e della sua vita aziendale.
Quando, poi, un supervisore vuole estromettere un collaboratore, le documentazioni possono essere addirittura manipolate o inventate o create ad hoc, a posteriori, per
giustificare trasferimenti e licenziamenti. I superiori possono anche tenere documentazioni riservate e segrete relative alle valutazioni della prestazione degli impiegati, che
non vengono, ovviamente, rese note e discusse con gli interessati. La sorveglianza continua, sotto forma di numerose correzioni verbali e avvertimenti scritti, crea nell’individuo uno stato di costante allerta.
La ripetitività delle comunicazioni critiche emerge all’inizio della fase 2 e si intensifica nella fase 3, quando la vittima inizia a sentirsi impaurita, intimidita, degradata e
manipolata. Le ripetute critiche e l’uso di punizioni e sanzioni disciplinari spingono il
mobbing verso la svolta decisiva. Durante la fase 3, la comunicazione del mobber diventa
ancor più negativa, personale e magniloquente. Sulle orme delle teorie dei gruppi, il
membro del gruppo dominante (il mobber) controlla la forma di comunicazione verso il
gruppo non dominante (il mobbizzato). Le ripetute critiche cambiano il focus della
comunicazione, che passa dalla prestazione alla rimozione/sostituzione della persona.
Qualsiasi piccolo errore diventa oggetto di ulteriori correzioni, critiche e attenzioni negative; altri esempi di azioni mobbizzanti includono frequenti chiamate a casa per discu-
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I modelli esplicativi della psicologia del lavoro e delle organizzazioni
tere argomenti di lavoro che non sono di particolare urgenza, oppure il comunicare alla
vittima e ai suoi colleghi la poca motivazione e la scarsa soddisfazione lavorativa, o rimproveri abituali in merito alle idee e ai punti vista della vittima nelle riunioni di lavoro
e controlli eccessivamente severi e minuziosamente pignoli del lavoro per trovare anche
il più piccolo errore. La vittima si sente allarmata e diventa ipervigile. Quando le vittime
cercano di dare voce alle loro esperienze, gli aggressori ricostruiscono le esperienze dei
mobbizzati nel loro linguaggio (“Questo non è mai successo”) e descrivono la situazione in modo molto diverso da quello percepito dalle vittime.
La ricostruzione dell’esperienza della vittima da parte del mobber inibisce l’abilità
della stessa di decodificare il significato dei messaggi e di ricomunicare la propria esperienza, a causa di una rilettura non condivisibile di quanto avvenuto. Uno degli assunti
base della teoria dei gruppi è che il sistema linguistico del gruppo dominante non include, o non riconosce, il linguaggio che riflette l’esperienza del gruppo non dominante. Il
gruppo dominante, spesso, inibisce le alternative di rappresentazione dell’esperienza del
gruppo non dominante. In linea con Corman (1995, p. 5) “si pensa che un evento sia
reale se due o più persone lo vedono succedere e concordano nell’averlo visto”. Nelle
situazioni di mobbing tale condivisione difficilmente si realizza. Gli aggressori, inoltre,
colpevolizzano la vittima e la etichettano come una persona che crea problemi nell’organizzazione o come un impiegato con problemi di equilibrio psicologico.
Ad esempio, un chief executive officer (CEO) di un’azienda no profit fu colpevolizzato dal vicepresidente, nonché suo supervisore, di avere gravi problemi di salute e di avere
sintomi iniziali di Alzheimer e di non essere, pertanto, più competente e in grado di guidare in modo adeguato l’organizzazione (Davenport et al., 1999).
Per difendersi da questa situazione le vittime cercano supporto nelle persone di cui
si fidano: colleghi di lavoro, famiglia, riuscendo soltanto in alcuni casi a trovare un sufficiente sostegno. Quando le vittime non tollerano più il mobbing, prendono la decisione di cercare aiuto nella direzione dell’organizzazione e vengono coinvolti i top manager, si arriva alla fase 4: ambivalenza organizzativa. L’organizzazione viene a conoscenza
del problema.
Secondo Lutgen-Sandvick, quando arriva il momento in cui la direzione del personale viene a conoscenza della situazione conflittuale in atto, non sempre essa si schiera
contro la persona mobbizzata. La direzione, maturando la consapevolezza del problema,
può prevenire ulteriori abusi facendo sì che la vittima si senta supportata, valorizzata e
possa tornare a uno stato di benessere. Questo è un passaggio cruciale nell’escalation del
mobbing: a questo punto il top management ha il potenziale di interrompere il ciclo,
dando voce all’esperienza della vittima. Tuttavia, se il top management fallisce nell’intervento, non riuscendo a prevenire ulteriori azioni mobbizzanti, il ciclo arriva alla fase 5.
La vittima capisce che l’organizzazione non è disponibile ad ascoltare i suoi problemi e decide pertanto di non parlarne più. Quando la struttura di potere – gli aggressori
e il top management – ha ricostruito l’esperienza e stigmatizzato la vittima come persona che crea problemi, un malato mentale, una persona con disturbi, anche i colleghi
possono asserire che la causa del problema sta nella personalità deviante della vittima
(Leymann, 1990) e ciò, congiuntamente a un minore supporto sociale e familiare, può
culminare nell’isolamento e silenzio.
L’assenza di supporto è una situazione tipica della vittima di mobbing. Il supporto
sociale, nella forma d’amicizia, rispetto, accesso alle informazioni e aiuto in situazioni difficili, può ridurre lo stress, attenuare eventuali problemi di salute e rinforzare le strategie
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Mobbing: virus organizzativo
di coping degli individui. Nel mobbing, invece, le vittime non ricevono feedback, non
viene prestata attenzione alle loro esigenze e le stesse spesso mancano delle informazioni
circa i propri diritti e le alternative possibili per gestire al meglio il conflitto. L’aggressore,
in questo modo, continua a manipolare la reputazione della vittima, con gossip, umiliazioni, false accuse, al fine di mantenere il supporto del top management. L’intenzionalità
dell’aggressore di estromettere la vittima dal contesto lavorativo può anche configurarsi
in azioni negative estremamente aggressive e/o minaccia di violenza o violenza fisica.
La paura poi di diventare vittime di mobbing porta gli altri lavoratori (spettatori) a
fingere che non stia succedendo nulla, a isolare la vittima e/o aumentare la quantità di
comunicazione soltanto fra loro (Cox, 1999). La negazione del supporto alla vittima da
parte dei colleghi può essere dovuta anche al fatto che dare supporto a lavoratori bisognosi richiede molta energia a chi soccorre, il quale a sua volta può subire un forte stress
emotivo tanto da negare l’aiuto a quel collega che chiede troppo da un punto di vista di
carica emozionale. Si viene, così, a creare un clima negativo, senza più fiducia, e le vittime si sentono sole nella loro esperienza, senza aiuto e comprensione sia all’interno e sia
all’esterno del sistema (Wyatt e Hare, 1997).
Quando la vittima non può più tollerare la situazione, che coincide di solito con il
supporto negato dai colleghi e con il fallimento del top management, la sua capacità di
resistenza diventa nulla. La vittima lascia volontariamente o non volontariamente l’organizzazione, se non lo ha già fatto nelle fasi precedenti, e il ciclo arriva alla fase 6.
Naturalmente la separazione non è realmente volontaria: è più corretto riferirsi a una
dimissione pianificata, in cui condizioni di lavoro impossibili da tollerare portano la vittima a lasciare l’organizzazione.
Il modello di Leymann (1990) si conclude con l’espulsione della vittima; LutgenSandvick però sostiene che l’estromissione dal contesto lavorativo non conclude il ciclo
di comportamenti negativi nell’organizzazione. Nonostante uno o più lavoratori lascino
l’organizzazione e, temporaneamente, diminuiscano le tensioni in atto nell’ambiente
lavorativo, ogni rimozione di un impiegato aumenta i livelli di paura e di ansia negli altri
lavoratori. Il periodo di non tensione è molto breve; l’aggressore, infatti, focalizza le proprie frustrazioni e critiche su un altro target che diventa il nuovo portatore (capro espiatorio) dei problemi nell’organizzazione. Questa rigenerazione dei cicli di mobbing suggerisce che il problema non risiede in problemi di specifici lavoratori, ma è una dimensione strutturale, implicita o esplicita, insita nella cultura organizzativa.
Nonostante alcuni lavoratori che compiono azioni mobbizzanti possano avere dei
tratti di personalità di un mobber (Namie e Namie, 2000), sembra troppo semplicistico
ricondurre il problema a una singola persona. Interrompere il ciclo implica qualcosa di
più che licenziare, riformare o mettere in atto azioni disciplinari verso il mobber.
Interrompere il ciclo significa che le organizzazioni devono incoraggiare, e non ostacolare, le denunce di azioni mobbizzanti subite dai lavoratori, creando una cultura del
benessere e della qualità della vita al lavoro.
5. Il modello di Einarsen
Seguendo queste linee di ricerca presentate nei precedenti paragrafi, un modello
teorico esplicativo è stato proposto anche da Einarsen (Einarsen, 2000; Einarsen et al.,
2003), al fine di mettere in luce le principali classi di variabili che possono essere consi-
58
I modelli esplicativi della psicologia del lavoro e delle organizzazioni
derate nei programmi di prevenzione e intervento sul mobbing all’interno delle organizzazioni (cfr. fig. 4-3).
Prima di tutto il modello distingue tra la natura e le cause dei comportamenti di
mobbing, così come esercitati dall’aggressore, dalla percezione che la vittima ha di tali
comportamenti. Distingue, inoltre, tra percezioni di esposizione al mobbing e reazioni
alle azioni mobbizzanti. Considerando, in primo luogo, i comportamenti dell’aggressore, il mobbing prende forma da una combinazione di cultura organizzativa, che permette, o potrebbe addirittura legittimare, comportamenti e situazioni mobbizzanti, e di fattori contestuali e personali, che potrebbero portare un manager o un impiegato ad agire
in modo aggressivo nei confronti di un subordinato o di un collega. Il mobbing, inoltre,
potrebbe essere il risultato di una combinazione tra una propensione a compiere azioni
mobbizzanti da parte di un individuo, per fattori personali o situazionali, e la mancanza di fattori organizzativi che inibiscono tali azioni.
Figura 4-3
Il modello di Einarsen
Fattori socioeconomici e sociali
Azione organizzativa
Antecedenti
organizzativi
del mobbing
• Tolleranza/intolleranza. Supporto sociale
• Codici di condotta. Prevenzione
Effetti
sull’organizzazione
–
+
Antecedenti
individuali,
sociali
e contestuali
dei comportamenti negativi
Azioni
vessatorie
perpetrate
dal mobber
Comportamento
vessatorio
percepito
dalla vittima
Reazioni
immediate
della vittima
• Emotive
• Comportamentali
Effetti
sulla
persona
Predisposizioni individuali della vittima
• Caratteristiche demografiche e circostanze sociali
• Personalità e storia personale
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Mobbing: virus organizzativo
Il modello mette in luce come questi fattori organizzativi, insieme a un efficiente
sistema di supporto per le vittime, siano fattori chiave del processo di mobbing e come
possano moderare la percezione delle azioni vessatorie subite e le reazioni della vittima.
Un clima organizzativo positivo e forme di supporto sociale per la vittima potrebbero
renderla più capace di risolvere la situazione conflittuale che si è creata.
La seconda parte del modello si focalizza sull’individuo e sulla reazione della vittima. Il mobbing è concepito come una percezione soggettiva in cui il significato e la portata possono anche essere molto diversi per chi lo subisce (mobbizzato) rispetto a chi lo
agisce (mobber). Il modello, inoltre, individua alcune strategie organizzative per far fronte al fenomeno del mobbing.
Infine, il modello si propone di dare conto ai processi dinamici nelle interazioni tra
aggressore, vittima e organizzazione. Ad esempio, la reazione di stress della vittima alla
percezione di mobbing e i conseguenti effetti potrebbero esacerbare proprio quegli atteggiamenti della vittima poco apprezzati, dando vita a un’ulteriore stigmatizzazione della
stessa da parte degli altri lavoratori.
6. Un modello integrato per la comprensione del mobbing
Un modello che può aiutare a illustrare la complessità e multicausalità del costrutto del mobbing è quello proposto da Giorgi (2004; cfr. fig. 4-4). Esso permette principalmente di raggiungere tre scopi:
• incorporare i diversi fattori casuali, individuati dalle diverse ricerche, entro una struttura integrata;
• considerare il mobbing in termini tali da consentire di spiegare le dinamiche interattive e le complessità del processo;
• favorire la progettazione di interventi organizzativi di prevenzione e azione, sia sulle
persone vessate che sulle organizzazioni.
Sulla base di un’attenta analisi riguardo alle cause scatenanti il processo di mobbing, possono essere individuate tre macro-teorie che, rispettivamente, enfatizzano i
tratti di personalità e le caratteristiche individuali degli attori, il gruppo di lavoro e le sue
dinamiche, le caratteristiche dell’organizzazione e dell’ambiente di lavoro.
Secondo Depolo (2003), il clima organizzativo, nelle sue dimensioni di team, comunicazione, leadership, libertà, ha un legame consistente con la presenza di episodi di
mobbing. In altri studi, alcuni aspetti del job design, come il conflitto di ruolo e l’ambiguità di ruolo, sono risultati avere effetto diretto sulla percezione di mobbing (Notelaers,
Francois Fils, Einarsen e De Witte, 2004). Anche un’organizzazione del lavoro che
costringa al lavoro in team senza favorire la partecipazione e la fiducia, ma stimolando
la competizione interna per benefit e premi, può essere considerata un antecedente organizzativo al mobbing (Zapf et al., 1996).
A livello individuale, alcuni tratti di personalità, sia della vittima che dell’aggressore, possono essere considerati, rispettivamente, causa dei comportamenti negativi dell’aggressore e causa della percezione di essere mobbizzata della vittima. Il tipico mobbizzato sarebbe una persona coscienziosa e rigida (Brodsky, 1976), con una bassa stima
di sé e suscettibile allo stress e alla depressione (Zapf e Einarsen, 2003). Il tipico mobber
60
I modelli esplicativi della psicologia del lavoro e delle organizzazioni
Figura 4-4
Il modello di Giorgi
Cause
Mobbing
Conseguenze
Organizzazione
Organizational Injustice
Clima organizzativo
Politiche organizzative
Organizzazione del lavoro
Aggressore
Gruppo
Ostilità e critiche
Cambiamento del gruppo
Group pressure
Group identification
Persona
Work related
mobbing
Deadlines
irragionevoli
Eccessivo
monitoraggio
...
Commenti offensivi
e insulti
False accuse
Mobbing
sulla persona
Turnover
Intent to leave
Commitment
Job satisfaction
Performance
Sintomi
psicosomatici
Post-traumatic
Stress Disorder
Ansia
Depressione
Personalità
Qualifica
Social skill
Fattori socioeconomici e culturali
sarebbe, invece, una persona instabile, con poca stima di sé e mancanza di empatia (Zapf
e Einarsen, 2003).
A livello di team si possono creare delle dinamiche negative tali da ricercare un capro
espiatorio sul quale proiettare e scaricare l’aggressività e la frustrazione. Di solito questo
processo di “caccia alle streghe” si manifesta a causa di processi di influenza sociale che
generano forte pressione a conformarsi alle norme del gruppo (Zapf, 1999), lasciando poco
spazio alle diversità, oppure si verifica a seguito di cambiamenti nel gruppo di lavoro, come
l’arrivo di un nuovo superiore. Si possono verificare, inoltre, episodi di mobbing anche
quando ci sono troppe ostilità e critiche nel proprio gruppo di lavoro (Giorgi, Majer, D’Amato
e Listanti, 2004), o a causa di un’eccessiva identificazione nel gruppo di alcuni membri.
Secondo il modello di Giorgi, il supporto e le politiche dell’organizzazione sono fattori chiave nel verificarsi di comportamenti di mobbing. Esso infatti si manifesta quando l’organizzazione, direttamente o indirettamente, tollera e legittima i comportamenti
negativi, specie nel momento in cui non ci siano politiche di prevenzione e di intervento/supporto organizzativo. L’aggressore, non percependo il rischio di essere condannato e punito, esercita più liberamente le azioni negative, mentre la vittima può trovarsi di fronte a una vera e propria persecuzione.
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Mobbing: virus organizzativo
Il modello di Giorgi si focalizza anche sulla comprensione delle classi di azioni di
mobbing, ossia comportamenti negativi sulla persona e comportamenti negativi su
aspetti della mansione e del ruolo lavorativo. Il modello evidenzia, inoltre, da una parte
la reazione soggettiva della vittima ai comportamenti subiti, mettendone in luce i possibili effetti disfunzionali, ossia disturbi psicosomatici, depressione, ansia, disturbo posttraumatico da stress, dall’altra gli effetti disfunzionali a livello organizzativo, come turnover, assenteismo, minore produttività e commitment del personale.
Infine, esso consente di approfondire le dinamiche e i processi interattivi tra l’aggressore, la vittima e l’organizzazione. Viene ipotizzato che gli effetti disfunzionali del
mobbing, come assenteismo e turnover, possano generare una percezione negativa di
clima organizzativo (Vartia, 1996) o dare vita ad altre forme di harassment di maggiore o
minore intensità (Schneider, Hitlan, Delgado, Anaya e Estrada, 2000). Oppure, come
emerso dagli studi di Leymann (1990), la reazione soggettiva della vittima al mobbing,
che spesso sfocia in disturbi psichici, può costituire per l’aggressore una giustificazione,
a posteriori, per il trattamento di vessazione inferto. Questo processo di stigmatizzazione potrebbe anche alterare la percezione della vittima, che potrebbe avere una visione
negativa del proprio superiore o dell’organizzazione nel suo complesso e degli interventi e azioni intrapresi dall’organizzazione o da un manager per far fronte al processo.
Infine, il modello richiama l’attenzione su alcuni aspetti del mobbing in relazione
a fattori socioeconomici. I recenti cambiamenti nel contesto di impresa, ossia la globalizzazione e la competizione interna, hanno avuto un’incidenza profonda nel mondo del
lavoro, generando instabilità e pressione sui lavoratori. Sembrano emergere delle circostanze privilegiate in cui un’organizzazione possa diventare a rischio di mobbing, come
ad esempio nel caso di ristrutturazioni organizzative, downsizing e cambiamenti organizzativi (Salin, 2003). Si può, quindi, ipotizzare che il mobbing sia influenzato anche dai
processi e dalle fasi evolutive che un’organizzazione sta attraversando in quel particolare momento storico della sua esistenza.
62
CAPITOLO QUINTO
Le tipologie di mobbing
1. Il mobbing verticale e orizzontale
Passando in rassegna le varie tipologie di mobbing, è possibile individuare una
prima forma di terrorismo psicologico che si basa sul tipo di relazione gerarchica che
intercorre tra gli attori del fenomeno, partendo, cioè, dal ruolo lavorativo e dalla posizione formale ricoperti dall’aggressore e dalla vittima: il mobbing di tipo verticale e il
mobbing di tipo orizzontale.
A sua volta, il mobbing verticale può essere suddiviso in discendente e ascendente. Si tratta di un caso di mobbing verticale discendente quando la violenza psicologica
viene posta in essere da un superiore della vittima e può determinarsi anche con il concorso dei colleghi della vittima che svolgono, consapevolmente o meno, un’azione
mobbizzante.
Le azioni più tipiche di questa forma di mobbing sono, verosimilmente, più di tipo
disciplinare, legittimate dal potere formale e dall’autorità detenuti dal mobber. Infatti, ai
superiori e manager viene dato potere formale dall’organizzazione nei confronti dei loro
collaboratori, che, talvolta, può giungere a forme di abuso dalle quali la vittima non è in
grado di difendersi. Un tipico esempio di mobbing verticale è l’abuso di potere, vale a
dire tutte quelle situazioni in cui viene attuato un uso arbitrario e organizzativamente
non razionale ed etico del potere da parte di un superiore, che utilizza, a tal fine, la posizione che occupa nella gerarchia aziendale. Disprezzare e mostrare scarsa considerazione verso i collaboratori e subordinati, mostrare continua sfiducia e sospetto, vedere i
subordinati come un oggetto da manipolare, prendere credito dai successi degli altri e
punire senza reale necessità sono alcuni dei possibili comportamenti messi in atto dal
superiore mobber.
Ci si trova, invece, davanti a un caso di mobbing verticale ascendente quando la violenza psicologica viene posta in essere nei confronti della vittima da uno o più collaboratori/subordinati.
63
Mobbing: virus organizzativo
Lo staff dipende dai superiori riguardo ai compiti da svolgere, le risorse da utilizzare, i premi da ricevere e le valutazioni delle loro prestazioni, ma anche i superiori dipendono dai collaboratori/subordinati in merito al raggiungimento degli obiettivi prefissati
e ai risultati finali ottenuti. Ne consegue che anche la dipendenza dei manager dal loro
staff può diventare una forma di potere che può essere oggetto di abuso. Infatti, il potere detenuto dallo staff nei confronti del manager risulta limitato se il superiore è riconosciuto e legittimato, ma, nel caso in cui il manager non venga rispettato, i collaboratori/subordinati possono esercitare una forma di abuso di potere, grazie al facile reperimento di conoscenze, informazioni e network del superiore e all’utilizzo di tattiche di
coalizione. Le azioni più tipiche di questa forma di mobbing sono, verosimilmente, più
di tipo rivendicativo/punitivo come trattenere informazioni necessarie per il superiore o
diffondere gossip e false accuse nei suoi confronti.
Il manager, a sua volta, si trova in estrema difficoltà a cercare supporto e aiuto, in
quanto la sua posizione e il sistema di aspettative intrinseche al suo ruolo da parte dell’azienda e degli impiegati ne diminuiscono la possibilità di difesa.
Ci si trova, invece, davanti a un caso di mobbing orizzontale quando la violenza psicologica viene posta in essere nei confronti della vittima da uno o più colleghi di pari
grado.
Le azioni più tipiche in questo caso sono verosimilmente di tipo comunicativo,
come ignorare ed escludere la persona, o attaccarne la vita privata. I colleghi, infatti,
hanno una conoscenza più approfondita degli stili di vita, delle preferenze e delle attitudini delle persone con cui lavorano. Questa approfondita conoscenza potrebbe
influenzare il comportamento di mobbing in contesti e situazioni specifiche: in essi,
infatti, alcune categorie di lavoratori, per determinate caratteristiche di personalità e attitudini, vengono percepite come aventi meno potere e l’aggressore può sentirisi perfino
legittimato a esercitare azioni mobbizzanti.
2. Il mobbing collettivo/organizzativo e il bossing
Un’altra tipologia di mobbing emerge sulla base della concettualizzazione del fenomeno entro una logica strettamente aziendale. Molti studiosi, come rilevato precedentemente, hanno messo in luce che il mobbing è un fenomeno interpersonale che evolve da un processo interattivo fra le parti, mentre altri (Liefooghe e Mackenzie, 2001)
hanno invece concettualizzato il mobbing come un fenomeno organizzativo. Il mobbing
collettivo/organizzativo si riferisce alle situazioni in cui le procedure e le pratiche organizzative vengono percepite regolarmente e sistematicamente come oppressive, degradanti
e umilianti al punto che i lavoratori si sentono mobbizzati da esse. Anche in questa
forma di mobbing i comportamenti negativi sono frequenti, persistenti e tormentano,
creano frustrazione nei dipendenti. In queste situazioni, i manager, a livello di singolo o
di gruppo, danno sostegno e forma alle strutture organizzative e alle procedure che possono tormentare, abusare e sfruttare gli impiegati.
In due ricerche, Liefooghe e Mackenzie (2001) e Liefooghe (2003), condotte presso
un’azienda di telecomunicazioni e una banca utilizzando la metodologia dei focus group,
emerge che i partecipanti, invece di riferirsi al mobbing come a un fenomeno relazionale, hanno costruito un’identità collettiva mettendo in luce un “noi” e hanno utilizzato
il termine di mobbing per descrivere il proprio malcontento e rimostranza nei confron-
64
Le tipologie di mobbing
ti dell’organizzazione e delle sue procedure, piuttosto che nei confronti dell’aggressore.
Impiegato di un call centre:
Esso [mobbing] non è realmente il mobbizzare una persona. Non mi sento mobbizzato da un’unica persona specifica, è più l’ambiente di lavoro. È piuttosto l’ambiente oppressivo in cui lavoriamo noi impiegati. Siamo costretti a lavorare entro confini stretti. Io penso esattamente quello che stai dicendo, ti senti come se il tuo manager non volesse che tu lo faccia, ma noi dobbiamo farlo. Esso danneggia la tua stima
personale, ti fa sentire senza valore. E, voglio dire, devi farla finita svalutando il tuo
lavoro (Liefooghe e Mackenzie, 2001, p. 381).
Impiegato di un call centre:
Non mi sento mobbizzato da una persona, mi sento mobbizzato dalle statistiche. Il
fatto è che c’è qualcuno qui che fa queste statistiche, e siamo preoccupati di queste
(Liefooghe e Mackenzie, 2001, p. 381).
Impiegato di banca:
Così, sì, quando dici se siamo stati esposti al mobbing nella banca, sì siamo stati
esposti al mobbing e siamo esposti anche adesso. Forse non personalmente, individualmente, ma lo staff sta subendo il mobbing dal management dell’azienda
(Liefooghe, 2003, p. 30).
Tra le azioni organizzative mobbizzanti identificate nella prima ricerca citata, vi
sono l’uso eccessivo della statistica, le regole concernenti il time management delle chiamate, le politiche riguardanti i giorni di malattia e così via. Nella seconda, la valutazione delle prestazioni e la mancanza di negoziazione.
Un altro esempio emblematico di quest’ultima fattispecie di mobbing è dato dal
caso dell’ILVA di Taranto, riguardante lo svuotamento di mansioni generalizzato a
tutti i lavoratori presenti in un reparto dello stabilimento, i quali, sino alla data di
apposizione dei sigilli ad opera della Procura, si presentavano regolarmente al lavoro,
ma lì non svolgevano alcuna reale mansione, pur continuando a percepire la normale retribuzione.
Il mobbing in questo caso non è il prodotto di un’interazione tra le parti, ma piuttosto è il risultato dall’interazione indiretta tra i lavoratori e i vertici organizzativi. Più
che l’intenzionalità dell’azienda di escludere o eliminare qualcuno, la manifestazione
dei comportamenti negativi viene perpetrata per il mantenimento degli alti standard
dell’azienda e/o del mercato, o a causa di una cultura organizzativa che tollera e/o legittima le molestie sul luogo di lavoro. Il mobbing organizzativo ha come fine non tanto
l’esclusione del prestatore di lavoro dall’azienda quanto, piuttosto, l’incanalamento
dello stesso verso posizioni che non avrebbe altrimenti accettato. Lo scopo può essere
quello di indurre i dipendenti ad accettare lavori umilianti, ritmi particolarmente sostenuti, paghe irrisorie, trasferimenti e così via.
Il bossing, invece, è una forma di terrorismo psicologico che viene programmato dall’azienda o dai vertici dirigenziali come vera e propria strategia aziendale di riduzione o
razionalizzazione del personale, oppure di semplice eliminazione di una persona indesiderata (Ege, 1996).
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Mobbing: virus organizzativo
Ege (2001) definisce il bossing come un tipo di mobbing politico, in cui la linea politica del mobber coincide con quella aziendale e in cui il mobber può essere considerato
l’azienda stessa, il datore di lavoro o comunque i vertici aziendali. In quest’ottica, i dirigenti e i quadri dell’azienda hanno lo scopo preciso di indurre il dipendente, divenuto
“scomodo”, all’autoeliminazione (dimissioni volontarie, pre-pensionamento), oppure di
creare il necessario background per un suo licenziamento, il tutto al riparo da qualsiasi
problema di tipo sindacale e giuridico. Il bossing può essere utilizzato per intraprendere
operazioni su larga scala, come la riduzione di personale o la riorganizzazione di interi
uffici, oppure per espellere dal contesto socioproduttivo lavoratori non voluti, altrimenti difficilmente amovibili. Esso è caratterizzato dall’intento strategico dell’aggressore
(quindi azione voluta, intenzionale, cosciente e pianificata) di allontanare ed emarginare il lavoratore ed è specificamente ricollegabile a finalità inerenti all’ambito lavorativo.
Come è noto, al giorno d’oggi la legislazione vigente in merito alla tutela dei lavoratori rende molto difficile per l’azienda licenziare qualche dipendente, soprattutto quando
si tratta di persone organizzate nei sindacati. Tuttavia, soprattutto in tempi di crisi, molte
aziende sono costrette a ridurre il personale, o a ringiovanirlo. Il bossing si configura in
questi casi proprio come una precisa strategia aziendale. Nei sistemi, infatti, dove esiste
maggiore libertà di licenziare, la frequenza di strategie di bossing risulta normalmente
minore; al contrario, in una realtà dove il licenziamento è ammesso solo per giusta causa
o giustificato motivo, pena sanzioni anche rilevanti, l’interesse a provocare le dimissioni
può diventare molto forte e, se il lavoratore ha scarse possibilità di trovare una diversa
occupazione, il suo attaccamento al lavoro sarà maggiore, con conseguenze per lui nefaste. Le azioni più tipiche di questa forma di mobbing riguarderanno più specificamente
l’attività lavorativa, si manifesteranno sotto forma di trappole, diffusione di informazioni false o incomplete e sabotaggi, affinché gli errori commessi dal lavoratore possano essere fatti ricadere su di lui e costituiscano una prova costruita da esibire in giudizio.
Inoltre, il bossing crea intorno alla persona da “eliminare” un clima negativo e ostile: atteggiamenti eccessivamente e ingiustamente severi, minacce più o meno velate, rimproveri più o meno immeritati, che non vengono compresi dalla vittima. Inizialmente
essa è disorientata, con il passare del tempo può diventare incredula rispetto a ciò che sta
succedendo, successivamente fortemente impaurita di perdere il proprio posto di lavoro
e, infine, cosciente della situazione, ma impotente di fronte alla strategia di persecuzione
messa in atto contro di lei. In questa ipotesi il mobbizzato può venire, per altro anche
legittimamente, licenziato in quanto ormai inefficiente, assente per malattia, inadempiente ai doveri contrattuali. In questa situazione l’esclusione del mobbizzato dall’ambiente di lavoro può essere una mera conseguenza del bossing: ciò avviene quando i superiori o i colleghi intervengono in un’azione mobbizzante già intrapresa dall’organizzazione, dunque entro una logica prettamente aziendale. I superiori o i colleghi, pur non avendo premeditato il licenziamento, si trovano, cioè, a dover sanzionare il dipendente, completando l’opera di demolimento intrapresa dai vertici dirigenziali dell’azienda.
3. Il mobbing sulla persona e il mobbing sul ruolo lavorativo e sulla mansione
Continuando la rassegna delle varie tipologie di mobbing, è possibile individuare
un’altra forma di terrorismo psicologico sulla base delle azioni poste in essere dall’aggressore e percepite dalla vittima. Come è emerso da uno studio di Einarsen e Hoel
66
Le tipologie di mobbing
(2001) condotto presso 5300 lavoratori e da Giorgi e Majer (database in fase di lavorazione) presso oltre 2000 lavoratori italiani, ci sono due tipologie di azioni negative: attacchi diretti al ruolo lavorativo e alla mansione e attacchi diretti alla persona.
Il mobbing sul ruolo lavorativo e la mansione si attua attraverso la marginalizzazione dell’attività lavorativa. Spesso si inizia con l’esclusione reiterata del lavoratore da
iniziative formative di riqualificazione e aggiornamento professionale, e/o con l’esercizio esasperato di forme di controllo, oppure con ripetuti trasferimenti ingiustificati cui
viene sottoposta la vittima. Parallelamente, viene colpito l’operato del lavoratore: un
esempio è dato dalla prolungata attribuzione di compiti eccessivi con scadenze irragionevoli o dalla mancata assegnazione degli strumenti di lavoro, così che, successivamente, vengono tolte responsabilità cruciali di competenza e assegnati compiti dequalificanti rispetto al profilo professionale posseduto. Altre manifestazioni del mobbing sul
ruolo lavorativo e sulla mansione sono rinvenibili nell’inadeguatezza strutturale e sistematica delle informazioni inerenti all’ordinaria attività del lavoro e nell’impedimento
sistematico e strutturale dell’accesso a notizie necessarie per il lavoratore.
Il mobbing sulla persona si attua, invece, nella violazione dell’integrità e della
dignità umana della vittima. Spesso si inizia con azioni negative “velate”, come fare continue critiche, pettegolezzi e gossip; oppure la vittima inizia ad essere frequentemente
umiliata in pubblico o riceve giudizi negativi reiterati in merito a errori e sbagli commessi. Possono, inoltre, essere diffuse false accuse e la vittima può divenire il bersaglio
di un eccessivo sarcasmo o di scherzi imbarazzanti.
Contestualmente all’evolversi del conflitto, le azioni negative possono diventare
più esplicite e dirette e assumere l’aspetto di veri e propri comportamenti intimidatori
(invadere lo spazio personale, impedire il passaggio, puntare il dito contro). Il mobbizzato, inoltre, inizia ad essere sempre più frequentemente vittima di aggressività e rabbia,
con il rischio di arrivare alla minaccia di violenza o ad atti di vera e propria violenza fisica. Altre manifestazioni del mobbing sulla persona sono riscontrabili nell’isolamento
sociale, nell’ignorare o nel compiere azioni ostili quando la vittima si avvicina, nei reiterati commenti offensivi o insulti sulla sua persona o sulla sua vita privata. Altre volte
vengono dati da parte del mobber costanti segnali che mirano a far lasciare alla vittima
il suo posto di lavoro.
4. Il doppio mobbing
Contestualmente allo svilupparsi delle varie fasi del mobbing lavorativo, si può sviluppare inoltre, secondo Ege (1996), il doppio mobbing, ossia quell’insieme di vessazioni che la vittima subisce dalla propria famiglia e/o amici in aggiunta alle persecuzioni
lavorative.
La famiglia, in particolare in Italia, riveste un importante ruolo caratterizzato da
stretti legami e da una partecipazione attiva all’evoluzione sociale e personale dei suoi
membri: si interessa del loro lavoro, della loro vita privata, fornisce consigli e aiuti nel
risolvere i problemi e fornisce protezione. La vittima, in situazione di mobbing, cerca
proprio nella famiglia quella comprensione e quel conforto in cui sfogare la propria rabbia e la propria frustrazione, l’insoddisfazione e lo stress che ha accumulato durante la
giornata lavorativa. Così, chi si trova coinvolto nel mobbing, cerca una condivisione
delle proprie difficoltà con il coniuge, i figli, i genitori. Essendo il mobbing un lento stil-
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Mobbing: virus organizzativo
licidio di persecuzioni, attacchi e umiliazioni, che perdura inesorabilmente nel tempo, e
proprio nella lunga durata ha la sua forza devastante, il logorio attacca la famiglia, che,
inizialmente resiste e compensa le perdite, poi fornisce sostegno fino a un certo limite.
Quando la violenza psicologica subita all’interno dell’ambiente lavorativo diventa
l’unico e ossessivo argomento di conversazione della vittima e la situazione diviene insostenibile e dannosa per l’unione e la coesione familiare, la stessa famiglia per “istinto di
sopravvivenza” erge un muro di protezione e passa al contrattacco con atti estremi e irrazionali, e tende nei casi più gravi a isolare l’individuo anche dal nucleo familiare, causandogli con ciò un peggioramento per quanto concerne la sua stabilità psicologica.
68
CAPITOLO SESTO
Gli attori del mobbing
Il mobbing, nelle sue varie forme, implica il coinvolgimento di diversi individui. Gli
attori necessariamente coinvolti in questo processo sono l’aggressore (che viene denominato mobber) e la vittima (che viene denominata mobbizzato). Bisogna tuttavia notare che il mobber e il mobbizzato raramente si trovano da soli, in quanto intorno a loro
c’è un numero variabile di individui che possono essere soltanto degli spettatori, magari esprimendo qualche preferenza per uno degli opponenti, o che possono schierarsi
apertamente per una delle parti, tanto da poter acquisire il ruolo di side-mobber (fiancheggiatori) o diventare dei whistleblower, letteralmente “coloro che suonano il fischietto”, denunciando situazioni di illegalità e corruzione all’interno della propria azienda.
1. Il mobber
Il mobber è l’aggressore, colui che svolge sistematicamente e con modalità subdole
delle violenze psicologiche e morali su un subordinato, su un collega o su un superiore
mediante critiche (per il minimo errore), aggressioni verbali, maldicenze, minacce ingiustificate. L’obiettivo è di indurlo a licenziarsi o esautorarlo dalle sue mansioni, ma il mobber può agire anche solo per isolare una persona o per divertimento.
La letteratura divulgativa sul fenomeno, e non solo, ha focalizzato i propri studi
sulle “psicopatologiche” del mobber, trascurando invece di leggere il fenomeno anche
nell’ottica strategica da cui esso si origina. Se è vero, infatti, che il mobber presenta sicuramente un quadro psicologico con qualche instabilità, è vero anche che il mobbing è
un fenomeno che si sviluppa a livello interpersonale e all’interno di un determinato contesto organizzativo, condizione per cui risulta arduo pensare che la patologizzazione del
mobber sia la causa fondante del problema. Sarebbe sin troppo comodo e semplificante
categorizzare i mobber come psicopatici, così tutte le soluzioni risiederebbero nella riabilitazione degli aggressori.
69
Mobbing: virus organizzativo
Tuttavia la letteratura, per altro non sempre psicologica/psichiatrica, ha avanzato
delle ipotesi su quali potessero essere i disturbi di personalità del mobber, rifacendosi, talvolta, al narcisismo, al disturbo borderline, al disturbo di personalità antisociale, a una
personalità paranoica e così via. Un’analisi più puntuale è quella di Ege (1996), che delinea 14 profili di mobber: l’istigatore (chi ricerca nuove cattiverie e maldicenze), il casuale (chi lo diventa per caso), il co-mobber (il conformista), il collerico, il megalomane, il
frustrato, il sadico, il criticone, il leccapiedi, il pusillanime, il tiranno, il terrorizzato, l’invidioso, il carrierista. Tuttavia anche questa classificazione appare a chi scrive un po’
troppo semplicistica.
Namie e Namie (2000), invece, presentano quattro tipologie di mobber sulla base
delle tattiche poste in essere nei confronti della vittima: a) lo screaming mimi, b) il constant critic, c) il two-headed snake, d) il gatekeeper.
Lo screaming mimi è il tipico mobber che controlla gli altri e rovina l’ambiente lavorativo con sbalzi di umore continui e improvvise manifestazioni di rabbia. I bersagli vengono pubblicamente umiliati per convincere i testimoni che lui (il mobber) è una persona che va temuta.
Il constant critic ha una minuziosa e ossessiva attenzione sulla prestazione degli altri
e così facendo maschera le proprie insicurezze e mancanze. Questo tipo di mobber si
lamenta delle incompetenze altrui e si inventa gli errori per confondere e svalutare la vittima. Comportamenti tipici sono: criticare e attaccare verbalmente la personalità della
vittima, dare nomignoli e/o fare scherzi imbarazzanti, porre eccessiva attenzione a dettagli non rilevanti per lo svolgimento della mansione.
I two-headed snake diffamano la reputazione dei bersagli. I mobber serpenti diffondono chiacchiere e false accuse, attuano strategie per mettere il gruppo di lavoro e i colleghi contro la vittima. La versione dei fatti data da questo tipo di mobber è sempre creduta, quella della vittima mai. I two-headed snake uccidono la reputazione della vittima,
la diffamano, le mettono gli altri lavoratori contro.
Il gatekeeper è ossessionato dal controllo. Questo tipo di mobber alloca risorse, orari,
soldi, informazioni affinché il bersaglio fallisca, e avere così una scusa per discutere
sulla prestazione lavorativa dello stesso. I gatekeeper controllano tutte le risorse, svalutano e molestano la vittima e le creano un ambiente ostile per lo svolgimento della sua
mansione.
2. Il mobbizzato
Il mobbizzato è la vittima del mobbing, cioè è l’oggetto delle persecuzioni e molestie poste in essere dal mobber o da più persone (co-mobber), in modo sistematico, frequente e persistente, allo scopo di isolarlo a livello interpersonale e privarlo delle funzioni esercitate nell’ambito dell’attività lavorativa. A tal fine, il lavoratore viene continuamente umiliato, offeso e ridicolizzato, anche per quanto riguarda la sua vita privata;
il lavoro viene deprezzato, svuotato di contenuti (sindrome della scrivania vuota), ossessivamente criticato e, addirittura, ostacolato e sabotato, il suo ruolo declassato e le sue
capacità personali e professionali messe in discussione. Questo processo viene percepito
dalla vittima come una discriminazione e può comportare effetti altamente disfunzionali sulla sua salute e sulla sua vita sociale. Nonostante sia estremamente difficile poter
individuare con precisione le caratteristiche della persona predisposta a divenire vittima
70
Gli attori del mobbing
di mobbing, la letteratura ha cercato di prefigurare gli “idealtipi” degli individui che possono risultare più facilmente esposti al mobbing.
Ege (1996) propone una classificazione di 18 tipologie possibili di persone mobbizzate. La vittima può essere una persona permalosa, ambiziosa, sicura di sé, molto severa;
come allo stesso modo rischiano di divenire vittime soggetti troppo sensibili o sinceri,
eccessivamente paurosi, tendenti alla depressione o insofferenti; oppure persone che si
lamentano spesso. In linea ancora più generale possono essere più sottoposti al mobbing
i soggetti troppo espansivi o, al contrario, passivi e con difficoltà relazionali. Tuttavia,
come sostiene l’Autore, i tratti delineati vogliono semplicemente fornire un aiuto alla
comprensione di alcune caratteristiche che possono essere riscontrate nei mobbizzati,
ma non hanno la pretesa di etichettare il tipico mobbizzato.
Secondo R. Gilioli e A. Gilioli (2000), invece, il mobbing interessa, in particolare,
quattro grosse tipologie di soggetti: i creativi, gli onesti, i disabili e i superflui. I creativi
sono individui particolarmente brillanti, che hanno spirito di iniziativa e di innovazione e che, in qualche modo, si diversificano dal gruppo a cui appartengono; gli onesti
sono persone che si trovano ad operare in un ambiente nel quale esistono cordate di
potere, gruppi molto coesi, dove chi non collabora o si estranea è facilmente punito con
comportamenti vessatori; i disabili sono soggetti deboli, a livello sociale, cognitivo o
personale e, quindi, più facilmente vittime di azioni mobbizzanti. Ad esempio gli
“anziani”, in quanto hanno elevata anzianità di servizio, sono difficilmente amovibili
e, in ottica aziendale, possono risultare scomodi; i superflui, infine, sono il personale in
esubero, a valle di grosse operazioni di riorganizzazione aziendale. Le categorie presentate dall’Autore concernono lavoratori che, per un motivo o per l’altro, si differenziano
rispetto all’ambiente lavorativo in cui si trovano ad operare, per tale diversità sono vittime di azioni mobbizzanti.
A giudizio di chi scrive, la copiosa classificazione delle vittime di mobbing presente nella letteratura di riferimento risulta poco scientificamente fondata (mancano, infatti, evidenze empiriche supportate da significativi dati statistici). Sembra, pertanto, più
corretto mettere in evidenza degli antecedenti individuali del costrutto di mobbing (cfr.
capitolo nono): essi rappresentano delle disposizioni, dei tratti di personalità, che possono essere considerati tipici delle vittime di mobbing, ma che non si pongono l’obiettivo di dare un quadro generale classificatorio delle vittime stesse.
Il mobbizzato appare il più delle volte, a giudizio di chi scrive, come persona diversa dal resto del gruppo. La diversità implica spesso la paura dell’ignoto, generando ansia
nelle persone più riluttanti al cambiamento, tanto da arrivare a far sì che le stesse possano giungere a compiere azioni aggressive. Dall’altra parte, il diverso può essere percepito come avente meno potere e l’aggressore potrebbe così sentirsi perfino legittimato a
esercitare comportamenti vessatori.
3. Le figure satellite del processo di mobbing: bystander, side-mobber e whistleblower
Le figure satellite del processo di mobbing sono tutte quelle persone non direttamente coinvolte ma che vivono il mobbing di riflesso, rimanendo, il più delle volte, passive di fronte al suo manifestarsi, divenendo degli spettatori neutrali (bystander), oppure
schierandosi a favore del mobber o del mobbizzato e assumendo un ruolo attivo. Da questo punto di vista, la distinzione è tra side-mobber e whistleblower.
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71
Mobbing: virus organizzativo
I bystander sono colleghi, superiori o sottoposti più o meno consapevoli del mobbing, ma incapaci di esprimere una qualsiasi forma di solidarietà verso la vittima; testimoni che, in quanto spettatori inerti, rivestono un ruolo minore nel processo vessatorio. In particolare i bystander:
• isolano la vittima, o fanno sì che la vittima si senta isolata e abbandonata;
• vivono la situazione male con il rischio di riportare conseguenze negative sul proprio
stato di salute psicologico e sulla prestazione;
• si possono sentire impotenti.
La letteratura di riferimento ha messo in luce quali possono essere le motivazioni
che spingono un individuo a diventare complice del mobber: fedeltà e servilismo verso il
mobber, preoccupazione e paura di diventare a sua volta vittima oppure per trarne un
vantaggio sociale o di immagine, indotto dalla funzione “correttiva” che qualche lavoratore potrebbe sentirsi investito a esercitare ai fini di ristabilire ordine e giustizia nell’organizzazione (Giorgi e Majer, 2004).
Per quanto riguarda, invece, gli osservatori del mobbing, gli studi in ambito delle
discipline psicologiche sono relativamente recenti. L’inizio dell’attenzione verso il comportamento degli osservatori di azioni violente (bystander behavior) viene fatto risalire al
famoso caso di cronaca nera in cui Kitty Genovese, ancora bambina, fu assalita e assassinata sotto gli occhi di 38 persone, nessuna delle quali cercò di fermare l’aggressore o
chiamare la polizia, nonostante le urla e i pianti disperati della vittima che perdurarono
per più di quaranta minuti (Latané e Elman, 1970).
I numerosi studi condotti da Latané (ad esempio, Latané e Nida, 1981), presso diverse organizzazioni, hanno dimostrato che la presenza di altri individui diminuisce la propensione di ciascuno ad aiutare una persona in una situazione di emergenza o in difficoltà, etichettando tale fenomeno come effetto bystander. I tre processi che sembrano
essere alla base dell’effetto bystander sono l’inibizione pubblica, ovvero il rischio di imbarazzo sociale se la situazione non viene percepita così grave dagli altri come invece è sentita dall’individuo singolo; l’influenza sociale, quando il non intervento diventa il modello di comportamento previsto sulla base dell’inerzia degli altri individui; la diffusione di
responsabilità, ossia la diminuzione di volontà di intervenire qualora siano presenti più
persone, in quanto il singolo soggetto tende a pensare che sia compito di altri farlo.
Sulla scia di queste ricerche, è stato elaborato da Latané e Nida (1981) un modello
che mette in luce la probabilità di intervento dell’osservatore di azioni violente. Cinque
sono le fasi evidenziate: l’osservatore interviene se nota e/o fa caso all’evento; se lo interpreta come una situazione di emergenza o comunque lesiva per la vittima; se assume un
certo grado di responsabilità personale nell’evento; se si sente capace e competente nel
fornire una qualche forma di aiuto e/o di supporto; se ha la certezza di essere in grado
di poter fornire un aiuto concreto.
Nell’assunzione di responsabilità si riscontrano maggiormente i processi basilari
dell’effetto bystander, ma anche l’interpretazione dell’evento può, nel caso del mobbing,
essere estremamente rilevante. Un individuo spettatore di azioni mobbizzanti, infatti,
valuterà la serietà e gravità delle azioni poste in essere dall’aggressore. Questa valutazione sarà interpretata, oltre che a livello personale ed etico/morale, anche considerando il
contesto organizzativo, il suo clima e la sua cultura. In una cultura e clima organizzativo senza rispetto e tutela dei lavoratori, episodi mobbizanti possono addirittura essere
72
Gli attori del mobbing
considerati come parte dell’attività quotidiana dell’organizzazione del lavoro. Anche il
sentirsi capace di dare aiuto sembra particolarmente pertinente al mobbing: in quest’ottica la formazione dei dipendenti a riconoscere episodi mobbizzanti, stabilendo, ad
esempio, dei codici di condotta e/o delle policy, favorisce l’intervento degli spettatori,
perché si sentiranno più capaci e dotati di strumenti di tutela anche nei confronti di altri
lavoratori.
I side-mobber sono coloro che affiancano attivamente i mobber nell’azione vessatoria, dando il loro apporto con condotte singole o reiterate di natura attiva o passiva, che
completano o accentuano la strategia mobbizzante.
I whistleblower sono coloro che cercano di aiutare la vittima. Una delle definizioni
più comuni nella letteratura della psicologia del lavoro e delle organizzazioni dei whistleblower è “membri dell’organizzazione (includendo anche gli ex lavoratori o candidati) che rivelano pratiche aziendali illegittime, immorali e illegali a terzi (persone o organizzazioni), e che potrebbero intervenire in merito ad esse” (Near e Miceli, 1985, p. 4).
I criteri fondamentali del whistleblowing sembrano essere essenzialmente tre: l’atto
di notificare pratiche sbagliate in un’organizzazione; la motivazione sottostante a prevenire un danno nei confronti di altri; l’azione di un lavoratore o di un ex lavoratore che
ha un accesso privilegiato alle informazioni o è testimone di pratiche illegittime nell’ambiente di lavoro.
Talvolta questi testimoni sono gli stessi colleghi di lavoro che sono ancora alle
dipendenze del datore-mobber, e che, pertanto, saranno più propensi a rendere delle
dichiarazioni che in qualche modo possono mettere a repentaglio la loro stessa posizione all’interno dell’ambiente lavorativo se è presente una forma di supporto da parte della
politica organizzativa o da parte di un organismo di riferimento specifico.
Ricerche recenti, inoltre, evidenziano il rischio per colui che denuncia pratiche illegittime (chi “suona il fischietto”, blow the whistle) di entrare nella spirale del mobbing
(Matthiesen, 2006). Alcune caratteristiche dell’organizzazione del lavoro risultano positivamente associate al comportamento di whistleblowing: la bassa incidenza delle pratiche illegittime e immorali all’interno dell’organizzazione (Miceli e Near, 1985), le politiche organizzative che favoriscono il comportamento whistleblowing (Miceli e Near,
1985), la risposta dell’organizzazione al verificarsi e alla scoperta di tali pratiche (Miceli
e Near, 2002), il clima organizzativo positivo (Miceli e Near, 1985), l’essere organizzazioni aperte al cambiamento e con un basso livello di burocratizzazione (Miceli, 2004).
È stato inoltre messo in luce che i whistleblower che denunciano maggiormente gli accadimenti negativi avvenuti nell’organizzazione hanno un potere maggiore in termini di
anzianità di servizio nell’organizzazione (Miceli e Near, 1988), livello di istruzione
(Brewer e Selden, 1998), stipendio (Brewer e Selden, 1998), e status organizzativo (Miceli
e Near, 1988).
Ancora una volta, nel porre l’attenzione al processo del mobbing, riflettendo sul
comportamento dei whistleblower, non si può non considerare l’attività dell’organizzazione del lavoro, i vissuti e le percezioni delle risorse umane che in essa operano come elementi fondanti. Appare però necessario, affinché i testimoni di mobbing intervengano nel
processo, che venga posta un’attenzione più focalizzata da parte dei media (che, come è
stato evidenziato, giocano un ruolo significativo, nel bene e nel male, nell’informazione
sul fenomeno) riguardo a queste figure secondarie, che permangono spesso nell’ombra.
Un esempio emblematico è un numero speciale del Times, risalente al 2002, dedicato ai
whistleblower, ai quali ha conferito i dovuti meriti con l’etichetta “People of the Year”.
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Mobbing: virus organizzativo
4. Il mandante
Un’altra figura coinvolta nel fenomeno è il mandante, ovvero colui che pianifica le
strategie mobbizzanti eseguite poi dal mandatario, che è invece l’esecutore materiale
delle azioni mobbizzanti. Queste ultime due figure sono tipiche del bossing e del mobbing collettivo, in cui i mobber possono coincidere con i vertici dell’organizzazione e possono designare un subordinato per la messa in atto dei comportamenti vessatori. In questo caso il bersaglio può percepirsi vittima di due forme di mobbing parallele: la prima
esercitata dal mobber vero e proprio (mandatario) e la seconda posta in essere dai vertici
dell’organizzazione (mandante). Quando entra in gioco questo aspetto il mobbing risulta ancora più subdolo e vessatorio, in quanto il mobbizzato non vede più nessuna via di
uscita dalla situazione: se, infatti, in un primo momento il mobbizzato può sperare in
un intervento dei vertici dell’organizzazione, quando si rende conto che sono proprio
loro gli strateghi e i responsabili morali della vessazione, si sente ancora più avviluppato dalla spirale del mobbing e senza possibilità di uscita.
74
CAPITOLO SETTIMO
L’analisi differenziale del mobbing:
i comportamenti negativi sul lavoro
1. Il mobbing e i comportamenti negativi sul lavoro
I numerosi costrutti racchiusi sotto l’etichetta “comportamenti negativi sul lavoro”
negli ultimi anni hanno suscitato un crescente interesse da parte dei ricercatori della psicologia del lavoro e delle organizzazioni. Tali comportamenti possono essere definiti
come “azioni ostili esercitate, più o meno intenzionalmente, da un soggetto nei confronti di un individuo o di un’organizzazione, che violano le norme, il contratto psicologico e i valori propri della dignità umana” (Giorgi, 2004, p. 288).
Ai fini di una maggiore comprensione di questo macro-costrutto, nella figura 7-1
vengono riportate le definizioni emerse dagli studi più recenti e significativi sulle tematiche in oggetto.
Nonostante le definizioni presentate descrivano un fenomeno caratterizzato da una
cattiva relazione interpersonale fra lavoratori che mettono in atto azioni negative nei
confronti di individui o organizzazioni, un aspetto cruciale distintivo dei costrutti esaminati è la natura e la specificità di tali comportamenti che rendono i fenomeni sostanzialmente diversi. Sulla base delle definizioni prese in esame emergono, infatti, differenti categorie di azioni ostili esercitate sul posto di lavoro: la persecuzione psicologica
e morale, la violazione dell’integrità fisica e l’aggressione fisica, la violazione delle
norme dell’organizzazione. Un’altra classificazione può essere quella di Buss (1961) sui
comportamenti aggressivi, che vengono distinti in fisici/verbali, diretti/indiretti e attivi/passivi. Ricerche recenti di Neuman e Baron (1998) e Keashly e Jagatic (2000) hanno
messo in luce che i comportamenti ostili più diffusi nel lavoro sono verbali, passivi e
indiretti.
Anche il concetto di gravità e intensità dei comportamenti negativi sul lavoro
(Keashly e Jagatic, 2003) è un indice significativo. Ad esempio, comportamenti che si
riconoscono nei costrutti di mistreatment e workplace incivility sono caratterizzati da bassa
intensità e gravità, mentre quelli che fanno capo al generalized workplace abuse e alla
75
Mobbing: virus organizzativo
Figura 7-1
I comportamenti negativi sul lavoro
Harassment (Brodsky, 1976)
Persistente e ripetuto tentativo da parte di un aggressore di tormentare, creare frustrazione o cercare una reazione da una persona. L’aggressore provoca, opprime, spaventa, intimidisce, o
comunque suscita sconforto
Workplace deviance (Robinson e Bennet, 1995)
Comportamento volontario che viola importanti norme dell’organizzazione, minando il buon
andamento dell’organizzazione o dei suoi membri, o di entrambi
Workplace aggression (Baron e Neuman, 1996)
La ferma intenzione da parte degli individui di ferire fisicamente e moralmente le persone con
cui lavorano, o hanno lavorato, o l’organizzazione in cui lavorano o in cui hanno lavorato
Bossing (Ege, 1996)
Una forma di terrorismo psicologico che viene programmato dall’azienda o dai vertici dirigenziali come vera e propria strategia aziendale di riduzione o razionalizzazione del personale,
oppure di semplice eliminazione di una persona indesiderata
Generalised workplace abuse (Richman, Rospenda, Nawyn e Flaherty, 1997)
Violazione dell’integrità fisica e morale e/o professionale non motivata da sexual harassment
Emotional abuse at work (Keashly, 1998)
Interazioni fra i membri delle organizzazioni caratterizzate da ripetute ostilità verbali e non verbali; spesso sono comportamenti di natura non fisica diretti a un bersaglio, così che la percezione da parte del bersaglio come lavoratore competente possa venire influenzata negativamente
Workplace incivility (Andersson e Pearson, 1999)
Comportamenti devianti a bassa intensità con l’intento, più o meno effettivo, di colpire il bersaglio, violando le norme di mutuo rispetto dell’organizzazione. Tali comportamenti incivili si
caratterizzano per la volgarità, la scortesia e la mancanza di rispetto
Abusive supervision (Tepper, 2000)
Percezione dei subordinati di un certo grado di ostilità, verbale e non verbale, nel comportamento dei superiori nei loro confronti
Mobbing (Depolo, 2003)
Una forma di aggressione psicologica e morale sul lavoro esercitata e reiterata nel tempo, più o
meno intenzionalmente, da uno o più aggressori per mezzo di azioni negative volte a spingere
la persona nella condizione di non potersi difendere e al suo isolamento e espulsione dal contesto socioproduttivo
Modificato da: Giorgi (2004).
workplace violence possono essere considerati comportamenti negativi estremi in quanto
possono sfociare in aggressioni fisiche molto violente. I comportamenti di mobbing si
caratterizzano, invece, per essere di media gravità-intensità.
Si possono, infine, considerare le definizioni proposte in figura in relazione al grado
di riconoscimento di alcune peculiarità dell’esperienza di vessazione, come la durata, la
frequenza dei comportamenti negativi, l’intenzionalità più o meno effettiva di un indi-
76
L’analisi differenziale del mobbing: i comportamenti negativi sul lavoro
viduo di nuocere, l’asimmetria di potere tra le parti. Peculiarità che possono fornire criteri basilari per identificare i molteplici comportamenti negativi sul lavoro (Keashly e
Jagatic, 2003).
I comportamenti negativi sul lavoro possono presentare, quindi, una vasta gamma
di sfumature e sottendere problematiche diverse. Per questo è emersa la necessità di
individuare dei criteri base, precisi e condivisibili dalla maggior parte dei ricercatori, per
stabilire quali siano le azioni negative e quali le caratteristiche che esse debbono avere
per poter essere definite con il termine mobbing o per rientrare in altri costrutti. Nella
figura 7-2 vengono presentate le principali caratteristiche e peculiarità dell’esperienza
di vessazione che permettono di differenziare il mobbing da altri comportamenti negativi sul lavoro.
I comportamenti di mobbing hanno un carattere sistematico e vengono esercitati
ripetutamente e regolarmente (una volta alla settimana) per un certo periodo di tempo
(per almeno sei mesi), mentre i comportamenti negativi sul lavoro possono essere meno
frequenti, più o meno sistematici e di minor durata. Possono essere fatte distinzioni
anche per quanto concerne la relazione tra vittima e aggressore. Mentre nel caso del
mobbing è necessaria la differenza di potere tra le parti coinvolte nella vessazione, considerando episodi di mobbing quelle situazioni in cui la vittima percepisce di essere inferiore al proprio aggressore o al gruppo e non si può difendere dai suoi attacchi, nei comportamenti negativi sul lavoro la disparità di potere gioca un ruolo determinante, ma
non necessario.
Nel processo di mobbing inoltre la vittima è un target specifico di un aggressore che
ha un’effettiva intenzione di colpirla, mentre nel caso dei comportamenti negativi sul
lavoro ci può essere casualità e il bersaglio non necessariamente è ben definito.
Per quanto concerne infine gli effetti sulla salute, una recente ricerca sugli stressor
nelle organizzazioni, condotta presso 1567 lavoratori (Zapf, 2004), ha messo in luce
come i disturbi psicosomatici riportati dalle vittime di mobbing risultassero più gravi
rispetto a quelli di coloro che avevano subito altri comportamenti vessatori. È inoltre
interessante ricordare come Schneider et al. (2000) sostengano che chi ha subito una
forma di harassment è più probabile che subisca anche altre forme di harassment. È quinFigura 7-2
Le principali differenze fra mobbing e comportamenti negativi sul lavoro
Comportamenti negativi sul lavoro
Mobbing
Il bersaglio non sempre è definito
Non sistematico
Sporadico o permanente
Raro o frequente
(A)simmetria di potere tra le parti
Conseguenze sulla salute della vittima
Severità dei comportamenti bassa o alta
Il target è una persona specifica
Sistematico
Permanente (almeno 6 mesi)
Frequente (una volta alla settimana)
Asimmetria di potere tra le parti
Gravi conseguenze sulla salute della vittima
Severità dei comportamenti media
Modificato da: Giorgi (2004).
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77
Mobbing: virus organizzativo
di possibile ipotizzare un processo a spirale dei comportamenti negativi sul lavoro, in
cui, ad esempio, da comportamenti incivili o episodi di devianza lavorativa si possono
generare conflitti tali da far aumentare l’intensità delle azioni negative da parte di un
soggetto nei confronti di un altro, creando processi di escalation nella direzione del
mobbing (cfr. fig. 7-3).
L’aver identificato alcuni comportamenti vessatori, che non rientrano nel costrutto
del mobbing ma che possono comunque facilitarne l’insorgenza, sembra estremamente
utile nella comprensione del fenomeno, sia per un’analisi differenziale, sia per interventi di natura preventiva. La maturazione della consapevolezza che non tutte le azioni vessatorie sul posto di lavoro sono azioni mobbizzanti, ma che ci sono anche altri comportamenti ostili, contribuisce a una definizione più precisa del fenomeno, affinché esso
non venga impropriamente utilizzato, come ancora oggi accade, per descrivere ed etichettare tutto (o quasi) quello che succede di negativo sul lavoro.
Inoltre, la possibile e auspicata diffusione della conoscenza delle forme di molestia
che non rientrano nel mobbing può evitare alle potenziali vittime quella percezione soggettiva di sentirsi mobbizzate che rappresenta, metaforicamente, il cuore del mobbing.
Come esposto nei capitoli secondo e terzo, quando la vittima si percepisce target di una
strategia mirata a colpirla, accresce la potenzialità aggressiva della minaccia e non vede
vie di uscita dalla situazione. Qualora conosca che ci sono altre forme di azioni ostili,
meno dolose e più vicine ai fenomeni dello stress e dei conflitti organizzativi, si può rendere conto che l’esperienza che sta vivendo non è mobbing e, pertanto, può attuare delle
strategie di coping per far fronte alla situazione essendoci una via di uscita. La consape-
Figura 7-3
L’escalation dei comportamenti negativi sul lavoro
che possono portare al mobbing
MOBBING
Escalation – Escalation – Escalation – Escalation
Aggressioni
sul lavoro
Relazioni
conflittuali
Devianza
organizzativa
I COMPORTAMENTI NEGATIVI SUL LAVORO
Modificato da: Giorgi (2004).
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Inciviltà
sul lavoro
L’analisi differenziale del mobbing: i comportamenti negativi sul lavoro
volezza di comportamenti negativi non ascrivibili al mobbing potrebbe, inoltre, aiutare
alcune persone a razionalizzare delle rappresentazioni sociali eccessivamente negative
dell’esperienza di vessazione che stanno vivendo.
2. L’inciviltà sul posto di lavoro
Il costrutto di inciviltà sul posto di lavoro è stato definito come un insieme di comportamenti devianti, a bassa intensità, con l’intento più o meno effettivo di colpire il
bersaglio, violando le norme di mutuo rispetto vigenti per i membri di un’organizzazione. Bassa intensità indica comportamenti verbali piuttosto che fisici, passivi più che attivi, indiretti più che diretti. Le norme sono le norme della comunità lavorativa di cui una
persona fa parte, e consistono nelle politiche, ruoli e procedure, sia formali che informali, oltre che nell’etica e nei valori dell’organizzazione.
Un’altra peculiarità basilare dell’inciviltà è che l’intenzionalità di colpire il bersaglio
e gli osservatori, così come viene percepita agli occhi dell’istigatore (così viene chiamato colui che esercita tali comportamenti negativi), risulta ambigua. Una persona potrebbe comportarsi in modo incivile, motivato dall’intento di colpire un bersaglio, o una persona potrebbe agire incivilmente senza intenzionalità (per ignoranza o per errore).
Inoltre, un istigatore potrebbe voler colpire un bersaglio, senza che quest’ultimo sia conscio o percepisca tale intento. Gli istigatori dell’inciviltà possono facilmente negare o
mascherare l’intento attraverso l’ignoranza dell’effetto (“Non voleva essere un’azione
ostile”), o sostenendo un’errata interpretazione del bersaglio (“Non è niente di negativo” o “Stavo solo scherzando”), o accusando il bersaglio di ipersensibilità (“Non te la
prendere in modo così personale”). L’intento non è, pertanto, trasparente ed è soggetto
a diverse interpretazioni. I comportamenti incivili si caratterizzano anche per la volgarità, la scortesia e la mancanza di rispetto (cfr. fig. 7-4).
Alcuni lavoratori accettano o ignorano queste inciviltà, che diventano routine, e
non percepiscono alcuna malafede nell’autore; altri, invece, entrano in collisione con gli
istigatori, in quanto tali azioni non vengono reputate consone all’ambiente di lavoro, e
in alcuni casi possono essere anche percepite come offensive e fortemente intenzionali,
tali da risultare vessatorie per chi le subisce.
La letteratura pertinente allo stress organizzativo ha evidenziato che azioni di frequenza giornaliera che irritano, creano nervosismo in una persona e vengono valutate
dal punto di vista cognitivo (cognitive appraisal) come minaccianti (offensive o inappropriate) possono portare a disturbi psicosomatici nel bersaglio (Lazarus e Folkman, 1984).
Infatti, Pancheri et al. (citati in Lazarus e Folkman, 1984, pp. 193-194) sostengono che
questo tipo di stressor può avere un impatto più disfunzionale sulla salute di un individuo piuttosto che altri stressor più evidenti e facilmente riconoscibili: “Micro-eventi ripetuti frequentemente per un lungo periodo di tempo e subcoscientemente percepiti come
vessatori dalla persona hanno un potenziale patogeno più elevato rispetto a eventi più
drammatici, ma episodici, per i quali un controllo oggettivo e strategie di coping potrebbero essere sviluppate più facilmente”.
La letteratura pertinente di stampo americano ha, inoltre, evidenziato che i comportamenti incivili possono verificarsi senza una vera e propria intensificazione, o attraverso un’intensificazione progressiva come una “spirale”, oppure attraverso un’intensificazione “a cascata “, sia all’interno dell’organizzazione che all’esterno. Come una palla
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Mobbing: virus organizzativo
Figura 7-4
I comportamenti incivili così come vissuti da alcuni bersagli
Durante una riunione con lo staff, il mio capo criticò aspramente le mie decisioni e non mi
permise di fornire alcuna spiegazione. Egli mi fece fuori dalla riunione. Questo comportamento mi rese estremamente delusa, arrabbiata e nervosa. Mi chiese poi di scrivere ciò che sentivo che lui aveva ignorato così avremmo potuto parlarne. Non fu mai discusso nulla
Stavo parlando con un mio collega quando qualcuno, in una posizione lavorativa superiore
alla mia, interruppe la nostra conversazione senza alcuna minima considerazione di me
Rimasi a lavorare fino a tardi per aiutare un mio collega a far fronte a un ostico problema. Alla
fine risolvemmo il problema, ma non mi ha mai ringraziato per il tempo e gli sforzi concessi.
E pensare che avrei potuto cenare a casa con la mia famiglia
Lavoro in un’azienda di famiglia da qualche anno. Anche mio fratello minore lavora nella stessa azienda. Il suo primo giorno di lavoro ha iniziato a pranzare con mio padre che invece non
mi ha mai invitato
Il mio superiore mi chiese di elaborare alcuni dati statistici. Questo fu il mio primo progetto
di lavoro e non mi fu data alcuna istruzione o esempio, ma feci comunque un tentativo. Mi
disse che il lavoro era “uno schifo”
Durante una riunione fui umiliato dal mio superiore davanti a un gruppo di persone (inclusi
colleghi e subordinati) e mi fu detto che ero stupido e incompetente
Durante la presentazione di quello che stavo facendo in azienda, un responsabile di area disse:
“Nessuno è interessato a questa roba”. Il suo commento mi fece sentire così nervoso e sconvolto che non potei andare avanti
Modificato da: Pearson, Andersson e Porath (2001).
di neve può, a volte, provocare una valanga, così delle azioni ostili, pur di modesta
intensità, possono talvolta provocare accadimenti estremamente negativi per l’organizzazione. Più specificamente, nella forma più semplice l’inciviltà riguarda soltanto
la relazione tra istigatore e bersaglio. In questo caso l’intensità delle interazioni rimane
stabile nel tempo e la mancanza di rispetto e le ostilità possono essere perpetrate da
entrambe le parti e, quindi, si verifica uno scambio reciproco di interazioni negative tit
for tat (cfr. fig. 7-5).
Tali comportamenti all’interno dell’organizzazione hanno, comunque, un impatto
negativo sui vissuti e le percezioni dei lavoratori, in particolare sui testimoni/osservatori. Se questo pattern di comportamenti diventa persistente, le norme implicite ed esplicite dell’organizzazione possono mutare con il tempo, generando un’erosione del clima
organizzativo e dei vissuti emotivi negativi.
Infatti, avviene spesso che uno scambio reciproco di interazioni negative generi una
spirale di comportamenti che, con il passare del tempo, diventano sempre più intensificati e vessatori: le parti valutano le azioni incivili come una seria minaccia alla propria
identità, al proprio sé, e pertanto reagiscono in modo ancor più aggressivo, alimentando
l’intensificarsi del processo a spirale (cfr. fig. 7-6). Tali interazioni negative possono intensificarsi più o meno velocemente: le parti in causa, infatti, possono decidere di aspettare
una situazione più favorevole per infliggere il danno, controllando i propri impulsi.
80
L’analisi differenziale del mobbing: i comportamenti negativi sul lavoro
Figura 7-5
Inciviltà tit for tat
A
B
Figura 7-6
L’intensificazione della spirale di inciviltà
A
B
B
A
B
A
A
B
La spirale originale può, inoltre, creare un “effetto a cascata”, portando a una seconda spirale di inciviltà, che a sua volta genera effetti disfunzionali sui vissuti organizzativi (cfr. fig. 7-7). Ad esempio, comportamenti negativi posti in essere tra il lavoratore A e
il lavoratore B possono portare un lavoratore C a una manifestazione ostile nei confronti
di un altro lavoratore D. La natura permeabile di questo pattern di comportamenti si può
esemplificare nel fatto che, anche quando il lavoratore C non è stato testimone dello
scontro tra A e B, ma ha sentito parlare dell’evento, si assiste a un aumento della probabilità che possa anch’esso (C) esercitare azioni vessatorie.
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Mobbing: virus organizzativo
Figura 7-7
L’effetto a cascata dell’inciviltà sul luogo di lavoro (primo esempio)
B
A
D
C
Un’altra possibile manifestazione si ha quando il lavoratore B decide di rivolgere il
suo comportamento negativo, invece che contro l’istigatore, verso un altro bersaglio, ad
esempio C. E ancora, il lavoratore C può agire negativamente nei confronti di un altro
lavoratore D (cfr. fig. 7-8). Un esempio potrebbe essere quello di un superiore (A) che colpisce qualcuno di minore status (B) il quale ridirige l’azione ostile nei confronti di un
collega o di un collaboratore/subordinato (C).
Infine l’inciviltà sul posto di lavoro può creare effetti a cascata, sia dentro sia fuori
l’ambiente di lavoro, coinvolgendo testimoni/osservatori o coloro che, pur avendo soltanto sentito parlare degli eventi negativi accaduti, si sentono privati dei valori e dell’etica dell’organizzazione a cui appartengono (cfr. fig. 7-9).
È, infatti, nel momento in cui vengono violati il rispetto, l’etica e la dignità dell’organizzazione che l’inciviltà, come una cascata, sommerge l’organizzazione stessa.
Così i resoconti degli episodi negativi verificatisi si diffondono sia fuori che dentro l’organizzazione. All’inizio, la maggior parte dei bersagli raccontano la loro esperienza in
famiglia o ad amici, successivamente vengono coinvolti i colleghi, i superiori e i subordinati. La diffusione di tali notizie ha un effetto disfunzionale sull’attività lavorativa e
sul clima organizzativo, ma anche la reputazione e l’immagine aziendale viene colpita.
Figura 7-8
L’effetto a cascata dell’inciviltà sul luogo di lavoro (secondo esempio)
A
B
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C
D
L’analisi differenziale del mobbing: i comportamenti negativi sul lavoro
Figura 7-9
L’effetto a cascata dell’inciviltà fuori dell’ambiente di lavoro (terzo esempio)
A
B
3. La devianza lavorativa
Condizione essenziale delle organizzazioni è la volontà del personale di andare
above and beyond le prescrizioni relative al proprio ruolo lavorativo e ciò, in forma di
aggregato, influenza direttamente il comportamento degli altri lavoratori all’interno del
proprio team e, trasversalmente, il comportamento dei lavoratori delle diverse aree organizzative, portando a un incremento di efficacia organizzativa. La relazione tra individuo e organizzazione si è, infatti, trasformata, ponendo con forza i temi del commitment,
della membership, della communalship (Quaglino, 1999) e anche la performance richiesta,
oggi, non risiede più soltanto nello svolgimento della mansione (task performance), ma è
una contextual performance, che consente di sviluppare e proteggere l’organizzazione
(Giorgi e Majer, 2004).
In considerazione di questo crescente interesse per il comportamento etico in azienda, nell’ambito della contextual performance, sono stati messi in luce aspetti positivi del
comportamento organizzativo (Organizational Citizenship Behaviour – OCB) e aspetti
negativi (Counterproductive Workplace Behaviour – CWB), e ne sono stati verificati gli effetti in termini di efficacia ed efficienza organizzativa. L’OCB si esprime attraverso comportamenti quali difendere l’organizzazione quando altri lavoratori la criticano, fornire
aiuto ai propri colleghi, rispettare gli altri, assumere mansioni anche esterne al proprio
ruolo lavorativo ecc.). Questo costrutto correla con la job satisfaction, la perceived fairness,
l’organizational commitment e la leadership supportiva (Organ, 1990, 1997). L’OCB innalza
pertanto l’efficienza organizzativa.
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83
Mobbing: virus organizzativo
Invece, un comportamento organizzativo che ha effetti particolarmente disfunzionali, sia a livello individuale sia organizzativo, è la “devianza lavorativa”. Essa rientra nel
macro-costrutto dei comportamenti negativi sul lavoro e può portare a processi di escalation nella direzione di altri comportamenti ostili, anche di maggiore intensità e severità, tra cui il mobbing (Giorgi, 2004). Il costrutto di devianza lavorativa è stato definito
come un comportamento volontario che viola importanti norme dell’organizzazione
minando il buon andamento dell’organizzazione o dei suoi membri, o di entrambi
(Robinson e Bennet, 1995, p. 556). Nonostante non sia stato delineato un quadro preciso della monetizzazione degli outcome della devianza lavorativa, che rimane di difficile
quantificazione, negli Stati Uniti è stato stimato che i comportamenti devianti portano
a perdite di milioni e milioni di dollari all’anno (Murphy, 1993). Ulteriori stime indicano che una notevole percentuale di lavoratori, dal 33% al 75%, ha manifestato qualche
forma di comportamento deviante nei confronti dell’organizzazione o dei colleghi
(Harper, 1990).
Due sono le motivazioni principali, secondo Robinson e Bennet, che possono
indurre i dipendenti a commettere atti di devianza lavorativa: una di carattere strumentale, volta a ristabilire un’equità organizzativa che non è più percepita dal lavoratore,
l’altra affettiva, volta a soddisfare il bisogno di esprimere un sentimento di rabbia e/o
frustrazione. In linea con la prima assunzione, Greenberg e Scott (1996) hanno suggerito che il furto sul luogo di lavoro possa essere una deliberata reazione all’iniquità percepita per il proprio salario. Invece i comportamenti alla cui base c’è il secondo tipo di
motivazione da insoddisfazione affettiva potrebbero essere diretti a superiori, colleghi,
clienti, sia all’interno sia all’esterno dell’organizzazione. Baron, già nel 1979, aveva
messo in luce come gli individui soggetti a stimoli negativi tendessero a esprimere comportamenti che potevano causare dolore ad altri individui.
La letteratura di riferimento nel suo complesso identifica nella percezione di non
equità organizzativa, di job dissatisfaction, di ambiguità, conflitto di ruolo e di ricerca di
sensazioni forti le cause principali della devianza lavorativa. Sulla base del bersaglio del
comportamento vessatorio, vengono distinti due tipi di devianze, una diretta verso l’organizzazione, organizational deviance, l’altra diretta verso gli individui, interpersonal
deviance (Bennet e Robinson, 2000).
Bennet e Robinson, inoltre, sostengono che la devianza lavorativa varia lungo un
continuum di gravità, che va da forme minori a forme più rilevanti. Il bersaglio e il grado
di severità dell’azione permettono di creare una tipologia che consente di classificare
un’ampia gamma di comportamenti come devianti: prendere pause troppo lunghe (organizational-minor), danneggiare beni (organizational-serious), mostrare favoritismi (interpersonal-minor), rubare ai colleghi (interpersonal-serius).
Nel 1995, Robinson e Bennet elaborarono un modello di devianza lavorativa che
mette su due assi ortogonali la gravità dell’azione e il bersaglio, con le polarità alta e
bassa e con le polarità individuo e organizzazione (cfr. fig. 7-10).
Il modello individua l’esistenza di quattro componenti della devianza: una devianza verso l’organizzazione, su aspetti legati alla produzione, ovvero all’erogazione della
prestazione dell’individuo (devianza sulla produzione); una devianza verso altri lavoratori, attuata attraverso comportamenti negativi nella sfera interpersonale (devianza politica); una devianza sui beni di proprietà e il profitto dell’azienda (devianza di proprietà);
una devianza verso altri lavoratori, attuata attraverso comportamenti negativi estremamente gravi (devianza sulla persona).
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L’analisi differenziale del mobbing: i comportamenti negativi sul lavoro
Figura 7-10
Il modello della devianza lavorativa di Robinson e Bennet
Organizzazione
DEVIANZA SULLA PRODUZIONE
DEVIANZA DI PROPRIETÀ
Cyberloafing
Prendere pause troppo lunghe
Lavorare lentamente
Furto di beni dell’azienda
Mentire sulle ore di lavoro
Danneggiare beni aziendali
target
DEVIANZA POLITICA
gravità
gravità
target
Minore
Mostrare favoritismi
Gossip
Inciviltà
Maggiore
DEVIANZA SULLA PERSONA
Furto ai colleghi
Violenza fisica
Aggressioni
Persona
Modificato da: Giorgi e Majer (2005) e Robinson e Bennet (1995).
4. La violenza/aggressione sul posto di lavoro
Fra i comportamenti negativi, la violenza/aggressione sul posto di lavoro è un altro
fenomeno estremamente disfunzionale, sia per la persona sia per l’organizzazione e già
da una decina di anni è stata oggetto di ricerche di studiosi e organismi internazionali.
Nel 1996, uno studio condotto dall’International Labour Organization su 15 800 persone, appartenenti a 15 Stati membri dell’Unione Europea, ha accertato che il 4% dei lavoratori ammetteva di avere subito violenza fisica sul posto di lavoro, il 2% ammetteva
sexual harassment e l’8% forme di violenza psicologica.
La violenza sul posto di lavoro è un costrutto psicologico che implica specificatamente aggressioni di natura fisica a danno di membri dell’organizzazione, ma è stato
anche concettualizzato in termini di comportamenti intimidatori e minaccianti o di
minaccia verbale di abuso. Le azioni aggressive non fisiche sono, infatti, più frequenti di
quelle fisiche (Greenberg e Barling, 1999). Tuttavia studi sulla violenza domestica riportano che aggressioni non fisiche spesso precedono la violenza fisica (Murphy e O’Leary,
1989), ed è un dato di fatto che nel 1997, in Nord America, ci furono 856 omicidi, che
rappresentarono la seconda causa di morte sul posto di lavoro.
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Mobbing: virus organizzativo
C’è, poi, una chiara relazione tra l’aggressore e il luogo della violenza. Il luogo dove
la violenza viene posta in essere non sempre coincide con il luogo di lavoro, ma si può
manifestare nei perimetri limitrofi (ad esempio, un parcheggio), o in luoghi che il lavoratore frequenta per il lavoro (ad esempio, un’azienda cliente), o durante spostamenti
legati alla propria mansione.
Braverman (1999) individua tre macro-tipologie della relazione tra l’aggressore e il
posto di lavoro dove la violenza viene perpetrata.
Nella prima tipologia, l’aggressore non ha alcuna relazione con il luogo di lavoro in
cui si insinua e commette un atto criminale (ad esempio, un furto): le azioni terroristiche recentemente commesse in Europa, ad esempio l’attentato a Madrid del 20041, possono essere ricondotte anche a questo tipo di violenza sul posto di lavoro. Lavoratori
particolarmente a rischio di questa tipologia di violenza sembrano essere tassisti, negozianti, benzinai.
Nella seconda tipologia, la figura dell’aggressore coincide con l’essere stato committente o l’avere usufruito di un servizio o prodotto in quel luogo di lavoro in cui viene
commesso un atto di violenza, spesso un’aggressione; lavoratori nelle società di servizi
(ad esempio, lavoratori impegnati nel sociale) o professioni di aiuto e cura della salute
(ad esempio, gli infermieri) sembrano essere particolarmente a rischio di questa forma di
violenza.
Nella terza tipologia, l’aggressore, un lavoratore o un ex lavoratore, può minacciare
o aggredire psicologicamente o fisicamente un collega, o un superiore, a causa di un’azione o un trattamento percepito come ingiusto o negativo.
La violenza sul posto di lavoro si può poi manifestare in varie forme. Neuman e
Baron (1998) individuano tre tipologie di azioni aggressive e violente quali: l’espressione di ostilità, l’ostruzionismo allo svolgimento della mansione e all’attività lavorativa
della persona, l’aggressione/violenza manifesta. La classificazione di Neuman e Baron è
stata recentemente ampliata (Keashly e Jagatic, 2003) e nuove azioni di violenza sul
posto di lavoro sono state messe in luce dalla letteratura di riferimento. Una di queste
nuove azioni è lo stalking: esso si manifesta attraverso una costellazione di comportamenti, che possono sembrare anche non particolarmente offensivi e lesivi per un osservatore esterno, ma che risultano, invece, particolarmente disfunzionali per chi li subisce.
Si tratta, ad esempio, di spedire lettere o fare regali, fare telefonate, o aspettare una persona fuori di casa o del posto di lavoro (Purcell, Pathe e Mullen, 2004). Lo stalking è una
condotta in cui un individuo, lo stalker, infligge a un altro individuo ripetute e non volute forme di comunicazione e vere e proprie intrusioni, tanto che la vittima sviluppa dei
sentimenti di paura per la propria sicurezza (Pathe e Mullen, 1997). La maggior parte
degli episodi divenuti popolari grazie ai media coinvolgono ex partner, che bombardano e terrorizzano i precedenti fidanzati o coniugi con telefonate, messaggi sms o e-mail.
Qualche volta lo stalking si è concluso con l’omicidio della vittima. Vittime ne possono
essere pop star, sportivi famosi, personaggi della televisione, a causa della loro fama.
Tuttavia, anche lavoratori più comuni possono essere vittime dello stalking: recentemente, in Norvegia, un guidatore di bus turistici è stato vittima di stalking per anni da
1. Gli attentati dell’11 marzo 2004, anche conosciuti come 11-M o M-11, furono una serie di attacchi terroristici
coordinati al sistema di treni locali a Madrid (Spagna), che uccisero 191 persone (177 delle quali morte immediatamente al momento degli attentati) e provocarono 2057 feriti.
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L’analisi differenziale del mobbing: i comportamenti negativi sul lavoro
parte di un’accompagnatrice di viaggi che aveva incontrato sul posto di lavoro. L’uomo
veniva terrorizzato con migliaia di lettere e telefonate, veniva perseguitato di giorno e di
notte. La stalker è stata processata e condannata per i gravi episodi commessi.
In conclusione la violenza può avere diverse sfumature e includere minacce gravi,
aggressioni fisiche o tentativi di ferire la persona; può manifestarsi come condotta aggressiva come tirare o spingere un oggetto pericoloso, utilizzare un linguaggio o una gestualità offensiva e maligna, portare armi sul posto di lavoro o mostrare un interesse ossessivo per esse, ricorrere alla violenza sessuale e altre forme di abuso, fare stalking o pedinare,
e altre forme di molestia fisica e morale, sino ad arrivare all’omicidio (cfr. fig. 7-11).
Figura 7-11
Tipologie di azioni aggressive di Neuman e Baron
Espressione di ostilità
•
•
•
•
•
•
•
•
•
•
•
•
•
•
Fissare una persona, occhiatacce
Sminuire le opinioni di qualcuno
Trattare male
Gesti osceni o negativi
Parlare alle spalle
Interrompere gli altri mentre stanno parlando
Ridicolizzare una persona o il suo lavoro
Ostentare autorità
Dare informazioni ingiuste o negative ai vertici aziendali
Uscire quando una persona entra
Fornire valutazioni ingiuste sulla performance lavorativa
Non negare falsi pettegolezzi
Molestie verbali e sessuali
Non negare false accuse
Ostruzionismo
•
•
•
•
•
•
•
•
•
Non riferire le telefonate
Non difendere i progetti/lavori di una persona dagli attacchi degli altri
Causare ritardi ad altre persone
Non avvisare una persona di pericoli evidenti
Arrivare tardi agli incontri tenuti da una persona
Interferire o bloccare le attività di lavoro
Consumare senza reale necessità le risorse lavorative
Rifiutare di fornire a una persona risorse necessarie
Rallentamenti intenzionali del lavoro
Aggressione/violenza manifesta
•
•
•
•
•
•
•
•
•
Aggressioni con un’arma
Aggressioni fisiche (tirare un pugno, colpire ecc.)
Furti/distruzione di proprietà personali
Minacce di violenza fisica
Non proteggere il benessere e la sicurezza di una persona
Danneggiare o sabotare beni dell’azienda di cui una persona ha bisogno
Rubare
Sottrarre beni dell’azienda di cui una persona ha bisogno
Cancellare messaggi o e-mail di una persona
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Mobbing: virus organizzativo
I numerosi studi della letteratura della psicologia del lavoro sul fenomeno si sono
focalizzati su quali possono essere gli antecedenti e gli outcome delle azioni violente sul
posto di lavoro e quali caratteristiche dell’attività lavorativa e della mansione possano
portare a maggior rischio di violenza sul posto di lavoro. Le Blanc e Kelloway (2002) forniscono una copiosa classificazione di attività a rischio della violenza sul luogo di lavoro: interagire con un pubblico; dover negare al pubblico una richiesta o un servizio,
prendere decisioni che influenzano la vita di altri; lavorare da soli; trattare, amministrare, consegnare o cambiare valute/soldi/valori; avere una pistola e/o altre armi; vendere
e/o servire alcol; esercitare funzioni di sicurezza; esercitare controllo o disciplina su altri;
supervisionare, interagire con individui particolarmente stressati e frustrati; lavorare di
notte o di sera, andare a casa di clienti, avere contatti con individui sotto l’effetto di
alcol, droga, farmaci e così via. Tale fenomeno nel contesto italiano risulta ancora limitato rispetto ad altre realtà europee e agli Stati Uniti, ma sembra comunque necessario
iniziare a considerare la violenza sul lavoro come un fenomeno che, se pur sporadico,
può risultare particolarmente lesivo e non solo della dignità ma anche della vita umana.
5. Il conflitto organizzativo
All’interno delle organizzazioni è una scelta strategica non sprecare risorse preziose
in sterili dispute, ma cooperare per la crescita comune. Anche il conflitto costituisce, pertanto, una problematica molto importante per le organizzazioni. Numerosi studi si sono
concentrati sugli effetti disfunzionali che il confitto può provocare all’organizzazione, in
termini di efficacia ed efficienza: riduzione di commitment lavorativo, di soddisfazione
lavorativa, aumento dell’assenteismo e del turnover, peggioramento dello stato di salute psicofisico dei lavoratori e incremento del rischio di stimolare comportamenti negativi sul lavoro come la devianza lavorativa e il mobbing.
Esistono svariate classificazioni del conflitto organizzativo, basate sulla sua origine:
interna a una singola persona, o tra due o più persone; in questo ultimo caso, esiste
un’ulteriore specificazione, ovvero il conflitto può sussistere tra appartenenti allo stesso
gruppo oppure tra due o più gruppi diversi. Come rileva Majer (1995), esistono, quindi,
tre tipi di conflitto: intrapersonale, intragruppi, intergruppi. Il conflitto intrapersonale,
definito anche conflitto intraindividuale, sorge quando a un individuo viene richiesto di
svolgere alcuni compiti, attività o ruoli che non corrispondono alle sue competenze,
interessi, scopi e valori. Il conflitto intragruppi si riferisce al conflitto tra i membri di un
gruppo o tra due o più sottogruppi all’interno di un gruppo. Un tale conflitto può sorgere come risultato di disaccordi o incoerenze tra alcuni o tutti i membri di un gruppo e
il suo o i suoi leader. Il conflitto intergruppi, infine, si riferisce a disaccordi o incoerenze tra i membri (o i loro rappresentanti o leader) di due o più gruppi. I conflitti tra operai e impiegati, tra persone in posizione di linea e staff, tra persone occupate nei settori
di produzione e vendita, tra la direzione e gli uffici operativi sono esempi di questo tipo
di conflitto.
Un’ulteriore classificazione è basata sui processi psicologici coinvolti: i conflitti
cognitivi sul compito (task conflict) e quelli emotivi/affettivi sulla relazione (relationship
conflict) (ad esempio, cfr. gli studi di Amason, 1996). In questa prospettiva, il conflitto è
concettualizzato come un processo che inizia quando un individuo o un gruppo percepisce marcate differenze e opposizioni nei confronti di un altro individuo o un gruppo
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L’analisi differenziale del mobbing: i comportamenti negativi sul lavoro
per quanto riguarda credenze, valori, interessi e così via. Le differenze e le opposizioni
evolvono con il tempo in due direzioni: o verso il compito o verso la relazione. I conflitti sul compito riguardano la distribuzione e l’allocazione delle risorse, punti di vista
contrastanti in merito alle procedure e alle politiche che dovrebbero essere usate, la non
condivisione di giudizi e interpretazioni dei fatti; i conflitti interpersonali riguardano,
invece, stati emotivi negativi in merito agli stili di vita, ai gusti personali e alle preferenze
(De Dreu e Van de Vliert, 1997).
Un altro filone di studi riguarda le diverse modalità di gestione del conflitto. Sulle
orme degli studi di Blake e Mounton (1964), tali modalità sono state differenziate secondo due dimensioni basilari: interesse per sé e interesse per gli altri. La prima dimensione
mostra il grado (alto o basso) con il quale una persona tenta di soddisfare i propri interessi. La seconda dimensione mostra il grado (alto o basso) con il quale una persona
vuole soddisfare gli interessi degli altri. La letteratura di riferimento ha fornito conferma
al modello esplicativo rappresentato da queste due dimensioni e, inoltre, combinandole assieme, ha determinato cinque specifici stili per affrontare un conflitto interpersonale, come mostra la figura 7-12.
Alto
Sottomissione
Integrazione
Compromesso
Basso
Interesse per gli altri
Figura 7-12
Le strategie di gestione del conflitto
Evitamento
Dominio
Alto
Basso
Interesse per sé
Modificato da: Majer (1995); Rahim e Bonomia (1979).
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Mobbing: virus organizzativo
Majer (1995), sulla base del lavoro di ricerca teorica ed empirica presentato in diversi studi, individua anche nel contesto italiano cinque diverse strategie di gestione del conflitto: evitamento, sottomissione, dominio, compromesso e integrazione. L’evitamento è
una modalità associata a situazioni di abbandono del conflitto e/o a situazioni in cui si
rifugge dalle responsabilità attraverso meccanismi di estraniazione. Può assumere la
forma di un posticipare il problema o semplicemente di un allontanamento da una situazione minacciosa o ansiogena. Una persona che evita, fallisce sia nel soddisfare i propri
interessi sia nel soddisfare quelli della controparte. Lo stile di sottomissione tenta di minimizzare le differenze ed evidenziare ciò che vi è di comune per soddisfare l’interesse dell’altra parte, tralasciando il proprio. Lo stile di dominio è, invece, caratterizzato dalla presenza di una dinamica del tipo vincitore/vinto e/o dalla presenza di un comportamento
tendente a conquistare la posizione di un altro. Una persona che domina, o che compete, usa qualsiasi mezzo per vincere e raggiungere il proprio obiettivo e, di conseguenza,
spesso ignora i bisogni e le aspettative della controparte. Il compromesso è una modalità
di gestione del conflitto tendente a ritrovare delle intermediazioni tra l’interesse per sé e
quello per gli altri. Ciò implica la condivisione, laddove le parti sacrificano qualcosa per
prendere una decisione mutuamente accettabile. Può comportare inoltre l’eliminazione
delle differenze, lo scambio di concessioni o la ricerca di una posizione intermedia.
L’integrazione, infine, implica lo scambio di informazioni e l’esame delle differenze tra le
diverse posizioni, al fine di raggiungere la soluzione ottimale per entrambe le parti. È
associato alla risoluzione di un problema e può portare a soluzioni originali.
6. Il sexual harassment
Si definisce molestia sessuale ogni comportamento a connotazione sessuale, o qualsiasi altro tipo di discriminazione basata sul sesso, che leda la dignità degli individui nell’ambiente di lavoro, ivi inclusi atteggiamenti di tipo fisico, verbale o non verbale. C’è
molestia quando c’è asimmetria di potere tra l’aggressore e la vittima o quando il comportamento è indesiderato o offensivo per chi lo subisce (Santinello, 1998).
Dalla copiosa letteratura sul tema, le azioni moleste più frequentemente riscontrate
sono: ricevere commenti e pesanti apprezzamenti sull’aspetto fisico, palpeggiamenti e
pressione psicologica per l’ottenimento di appuntamenti; ricevere lettere, messaggi o
materiale di carattere sessuale; ricevere richieste implicite o esplicite di prestazioni sessuali offensive o non gradite; ricevere promesse, implicite o esplicite, di agevolazioni e
privilegi oppure di avanzamenti di carriera in cambio di prestazioni sessuali; ricevere
minacce o ritorsioni in seguito al rifiuto di prestazioni sessuali.
Fitzgerald e collaboratori (1988) e Santinello e Vieno (2004) hanno proposto una
categorizzazione delle molestie, che è tra le più condivise dagli studiosi del fenomeno,
suddividendole in cinque categorie:
1) discriminazioni in base al genere: comportamenti e atteggiamenti sessisti, non necessariamente mirati a ottenere prestazioni di natura sessuale, ma che vengono percepiti
come ostili, insultanti e degradanti;
2) pressioni e insinuazioni: comportamenti impropri e richieste offensive con le quali si
dimostra di considerare l’altra persona come oggetto di mire sessuali, anche se il rifiuto
non porta conseguenze o rischi per il soggetto molestato;
90
L’analisi differenziale del mobbing: i comportamenti negativi sul lavoro
3) imposizioni sessuali: contatti fisici indesiderati non casuali;
4) corruzione sessuale: pressioni e richieste di prestazioni sessuali o di altri comportamenti legati alla sfera sessuale con la promessa di ricompense e vantaggi vari;
5) ricatto sessuale: pressioni e costrizioni ad attività e prestazioni sessuali tramite la
minaccia di sanzioni o punizioni.
La ricerca scientifica su questa problematica, nel corso degli anni, ha ormai appurato che la molestia sessuale è il risultato dell’interazione tra caratteristiche individuali e
l’ambiente di lavoro all’interno del quale il fenomeno si sviluppa. Tali comportamenti
sarebbero favoriti da un ambiente permissivo, ossia dove le norme e la cultura organizzativa non li stigmatizzano (Santinello e Vieno, 2004). È opportuno precisare che le
molestie a sfondo sessuale sui luoghi di lavoro non sono un fenomeno a senso unico,
ossia non riguardano esclusivamente atti di molestia dell’uomo sulla donna ma, al contrario, non sono affatto irrilevanti i casi opposti, in cui il molestatore è donna, anche se
statisticamente meno numerosi.
Nella letteratura internazionale si riscontra la tendenza a non considerare la molestia sessuale come strategia mobbizzante, ma si ipotizza possa accadere che un’attenzione sessuale non corrisposta di un individuo nei confronti di un altro si possa trasformare in un pattern di comportamenti di mobbing, finalizzato, ad esempio, a costringere il
malcapitato o la malcapitata alle dimissioni.
Quando le attenzioni di natura sessuale indesiderate vengono ripetute a lungo nel
tempo, assumono la forma di vera e propria molestia e comportano gravi conseguenze
sulla stato di benessere e salute della vittima e il degrado dell’attività lavorativa (Depolo,
2003; Fitzgerald, 1993).
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PARTE SECONDA
RICERCA E DIAGNOSI: ALCUNI RISULTATI EMPIRICI
CAPITOLO OTTAVO
Strumenti e metodi di studio
del mobbing
1. La misura del mobbing
La misurazione del mobbing lavorativo ha utilizzato una gamma di metodi di ricerca sintetizzabili in quattro principali categorie:
1) metodi “interni” al soggetto mobbizzato, che si focalizzano sulla percezione soggettiva di mobbing. A tale approccio appartengono strumenti quali i questionari, le interviste, i focus group, i resoconti personali attraverso diari e alcune tecniche proiettive;
2) metodi “interni” al soggetto mobbizzato, che si focalizzano sul danno subito dalla vittima
di mobbing; sono utilizzati scale di misura della salute, depressione, inventari di personalità;
3) metodi “esterni”, che prendono in considerazione il contesto entro cui si colloca l’esperienza di mobbing. Tale prospettiva comprende gli strumenti basati sull’osservazione
del soggetto nel suo luogo di lavoro e la raccolta di informazioni attraverso interviste o
questionari somministrati ai colleghi, oppure tramite registrazioni audio e video o lo studio di documentazioni provenienti dagli uffici delle risorse umane;
4) metodi “oggettivi”, che, attraverso il metodo sperimentale, adottano rilevazioni mediche e fisiologiche sugli agenti implicati nella fenomenologia delle conseguenze del mobbing, come il tasso di cortisolo giornaliero delle vittime.
Il presente capitolo si pone l’obiettivo di evidenziare alcuni strumenti tipici della
psicologia del lavoro e delle organizzazioni messi a punto dagli studiosi nel corso dei lunghi anni di ricerche sul fenomeno del mobbing.
2. I questionari di stima del mobbing
Gli studi e le ricerche che si propongono di valutare, in maniera standardizzata e oggettiva, la presenza del mobbing nei contesti lavorativi non hanno, a tutt’oggi, sviluppato
95
Mobbing: virus organizzativo
metodologie diagnostiche pienamente condivise e accettate. I metodi maggiormente utilizzati sono finalizzati alla stima e alla diffusione del mobbing, per lo più attraverso diverse
tipologie di questionari, self-report che indagano la percezione di mobbing attraverso la misura della frequenza e della durata delle azioni mobbizzanti subite da parte della vittima. Le
azioni mobbizzanti (cfr. alcuni esempi nel capitolo secondo) si rifanno a variegate classificazioni, a partire dal Leymann Inventory of Psychological Terror (LIPT; Leymann, 1990, 1992), che
ha trovato particolare diffusione in Germania e in Italia negli anni Novanta. Attualmente,
tuttavia, la comunità scientifica internazionale, a motivo di una lunga tradizione di ricerca
sul costrutto ormai da tempo consolidata, converge sempre di più verso il Negative Acts
Questionnaire Revised (NAQ-R; Einarsen e Hoel, 2001), che dispone di un campione rappresentativo nazionale della forza lavorativa inglese e norvegese, di dati di molti Paesi del mondo (tra cui anche l’Italia) e che appare più esaustivo e affidabile, oltre che in grado di consentire molti costruttivi confronti cross-culturali. I questionari di mobbing contengono un
elenco di domande che prevedono un ordine e una modalità di risposta prefissata che il
rispondente è tenuto a utilizzare per esprimere il proprio modo di percepire i problemi proposti. La modalità tecnica più utilizzata e nota in tema di misura del mobbing è la scala Likert.
In alcuni casi per la misurazione della frequenza con la quale vengono perpetrate le
azioni vessatorie sono stati utilizzati indicatori generici quali “mai”, “raramente”, “a volte”
e “spesso” (Argentero, Bonfiglio e Zanaletti, 2004; Bjorkqvist et al., 1994; Depolo, 2003),
fortemente soggetti a stime e interpretazioni diverse da persona a persona. Tuttavia è doveroso sottolineare come sia più opportuno misurare la frequenza di esposizione ad azioni
mobbizzanti con indicatori temporali più specifici quali “ mai”, “qualche volta”, “ogni
mese”, “ogni settimana”, “ogni giorno”, in cui la frequenza minima di esposizione per etichettare determinate attività e processi come mobbing è di “ogni settimana” (cfr. Einarsen
e Hoel, 2001; Giorgi, 2007; Giorgi e Majer, 2008; Giorgi et al., 2006). I questionari di stima
del mobbing analizzano anche la durata delle azioni mobbizzanti subite con indicatori fissi
“per un periodo superiore agli ultimi 6 mesi” o “almeno da 6 mesi”, o con indicatori specifici in cui il soggetto può fornire informazioni più accurate, ad esempio “da meno di 1
mese”, “da 1 a 6 mesi”, “da 6 mesi a 1 anno”, “da 1 a 2 anni”, “da più di 2 anni” (cfr.
Argentero et al., 2004).
Il Negative Acts Questionnaire Revised
Il NAQ-R è un questionario self-report che trova le sue radici negli studi “pionieristici” di Einarsen e Raknes (1997). Nella sua versione originale era composto da 29 item ed
era destinato a misurare le percezioni di esposizione al mobbing, utilizzando sia indicatori più oggettivi, basati sul comportamento, sia indicatori più soggettivi, basati sulla
percezione della vittima di essere mobbizzata. Grazie a delle interviste con le vittime e
dopo una rivisitazione della letteratura specialistica sul mobbing, il NAQ-R nella versione modificata (Einarsen e Hoel, 2001) presenta 22 item con risposta a 5 punti su scala
Likert, che vanno da “mai” a “ogni giorno”.
Questo questionario è orientato alla rilevazione delle situazioni percepite come mobbizzanti e non può essere usato come strumento diagnostico sul piano medico-legale1.
1. Il NAQ-R è un questionario che misura la percezione soggettiva del mobbing e pertanto non indaga il mobbing
oggettivo, ricercato sul piano medico-legale. La famiglia dei questionari di stima di mobbing (in cui entra anche
96
Strumenti e metodi di studio del mobbing
Tuttavia, è possibile evidenziare coloro che, all’interno di un certo contesto lavorativo, si
percepiscono come oggetto di azioni vessatorie frequenti e persistenti, tanto da poter essere considerate delle potenziali vittime di mobbing. Tale identificazione avviene attraverso
criteri specifici, basati sulla letteratura di riferimento ormai decennale (Leymann, 1992;
Mikkelsen e Einarsen, 2001), la cui efficacia è stata recentemente confermata anche da
specifiche e recenti statistiche (cfr. Giorgi, 2007; Giorgi e Majer, 2008; Giorgi et al., 2006).
Gli studi di validazione dello strumento in Italia, condotti presso campioni rappresentativi di più di venti organizzazioni italiane, hanno indicato che il NAQ-R presenta soddisfacenti proprietà psicometriche anche in una versione ridotta a 17 item, chiamata
Negative Acts Questionnaire Revised Italia (NAQ-R Italia; Giorgi e Majer, 2008).
Tale questionario è in grado di individuare in modo estremamente efficace i diversi gradi di prevalenza di mobbing all’interno delle organizzazioni, in relazione agli specifici contesti e settori lavorativi. Se la media del NAQ-R Italia assume un determinato
valore critico, vuole dire che siamo in presenza di rischio di mobbing. La capacità di “discriminare tra le organizzazioni” (cfr. fig. 8-1) permette di misurare in modo valido (valiFigura 8-1
NAQ-R Italia. Barometro del malessere/benessere organizzativo.
Medie dei punteggi del NAQ-R Italia riportati in uno studio
condotto presso 21 organizzazioni italiane
Media del NAQ-R Italia
30.00
28.00
26.00
24.00
22.00
1
2
3
4
5
6
7
8
9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21
Azienda
Modificato da: Giorgi e Majer (2008).
Nota. Database aziendale in fase di lavorazione.
il LIPT) presenta bias metodologici per diagnosticare una vittima di mobbing. Per un approfondimento si consiglia la lettura di Giorgi (2007) o del numero monografico della rivista Risorsa Uomo (Giorgi e Majer, 2008) dedicata al mobbing.
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97
Mobbing: virus organizzativo
do proprio perché confrontabile con un campione di riferimento) quanto un ambiente
possa essere mobbizzante e favorire l’insorgere del mobbing. Il NAQ-R Italia rappresenta, pertanto, un efficiente barometro del malessere/benessere organizzativo.
3. Le scale di valutazione/percezione soggettiva del mobbing
Un altro approccio alla misurazione del mobbing è quello dell’utilizzo di scale di
valutazione/percezione soggettiva del fenomeno. In numerose ricerche (Einarsen e
Skogstad, 1996; Hoel e Cooper, 2000), è stata presentata una definizione di mobbing,
seguita da una domanda sulla frequenza e sulla durata del fenomeno, ed è stato richiesto ai rispondenti se avessero vissuto una tale esperienza. Le definizioni che vengono utilizzate in questo approccio colgono gli aspetti più significativi emersi dalle ricerche della
letteratura internazionale e dagli interventi effettuati sul fenomeno e, pertanto, possono
costituire una valida misura del costrutto psicologico del mobbing. Tale metodo, naturalmente, non si pone alcuna velleità di misurare alcun aspetto del mobbing oggettivo,
ma sembra il più sensibile a cogliere l’esperienza soggettiva della vittima. Bisogna, infatti, ricordare che la percezione soggettiva del mobbing può comunque portare a effetti
estremamente disfunzionali sia a livello individuale che organizzativo, a malcontento
organizzativo, oppure ad altri comportamenti negativi come l’inciviltà sul luogo di lavoro o lo spingere il presunto aggressore a compiere davvero il mobbing.
Per un’analisi dettagliata della prevalenza del fenomeno, tale metodo risulta complementare ai questionari sui comportamenti di mobbing sopra descritti (cfr. in particolare il NAQ-R), che misurano la frequenza e la durata delle azioni negative subite dalla
vittima. Un’indagine epidemiologica di mobbing che si avvalga delle scale di percezione
soggettiva, oltre a mettere in luce la percentuale di soggetti che si percepisce vittima di
mobbing, può risultare utile anche per la finalità, non secondaria, di fare informazione
scientifica sul fenomeno. I soggetti rispondenti, con l’ausilio di questo metodo, hanno
l’opportunità di etichettare da una parte la propria esperienza come mobbing o non
mobbing, e dall’altra di etichettare un’esperienza precedentemente percepita dal soggetto come mobbizzante come non mobbing. Alcune di queste scale di valutazione/percezione soggettiva del mobbing (Giorgi, 2004; cfr. Appendice A) richiedono ai rispondenti dettagliate informazioni sul processo di mobbing (“Quando è iniziato il mobbing?”
“Quante persone ti hanno mobbizzato?” “Chi ti ha mobbizzato?” “Sei stato testimone
di mobbing nella tua organizzazione?” ecc.), al fine di una più efficace comprensione di
quale forma di mobbing sia stata posta in essere nei confronti della vittima e/o quale
risulti prevalente all’interno dell’organizzazione.
4. I focus group
Noto negli anni Quaranta, il focus group è una tecnica qualitativa di rilevazione dei
dati, utilizzata nella ricerca psicologica, che si basa sulle informazioni che emergono
dalla discussione di un piccolo gruppo su un tema o argomento che il ricercatore vuole
indagare in profondità.
È un metodo particolarmente adatto a individuare e approfondire i vissuti, le percezioni o i comportamenti, e per comprendere le motivazioni sottostanti al pensiero e al
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Strumenti e metodi di studio del mobbing
comportamento umano. Inizialmente la sua struttura base constava di un gruppo di persone omogenee, che non si conoscevano fra di loro, guidate da un moderatore che poneva domande rigidamente pianificate. Nel corso degli anni, l’estensione dell’impiego a
diversi settori ha indotto i ricercatori a introdurre innovazioni e varianti nel metodo, differenziabili a seconda degli obiettivi dell’intervento e in base all’ambito di applicazione.
Pertanto, oggi si possono utilizzare vari tipi di focus group, diversi per composizione del
gruppo, grado di strutturazione e ruolo del/i moderatore/i.
Il ricorso a tale metodologia è presente in alcune ricerche per lo studio del fenomeno mobbing. Inoltre tale tecnica è risultata, secondo l’esperienza professionale degli scriventi, estremamente efficace per l’analisi del mobbing collettivo, per fare informazione
e formazione sul fenomeno, per finalità preventive attraverso l’individuazione di variabili organizzative antecedenti al mobbing, l’individuazione, supporto e aiuto alle vittime o alle potenziali vittime, per la gestione/risoluzione di conflitti organizzativi (conflict
management strategies).
Per quanto riguarda la composizione dei gruppi, si fa riferimento a dimensioni organizzativamente rilevanti, a particolari persone a rischio, in seguito ad approfondimenti
con i vertici delle organizzazioni, o a osservazioni indipendenti effettuate dal gruppo di
ricerca.
Nel primo caso, più idoneo per finalità di prevenzione/individuazione di antecedenti organizzativi che potrebbero sfociare in diverse forme di mobbing, tra cui anche
quella più collettiva (si ricorda infatti che in quest’ultima fattispecie è l’azienda/ l’organizzazione del lavoro che viene percepita come mobber), i focus group saranno composti da soggetti rappresentativi di dimensioni organizzativamente rilevanti – mansione,
anzianità di servizio, inquadramento professionale, tipologia di contratto – che vogliono essere indagate dal ricercatore. L’obiettivo sarà di evidenziare sia le dinamiche di interazione e di comunicazione presenti all’interno del gruppo, sia i contenuti attorno ai
quali tali dinamiche si organizzano. Questi ultimi potranno riguardare i vissuti nei confronti dell’organizzazione; le percezioni di azioni mobbizzanti sul ruolo, sulla mansione
e sull’organizzazione del lavoro; le percezioni di clima, la relazione con i superiori/subordinati, o/e con altri gruppi di lavoro, lo stress organizzativo e così via.
Nel secondo caso, più funzionale alla gestione di conflitti organizzativi e/o all’individuazione di potenziali vittime, i focus group saranno composti da persone o categorie
a rischio, segnalate dal management dell’azienda o individuate da osservazioni indipendenti del consulente/ricercatore.
I focus group avranno gli obiettivi di rivedere la definizione di mobbing delle persone, valutarne l’interpretazione individuale, capire il contesto in cui avviene il mobbing, individuare i possibili meccanismi di coping del gruppo nei confronti del mobbing, identificarne forme di supporto, implementare possibili strategie di
mediazione/negoziazione e/o conflict management. Tale metodologia può essere utilizzata con uno scopo informativo/formativo ed esplorativo delle percezioni che i lavoratori,
all’interno di una determinata organizzazione, hanno del fenomeno. Si ricorda, infatti,
che un intervento consulenziale di indagine di malessere organizzativo/mobbing rientra
nel campo metodologico della ricerca azione, ove l’azione presenta dei risultati che
modificano la situazione, sia in senso sociale e/o materiale sia in senso psicologico, in
quanto immette nell’esistenza del soggetto nuove conoscenze, sentimenti, dando vita a
un processo circolare. Pertanto, per il solo fatto che venga posto in essere, un intervento di questo tipo modifica la realtà organizzativa e favorisce un cambiamento sia del
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99
Mobbing: virus organizzativo
lavoratore che dell’organizzazione. Viene riportato in Appendice B un esempio di struttura di focus group per questo terzo tipo di approccio caratterizzato dalla finalità esplorativa di conoscenza del fenomeno all’interno di un determinato setting.
5. L’intervista
L’intervista per l’indagine di mobbing può avere due scopi principali:
• verificare la presenza di possibili casi di mobbing all’interno di un contesto organizzativo, quindi fornire il giudizio di un esperto in merito alla situazione, a possibili interventi correttivi di mediazione e/o conflict management, fino ad arrivare a esprimere un
parere riguardo a un’eventuale denuncia di mobbing da parte della vittima;
• mettere in luce quali siano, all’interno della realtà organizzativa oggetto di indagine,
le relazioni sul luogo di lavoro e le attività che possono risultare maggiormente a rischio nel causare/concausare possibili situazioni di mobbing. Quest’ultimo tipo di
intervista intende pertanto indagare il fenomeno a livello preventivo.
L’intervista per lo studio del mobbing nei setting organizzativi può utilizzare, come
classicamente riconosciuto nella metodologia della ricerca psicosociale, una modalità
più o meno rigida, che si pone lungo un continuum che va da non strutturata a completamente strutturata. L’intervista non strutturata prevede un certo numero di argomenti da trattare, ma la formulazione delle domande non è predefinita, così come non
lo è la loro sequenza. L’intervista standardizzata è organizzata, invece, secondo uno schema rigido di domande: agli intervistati si chiede di rispondere a una serie di opzioni predefinite, scelte dal ricercatore durante la fase di costruzione dello strumento come significative ed esaurienti.
Le persone intervistate possono essere i potenziali mobber e/o mobbizzati, ma anche
testimoni che possono rivestire un ruolo chiave nella verifica della reale presenza di azioni mobbizzanti. Se tale approccio di studio del fenomeno è scarsamente diffuso in Italia,
in Inghilterra vengono condotte delle vere e proprie indagini ispettive, con il preciso
riferimento a prove testimoniali, per identificare da una parte la veridicità di quanto
dichiarato dal mobbizzato, dall’altra per quantificare la gravità della condotta del presunto mobber. L’intervistatore deve essere un esperto del fenomeno mobbing e porre particolare attenzione sia ai processi che ai contenuti dell’intervista. Considerando la delicatezza del tema trattato, ci potrebbero essere forti reazioni emotive, sia nelle potenziali
vittime che nei presunti mobber. L’intervistatore deve, quindi, creare un clima positivo e
di apertura per gli intervistati e può anche permettere che questi siano accompagnati da
una terza persona (ad esempio, un amico o un familiare), nonostante ciò possa inficiare
il grado di obiettività delle informazioni.
Infine, riguardo ai contenuti dell’intervista, essi possono essere variegati e focalizzarsi, a seconda degli scopi prefissati, più sul caso singolo oppure sulle relazioni lavorative, sui rischi psicosociali, sull’organizzazione del lavoro e così via. L’intervistatore
dovrà riconoscere i criteri basilari caratterizzanti situazioni di mobbing nella potenziale
vittima, con particolare riguardo all’escalation del conflitto, all’intenzionalità e alle
motivazioni della condotta del mobber, e raccogliere le osservazioni/percezioni dei testimoni riguardo alla vittimizzazione del mobbizzato e al dolo del mobber. Alcune doman-
100
Strumenti e metodi di studio del mobbing
de non dovrebbero, poi, essere connesse direttamente al mobbing, ma più all’organizzazione del lavoro, al fine di esplorare possibili collegamenti tra human resource management e mobbing e prevenire così futuri casi qualora venisse individuato un forte collegamento fra le due variabili (organizzazione del lavoro e processo di mobbing). Quindi
l’intervista può essere usata, oltre che per il riconoscimento di possibili casi di mobbing,
anche in un’ottica preventiva di indagine del contesto organizzativo e dei rischi psicosociali. Ad esempio, in uno studio di Niedl (1996), le interviste sono state strutturate su
37 punti di discussione/domanda includendo: la cultura organizzativa, lo stile di leadership, la gestione del conflitto, la mission dell’azienda, i tipi di policy, l’etica, il counseling, i programmi di assistenza per i lavoratori, le strategie di coping delle vittime, le
azioni mobbizzanti, le motivazione del comportamento del mobber e così via. In
Appendice C sono illustrate alcune domande esempio di un’intervista.
6. La compilazione di un diario
Il metodo del diario consiste nel chiedere ai soggetti di annotare, su una base regolare (ad esempio, per una settimana, tutti i giorni ecc.), le azioni vessatorie subite e i propri comportamenti (emozioni, pensieri ecc.) ad esse conseguenti. Nel caso del fenomeno mobbing, le vittime molte volte possono evitare di parlare del problema, oppure divenirne consapevoli gradualmente, specie se sottoposte a un mobbing sul ruolo lavorativo
e sulla mansione o al bossing. Il processo di risposta al fenomeno può essere più facilmente compreso se la vittima è in grado di registrare, di volta in volta, la sua esperienza. Tramite l’uso di un diario le persone sono in grado di descrivere ogni episodio e ciò
può aiutare a razionalizzare i loro pensieri. In Appendice D viene presentata una scheda
esemplificativa (log book).
7. La misura del danno da mobbing
La misurazione del mobbing richiede anche rilevazioni evidenti e documentabili. Le
competenze mediche e psicologiche/psichiatriche sono estremamente indicate per mettere in luce quale sia la soglia di malattia per definire un lavoratore mobbizzato.
La checklist redatta dall’INAIL (cfr. Appendice E) appare un inventario essenziale
di guida all’esame degli argomenti necessari per la valutazione dello stato patologico in
casi che rientrano nel range di patologie derivanti da rischi psicosociali. Inoltre, per
quanto riguarda la professione dello psicologo, come era stato riconosciuto dalla circolare INAIL 17 dicembre 2003, n. 71, annullata recentemente dalla sentenza TAR Lazio
4 luglio 2005, n. 5454, venivano riconosciuti come fondamentali per la misura del
mobbing i test di psicodiagnostica, che avevano la funzione di integrare l’esame obiettivo psichico, e ne veniva assunta indubbia importanza per la riproducibilità e confrontabilità nel tempo.
I test psicodiagnostici comprendevano:
• i questionari di personalità: ad esempio MMPI-2, Millon Clinical Multiaxial Inventory
(MCMI; Millon, 1983) ecc.;
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101
Mobbing: virus organizzativo
• scale di valutazione dei sintomi psichiatrici: Beck Depression Inventory (BDI; Beck e Steer,
1987), Zung Self-Rating Depression Scale (SDS; Zung, 1965), State-Trait Anger Expression
Inventory (STAXI; Spielberg, 1988).
• test proiettivi: Rorschach, Test di Appercezione Tematica (TAT; Murray, 1992) ecc.
Questi strumenti forniscono informazioni sulla personalità del soggetto, sulla compatibilità del risultato del test con le altre valutazioni diagnostiche, e costituiscono un
essenziale completamento all’esame clinico poiché attraverso le risposte ottenute dai
soggetti è possibile definire la struttura di personalità, la sincerità della persona che si
sottopone a valutazione, la presenza di aspetti o di complessi sintomatologici non emersi nel corso dell’esame clinico.
La scelta dei test da utilizzare per l’approfondimento diagnostico di ciascun caso è
affidata alla competenza dello psicologo che, sulla base delle osservazioni raccolte nei
colloqui preliminari, stabilisce il dominio di maggiore interesse e attinenza attraverso cui
condurre la fondamentale operazione di diagnosi differenziale tra patologie endogene
pregresse e patologia professionale.
Di seguito (cfr. fig. 8-2) vengono illustrate brevemente le scale del MMPI-2, test che
valuta le principali caratteristiche strutturali di personalità e i disordini di tipo emotivo.
Il MMPI-2, per le potenzialità dimostrate in molti decenni di utilizzo da parte di professionisti in tutto il mondo e per la mole di letteratura di ricerca accumulata, rappresenta
uno dei riferimenti insostituibili per la psicodiagnosi del mobbing (ad esempio,
Matthiesen e Einarsen, 2001; Zapf e Einarsen, 2003).
Nonostante l’annullamento della circolare, l’utilità di questi test nei riguardi del
danno psicosociale risulta comunque indiscutibile.
Figura 8-2
Scale del MMPI-2
Scale di validità: servono ad accertare con quale accuratezza e sincerità il soggetto ha compilato
il questionario. La scala Menzogna (L) misura la tendenza a fornire un’immagine di sé socialmente
accettabile; la scala Frequenza (F) è un indice della validità del test; la scala Correzione (K) evidenzia l’atteggiamento difensivo verso le indagini psicologiche; la scala Back F (FB) permette di valutare il mantenimento d’attenzione durante la somministrazione; la scala Incoerenza nelle Risposte
(VRIN) e la scala Incoerenza nelle Risposte “Vero” (TRIN) misurano la tendenza a rispondere “vero”
o “falso” alle domande per dare un’immagine non credibile di sé
Scale cliniche: vanno a sondare le dimensioni più significative della personalità. La scala
Ipocondria (Hs) riguarda problemi fisici caratteristici dei nevrotici ipocondriaci; la scala
Depressione (D), varie forme sintomatiche di depressione; la scala Isteria (Hy), problemi somatici
e paure, tipici di soggetti affetti da isteria di conversione; la scala Deviazione Psicopatica (Pd)
riguarda personalità psicopatiche, sociopatiche, caratterizzate da carenza di controllo sulle
risposte emotive; la scala Mascolinità-Femminilità (Mf ), l’insieme degli interessi mascolini o femminili; la scala Paranoia (Pa), i sintomi paranoidi (ideazioni deliranti, fragilità psicologica e
manie di grandezza); la scala Psicastenia (Pt), le fobie e i comportamenti ossessivo-compulsivi; la
scala Schizofrenia (Sc), le esperienze insolite e le sensibilità particolari tipiche degli schizofrenici;
la scala Ipomania (Ma), gli stati maniacali di moderata entità (idee di grandezza, alto livello di
attività); la scala Introversione Sociale (Si), le difficoltà sperimentate in situazioni sociali
segue
102
Strumenti e metodi di studio del mobbing
Figura 8-2 – continua
Scale supplementari: approfondiscono la trattazione dei problemi clinici e dei vari disturbi. La
scala Ansietà (A) valuta il livello di stress, disagio o stato emotivo turbato; la scala Repressione (R),
il livello di convenzionalità, sottomissione e tendenza a evitare situazioni spiacevoli; la scala
Forza dell’Io (Es), la capacità di trarre profitto dalla psicoterapia; la Scala MacAndrew di Alcoolismo
Rivista (MAC-R), la presenza di problemi di tossicodipendenza o alcolismo; la scala Ostilità
Ipercontrollata (O-H), la capacità di tollerare la frustrazione; la scala Dominanza (Do), la tendenza ad assumere il controllo nelle relazioni interpersonali; la scala Responsabilità Sociale (Re), il
livello di responsabilità sociale percepito; la scala Disadattamento Universitario (Mt) discrimina tra
studenti emotivamente adattati e non. Le Scale del Ruolo di Genere (GM) e (GF) forniscono indicazioni sulla percezione del ruolo sessuale. Le Scale di Disturbo Post-Traumatico da Stress (Pk) e (Ps)
diagnosticano questo tipo di disturbo. La Scala di Disagio Coniugale (MDS) identifica contrasti
nelle relazioni di coppia; la Scala di Tossicodipendenza Potenziale (APS), la potenzialità a sviluppare problemi e dipendenza da sostanze; la Scala di Ammissione di Tossicodipendenza (AAS) concerne l’abuso di sostanze che danno dipendenza
Scale di contenuto: permettono di descrivere diverse variabili di personalità. La scala Ansia
(ANX) mette in luce sintomi generali di ansia, problemi somatici, difficoltà di sonno e concentrazione; la scala Paure (FRS), le fobie; la scala Ossessività (OBS), l’ossessività; la scala Depressione
(DEP), pensieri significativamente depressivi; la scala Preoccupazioni per la Salute (HEA) individua
soggetti che dichiarano sintomi fisici su tutto il corpo; la scala Ideazione Bizzarra (BIZ), processi
di pensiero di tipo psicotico; la scala Rabbia (ANG), problemi di controllo della rabbia; la scala
Cinismo (CYN), convinzioni misantropiche; la scala Comportamenti Antisociali (ASP) riguarda persone che hanno avuto problemi di comportamento antisociale nel passato; la scala Tipo A (TPA)
riguarda persone del tipo A; la scala Bassa Autostima (LSE), persone con bassa opinione di sé; la
scala Disagio Sociale (SOD), il disagio a stare in gruppo; la scala Problemi Familiari (FAM), la presenza di conflitti familiari; la scala Difficoltà sul Lavoro (WRK), quella di contrasti sul lavoro; la
scala Indicatori di Difficoltà di Trattamento (TRT), gli atteggiamenti negativi verso i trattamenti di
salute mentale.
8. Considerazioni critiche
Come rilevano Argentero et al. (2004) si ritiene che
allo stato attuale dell’arte sulle conoscenze inerenti alla misurazione del mobbing,
per condurre un’indagine appropriata sul fenomeno, l’obiettivo essenziale dovrebbe
essere quello di realizzare una “triangolazione” tra i risultati emersi da diversi strumenti e metodi, per integrare e convalidare i dati raccolti da più fonti (p. 213).
La rassegna di strumenti e metodi presentata, anche se non esaustiva, si propone di
fornire una panoramica per quanti si vogliano avvicinare alla misura del mobbing.
Considerazione meritano anche i questionari di misura della percezione soggettiva del
mobbing. Questi non sono diagnostici del mobbing, ma possono funzionare come un
barometro del benessere/malessere organizzativo e del rischio che il mobbing soggettivo
possa trasformarsi in oggettivo. È ovvio che tali strumenti dovrebbero essere usati da specialisti di mobbing all’interno delle organizzazioni e/o da professionisti, dopo un’adeguata formazione.
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103
CAPITOLO NONO
La spiegazione del problema
1. Gli antecedenti individuali del mobbing
La letteratura scientifica sul mobbing ha preso in riferimento le variabili di personalità della vittima e del mobbizzato come potenziali determinanti del fenomeno già nei
primi studi pionieristici di Brodsky (1976). Numerosi studi sono stati svolti anche successivamente e hanno messo in luce il ruolo significativo giocato dalle personalità del
mobber e del mobbizzato nel fenomeno del mobbing (ad esempio, Matthiesen e
Einarsen, 2001).
Tuttavia, se in alcuni casi l’utilizzo di questo approccio può risultare per la comprensione del mobbing funzionale e strategico, in altri casi potrebbe essere poco rilevante o addirittura controproducente. Come rileva Einarsen (2000), la struttura di personalità della vittima può essere ritenuta determinante nell’interpretare la percezione
soggettiva di mobbing avuta dalla stessa, il suo mastering e la sua reazione alla situazione che si è venuta a creare, ma non appare invece in grado di produrre inferenze sufficientemente potenti sul comportamento attuato dal mobber.
La motivazione sottostante alle azioni vessatorie perpetrate dall’aggressore nei confronti di un target non è infatti soltanto riconducibile alla personalità o a predisposizioni individuali della vittima, anche se in un certo grado le caratteristiche di personalità e
alcuni pattern di comportamento della stessa vittima potrebbero stimolare e/o suscitare
comportamenti aggressivi e molesti da parte di altri lavoratori. Leymann (1992), ad
esempio, considerava i fattori di personalità non rilevanti nello studio del mobbing e
riconosceva nelle condizioni di lavoro la causa primaria del fenomeno.
Tuttavia, sia i mobber che gli osservatori hanno spesso evidenziato quanto fosse stata
significativa la personalità della vittima nell’evolversi e nell’inizio del conflitto di mobbing (Einarsen et al., 1990). Ciò ha avuto un effetto propulsivo sul filone di ricerca, tanto
che ormai la letteratura sulle disposizioni individuali e la personalità della vittima di
molestie morali appare copiosa.
104
La spiegazione del problema
L’aggressore
La ricerca ha messo in luce che i mobber sono, nella maggior parte dei casi, uomini
piuttosto che donne, superivisori/manager piuttosto che colleghi (Zapf, Einarsen, Hoel e
Vartia, 2003). Zapf e collaboratori rilevano tre tipi di caratteristiche dell’aggressore che
possono spiegare le condotte mobbizzanti: i processi di regolazione del sé, con riferimento a una potenziale minaccia all’autostima; la mancanza di competenze sociali; una
logica di tipo politico-economico. Sulle orme di Baumeister, Heatherton e Tice (1993),
essi sostengono che la protezione dell’autostima è un bisogno primario che influenza e
controlla il comportamento umano, e indicano l’origine del conflitto di mobbing proprio nel mancato riconoscimento dello status, della posizione sociale, della valutazione
del sé di un individuo nei confronti di un altro:
In tutte le sfere che abbiamo esaminato, abbiamo trovato che la violenza emergeva da una minaccia al proprio Io: come orgoglio ferito, mancanza di rispetto,
abuso verbale, insulti, svalutazione della persona. Per la maggior parte delle culture, dei gruppi, piccoli e più grandi, e dei singoli emergeva lo stesso pattern: la
violenza avveniva quando il sentimento di superiorità di una persona era in qualche modo svalutato e contraddetto (Baumeister, Smart e Boden, 1996, p. 26, in
Zapf e Einarsen, 2003).
Inoltre, Zapf et al. aggiungono che coloro che posseggono maggiore autostima è più
probabile che ricorrano in episodi di mobbing, in quanto sono convinti di poter vincere la propria battaglia e di poter prevalere. Se poi la natura di questa autostima è anche
instabile, l’aggressività si può manifestare pure in risposta a piccole minacce. Anche l’invidia può rientrare in questa sfera negativa del sé, ma, come evidenziato da Smith,
Parrot, Ozer e Moniz (1994), essa porta a ostilità solo quando una persona che ha una
visione positiva di se stessa e pensa di meritare di raggiungere un risultato positivo nutre
sentimenti di ingiustizia e iniquità nei confronti di un’altra persona, che, nell’ottenimento di tale risultato, ha un qualche tipo di vantaggio. Numerose vittime di mobbing
hanno riportato che l’invidia nei loro confronti era una delle cause principali del verificarsi del mobbing (ad esempio, Einarsen et al., 1994; Vartia, 1996).
Un’altra caratteristica del mobber che può spiegare condotte mobbizzanti è la mancanza di competenze sociali e di intelligenza emotiva. Come descritto precedentemente,
il mobber potrebbe essere un supervisore con delle difficoltà a gestire le proprie emozioni e a controllare la propria aggressività per cui potrebbe regolarmente alzare la voce con
i propri collaboratori o trattarli male. Il mobber potrebbe essere anche un lavoratore con
scarse competenze relazionali, scarsa empatia, per cui non si rende conto di compiere
azioni ostili verso un’altra persona e, soprattutto, non capisce quanto queste azioni possano essere percepite come vessatorie dalla vittima. In molti casi, infatti, i mobber sostengono che non erano consapevoli delle reali conseguenze del proprio comportamento
(Einarsen et al., 1994). Infine, il mobber potrebbe essere una persona particolarmente
aggressiva, con tratti di nevroticismo, che reagisce in modo estremamente ostile e negativo anche a fronte di piccole provocazioni.
Un’altra caratteristica riscontrata dalla letteratura di riferimento nei mobber è una
logica, sottostante ai comportamenti posti in essere, di tipo politico-economico. Il fine è
di ottenere avanzamenti di carriera e far prevalere i propri interessi. È stato approfondi-
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105
Mobbing: virus organizzativo
to come possa essere “razionale” mobbizzare un collega o un subordinato, soprattutto in
organizzazioni con forte competizione interna (Salin, 2003). L’aggressore, sabotando il
lavoro di un collega, potrebbe trarne un vantaggio personale; oppure punendolo o cercando di espellerlo dal contesto lavorativo, potrebbe migliorare la propria posizione.
Ancora, un superiore potrebbe compiere azioni mobbizzanti verso un collaboratore che
ha performance particolarmente elevate o particolarmente scarse: nel caso di un subordinato di talento, potrebbe percepirlo come un rivale per la propria carriera futura; mentre, se la remunerazione del superiore è basata sui risultati ottenuti dal collaboratore,
quest’ultimo potrebbe essere percepito come una risorsa da eliminare, se le sue performance fossero negative (Giorgi e Majer, 2004).
La vittima
Anche nella vittima è possibile evidenziare caratteristiche che possono favorire l’insorgere del mobbing.
Alcuni individui, in alcune specifiche situazioni, dove sono degli outsider, ovvero
differiscono troppo dal resto del gruppo – ad esempio per caratteristiche demografiche,
come genere, posizione gerarchica, group membership, anzianità di servizio, tipologia di
contratto eccetera – potrebbero essere maggiormente a rischio di mobbing.
Leymann (1993) mise in luce che insegnanti uomini di scuola elementare – che
erano in minoranza – risultavano maggiormente vittime di mobbing rispetto alle insegnanti donne. In un altro studio dell’Autore (Leymann e Lindroth, 1993), il 21.6% di
lavoratori handippacati fu vittima di mobbing in un’organizzazione no profit, mentre
soltanto il 4.4% dei lavoratori non handicappati percepiva di essere soggetto a molestia
morale.
Inoltre, le caratteristiche di personalità e alcuni pattern di comportamento della vittima potrebbero stimolare e/o elicitare comportamenti aggressivi e molesti da parte di
altri lavoratori. Ad esempio, uno studio norvegese, condotto presso 2200 lavoratori da
Einarsen et al. (1994), mise in luce che le vittime di mobbing erano caratterizzate da scarsa stima di sé e da scarsa competenza sociale e riportavano alti livelli di ansietà. Coyne,
Seigne e Randall (2000), in uno studio condotto in Irlanda su sessanta vittime di mobbing, notarono che queste rispetto a un gruppo di controllo erano più ansiose e sospettose, meno assertive e competitive, nonché in possesso di scarse risorse di coping per far
fronte alle situazioni più difficoltose. Da uno studio psichiatrico su 87 vittime emerse
che il 31% dei pazienti riportava una tendenza generale a evitare il conflitto, il 27%
aveva una scarsa stima di sé, anche prima che il mobbing iniziasse, il 23% riconosceva
una connaturata debolezza emotiva e aveva la tendenza a prendere tutto sempre troppo
seriamente (Lindemeier, 1996). Inoltre, un recente studio ha indagato il ruolo giocato
dallo humour nella percezione del mobbizzato (Burt, 2004): le vittime mostravano uno
scarso senso di humour, generando un atteggiamento negativo nei confronti dello
humour e del suo uso sul posto di lavoro. In altri studi caratteristiche individuali delle
vittime, come nevroticismo e self-efficacy, sono state associate al verificarsi del fenomeno (Zapf e Einarsen, 2003).
La ricerca che meglio ha indagato le caratteristiche della vittima di mobbing è, tuttavia, quella condotta da Matthiesen e Einarsen (2001) su 85 mobbizzati norvegesi.
Venne utilizzato il MMPI-2, uno degli inventari di personalità più impiegato sia per finalità di ricerca che per finalità diagnostiche-cliniche: quando le scale di cui è composto
106
La spiegazione del problema
l’inventario raggiungono un punteggio soglia, si desume che queste indichino un disturbo psicologico su cui si debba intervenire con un trattamento mirato. Matthiesen e
Einarsen (2001) trovarono punteggi alti nelle varie scale dell’inventario somministrato
alle vittime di mobbing. Esse risultarono prevalentemente sospettose, depresse, troppo
sensibili e avevano la tendenza a convertire lo stress in disturbi psicosomatici. Inoltre gli
Autori utilizzarono la procedura della cluster analysis, massimizzando le somiglianze
entro un gruppo e minimizzando le differenze degli altri gruppi, ed evidenziarono tre
gruppi di vittime: i mobbizzati gravi (32%), i mobbizzati comuni (25%) e i mobbizzati
depressi e delusi (43%). I mobbizzati gravi, rispetto alle altre vittime, riportavano alti livelli di ansia generalizzata, paura di specifici incidenti e conseguenze più gravi sul proprio
stato di salute. Tuttavia, i mobbizzati comuni riportarono una maggiore frequenza di
azioni mobbizzanti subite, rispetto ai mobbizzati gravi e ai mobbizzati depressi e delusi.
Matthiesen e Einarsen interpretarono questo risultato come un fattore di vulnerabilità di
uno specifico gruppo di vittime. Un recente studio (Glasø, Matthiesen, Nielsen e
Einarsen, in corso di stampa), condotto su 72 mobbizzati e su un parallelo e adeguato
gruppo di controllo, ha rilevato differenze significative fra vittime e non vittime in quattro delle cinque dimensioni di personalità più riconosciute nel panorama psicologico
(cfr. Big Five Questionnaire – BFQ; Caprara, Barbaranelli e Borgogni, 1993). I mobbizzati
tendevano a essere più nevrotici, meno amicali, meno coscienziosi e meno estroversi.
Infine, anche l’autostima, l’abilità di risolvere i conflitti, l’autoefficacia personale e le
risorse di coping (Einarsen et al., 1994) potrebbero contribuire all’evoluzione del mobbing a partire da un semplice conflitto. Zapf et al. (1996) e Zapf e Gross (2001) compararono le strategie di coping delle vittime la cui situazione mobbizzante era migliorata
con il tempo e di quelle la cui situazione era invece andata aggravandosi col tempo. Le
vittime di “successo” erano più capaci di riconoscere e agire comportamenti che potevano attenuare il conflitto piuttosto che intensificarlo, come invece facevano le vittime
che non riuscivano a migliorare. Da una recente ricerca sulla reazione mobbing e intelligenza emotiva condotta dagli scriventi (Giorgi, 2007) emerge come le vittime di mobbing non siano un gruppo omogeneo, ma siano divisibili in sottotipologie, in funzione
della diversa struttura e del diverso sviluppo della loro intelligenza emotiva. Tale risultato è in linea con lo studio di Matthiesen e Einarsen (2001). Pertanto, anche sul versante
delle emozioni oltre che su quello della personalità, diverse e variegate configurazioni
possono emergere nelle vittime di mobbing. Risulta, da una parte, un “gruppo di intelligenza emotiva normale”, che non presenta problematiche nella sfera emotiva, ma che
è, comunque, vittima di azioni mobbizzanti; dall’altra, emerge un gruppo con bassa
intelligenza emotiva, che risulta maggiormente esposto ad azioni di mobbing.
Considerazioni critiche in merito agli antecedenti individuali
Sintetizzando i risultati delle ricerche qui riportati, a seguito delle brevi esplicazioni
teoriche presentate, si può affermare che c’è una certa evidenza empirica del ruolo che
gli antecedenti individuali del mobber e/o del mobbizzato possono giocare nell’insorgere del mobbing. Tuttavia, sulla scia di Zapf e Einarsen (2003, 2005), è doveroso sottolineare come la personalità della vittima non possa rappresentare una spiegazione esaustiva
del mobbing nel suo complesso. Il fenomeno è multicausale, e gli antecedenti sono riscontrabili nell’aggressore, nell’ambiente di lavoro, nel sistema sociale e così via. Lo studio di
Matthiesen e Einarsen (2001) risulta quanto mai pertinente, perché, se da una parte
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107
Mobbing: virus organizzativo
viene messo in evidenza un gruppo di mobbizzati che presentano instabilità e disturbi
di natura psicotica o nevrotica, dall’altra emerge anche un gruppo con profili di personalità stabili e uno stato di salute non grave che, tuttavia, è vittima di azioni mobbizzanti. Quindi, non tutte le vittime di mobbing hanno scarse competenze sociali e/o un
disturbo di personalità. Si suggerisce pertanto di non sovrastimare l’eziologia della sindrome da mobbing come derivante dalla personalità della vittima, ma di integrare questo approccio andando alla ricerca anche, e soprattutto, di cause del mobbing nell’organizzazione del lavoro.
2. Le variabili organizzative antecedenti al fenomeno del mobbing
Questa prospettiva è stata inizialmente promossa da Leymann (1992), che considerava i fattori di personalità non rilevanti nello studio del mobbing e riconosceva nelle
condizioni di lavoro la causa primaria del fenomeno. L’Autore sosteneva che l’ambiente
di lavoro è caratterizzato da conflitti che possono scaturire da inottemperanze di norme
che regolano il comportamento delle persone. Tali conflitti rischiano di ingenerare processi di escalation che possono portare a episodi di mobbing se il management aziendale, disconoscendo il problema, non li gestisce, o li gestisce in modo approssimativo e
dunque inadeguato. Studi successivi hanno dimostrato che le vittime di mobbing percepiscono l’ambiente di lavoro in modo più negativo rispetto ai non mobbizzati e che gli
ambienti di lavoro più ostili sono associati alle forme di mobbing più spietate (Zapf et
al., 1996), supportando il modello teorico di Leymann. Verranno esaminate in dettaglio
quattro specifiche aree chiave del contesto organizzativo:
•
•
•
•
cultura e clima organizzativo;
leadership;
organizzazione del lavoro e job design;
dimensioni di motivazione, di potere e di cambiamento nell’ambiente di lavoro.
La cultura e il clima organizzativo
La cultura organizzativa rappresenta il filtro attraverso cui viene assegnato un significato alla realtà lavorativa. Quando un nuovo arrivato conosce l’organizzazione in cui è
entrato a far parte, capisce il significato delle interazioni, degli eventi e di quanto in essa
accade. Allo stesso tempo si costruisce un’identità sul posto di lavoro, integrandosi nel
suo gruppo e capendo il clima che lo contraddistingue.
In alcune organizzazioni il mobbing può essere considerato parte della cultura
aziendale. Organizzazioni caratterizzate da estrema spinta al conformismo e pressione di
gruppo, come ad esempio prigioni, ospedali, forze armate, sembrano essere particolarmente soggette al verificarsi di episodi di mobbing facenti parte dei processi di socializzazione (Ashforth, 1994). Archer (1999) ha messo in evidenza come il mobbing in un setting paramilitare possa diventare tradizione ed essere istituzionalizzato, facendo parte
dei processi di socializzazione. Scherzi umilianti o insulti possono, talvolta, essere considerati parte di processi di socializzazione dei nuovi entrati, ma chi ne è vittima, se per
qualche ragione non può difendersi e non li considera giochi, può sentirsi colpito da
azioni di mobbing.
108
La spiegazione del problema
Einarsen e Raknes (1997) hanno messo in luce come gli scherzi umilianti erano i più
diffusi comportamenti negativi fra lavoratori uomini. In alcuni casi il mobbing, sotto
forma di humour e scherzi, può anche essere usato per punire i colleghi che non si
conformano alle norme condivise dal gruppo di lavoro. Il mobbing è, infatti, particolarmente diffuso in quelle organizzazioni in cui i soggetti sentono di avere il supporto, o
almeno l’implicita legittimazione, dei pari e dei superiori a esercitare comportamenti
negativi (Einarsen, 2000). Tale fenomeno può, quindi, essere considerato non solo parte
della cultura aziendale, ma anche una forma di legittimizzazione indiretta del management aziendale, specie nel momento in cui non ci siano politiche di prevenzione e di
intervento sul mobbing o non siano stabiliti interventi di punizione per i mobber o di
recupero per i mobbizzati. Già Brodsky nel 1976 si riferiva a quel “senso di legittimazione dello harassment”, suggerendo che lo harassment sul lavoro non può non avvenire
senza l’accondiscendenza diretta o indiretta del management.
Anche nel clima organizzativo è possibile ricercare possibili radici del mobbing. Il
clima organizzativo fa riferimento alla descrizione delle pratiche e procedure organizzative. Gli individui formano, controllano, trasformano le loro percezioni degli eventi
alla luce delle interazioni che hanno con altri nell’ambiente organizzativo. L’analisi del
clima organizzativo fornisce un attento esame dei vissuti relativi alla struttura organizzativa, ai rapporti, alle relazioni e alle attività che si concretizzano nell’appartenenza al
contesto organizzativo (Majer, Marcato e D’Amato, 2002). Alcuni studi (Einarsen et al.,
1994; Vartia, 1996) hanno mostrato come il mobbing sia legato a una percezione negativa del clima organizzativo: ad esempio, basso livello di cooperazione e alto livello di
competizione interna. Anche in uno studio italiano sulla qualità della vita organizzativa e sul mobbing (Depolo, 2003), il clima organizzativo, nelle sue dimensioni di team,
comunicazione, leadership, libertà, appare strutturalmente connesso alla presenza di
azioni mobbizzanti. Uno studio successivo di Giorgi (in corso di stampa) ha approfondito tale relazione mettendo in luce un elevato grado di predizione del clima organizzativo sul mobbing.
La leadership
La maggior parte degli studi sulla leadership ha approfondito gli aspetti della personalità, delle competenze, degli stili del leader “eccellente” in grado di sviluppare le skill
dei propri collaboratori e dell’organizzazione nel suo complesso. La leadership negativa,
invece, è stata considerata come inefficace e non è stata avvertita la necessità di rimarcarne i possibili effetti disfunzionali, sia a livello individuale sia a livello organizzativo,
che la stessa può provocare. Recentemente Einarsen, Skogstad, Løseth e Aasland (2002)
hanno dato rilevanza a una tipologia di comando da loro definita “leadership distruttiva”, rimarcando l’importanza di questo nuovo approccio di studio che va a colmare una
lacuna del management, e dall’altra parte sembra estremamente connesso con il fenomeno del mobbing.
La leadership distruttiva è il comportamento sistematico e ripetuto di un leader,
supervisore o manager che viola i legittimi interessi dell’organizzazione danneggiando o sabotando gli obiettivi, i compiti, le risorse e l’efficienza dell’organizzazione e/o la motivazione, il benessere o la soddisfazione lavorativa dei suoi subordinati (Einarsen et al., 2002, p. 55).
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109
Mobbing: virus organizzativo
La relazione mobbing-leadership è evidente non solo nel caso di leadership distruttiva; anche uno stile di leadership troppo autocratico e uno stile troppo autoritario di
gestione dei conflitti sono caratteristiche associate al verificarsi del mobbing (Vartia,
1996). Queste condizioni possono creare un clima oppressivo nell’organizzazione, senza
spazio per le critiche e le lamentele, e contribuire pertanto allo sviluppo di mobbing di
tipo verticale.
Alcuni stili di leadership inducono, invece, a un mobbing di tipo orizzontale.
Ricerche recenti hanno dimostrato come uno stile di leadership troppo laissez-faire sia
associato a comportamenti di mobbing (Hoel e Cooper, 2000): la riluttanza dei superiori a riconoscere e a intervenire negli episodi di mobbing può dare l’impressione agli
aggressori che il mobbing sia tollerato dall’organizzazione. Si può ipotizzare che esista
una relazione curvilinea (cfr. fig. 9-1) tra mobbing e stile di leadership, nel senso che il
mobbing può risultare particolarmente frequente quando lo stile di management è troppo permissivo o viceversa troppo autoritario (Hoel e Salin, 2003).
All’interno delle organizzazioni nuovi o diversi comportamenti possono fungere da
modelli di riferimento, se la cultura e gli stili gestionali e di leadership prevalenti lo consentono. Qualora il sistema rigetti le diversità di stile e di comportamenti, può accadere
che i leader, che non trovano terreno fertile per esprimersi, siano costretti a cercarlo
altrove; oppure può succedere che il sistema li trasformi in capri espiatori dei malfunzionamenti organizzativi, non riconoscendoli più come leader e relegandoli al ruolo di
“spettri” nelle organizzazioni, con il rischio di dar vita a una forma di mobbing di tipo
ascendente.
Figura 9-1
Mobbing e stili di leadership
Alta
Probabilità
di mobbing
Bassa
Stile di leadership
laissez-faire
Modificato da: Giorgi e Majer (2004).
110
Stile di leadership
autocratico
La spiegazione del problema
Nel contesto italiano una ricerca di Depolo (2003) evidenzia come uno stile di leadership distruttiva possa essere considerato un potenziale precursore del processo di
mobbing: in essa sono state prese in considerazione erosione, incertezza e sfiducia come
dimensioni relative al comportamento del leader e si è trovato un legame fra queste e il
rischio percepito di mobbing.
L’organizzazione del lavoro e il job design
Il mobbing è stato spesso associato a un ambiente di lavoro stressogeno (Einarsen
et al., 1994). Per spiegare questa relazione, vari aspetti dell’organizzazione del lavoro e
del job design sono stati indagati nella letteratura di ricerca a partire dagli anni Novanta.
I risultati più significativi individuano nell’insoddisfazione e frustrazione per la situazione lavorativa, oltre che in alcune caratteristiche del job design, le condizioni di lavoro
primarie che possono incrementare il rischio di conflitti organizzativi che, se non gestiti correttamente, possono dare vita al mobbing.
Due aspetti del job design che sono stati ampiamente indagati in relazione al mobbing e ad altre forme di comportamenti ostili sul lavoro sono il “conflitto di ruolo” e
“l’ambiguità di ruolo” (Hoel e Salin, 2003). In particolare il conflitto di ruolo, che si riferisce alle percezioni contraddittorie delle aspettative, dei valori e delle richieste degli
individui nei confronti del proprio lavoro, veniva vissuto in misura superiore dalle vittime e dai testimoni di mobbing rispetto ai non mobbizzati (Einarsen et al., 1994). Anche
l’ambiguità di ruolo, ossia il grado di incertezza percepito dall’individuo nei confronti
dei doveri e delle aspettative in relazione al proprio lavoro, è risultata avere effetto diretto sulla percezione di mobbing (Notelaers et al., 2004).
Il mobbing sembra quindi attecchire in organizzazioni in cui gli individui percepiscono la situazione lavorativa come non chiara e non prevedibile. Vartia (1996), facendo riferimento ad ambienti caratterizzati da richieste lavorative gravose, ambiguità, conflitto di ruolo e scarso supporto sociale, ha messo in luce come le vittime di mobbing
abbiano meno chiarezza degli obiettivi e dei compiti rispetto ai non mobbizzati. Per altro
nella ricerca di Depolo (2003), il clima organizzativo, nella sua dimensione di chiarezza
di ruolo, appare non legato al rischio percepito di mobbing e in molti casi non correlato con la percezione di avere subito azioni di mobbing. Questo risultato rende meno evidente la relazione tra mobbing e role stress (a sua volta specificato nelle due dimensioni
di ambiguità di ruolo e conflitto di ruolo), anche se i numerosi studi che hanno messo
in luce un legame consistente tra il role stress e il mobbing inducono a ricercare ulteriori conferme e a prendere il risultato della ricerca con cautela. Infatti in uno studio sullo
stress lavorativo, condotto da Notelaers et al. (2004) presso 4000 lavoratori, l’ambiguità
e il conflitto di ruolo sono risultati i fattori più consistenti come predittori del mobbing.
Anche dal punto di vista teorico il fenomeno del mobbing è un processo che si sviluppa
gradualmente nel tempo a partire da una condizione di conflitto non risolta. Situazioni
di ambiguità e poca chiarezza del proprio ruolo sono fattori chiave per l’evolversi di un
normale conflitto organizzativo in episodi di mobbing. Più in dettaglio, tra i fattori organizzativi associati al mobbing si possono individuare la pressione sul lavoro (Einarsen et
al., 1994) e il time pressure (Zapf et al., 1996).
Inoltre, anche un’organizzazione del lavoro che “costringe” al lavoro di gruppo
senza favorire la partecipazione e la fiducia ma stimolando la competizione interna per
il conseguimento di benefit e premi può essere considerata un antecedente del mobbing
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111
Mobbing: virus organizzativo
(Zapf et al., 1996). Tale dato è stato confermato da una ricerca recente in cui le persone
che lavoravano in team denunciavano una quantità maggiore di critiche/ostilità subite
rispetto a chi lavorava da solo (Giorgi et al., 2004). Il lavoro in team presuppone un rapporto più stretto tra i dipendenti e, di conseguenza, talvolta critiche e ostilità possono
essere percepite come più frequenti.
Infine, si potrebbe anche ipotizzare che organizzazioni in cui è presente poca tensione per il risultato (ad esempio, alcune pubbliche amministrazioni ma non solo), potrebbero essere particolarmente a rischio di mobbing. Già nel 1987 Thylefors sosteneva che il
mobbing poteva essere il risultato della monotonia e della noia. Alla luce delle riflessioni
argomentate, il mobbing potrebbe essere indotto da un’organizzazione del lavoro in cui il
livello di tensione verso il risultato è troppo alto o troppo basso (cfr. fig. 9-2).
Le dimensioni di motivazione, di potere e di cambiamento nell’ambiente di lavoro
Salin (2003), in riferimento al framework di Boddewyn (1985), ha elaborato un
modello teorico, che tiene conto della complessità e multicausalità del costrutto, in cui
gli antecedenti organizzativi del mobbing sono divisi in tre gruppi: dimensioni di motivazione, dimensioni di potere e dimensioni di cambiamento nell’ambiente di lavoro. Le
dimensioni di potere, cioè l’asimmetria di potere tra le parti, la bassa percezione dei costi
per l’aggressore e la dissatisfaction/frustrazione per l’ambiente di lavoro, sono descritte
come gli elementi condicio sine qua non per il verificarsi del mobbing. Le dimensioni di
Figura 9-2
Probabilità di mobbing e organizzazione del lavoro
Alta
Probabilità
di mobbing
Bassa
Bassa
Modificato da: Giorgi e Majer (2004).
112
Tensione
Alta
La spiegazione del problema
motivazione, ovvero la competizione interna, il sistema di ricompensa e benefit, la burocrazia e la difficoltà di licenziamento degli impiegati, spiegano come possa l’aggressore
ritenere razionalmente conveniente mobbizzare la vittima. Le dimensioni di cambiamento, cioè le ristrutturazioni, le crisi o altri cambiamenti organizzativi, il cambiamento nel management o della composizione del gruppo di lavoro, evidenziano le circostanze in cui un’organizzazione può diventare a rischio di mobbing.
Secondo il modello di Salin, il mobbing è il risultato dell’interazione nell’ambiente
di lavoro delle tre dimensioni di potere, motivazione e cambiamento, o almeno di due
di esse. Le dimensioni di potere sono condizioni necessarie, ma non sufficienti, per il
verificarsi del fenomeno, poiché rappresentano la lente attraverso la quale viene compreso se le dimensioni di motivazione e di cambiamento possono portare a comportamenti e azioni negative sul lavoro. Il modello non si prefigge di spiegare in modo esaustivo gli antecedenti organizzativi del mobbing, ma vuole suggerire riflessioni teoriche e
linee di azioni operative sui meccanismi coinvolti nel fenomeno emerse dalla letteratura sui costrutti in oggetto. Riguardo alla prima funzione, è dimostrato come lo stesso
Autore ritenga che il modello possa venire in aiuto per spiegare un certo numero di
costrutti raramente studiati in interazione fra loro. Dal punto di vista applicativo, invece, si potrebbe pensare di intervenire sia sulle dimensioni costituenti il modello sia sulle
loro interazioni.
Bisogna considerare come il mobbing avvenga anche in assenza delle dimensioni di
potere specificate da Salin, perché, ad esempio, l’asimmetria di potere, che è uno dei criteri basilari per l’analisi differenziale e il riconoscimento del mobbing, può anche essere
indotta da forme di dipendenza nei confronti dell’aggressore di natura diversa da quella
organizzativa (dovuta a differenze di potere formale e/o da caratteristiche contestuali e
situazionali). Tale dipendenza risulta essere, infatti, anche di natura fisica (forza fisica) o
psicologica (personalità, capacità cognitive, stima di sé). Inoltre, numerosi studi empirici, che si sono focalizzati solo sulle dimensioni di motivazione o di cambiamento, hanno
evidenziato risultati significativi che dimostrano il legame con il mobbing, anche quando tali dimensioni sono state prese in esame singolarmente. Tale assunzione è stata
recentemente confermata da uno studio norvegese (Skogstad, Matthiesen e Einarsen,
2007) che aveva l’obiettivo di indagare la relazione tra il cambiamento organizzativo, il
conflitto interpersonale e il mobbing (cfr. fig. 9-3).
I risultati di tale studio hanno evidenziato che il cambiamento organizzativo può
avere sia un impatto diretto sul mobbing, sia essere mediato dal conflitto sulla leadership e/o dal conflitto con i colleghi, i quali possono dare un contributo significativo per
comprendere se il cambiamento organizzativo può portare ad azioni mobbizzanti.
Lo studio delle dimensioni di cambiamento delle organizzazioni, come ristrutturazioni organizzative, downsizing, reeingeniring, cambiamenti del management aziendale e
del gruppo di lavoro, in relazione a ostruzionismo e comportamenti negativi sul lavoro
(Hoel e Cooper, 2000) è stato recentemente approfondito. Downsizing e ristrutturazioni
organizzative sono mutamenti avvertiti come molto stressanti e pressanti; essi generano
insicurezza, incremento della competizione interna, del carico di lavoro, e creano un terreno fertile per azioni mobbizzanti (cfr. fig. 9-4) legate a benefit di natura economica,
dati dalla potenziale “eliminazione” di colleghi diventati competitor, oppure legate a
benefit di natura sociale, in termini di incremento di status e posizione sociale, indotte
dalla funzione “correttiva” che qualche lavoratore potrebbe sentirsi investito a esercitare ai fini di ristabilire ordine e giustizia nell’organizzazione (Salin, 2003).
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113
Mobbing: virus organizzativo
Figura 9-3
Cambiamento organizzativo e mobbing
Conflitto
sulla leadership
Cambiamento
organizzativo
Mobbing
sulla persona
Mobbing
Conflitto
con i colleghi
Mobbing
sulla mansione
Anche il cambiamento del gruppo di lavoro e del management aziendale sono concause determinanti l’insorgenza di alte probabilità di mobbing (Hoel e Cooper, 2000). Il
lavoro di Baron e Neuman (1996) evidenzia come gruppi di lavoro, che a seguito di
mutamenti nella composizione dei loro membri presentavano una forte diversità di
genere, età ed etnia, sono fortemente propensi a sviluppare azioni aggressive. O’Moore,
Seigne, McGuire e Smith (1998) raccolgono le testimonianze delle vittime di mobbing i
cui due terzi affermano che la vessazione è iniziata dopo la promozione dell’aggressore
o l’arrivo di un nuovo manager.
Considerazioni critiche in merito agli antecedenti organizzativi
In questo capitolo è stato approfondito lo studio di variabili organizzative che, considerate singolarmente o in interazione tra loro, possono favorire comportamenti vessatori sul lavoro. I risultati convergenti delle ricerche discusse mettono in evidenza come
sia proprio l’appraisal delle condizioni organizzative a portare all’insorgenza di comportamenti mobbizzanti. Il mobbing risulta causato, o concausato, in modo prevalente, da
specifiche e particolari condizioni dell’attività e dell’organizzazione del lavoro. Tali riflessioni, sulla scia delle prime ricerche di Leymann, confermano che le condizioni di lavoro sono la causa primaria del fenomeno. Sarà necessario, pertanto, acquisire la consapevolezza da parte di quanti si occupano del fenomeno che il mobbing, in quanto processo organizzativo, trova le sue radici nella cultura, nel clima, nella leadership, nell’organizzazione del lavoro e nel job design, nonché nelle dimensioni di motivazione, di pote-
114
La spiegazione del problema
Figura 9-4
Il modello delle dimensioni di potere, di motivazione e di cambiamento
nell’ambiente di lavoro, come antecedenti al mobbing,
basato sul framework di Salin
DIMENSIONI DI CAMBIAMENTO
DIMENSIONI DI MOTIVAZIONE
Ristrutturazione e crisi
Altri cambiamenti organizzativi
Cambiamento nel management/nella
composizione del gruppo di lavoro
Competizione interna
Sistema di ricompensa e benefit
Burocrazia e difficoltà di licenziamento
degli impiegati
DIMENSIONI DI POTERE
Asimmetria di potere tra le parti
Bassa percezione dei costi
Dissatisfaction e frustrazione
MOBBING POSSIBILE
E/O PIÙ PROBABILE
Modificato da: Giorgi e Majer (2004).
re e di cambiamento dell’ambiente di lavoro. Ed è proprio attraverso l’analisi di queste
caratteristiche chiave che si può intervenire con azioni ad hoc, atte a contrastare il fenomeno sul suo nascere e a migliorare la qualità della vita dei lavoratori. Gli Autori ritengono, infine, che l’avere individuato alcune delle molteplici variabili organizzative antecedenti al mobbing possa aiutare a individuare i fattori di rischio nelle organizzazioni e
a prevenire, di conseguenza, il fenomeno.
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115
CAPITOLO DECIMO
L’evidenza
1. La diffusione del mobbing
La diffusione del mobbing all’interno delle organizzazioni, ma anche come presenza a livello nazionale, è stata misurata in diversi studi, soprattutto in Europa e negli Stati
Uniti. I metodi utilizzati sono stati vari. Alcuni studi hanno utilizzato le già descritte
scale di valutazione/percezione soggettiva del mobbing (Einarsen e Skogstad, 1996; Hoel,
Faragher e Cooper, 2004), sulla scia degli studi del bullismo nelle scuole, ovvero hanno
presentato ai partecipanti una definizione precisa del concetto di mobbing e hanno chiesto loro se fossero o meno stati esposti al fenomeno. Il fenomeno è stato accertato anche
ponendo la semplice singola domanda: “Sei stato vittima di mobbing/bullying entro …
[entro un certo periodo di tempo, ad esempio dodici mesi]?”. Tale metodologia di misura è stata impiegata nell’indagine dell’European Foundation for the Improvement of
Living and Working Conditions.
In altri studi (ad esempio, Mikkelsen e Einarsen, 2001; Salin, 2001), invece, sulle
orme dell’approccio di Leymann (1992) è stata data ai rispondenti una lista di azioni
negative potenzialmente vessanti per la persona, come nel NAQ-R, già menzionato, o
nel LIPT, non riferendosi espressamente al concetto di mobbing né chiedendo direttamente se ritenessero di essere stati sottoposti a mobbing. Per essere classificati come
mobbizzati, i rispondenti dovevano avere subito un’azione negativa almeno una volta
alla settimana, per un periodo superiore agli ultimi sei mesi. A questo metodo di identificazione delle vittime, la letteratura internazionale sul mobbing ha dato il nome di
criterio di Leymann. È stato dimostrato che quest’ultimo metodo fornisce una stima più
oggettiva della prevalenza del mobbing (Giorgi e Majer, 2008; Mikkelsen e Einarsen,
2001; Nielsen et al., 2008), mentre le scale di percezione di mobbing prendono più in
considerazione l’esperienza soggettiva e la vulnerabilità della vittima. In sintesi, gli
studiosi più insigni a livello internazionale concordano nella combinazione delle scale
di valutazione/percezione soggettiva del mobbing e dei questionari di stima (Einarsen
116
L’evidenza
et al., 2003; Mikkelsen e Einarsen, 2001) per una misura più puntuale e scientifica del
costrutto.
In Italia per misurare il mobbing nelle organizzazioni sono stati utilizzati soprattutto il QUAM 1.5. (Argentero et al., 2004), il Negative Acts Questionnaire (NAQ; Depolo,
2003), il NAQ-R Italia (Giorgi e Majer, 2008) e il LIPT (Leymann, 1990, 1996) adattato in
Italia da Ege (1998). Quest’ultimo, tuttavia, ha mostrato forti incertezze psicometriche
nella versione italiana, tanto che Ceresia e Lupo (2003), in un recente lavoro, hanno eliminato molti item per aumentare la validità dello strumento, in quanto per una corretta analisi del fenomeno occorre impiegare gli strumenti più validi e utilizzarli nel modo
più corretto possibile. Bisogna, inoltre, sottolineare che nella misura della
prevalenza/diffusione del mobbing i questionari sono stati per lo più usati con criteri di
interpretazione di punteggi poco definiti e non aderenti a quelli stabiliti dalla letteratura di riferimento (ad esempio, il criterio di Leymann menzionato sopra; tuttavia, anche
altri metodi di identificazione delle vittime si sono affinati con il progredire della ricerca, come Asakura, Ando e Giorgi, 2008; Einarsen et al., 2003; Giorgi, 2007; Giorgi e
Majer, 2008; Mikkelsen e Einarsen, 2001; Nielsen et al., 2008), e di conseguenza ciò ha
comportato un limitato successo e un probabile fallimento nel valutare correttamente la
diffusione del mobbing nelle organizzazioni del nostro Paese, proprio a causa della difficoltà/impossibilità di confrontare i dati, raccolti con metodologie e strumenti parzialmente o totalmente diversi.
Inoltre un altro bias che riguarda la maggior parte dei questionari italiani di misura
del mobbing, anche tra quelli elencati, è lo specifico riferimento al termine mobbing,
addirittura nel titolo, anche se il significato di tale marker potrebbe essere ancora sconosciuto a molti lavoratori. Infatti, uno studio dell’istituto italiano IREF (2004), condotto presso 3000 lavoratori italiani, ha evidenziato che il 70.4% del campione interpellato
dichiara di non conoscere il significato della parola mobbing. È evidente, perciò, quanto i rispondenti possano trovarsi in difficoltà a rispondere se non sanno con precisione
quale sia il significato della parola mobbing. Ne consegue che la maggior parte degli
studi italiani, che non ha preso in considerazione come l’informazione circa il significato e la consapevolezza del fenomeno avesse potuto influenzarne la misurazione, sia poco
attendibile, proprio perché è stata viziata da questo bias.
Il mobbing negli ultimi anni si è diffuso a macchia d’olio, e se da una parte ciò ha
comportato un aumento della sensibilità e della consapevolezza del fenomeno, dall’altra, spesso le informazioni e i dati sono stati comunicati in modo più divulgativo che
scientifico, favorendo una conoscenza della tematica erronea e/o parziale (cfr. capitolo
primo). Infatti, enti, organizzazioni, istituzioni e associazioni che si stanno “interessando” al fenomeno mobbing in Italia lo fanno spesso in modo disorganico, settoriale
dando a volte più spazio al sensazionalismo e ai, pur drammatici, casi singoli. Lo scollamento fra le varie iniziative contribuisce a far sì che le informazioni raccolte da ciascuno rimangano, spesso, patrimonio “solo” dell’istituzione che ha promosso l’indagine e/o
che abbiano una scarsa divulgazione e presentino un’estrema difficoltà ad essere utilizzate in forma aggregata.
È, viceversa, importante favorire una conoscenza corretta del delicato e critico fenomeno del mobbing, affinché non sorgano fraintendimenti, come è accaduto in Norvegia
quando, nei primi anni Ottanta, si cominciò a prendere atto del fenomeno e si scoprì
che con il termine mobbing venivano sottintesi e designati comportamenti anche molto
diversi tra di loro, e spesso il tutto era trattato in modo ironico, con conseguente mini-
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Mobbing: virus organizzativo
mizzazione di tali episodi. Il fatto di non avere, o avere, una scarsa informazione sul
mobbing e/o di sottovalutare la serietà del problema potrebbe, perciò, distorcere il processo di riconoscimento da parte di una vittima, creando una situazione in cui il bersaglio si colpevolizza per le difficoltà che incontra perché non sa cosa è il mobbing o perché il mobbing sembra tollerato dalla cultura e dall’organizzazione. Anche gli spettatori
di mobbing, per altro, non possono aiutare la vittima se non sono consapevoli del fenomeno. In altre parole, è possibile affermare in linea con Zapf et al. (2003) e Hoel, Rayner
e Cooper (1999) che la misura del mobbing è influenzata dalla comprensione generale
di cosa è il mobbing.
Tuttavia, se per misurare il mobbing nelle organizzazioni dei piccoli passi sono stati
fatti (Giorgi e Majer, 2008; Giorgi et al., 2006), per ottenere dati sul fenomeno a livello
nazionale non si registrano ancora ad oggi indagini su campioni che possono essere considerati rappresentativi. Fa eccezione lo studio dell’IREF (2004), che però ha utilizzato per
raccogliere i dati l’intervista telefonica. Tale metodo di analisi dell’esperienza soggettiva
di mobbing risulta quantomeno opinabile, e inoltre appaiono poco chiari sia i criteri che
sono stati usati per stabilire se un individuo risultasse o meno vittima, sia i modelli teorici seguiti come piattaforma per l’indagine.
Mentre in molti Paesi europei sembra esserci una condivisione della piattaforma
teorica e dell’impianto metodologico per la misura della diffusione del mobbing, in Italia
lo scarso utilizzo dell’approccio psicologico (della psicologia del lavoro e delle organizzazioni) ha generato notevoli difficoltà nella realizzazione di un confronto con le ricerche condotte in altre nazioni, che invece, come anche esortato dal Parlamento Europeo,
sarebbe servito per un costruttivo scambio di esperienze.
Inoltre, un altro fattore che ha contribuito a gettare ombra sugli studi della diffusione del mobbing è quello che le ricerche italiane, promosse da famosi istituti (ad esempio, INAIL, ISPESL ecc.), sono state svolte perlopiù su campioni di “sole vittime” o di persone che si percepivano tali e che avevano avuto il coraggio di denunciare la situazione
e/o comunque di rivolgersi a degli specialisti. Molte sono, come già detto, le persone che
non hanno la forza, né la possibilità, di chiedere un supporto adeguato per uscire dalla
spirale del mobbing, e ancora troppe sono anche le persone che, non conoscendo tale
fenomeno, subiscono azioni vessatorie e lesive della loro dignità senza saper trovare un
perché, e pertanto spesso tendono anche ad autocolpevolizzarsi e a rimanere paralizzate
davanti al proprio aggressore senza denunciare la violenza psicologica in atto.
Prendendo in considerazione anche soltanto le “vittime consapevoli”, appaiono troppe
le voci che vengono rese mute, e pertanto un’analisi più capillare non potrebbe che fornire una quadro più preciso di quanto il fenomeno sia diffuso nel nostro Paese, andando a esplorare anche la parte più sommersa dello stesso.
Non è mai semplice fornire numeri attendibili sulla diffusione del mobbing (Zapf et
al., 2003), e tanto più in Italia dove lo scarso utilizzo dell’approccio psicologico (della
psicologia del lavoro e delle organizzazioni) ha generato notevoli difficoltà nella realizzazione di un confronto con le ricerche condotte in altri Paesi europei. Inoltre, troppo
poche sono le pubblicazioni scientifiche italiane che possono costituire una base solida
da cui poter sviluppare ulteriori ricerche e conoscenze atte a prevenire e contrastare il
fenomeno. Tuttavia, vengono qui riportati alcuni risultati di ricerche internazionali e
nazionali per la misura della diffusione del mobbing, condotte da psicologi del lavoro e
delle organizzazioni, che si ritiene possano costituire un primo “serio” e scientifico
punto di riferimento in questa direzione.
118
L’evidenza
2. I risultati della diffusione del mobbing a livello internazionale
Quando il mobbing viene misurato secondo una precisa definizione, in cui i soggetti rispondenti devono etichettarsi come vittime o non vittime, il numero dei mobbizzati risulta inferiore al 5% della popolazione (Di Martino et al., 2003). Usando invece questionari di stima di mobbing, come il NAQ-R, e considerando il soggetto vittima
di mobbing quando risponde ad almeno un item “almeno una volta alla settimana”, e
tale comportamento vessatorio è subito da almeno sei mesi, è stata messa in luce una
prevalenza di mobbing fra il 3% e il 7% (Zapf et al., 2003), anche se in alcuni studi tale
risultato è stato decisamente più elevato (Niedl, 1996; Yildiz, Tuzunturk e Giorgi, 2008).
In altri studi è stato invece richiesto in modo diretto: “Sei stato vittima di mobbing
negli ultimi sei mesi?” (Rayner, 1997). Questa strategia di misura, applicata soprattutto
in Nord Europa, porta di solito numeri estremamente alti di mobbing, con un range del
10-25%, perché le persone possono ritenere di essere mobbizzate anche quando sono
vittime di stress organizzativo o di altre forme di comportamenti negativi. Questa strategia potrebbe creare ulteriori bias in Paesi dove tale fenomeno è ancora poco conosciuto, o dove non c’è sufficiente consapevolezza fra le vittime per riconoscersi in una
etichetta linguistica.
La misura della prevalenza del mobbing ha assunto così forte variabilità, con percentuali che vanno dall’1% al 50%, a seconda del disegno della ricerca e degli strumenti utilizzati, della definizione adottata, del modello teorico di riferimento, del tipo di
lavoro o del settore e della nazione (Di Martino et al., 2003). Da uno studio norvegese
condotto su 745 infermiere risulta che il 3% del campione era vittima di mobbing
(Einarsen, Matthiesen e Skogstad, 1998), mentre un altro studio condotto sempre in
Norvegia presso 7118 lavoratori dimostrò che l’8.6% del campione era stato soggetto a
mobbing negli ultimi sei mesi (Einarsen e Skogstad, 1996).
Leymann e Tallgren (1989), con riferimento a una definizione di mobbing che prevedeva l’esposizione anche a uno solo dei 45 comportamenti mobbizzanti almeno una
volta alla settimana per almeno sei mesi, misero in luce che il 4% del campione di un’azienda svedese poteva ritenersi vittima. Ancora, Quine (1999) in uno studio condotto su
1100 impiegati del National Health Service rilevò un tasso di incidenza del mobbing del
38%. O’Moore (2000, in Di Martino et al., 2003) in un campione nazionale irlandese di
1009 persone trovò un tasso di diffusione del 17%, mentre uno studio rappresentativo
del campione nazionale spagnolo ha riportato un tasso di diffusione del 16% (Piñuel y
Zabala, 2002, citato in Di Martino et al., 2003). Secondo studi britannici il 30% dei lavoratori è soggetto a comportamenti ostili almeno una volta alla settimana e per un periodo superiore ai sei mesi e la metà di questi si riconosce/etichetta come vittima (Rayner e
Keashly, 2005).
Queste percentuali di diffusione del fenomeno sono estremamente alte e, se il mobbing esiste a questi livelli, ci si dovrebbe chiedere come un’organizzazione possa andare
avanti con queste forme di stress sociale (Hoel et al., 2004). Dall’altra parte, sono stati
riscontrati anche tassi di incidenza inferiori. Come esposto sopra, in uno studio condotto in un gruppo rappresentativo di lavoratori svedesi (n = 2438) Leymann ha trovato un
tasso piuttosto basso, meno del 4%. Un campione rappresentativo tedesco (n = 1317) ha
mostrato una diffusione fra il 3% e il 6%.
Numerosi studi si sono occupati, inoltre, della durata del mobbing per le vittime.
Ampi campioni rappresentativi della popolazione svedese (Leymann, 1996) e norvegese
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Mobbing: virus organizzativo
(Einarsen e Skogstad, 1996) hanno evidenziato una durata tra i 15 e i 18 mesi (Zapf et
al., 2003). Uno studio inglese ha invece messo in luce che il 39% delle vittime era stato
mobbizzato per più di due anni (Hoel e Cooper, 2000) e un altro studio ha constatato
che il 67% del campione era stato mobbizzato per più di un anno (Hoel, Cooper e
Faragher, 2001). Da una ricerca finlandese risulta una media di durata dell’azione di
mobbing di 2,7 anni (Salin, 2001). In studi condotti su campioni di vittime conclamate
che avevano riportato gravi disturbi, la durata media era molto più alta: circa tre anni
(Zapf et al., 2003). In conclusione, tutti gli studi esaminati rimarcano che il mobbing
non è un conflitto di breve durata, ma un lungo processo che si protrae normalmente
per più di un anno.
In riferimento alla probabilità di essere esposti al mobbing, sembrano esistere differenze di genere: le vittime risultano essere un terzo uomini e due terzi donne (Zapf
et al., 2003). Tuttavia in studi scandinavi (ad esempio, Einarsen et al., 1994) e inglesi
(ad esempio, Hoel e Cooper, 2000) tali differenze risultano meno rilevanti. È comunque probabile una relazione tra socializzazione femminile e il ruolo della vittima, in
quanto le donne vengono educate ad essere meno aggressive e tendono ad essere più
accondiscendi/tolleranti degli uomini (Bjorkqvist et al., 1994). Di conseguenza, esse
potrebbero essere meno capaci degli uomini di difendersi quando inizia il mobbing e
poiché, per varie ragioni, ricoprono nelle organizzazioni posizioni di potere inferiore
rispetto agli uomini, è più probabile che si trovino in una condizione di asimmetria di
potere tra le parti, criterio basilare caratterizzante situazioni di mobbing. Risulta, inoltre, che gli uomini tendano a mobbizzare indistintamente uomini e donne sul posto
di lavoro, mentre le donne tendenzialmente sembrano mobbizzare le altre donne. In
uno studio norvegese condotto su 392 vittime (Einarsen e Skogstad, 1996), il 70%
degli uomini era mobbizzato da un altro uomo, mentre soltanto il 10% era mobbizzato da una donna. Il rimanente 20% era mobbizzato da un uomo e una donna. In uno
studio di Zapf (1999) condotto su 209 vittime, il 26% dei mobber era uomini, l’11% era
donne e il 63% era uomini e donne assieme. In uno studio di Rayner (1997) due terzi
dei mobber erano uomini.
Questo risultato potrebbe essere spiegato riferendosi alle diverse posizioni di potere
degli uomini e delle donne all’interno delle organizzazioni: gli uomini sembrano essere
il genere più rappresentato fra i mobber, ma dato più certo è che sono i leader quelli che
maggiormente incorrono nel mettere in atto il mobbing (Hoel et al., 2001; Rayner,
1997), come rilevato anche da un recente studio (Nielsen, Matthiesen e Einarsen, 2005).
Circa l’80% dei membri di due associazioni di vittime di mobbing era vessato dai loro
leader. Tale risultato può essere spiegato sulla base della relazione di potere superiore-collaboratore anche dal punto di vista emotivo, ovvero se il leader utilizza uno stile di
management appropriato, ma al contempo si comporta in modo rude ed è insensibile
nei confronti del collaboratore, è più probabile che quest’ultimo si senta umiliato e soggetto a mobbing più di quanto si sentirebbe qualora ci fossero conflitti fra colleghi
appartenenti allo stesso livello gerarchico.
Per quanto riguarda i settori maggiormente a rischio, Leymann (1993, 1996) mise
in luce come il mobbing fosse particolarmente diffuso (rispetto alla media degli altri settori) nell’area dell’istruzione (2 a 1) e dell’amministrazione (1.5 a 1), mentre lo era meno
nelle aree del commercio, produzione e salute. In altri studi Leymann evidenziò invece
un alto rischio nell’area della salute; tale risultato fu confermato successivamente da
ulteriori studi di Vartia (1996) e Niedl (1995).
120
L’evidenza
Anche in Germania, in un’analisi basata su 400 vittime (Zapf, 1999), emergeva che
i lavoratori nell’area sociale e della salute correvano maggiormente il rischio (7 a 1) di
essere mobbizzati rispetto ad altre aree, come la pubblica amministrazione (3.5 a 1) e l’istruzione (3 a 1). Tuttavia, si assiste a un’alta diffusione di mobbing anche in aree più
pertinenti ad aziende di tipo privato (Einarsen e Skogstad, 1996; Hubert e van
Veldhoven, 2001). Esso risultava particolarmente diffuso nell’area della architettura/grafica, nell’area alberghiera e della ristorazione, nelle aree dei trasporti e della comunicazione (Paoli e Merllié, 2001), nelle aree delle telecomunicazioni, della musica e dello
spettacolo (Hoel e Cooper, 2000).
In sintesi un maggior rischio di essere mobbizzati sembra emergere nell’area sociale, della salute e nell’area istruzione. L’incidenza del mobbing appare, tuttavia, legata a
molteplici tipi di organizzazione e la prevalenza sembra variare tra i settori organizzativi con particolare riguardo a quello pubblico.
3. I risultati della prevalenza del mobbing a livello nazionale
Le ricerche pregresse: circa il 4% dei lavoratori italiani subisce mobbing
Se nel panorama internazionale sono ormai molte le ricerche condotte con un certo
rigore scientifico basate su una seria letteratura di riferimento, in Italia ancora non si è
giunti a una misura della diffusione del fenomeno precisa e accurata. Come menzionato precedentemente, non sono stati ancora utilizzati strumenti consolidati e neppure
modelli esplicativi sufficientemente potenti, e nonostante l’approccio psicologico,
soprattutto in Europa, abbia ormai ampiamente individuato modelli teorici di riferimento attendibili, in Italia questa tradizione di ricerca è stata “cannibalizzata” da altri
approcci di studio scientifici. Ne consegue che le maggiori ricerche italiane sulla diffusione del mobbing non sono state condotte da psicologi e ancor meno da ricercatori qualificati, come invece è avvenuto in molti altri Paesi europei.
In Italia la prima ricerca sul mobbing fu svolta da Ege (1996). Egli somministrò il
questionario LIPT 1 a 301 vittime di mobbing. Tuttavia non si trattò di una ricerca compiuta su un campione rappresentativo della popolazione lavorativa italiana, e i risultati
sono stati giustamente considerati scientificamente poco attendibili e certamente non
estendibili alla totalità della popolazione italiana.
I primi risultati di qualche rilievo scientifico a livello nazionale relativi alla gravità
del fenomeno arrivarono dalla prima rilevazione INAIL del 2001. Tuttavia la ricerca non
aveva come obiettivo di misurare la diffusione del mobbing, bensì di portare alla luce la
quantità delle denunce e le categorie che potevano essere considerate maggiormente a
rischio. Dall’indagine emerse che i principali fattori di rischio riconosciuti dai medici
legali dell’INAIL erano il demansionamento (46%) e lo svuotamento della mansione
(39.5%). Il rischio risultava maggiore negli impiegati (58.8%), nel terziario (41%), nei
1. Si ricorda, come esposto precedentemente, che i questionari di stima del mobbing (ad esempio, il LIPT) presentano dei bias metodologici per la diagnosi della sindrome di mobbing (mobbing oggettivo). Tali bias sono
ancora più accentuati se la compilazione di tali questionari è volta a fornire un accertamento del mobbing con
finalità medico-legali.
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Mobbing: virus organizzativo
diplomati (46.8%) e nella classe di età 46-55 (46.3%). L’indagine, inoltre, riportava che
210 erano le denunce presentate, di cui 28 accolte (11 all’ILVA di Taranto); nessun caso
si era presentato in Molise, Basilicata e Valle d’Aosta.
Il mobbing iniziava a delinearsi come un serio problema in Italia, tuttavia l’indagine era particolarmente orientata al mobbing oggettivo e non, invece, a quello più intimamente psicologico, denominato mobbing soggettivo, capace di dare meglio conto
della diffusione del fenomeno, piuttosto che limitarsi a diagnosticarlo come accaduto
con lo studio dell’INAIL. Successivamente il rapporto EURISPES del 2003 ha cercato in
qualche modo di portare a conoscenza la dimensione del fenomeno mobbing attraverso
un’indagine che coinvolse un gruppo di ricerca – operante presso l’ospedale Sant’Andrea
di Roma, costituito da medici del lavoro e psichiatri dell’ambulatorio di Medicina del
lavoro della II Facoltà di Medicina dell’Università “La Sapienza” – che aveva intrapreso
un’attività ambulatoriale dedicata specificamente al problema con l’intenzione di analizzare il fenomeno e sollecitare la proposta di criteri di valutazione. I dati misero in luce
aspetti in continua evoluzione di un fenomeno che solo in Italia coinvolgeva un milione di lavoratori su oltre 21 milioni di occupati, e ciò accadeva maggiormente nelle regioni del Nord. Nel corso di 14 mesi, da giugno 2001 a settembre 2002, i pazienti analizzati dall’equipe dei medici erano risultati essere per il 62.5% dipendenti di aziende private
(il resto apparteneva a quelle pubbliche) e per il 52% diplomati (laureati e possessori di
licenza media si attestavano invece ex equo al 24%). Circa lo stato civile, il 48% dei soggetti sottoposti a indagine era coniugato, il 14% divorziato o separato e il 38% celibe o
nubile. Le azioni mobbizzanti subite dai pazienti per il 3% aveva avuto una durata inferiore ai sei mesi, per il 27% tra sei mesi e un anno, per il 40% tra uno e due anni e per il
30% oltre i due anni.
Nel febbraio 2004 Paola Caiozzo dell’Area organizzazione e personale della SDA
Bocconi analizzò i casi di chi, a partire dal 1996, si era rivolto alla Clinica del Lavoro
Devoto di Milano e dopo un percorso diagnostico di tre giorni si era dimostrato affetto
da disturbo dell’adattamento (DDA) o disturbo post-traumatico da stress (DPTS), patologie per le quali la condizione di lavoro è considerata la causa più importante, e che poteva pertanto rientrare nel numero dei mobbizzati. Furono stilati quindi degli identikit del
mobber e del mobbizzato. La distribuzione del mobbing per genere ed età risultò piuttosto omogenea: 51% uomini e 49% donne; 21-30 anni (5.9%), 31-40 (32.7%), 41-50
(33.7%), 51-60 (23.8%), oltre 61 (4%). I titoli di studio più bassi sembravano mettere al
riparo dal mobbing, solo l’1% delle vittime possedeva la licenza elementare, e i titoli di
studio superiori erano sovrarappresentati rispetto alla composizione del mercato del
lavoro italiano: laurea 23%, diploma media superiore 50%, diploma media inferiore
26%. Una specificità era la massiccia diffusione del mobbing nel settore pubblico. Infine,
il mobbing risultava essere un fenomeno più tipico delle grandi imprese piuttosto che di
quelle piccole, e gli aggressori erano riconosciuti nella maggioranza dei casi nei superiori (53.5%), mentre i colleghi partecipavano pochissimo alle azioni di mobbing (7.1%).
La ricerca dell’IREF ha invece presentato il tipico profilo del mobbizzato.
Incrociando la punta dell’iceberg è stata la prima indagine campionaria su base nazionale
realizzata in Italia. La ricerca è stata condotta dall’IREF, con il contributo dell’ISPESL,
nel periodo compreso tra novembre 2003 e marzo 2004, su un campione di quasi 3000
intervistati. È emersa, così, una scarsa informazione sul tema in questione: il 70.4%
degli intervistati dichiarava di non conoscere il significato della parola mobbing e soltanto il 18.9% manifestava una spiccata sensibilità/conoscenza del fenomeno. Ad esse-
122
L’evidenza
re oggetto di mobbing erano in maggioranza lavoratori inquadrati con contratti di
impiego a tempo indeterminato, mediamente di 48 anni, di sesso maschile; inoltre,
l’incessante opera di “demolizione” psichica e fisica del lavoratore si consumava soprattutto all’interno delle fabbriche (di grande dimensione), localizzate prevalentemente
nelle regioni centrali e meridionali. I dati su scala nazionale hanno mostrato che sono
circa il 5.2% i lavoratori che hanno dichiarato nel corso della rilevazione di essere vittime del mobbing, mentre il 5.5% degli intervistati dichiarava di aver subito mobbing
in passato. In particolare, il profilo di chi in passato è stato vittima del mobbing assumeva i tratti di una lavoratrice impiegata nel settore pubblico, inserita in un’unità operativa di una pubblica amministrazione (dipartimenti, direzioni, servizi ecc.) di media
dimensione, residente nelle regioni del Centro e del Meridione. Altro fattore costante
del mobbing era la sua diffusione soprattutto nel Centro e nel Sud Italia. Dalla disamina delle ricerche presentate, non sembra facile quantificare la dimensione del fenomeno, sia in ambito nazionale che internazionale.
Nata nel 1902 per studiare e curare soprattutto le malattie degli operai, recentemente la Clinica del Lavoro di Milano ha presentato un dossier, datato 15 settembre
2007, dove sono state esaminate 4037 segnalazioni di (sospetto) mobbing. Il documento ha raccolto dieci anni di esperienza e ha costruito un identikit del mobbizzato. I più
colpiti dai soprusi in ufficio sono risultati essere gli impiegati (57.3%), seguiti a ruota dai
quadri aziendali (21.3%), dai dirigenti (10%), dagli insegnanti (4.6%), dagli operai
(5.3%) e dai liberi professionisti (1.3%). Penalizzati sia le donne, vittime di molestie nel
53% dei casi, che gli uomini (47% dei casi).
La Fondazione europea per il miglioramento delle condizioni di vita e del lavoro,
nella terza indagine sulle condizioni del lavoro, ha stimato che circa il 4% della popolazione attiva italiana è vittima di mobbing. Sullo stesso ordine di dimensione si collocano la ricerca del 1996 condotta da Harald Ege (ad estensione regionale) e il rapporto 2003
EURISPES, e risultati simili sono stati ottenuti anche dalla ricerca IREF (2004).
Le ricerche di Giorgi e Majer (2008) e Giorgi, Matthiesen e Einarsen (2006):
l’Italia uno dei Paesi più a rischio di mobbing
I risultati preliminari di due ricerche italiane, una condotta presso quattordici organizzazioni italiane su 766 lavoratori (Giorgi et al., 2006), e l’altra (Giorgi e Majer, 2008)
che si avvale di un database di oltre venti organizzazioni italiane con più di 2000 lavoratori, evidenziano una elevata prevalenza di mobbing nel campione oggetto di indagine. Le analisi statistiche utilizzate sono pertinenti per la misura della prevalenza del
mobbing (cfr., ad esempio, Leymann, 1996; Mikkelsen e Einarsen, 2001) e l’impianto
metodologico è lo stesso usato negli studi internazionali più qualificati, grazie al NAQR. La prevalenza del mobbing è risultata raggiungere la percentuale del 20% della popolazione in alcune organizzazioni. Anche da ulteriori confronti con risultati di campioni
di altre nazioni emergerebbe che i lavoratori italiani sarebbero maggiormente vittime di
mobbing rispetto ai lavoratori di altri Paesi, confutando quindi i risultati della Third
European Working Conditions Survey.
I risultati delle ricerche di Giorgi e Majer (2008) e Giorgi et al. (2006) si discostano,
quindi, da quelli ottenuti dalle altre indagini italiane sul fenomeno, suggerendo nuove
piste di riflessione e al contempo tracciano un quadro più problematico del mobbing in
Italia. Confrontando i risultati di alcune ricerche europee, che hanno utilizzato il NAQ-R
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Mobbing: virus organizzativo
e precisi criteri statistici per identificare le vittime, si evidenzia che i lavoratori italiani
percepiscono un maggior numero di azioni mobbizzanti e più frequentemente rispetto
ai seguenti Paesi: Norvegia, Olanda, Ungheria, Germania, Finlandia, Austria e Regno
Unito (i risultati di questi Paesi europei sono riportati in Zapf et al., 2003) e Turchia
(Yildiz et al., 2008).
La prevalenza elevata di mobbing in Italia, maggiore che in altri Paesi europei, è supportabile dalle teorie della psicologia cross-culturale. In particolare vale la pena di sottolineare le quattro dimensioni chiave che distinguono le culture: individualismo/collettivismo, mascolinità/femminilità, distanza di potere e incertezza/evitamento (Hofstede,
1980; Hofstede, 1991). Ricerche pregresse hanno evidenziato l’impatto della dimensione
mascolinità/femminilità, suggerendo che le società con alta femminilità (ad esempio, la
Norvegia) e con minor distanza di potere dovrebbero riportare meno casi di mobbing. Sulla
base della teoria di Hofstede, l’Italia, invece, è una società ad alta dimensione maschile che
rinforza la discriminazione fra il genere, dove gli uomini sarebbero favoriti per l’ottenimento di posizioni lavorative dominanti e di rilievo, mentre le donne svolgerebbero
per lo più lavori subordinati sotto il controllo degli uomini e si occuperebbero della famiglia. Inoltre, come sostengono Van de Vliert, Schwartz, Huismans, Hofstede e Daan (1999),
nelle società di dimensione maschile i conflitti tenderebbero ad essere risolti con la violenza piuttosto che con la negoziazione. Essendo il mobbing originato da un confitto non
gestito e/o non negoziato, è possibile ipotizzare che il mobbing dovrebbe essere più diffuso in società ad alto tasso di mascolinità. L’Italia è anche una società con elevata distanza
di potere nel rank di Hofstede, soprattutto se confrontata con Paesi nordeuropei quali la
Norvegia, la Svezia e la Finlandia, e con i Paesi anglosassoni, come il Regno Unito.
La distanza di potere si riflette nella relazione superiore-collaboratore: chi detiene il
potere tende a usarlo in modo coercitivo, tanto che può arrivare ad abusare di esso; chi
si trova in una situazione di inferiorità, si sente più obbligato ad accondiscendere alle
richieste dell’altra parte. In linea con Einarsen (2000), maggiori casi di mobbing e molestie dovrebbero verificarsi in Paesi ad alta distanza di potere. Dall’altra parte, un elemento essenziale per il verificarsi del mobbing è l’asimmetria di potere fra le parti, perciò, anche a livello teorico è più probabile che tale fenomeno si verifichi in Paesi con elevata distanza di potere.
Anche la dimensione individualismo/collettivismo può contribuire a differenziare
le diverse culture sul grado di rischio di mobbing. Le persone nelle culture collettivistiche si identificano fortemente con i loro gruppi, come le aziende di cui fanno parte; le
persone che appartengono a culture individualiste, invece, tendono a vedersi come
distinti individui e con caratteristiche personali specifiche. L’orientamento individualista/collettivista non è stato ampiamente trattato nella letteratura di ricerca sul mobbing,
tuttavia è possibile teorizzare che le culture individualiste potrebbero percepire le molestie morali e il mobbing in modo più forte di quelle collettivistiche. Nelle culture collettivistiche potrebbe, infatti, esserci maggiore tolleranza nel subire azioni vessatorie, tanta
è l’identificazione con il proprio gruppo o azienda. In questi contesti, quindi, le persone
avrebbero più difficoltà a riconoscersi come vittime 2.
2. È al momento in fase di lavorazione un confronto cross-culturale tra la diffusione del mobbing in ItaliaGiappone, al fine di ottenere evidenze empiriche che confermino, o meno, la relazione fra individualismo-colletivismo e il mobbing (cfr. Asakura, Ando e Giorgi, 2007; Asakura et al., 2008; Giorgi et al., 2008).
124
L’evidenza
Anche il clima atmosferico è una variabile che viene presa in considerazione negli
studi cross-culturali. La letteratura della psicologia cross-culturale evidenzia 458 studi in
cui il clima dimostra effetti significativi sul funzionamento umano (Parker, 1995). Climi
caldi e freddi produrrebbero conseguenze psicologiche in relazione ad aggressioni, stress
e salute mentale. Anche le molestie morali e/o il mobbing potrebbero essere influenzati
dalla tipologia del clima, con maggior incidenza di mobbing in Paesi con climi caldi,
come evidenziato nella maggior parte degli studi sull’aggressività. In conclusione, l’Italia
appare sulle orme di Hofstede come una società ad alta dimensione maschile, individualista e con un’elevata distanza di potere, aspetti che sembrano privilegiati per lo svilupparsi del fenomeno. Anche il clima atmosferico italiano temperato/caldo potrebbe
contribuire ad aumentare il verificarsi di episodi mobbizzanti.
A questo punto risulta legittimo chiedersi se la cultura italiana sia veramente più
predisposta al mobbing. Non è ancora possibile fornire una risposta precisa, tuttavia
appare opportuno a tale proposito citare i risultati preliminari della Fourth European
Working Conditions Survey (Eurofund, 2007), nei quali è evidenziato un trend negativo
riguardo ad alcuni aspetti della qualità della vita dei lavoratori italiani (cfr. fig. 10-1).
Un altro interessante dato che vale la pena considerare e che in qualche modo supporta l’asserzione che l’Italia, al contrario di quanto emerso dalla ricerca della European
Foundation for the Improvement of Living and Working Conditions del 2000 (cfr. capitolo primo, fig. 1-1), sia un Paese ad alto rischio mobbing è proprio il fatto che ancora
non esiste una legge che disciplini le conseguenze civili e/o penali del mobbing, diversamente da altri Paesi europei (soprattutto nel Nord Europa). Infatti, la presenza di una
legge che fornisce delle sanzioni disciplinari per chi commette azioni mobbizzanti funziona sicuramente da deterrente per la condotta aggressiva posta in essere dal mobber.
4. Gli effetti del mobbing sulla persona
È ormai ampiamente riconosciuto come il mobbing provochi gravi conseguenze sul
benessere e la salute dei lavoratori, causando anche danni di natura permanente. Sia la
letteratura medica che la letteratura giuridica considerano fondamentale il danno alla
salute, o danno biologico, che deriva dalla compromissione del “bene salute”, costituzionalmente tutelato, e che rappresenta un valore fondato sull’integrità psicofisica della
persona. Il danno psichico, come “specie” di danno biologico, richiede ai fini della sua
configurabilità la sussistenza in concreto non di una mera sofferenza o turbamento ma
di una vera e propria patologia e, dunque, lesione fisica e/o una compromissione accertabile oggettivamente della salute, la valutazione della quale non può che essere rimessa al medico legale. Tuttavia, nella classificazione psichiatrica/psicologica sono individuate poche sindromi che, per definizione, sono considerate dipendenti da eventi di
vita. I criteri per porre la diagnosi di una di queste sindromi sono:
• la relazione temporale precisa tra l’evento individuato come causa e lo sviluppo della
sintomatologia;
• l’individuazione nella storia della persona di eventi considerati quali valide cause del
quadro clinico riscontrato;
• la costellazione di sintomi con cui si presenta il paziente e la loro evoluzione temporale;
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125
Mobbing: virus organizzativo
Figura 10-1
Quarta indagine europea sulle condizioni di lavoro
Gli italiani sono meno soddisfatti del loro lavoro
rispetto alla maggior parte dei lavoratori europei
I lavoratori in Italia sono meno soddisfatti delle loro condizioni di lavoro rispetto alla media
dei lavoratori europei, questi sono i primi risultati della Quarta indagine europea sulle condizioni di lavoro. In Italia, un lavoratore su due afferma che le proprie capacità professionali corrispondono pienamente alle sue mansioni sul lavoro, ma solo un lavoratore su cinque si è visto
offrire una formazione sulle competenze professionali nei 12 mesi precedenti.
La nuova ricerca della Fondazione per il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro
rivela che tra i lavoratori italiani il sintomo più comune, relativo alla loro salute psicofisica
associato al lavoro, è lo stress. I lavoratori italiani si lamentano di sintomi concernenti la salute a causa del lavoro (mal di schiena, cefalee, affaticamento generale), analogamente alla
media dei loro colleghi nei 25 Paesi dell’Unione europea, ma un numero significativamente
più elevato di lavoratori italiani (27%), rispetto al resto dell’Europa (22%), menziona lo stress
quale sintomo di malessere principale connesso al lavoro.
L’indagine rappresentativa punta i riflettori anche sulle prassi lavorative, in quanto un lavoratore italiano su due (51%) godrebbe di sostegno e assistenza da parte dei colleghi rispetto ai due
lavoratori su tre (67%) nel resto dell’Europa. L’assistenza da parte di un superiore gerarchico è
ancora più bassa, il 34% rispetto al 56% per l’UE25. Ciò si riflette anche sulla scarsa diffusione
del lavoro in gruppo nei luoghi di lavoro italiani: solo quattro lavoratori italiani su dieci (39%)
riferiscono che il loro lavoro comporta una costante collaborazione di gruppo, rispetto a una
media di oltre cinque lavoratori su dieci (55%) nei rimanenti Paesi dell’Unione europea.
Questi primi risultati della Quarta indagine europea sulle condizioni di lavoro rivelano che in
Italia negli ultimi cinque anni vi è stato un deterioramento delle condizioni di lavoro, almeno rispetto al resto dell’Europa, afferma Jorma Karppinen, direttore della Fondazione europea.
La classe politica italiana dovrebbe operare per il raggiungimento di migliori livelli di occupazione e di qualità del lavoro, così come definiti nei criteri di Lisbona.
La quarta indagine presenta le percezioni dei lavoratori europei su una vasta gamma di tematiche, comprendenti l’organizzazione del lavoro, gli orari di lavoro, le pari opportunità, la formazione, la salute, il benessere e la soddisfazione del lavoro. Le interviste sono state svolte alla
fine del 2005, con la partecipazione di circa 30 000 lavoratori in 31 Paesi (l’UE25, i due Paesi
candidati all’adesione, Bulgaria e Romania, nonché Croazia, Norvegia, Svizzera e Turchia).
Modificato da: Eurofund (2007).
• la relazione psicopatologica tra i sintomi, l’evento e la struttura cognitiva della persona (oggetto di valutazione specialistica, può essere formulata solo dopo un esame clinico approfondito).
In particolare le sindromi che vengono considerate più tipiche del mobbing sono:
• i disturbi dell’adattamento;
• il disturbo post-traumatico da stress;
• la reazione acuta da stress.
L’approccio psicologico, e quindi quello più vicino alla percezione soggettiva di
sentirsi mobbizzato, se da una parte riconosce i gravi disturbi del mobbing sulla persona, quali ad esempio il disturbo post-traumatico da stress, sul cui legame con il mobbing esiste una copiosa letteratura di ricerca, dall’altra riconosce anche effetti sulla salu-
126
L’evidenza
te e sul benessere che non raggiungono la gravità di vere e proprie sindromi psicopatologiche, ma che pure creano sofferenza e ledono la dignità della persona. Gli effetti
negativi del mobbing, inoltre, vengono considerati non soltanto sulla persona vessata
ma anche su altre figure satellite del processo, quali ad esempio gli osservatori.
Emergono, quindi, due tipi di effetti: uno a lungo termine, che produce le conseguenze più gravi, ma anche un altro, a breve termine, che risulta meno patogeno ma non
meno lesivo della dignità della persona.
Oltre a esaminare gli aspetti più oggettivi del fenomeno mobbing in un’ottica medico-legale con un focus sulla vittima quando ormai è già stata colpita e svuotata completamente della propria dignità di persona, bisogna anche dare voce e intervenire il prima
possibile a chi si percepisce vittima di mobbing e alle figure satellite. Ciò permetterebbe
di arginare gli effetti altamente disfunzionali, che si possono verificare non solo per il
mobbizzato ma anche per l’organizzazione, i quali rendono molto difficile, e a volte
addirittura impossibile, recuperarne lo stato di salute/benessere pregresso.
5. Gli effetti del mobbing a breve termine
Già nel 1990 Leymann aveva dimostrato tramite osservazioni cliniche che il mobbing non solo comportava sindromi psicologiche o gravi disturbi ma anche isolamento sociale, malattie psicosomatiche, depressione, rabbia, sensazione di impotenza e così
via. Essere vittime di comportamenti vessatori sembra produrre anche forti reazioni
emotive, o dei veri traumi, come paura, ansia e shock (Janoff-Bulman, 1992). La vittimizzazione subita, inoltre, trasforma le percezioni delle persone sul proprio lavoro e
sulla propria vita in genere in situazioni che implicano insicurezza, minaccia e pericolo (Mikkelsen e Einarsen, 2002).
Per Einarsen e Hellesøy (1998), le vittime di mobbing riportano meno soddisfazione lavorativa e benessere psicologico e una serie di sintomi di stress, come bassa autostima, problemi legati al sonno, ansia, difficoltà di concentrazione, fatica cronica, rabbia, depressione e altri sintomi psicosomatici (Brodsky, 1976; Einarsen e Raknes, 1997;
Einarsen et al., 1994; Mikkelsen e Einarsen, 2002, Vartia, 1996, Zapf et al., 1996).
Alcune vittime, inoltre, sviluppano anche pensieri suicidi (Einarsen et al., 1994). Il
mobbing, inoltre, può dare adito anche a dolori muscolari, la cui motivazione può essere ricercata nello stato di tensione che il mobbing causa nella vittima (cfr. fig. 10-2).
In uno studio di Mikkelsen e Einarsen (2002), i mobbizzati, rispetto a un gruppo di
controllo, si consideravano meno capaci e abili e percepivano il mondo in modo più
negativo e pessimistico. Sulla base di osservazioni cliniche e interviste con vittime americane di harassment, Brodsky (1976) identificò tre pattern di risposta: alcune vittime sviluppavano sintomatologie di natura fisica, quali debolezza, mancanza di forza, fatica
cronica, dolori e così via, altre reagivano con depressione o sintomatologie ad essa correlate, quali impotenza, mancanza di autostima e disturbi del sonno; il terzo gruppo
manifestava sintomatologie psicologiche, quali ostilità, ipersensibilità, perdita di memoria, sentimenti persecutori, nervosismo.
Bisogna tuttavia considerare che i risultati degli studi sulle conseguenze del mobbing a breve termine riportatati fino ad ora riguardano prevalentemente vittime consapevoli del proprio vissuto di molestia e che avevano chiesto una qualche forma di aiuto
e/o supporto per uscirne. È possibile, quindi, ipotizzare che i loro problemi di salute fos-
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Mobbing: virus organizzativo
Figura 10-2
Gli effetti del mobbing a breve termine
Disturbi
Conseguenze
Sintomi psicologici
Depressione
Turbe nel sonno
Irritabilità
Paura
Problemi di concentrazione
Dolori muscolari
Dolori cervicali
Dolori di schiena
Artriti
Reumatismi
Disturbi psicosomatici
Palpitazioni
Diarrea
Nausea
Gastrite
Costipazione
sero più gravi rispetto ad altre tipologie di vittime; in alcuni casi il loro vissuto poteva
essere ricondotto al mobbing oggettivo e/o a un mobbing non soltanto a breve termine
ma a lungo termine.
Indagando in campioni casuali di lavoratori (random sample), Einarsen et al.
(1998) misero in luce che le infermiere norvegesi esposte al mobbing riportavano alti
livelli di burnout, minore soddisfazione lavorativa e minore benessere psicologico
rispetto alle loro colleghe non mobbizzate. In uno studio condotto presso 500 lavoratori di una compagnia navale norvegese (Einarsen e Raknes, 1997), il mobbing spiegava il 23% della varianza della salute e del benessere psicologico. In un’altra indagine
condotta presso 2200 membri di sei sindacati di lavoratori, furono evidenziate relazioni significative fra il mobbing e disturbi psicologici, psicosomatici e muscolari
(Einarsen et al., 1994). La correlazione maggiore era tra disturbi psicologici e mobbing,
quest’ultimo prediceva il 13% della varianza del primo. Il mobbing, inoltre, prediceva
il 6% della varianza dei disturbi muscolari e l’8% della varianza dei disturbi psicosomatici. Questi risultati sono, per altro, in linea con quelli ottenuti da Niedl (1996) e
Zapf et al. (1996).
In sintesi, i risultati degli studi qui presentati indicano chiaramente che il mobbing
influenza il benessere e la salute dei lavoratori. Anche la percezione soggettiva di essere
vessata della vittima, pertanto, può avere degli effetti estremamente disfunzionali. Dato
questo che appare essere significativo e particolarmente rilevante non solo dal punto di
vista scientifico, ma anche per le prospettive di diagnosi precoce di intervento preventivo che apre. Va rilevato, tuttavia, come la maggiore parte degli studi sia stata effettuata
con disegni di ricerca di tipo correzionale, altri risultano di natura prevalentemente clinica, soltanto alcuni sono in grado di evidenziare l’effetto causale del mobbing sullo
stato di salute delle vittime.
128
L’evidenza
6. Gli effetti del mobbing a lungo termine
Nella costellazione dei sintomi delle vittime di mobbing a lungo termine è stato
riconosciuto anche il disturbo post-traumatico da stress. La diagnosi del disturbo posttraumatico si riferisce a un insieme di sintomi da stress presentati da vittime di eventi
traumatici. Può essere definito come un evento che ha comportato una minaccia per la
vita, o una grave lesione, o una minaccia all’integrità fisica, propria o di altri, che ha
comportato nella persona una condizione di paura intensa, sentimenti di impotenza o
di orrore (cfr. Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders, Fourth Edition – DSMIV; American Psychiatric Association, 1994, ed. it. Masson, 1996, p. 473). L’elemento
chiave che determina lo sviluppo di questa patologia è la percezione soggettiva di minaccia per la vita, l’impossibilità percepita di ricevere aiuto, l’esperienza di paura estrema.
Questo contribuisce a spiegare perché soggetti diversi, esposti alla stessa circostanza traumatica, possono sviluppare, o meno, il disturbo. I sintomi sono: la fissazione del pensiero sugli eventi traumatici, i comportamenti evitanti, la reazione emotiva.
In primo luogo il trauma viene rivissuto attraverso ricordi dolorosi dell’evento traumatico sotto forma di immagini, di flashback, di sogno. In secondo luogo, la vittima
tende a evitare stimoli in qualche modo collegati alla/e situazione/i traumatica/che
mostrando comportamenti evitanti: potrebbero sorgere problemi nel ricordare alcuni
eventi, potrebbe ridursi un interesse per alcune attività prima gradite, possono anche
verificarsi forme di chiusura ai rapporti interpersonali e agli affetti. Il terzo elemento presente è dato dalla reazione emotiva intensa innescata da luoghi o fatti che hanno qualche relazione con l’evento traumatico. È correlata allo stato emotivo e spesso presente
una vistosa componente somatica: accessi di calore, sudorazione, tensione muscolare,
tremore, puntate ipertensive, reazioni coliche o gastrointestinali in generale.
Numerosi sono ormai gli studi presenti nella letteratura di riferimento che supportano la relazione tra mobbing e disturbo post-traumatico da stress. Leymann e
Gustafsson (1996), in uno studio condotto su 64 vittime svedesi di mobbing inserite in
un programma di riabilitazione, conclusero che il 65% soffriva di questo tipo di disturbo. In uno studio il cui campione era costituito da 102 vittime norvegesi di mobbing a
lungo termine, Einarsen et al. (1994) evidenziarono che il 75% dei mobbizzati presentava sintomi tipici del disturbo post-traumatico da stress e, anche dopo cinque anni
dalla cessazione delle molestie, il 65% delle vittime riportava un pattern di sintomi indicante il disturbo.
Mikkelsen e Einarsen (2002), in un campione di 118 vittime danesi di mobbing,
sulla base dei criteri diagnostici evidenziati nel DSM-IV-TR rilevarono che il 29% soffriva di un disturbo post-traumatico da stress, mentre il 47% non soddisfaceva soltanto il
criterio A1 (cfr. American Psychiatric Association, 1994, ed. it. Masson, 1996, p. 473).
Inoltre, usando la scala chiamata Post-traumatic Diagnostic Scale (PDS; Foa e Riggs, 1995),
il 61.7% delle 89 vittime prese in considerazione soddisfaceva tutti i criteri del disturbo
post-traumatico da stress. L’intensa esposizione a specifici comportamenti mobbizzanti,
misurati dal NAQ-R, era associata con i livelli più elevati del disturbo.
Un altro possibile effetto del mobbing a lungo termine è il disturbo di adattamento, la cui caratteristica fondamentale è una risposta psicologica a uno o più fattori stressanti identificabili che conducono allo sviluppo di sintomi emotivi o comportamentali
clinicamente significativi. I sintomi devono svilupparsi entro tre mesi dall’esordio del
fattore o dei fattori stressanti (cfr. American Psychiatric Association, 1994, ed. it. Masson,
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129
Mobbing: virus organizzativo
1996, p. 685). La sofferenza emotiva indotta da situazioni stressanti o eventi di vita sfavorevoli viene valutata secondo la durata e la gravità dei sintomi in relazione all’evento
stressante. La diagnosi viene adottata ogni volta che si verifica una significativa compromissione funzionale nella vita lavorativa e/o di relazione.
È bene comunque sottolineare che qualsiasi sia la diagnosi degli effetti, il cuore del
problema è la comprensione di quanto il mobbing possa essere psicologicamente distruttivo. Il mobbing non solo danneggia la salute mentale ma anche la carriera, lo status e
lo stile di vita. La maggior parte delle vittime percepisce l’esposizione al mobbing come
la peggior cosa che sia mai successa nella propria vita. Ciò dimostra che per alcuni lavoratori il mobbing è un evento estremamente traumatico, sia a breve che, ancor più, a
lungo termine.
7. Gli effetti del mobbing sugli osservatori
Il mobbing non sembra influenzare soltanto il bersaglio ma anche i colleghi e gli
osservatori. In uno studio norvegese condotto presso 2215 lavoratori, risulta che il 21%
dei rispondenti riportava meno soddisfazione lavorativa e il 27% affermava che il mobbing riduceva la produttività del proprio reparto/ufficio (Einarsen et al., 1994). Il 14%
percepiva il mobbing come uno stress giornaliero, nonostante soltanto il 9.6% dei
rispondenti avesse dichiarato di esserne vittima. In uno studio britannico, il 32% dei partecipanti riportava che il mobbing riduceva l’efficienza sul lavoro, mentre il 28% affermava che il mobbing riduceva la propria motivazione (Hoel et al., 2001). Uno studio finlandese ha rivelato che i testimoni di mobbing riportavano più stress dei lavoratori che
non avevano osservato azioni mobbizzanti (Vartia, 2003). In una survey inglese, condotta presso 761 lavoratori, il 73% dei testimoni di mobbing riportava maggiori livelli di
stress, mentre il 44% aveva timore di diventare una vittima del mobbing (Rayner, 1999).
Soltanto il 16% dei testimoni riferiva di non essere stato toccato dalla situazione in nessun modo.
Gli effetti del mobbing sugli osservatori possono essere sia diretti, vale a dire quando gli stessi sviluppano la paura di diventare le prossime vittime, sia indiretti, ossia quando il benessere generale degli osservatori è ridotto a causa dell’ambiente mobbizzante in
cui lavorano (Einarsen e Mikkelsen, 2003). È, inoltre, possibile ipotizzare che i testimoni di mobbing potrebbero anche essere psicologicamente affranti da una reale o percepita incapacità di aiutare la vittima. In uno studio di Rayner (1999), più di un terzo dei
testimoni riferiva che avrebbe voluto aiutare la vittima, ma non osava rischiare tanto per
le possibili conseguenze negative che sarebbero potute derivare da tale azione.
8. Gli effetti del mobbing sull’organizzazione
È ormai ampiamente riconosciuto come il mobbing, in particolare quello a lungo
termine, abbia effetti estremamente disfunzionali sulla salute della persona. Sebbene in
Italia ancora non vengano del tutto considerati gli effetti che anche un mobbing a breve
termine può comportare sul mobbizzato, l’elemento diagnostico della vittima di mobbing a lungo termine nel nostro Paese, in particolare per fini medico-legali, in qualche
modo incoraggia lo svilupparsi di una maggiore sensibilità e attenzione nei confronti
130
L’evidenza
anche dei mobbizzati meno gravi, in quanto non presentano disturbi psicopatologici
come il disturbo post-traumatico da stress o il disturbo di adattamento.
Gli effetti disfunzionali che il fenomeno può comportare sull’organizzazione non
sembrano, invece, aver suscitato particolare attenzione da un punto di vista aziendale.
Con riferimento a quanto è stato descritto per la leadership nel capitolo nono, una lacuna del management dei nostri giorni è quello di focalizzarsi maggiormente sull’eccellenza nel lavoro, in un’ottica positivistica, senza quindi approfondire quanto distruttivi,
e non soltanto inefficaci, possano essere determinate azioni e comportamenti, come
quelli che sfociano nel mobbing, sia per la persona ma anche per l’organizzazione nel
suo complesso. Ricerche condotte da studiosi europei (ad esempio, Hoel, Einarsen e
Cooper, 2003) hanno rilevato come il mobbing deteriori l’ambiente lavorativo e, in particolare, comporti turnover, assenteismo e un brusco calo nella produttività.
Il turnover, quindi, sembra uno degli outcome organizzativi principali del mobbing.
In uno studio condotto presso personale infermieristico soggetto a molestie morali, si è
rilevato come il 18% del turnover fosse ascrivibile ad aggressioni verbali (Cox, 1987).
Altri studi condotti su vittime riportano che un mobbizzato su quattro ha lasciato il proprio lavoro a causa del mobbing (Hoel et al., 2003). Tuttavia, la ricerca si è focalizzata
non tanto su reali dati aziendali di uscita/dimissione, quanto sull’intenzione di lasciare
l’organizzazione. Ad esempio Vartia (1993) mise in luce che il 46% dei mobbizzati aveva
intenzione di lasciare il proprio lavoro. Anche a livello teorico, il cattivo stato di salute
della vittima che non riesce più a svolgere la propria mansione, la subdola strategia
messa in atto dal datore di lavoro o dall’organizzazione (bossing) per espellere l’impiegato non voluto, o la percezione della vittima che lasciando l’organizzazione le cose possano andare meglio confermano il rapporto tra mobbing e turnover.
Appare, inoltre, chiaro come il mobbing possa ridurre la produttività e diminuire la
qualità della prestazione: la minor motivazione e soddisfazione lavorativa e il minor
coinvolgimento lavorativo di chi è vittima di azioni mobbizzanti possono portare la persona a non svolgere bene il proprio lavoro; soprattutto se insorgono problemi di salute,
diminuisce la capacità di concentrazione della persona e aumenta la possibilità che il
dipendente commetta errori. Ciò riduce la qualità della prestazione ed è, inoltre, più probabile che si verifichino incidenti e infortuni.
Dal punto di vista empirico, nonostante le difficoltà legate a una misurazione puntuale della produttività sul lavoro, Einarsen et al. (1994) e Hoel e Cooper (2000) misero
in luce che campioni consistenti di lavoratori, il 27% in Norvegia e il 32.5% in
Inghilterra, dichiaravano di aver diminuito la propria efficienza a causa del mobbing.
Inoltre, i mobbizzati dichiaravano di essere il 7% meno produttivi rispetto a coloro che
non erano stati né mobbizzati né erano stati testimoni di comportamenti vessatori (Hoel
e Cooper, 2000). Non è da escludere che il calo nella prestazione di un individuo possa
avere effetti negativi anche sulla prestazione degli altri lavoratori, all’interno del gruppo
di lavoro, o del proprio superiore, con la possibilità di giocare un pericoloso effetto
“domino” e, quindi, di abbassare l’efficienza e la produttività non soltanto del proprio
ufficio ma di tutta l’organizzazione.
Anche l’assenteismo rientra come possibile/probabile outcome organizzativo del
mobbing. A questo proposito uno studio finlandese di Kivimaki, Elovainio e Vahtera
(2000), grazie al fatto di aver potuto accedere a registri e documentazioni contenenti certificati di malattie, ha dimostrato che il rischio di assenteismo per i mobbizzati era di 1.5
volte maggiore rispetto ai non mobbizzati. Hoel e Cooper (2000) hanno invece eviden-
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131
Mobbing: virus organizzativo
ziato che le vittime di mobbing hanno in media sette giorni di assenteismo annui in più
rispetto ai non mobbizzati o a chi non ha assistito al mobbing. In tre ricerche, condotte
presso organizzazioni pubbliche inglesi e organizzazioni private australiane (McCarthy,
Sheehan e Kearns, 1995; UNISON, 1997, 2000), un terzo dei mobbizzati dichiarava di
essere stato assente al lavoro a causa del mobbing e un numero considerevole di costoro dichiarava che si trattava di assenze prolungate. Il 29% dei mobbizzati risultava essere stato assente dal lavoro per 30 giorni, mentre il 13% per 60 giorni (UNISON, 2000).
Esiste, quindi, una relazione significativa fra assenteismo e mobbing, anche se non appare così forte come si potrebbe pensare di primo acchito. Einarsen e Raknes (1991) per
darne una spiegazione si sono riferiti al lavoro di Thyholdt et al. (1986), secondo i quali
le vittime tenderebbero prima a maturare sintomi specifici da stress, piuttosto che arrivare subito all’assenteismo. Va tuttavia considerato che assenteismo, turnover e produttività possono interagire in modo dinamico tra loro dando vita a circoli viziosi per l’organizzazione. Ad esempio, se una persona non viene sostituita da qualcun’altro quando
è assente, la pressione lavorativa potrebbe aumentare per i suoi colleghi, alimentando
possibili tensioni che potevano essere già in atto, diminuendo la produttività e/o innalzando il turnover.
Se, invece, la vittima decidesse di non assentarsi dal lavoro, potrebbe comunque
non essere sufficientemente produttiva a causa di problemi di salute, mancanza di concentrazione o paura di commettere errori. Ciò potrebbe riflettersi nella relazione con i
propri superiori o colleghi, con il rischio di aumentare il conflitto, piuttosto che diminuirlo. Conflitto che a sua volta potrebbe influenzare negativamente la produttività dell’ufficio/reparto.
Un altro outcome del mobbing è quello economico. Il mobbing, infatti, rappresenta un costo estremamente elevato per l’organizzazione. Leymann (1990) ha calcolato
come ogni vittima possa produrre un costo per l’organizzazione approssimativamente
da $30 000 a $100 000 annui. Kivimaki et al. (2000) hanno stimato, in una ricerca condotta presso due ospedali, che il solo costo per l’assenteismo da mobbing sia di circa
180 000 euro.
Sheehan, McCarthy, Barker e Henderson (2001), sulla base di una meta-analisi sugli
studi del mobbing, hanno calcolato un costo per le aziende australiane con più di 1000
dipendenti da $.6 a $3.6 milioni annui. Per Hoel et al. (2001), il costo nazionale del mobbing nel Regno Unito, soltanto per l’assenteismo e il replacement, poteva aggirarsi intorno a due miliardi di sterline annui.
Analizzando più specificatamente le singole voci delle spese nel conto economico
del mobbing si possono individuare:
• l’assenteismo: pagamento del salario al lavoratore quando è in malattia. È possibile
che in alcuni casi il lavoratore debba essere sostituito con un altro, con costi addizionali;
• il turnover e i costi per l’assunzione di una nuova risorsa: spese di reclutamento (pubblicità
e selezione), spese di formazione e addestramento, spese di natura più amministrativa
(testing dei candidati, rescissione del contratto, stipula del nuovo contratto ecc.). Le
spese per l’assunzione della nuova risorsa saranno, ovviamente, in funzione delle capacità e dell’esperienza del lavoratore;
• l’impatto sulla produttività e sulla performance: costi difficilmente quantificabili, variabili a seconda delle specifiche situazioni, ma che si presume siano estremamente elevati;
132
L’evidenza
• i costi per la denuncia di mobbing da parte della vittima: eventuali costi processuali e pagamenti dei danni per casi che entrano nel merito della giurisprudenza. Tuttavia, non
tutti i casi possono concludersi in tribunale, ma, comunque, possono comportare altri
tipi di costo, specialmente di natura amministrativa, legati a procedure varie, interventi di mediazione e investigazione, counseling ecc.;
• la perdita di reputazione dell’azienda: nel caso ci siano più casi di mobbing all’interno di
un’organizzazione.
Altri due studi accurati condotti in Inghilterra e negli Stati Uniti hanno cercato di
monetizzare il costo del mobbing come riportato nelle figure 10-3 e 10-4:
Figura 10-3
Il costo di un caso di mobbing per l’organizzazione
Assenza
Costi per l’assunzione di una nuova risorsa
Produttività ridotta
Procedure di investigazione rivolte all’aggressore
Tempo-lavoro del management e del line-management
Costi del personale dell’ufficio
Tempo-lavoro dello staff
Costi processuali
Costi per intervista ai testimoni
Trasferimento
Spese giudiziali
Effetti su coloro che sono coinvolti indirettamente
Perdita di reputazione dell’azienda
Totale
£
£
£
£
£
£
£
£
£
6972
7500
?
2110
1847
2600
2100
3780
1200
0
£
?
£
?
£
?
£ 28 109
pari a circa 40 000 euro
Modificato da: Hoel e Salin (2003).
Nota. I costi indicati con “?” sono difficilmente quantificabili.
Figura 10-4
Costi per il mobbing e per i comportamenti negativi
in un’organizzazione di 31 000 impiegati
Tempo sprecato evitando l’aggressore e/o preoccupandosi di future possibili
azioni negative da lui poste in essere o pensando di lasciare l’organizzazione
$ 2 344 888
Perdita di idee e pensiero innovativo
$ 1 200 000
Aumento dei costi associati a incidenti sul lavoro
$
420 000
Turnover
$ 13 500 000
Totale
$ 17 464 888
pari a circa 12 000 000 euro
Modificato da: Clayton (2004).
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133
PARTE TERZA
COSA FARE: PREVENIRE E CONTRASTARE IL MOBBING
CAPITOLO UNDICESIMO
Sviluppare una policy organizzativa:
un codice di condotta antimobbing
1. I codici di condotta
Una policy è una formulazione precisa di cosa l’organizzazione pensa, delle relazioni che ci si aspetta si instaurino tra i lavoratori e del comportamento organizzativo atteso in una determinata cultura. Inoltre, essa evidenzia quali comportamenti sul posto di
lavoro sono tollerati e quali invece non lo sono. Stilare una policy (anche d’intesa con le
associazioni sindacali) dà una regolamentazione interna e una maggiore stabilità e chiarezza nei rapporti fra i datori di lavoro e i collaboratori e consente di prevenire il crearsi
di situazioni che possono degenerare in casi di mobbing.
È essenziale trasmettere un’idea di organizzazione che si fondi sul principio di solidarietà e armonia sul posto di lavoro, e che favorisca un clima sereno e costruttivo,
garantendo ai dipendenti ascolto, considerazione e supporto nel caso dovessero sorgere
problemi.
In Italia ormai sono numerose le organizzazioni, soprattutto nel settore pubblico,
che hanno sviluppato una policy riguardante il mobbing. Tuttavia, la qualità della sua
stesura non sempre risulta elevata, in quanto appaiono scarsamente esplicati alcuni elementi basilari del mobbing; inoltre la definizione del fenomeno risulta poco esaustiva e
corretta. In Italia le policy sono solitamente di tre tipi:
• viene scritto un codice di comportamento generale per la protezione della dignità della
persona nell’ambiente di lavoro;
• viene scritta una policy che riguarda tutte le forme di molestia morale, mobbing, sexual
harassment, le discriminazioni basate sul genere o sull’orientamento sessuale, sull’appartenenza etnica, sulla fede religiosa, su opinioni politiche o convinzioni personali e
su condizioni personali e sociali;
• viene scritta una policy per il mobbing che risulta separata da quella riguardante le altre
forme di molestia morale sul luogo di lavoro.
137
Mobbing: virus organizzativo
La stesura di una policy è un lavoro che va svolto con la massima accuratezza e che
implica una conoscenza approfondita delle forme del mobbing, altrimenti difficilmente
i lavoratori che ne saranno portati a conoscenza potranno etichettare realmente le loro
esperienze negative come mobbing o come non mobbing. Due sono infatti i rischi principali: in alcuni casi le vittime non riescono a dare un nome alla propria esperienza di
vessazione e quindi attribuiscono a se stessi la colpa per la situazione conflittuale creatasi; le vittime di comportamenti negativi o derivanti da stress organizzativo che non
rientrano nel fenomeno del mobbing etichettano comunque come mobbing le difficoltà
della propria esperienza. Quindi, una policy corretta ed efficace dovrebbe essere formulata tenendo conto di alcuni elementi fondamentali.
Step 1: lo starting point
In primo luogo, sarebbe auspicabile riportare i dati ottenuti da eventuali indagini di
mobbing e molestie morali effettuate precedentemente all’interno dell’organizzazione in
oggetto. Ciò può essere difficile in particolare per organizzazioni medio-grandi, dove la
diffusione del mobbing e di forme di molestia morale potrebbe variare fortemente a
seconda del settore organizzativo. Tuttavia, piuttosto che focalizzarsi troppo sulla qualità del dato (che spesso risulta discutibile dal punto di vista scientifico), è importante
ricordare le iniziative e le survey correlate al fenomeno condotte presso l’organizzazione
ed esplicitarne l’impatto e gli outcome che hanno avuto per il personale. I lavoratori
avranno così la dimostrazione che si è già da tempo iniziato a occuparsi della prevenzione del fenomeno mobbing e della loro qualità della vita lavorativa.
Step 2: chi è coinvolto nella stesura della policy
Le persone coinvolte nel gruppo di lavoro dovrebbero rappresentare le varie componenti dell’organizzazione, rivestendo preferibilmente un ruolo importante all’interno
della stessa. Così facendo viene dato un segnale forte circa l’importanza del problema, di
cui sono portavoce anche le key people dell’organizzazione. Il gruppo di lavoro, variabile
a seconda delle dimensioni dell’organizzazione, dovrebbe quindi coinvolgere almeno un
dirigente di un’area aziendale chiave, un dirigente del settore risorse umane, un eventuale rappresentante di commissioni interne che si occupano del fenomeno, un rappresentante dei sindacati. Sarebbe auspicabile anche avvalersi della consulenza di un esperto o di un facilitatore con adeguate competenze in materia di mobbing. Il consulente
esterno potrà offrire la propria expertise fornendo informazioni dettagliate e precise nonché formulare proposte di soluzioni alternative.
Step 3: il contenuto della policy
Affermazione di impegno/coinvolgimento
Tutte le policy dovrebbero riportare una decisa affermazione di impegno. Ciò avvalora il potere e la legittimità della policy. Alcuni esempi possono essere i seguenti:
L’azienda in oggetto […] è impegnata a ostacolare tutti quegli atteggiamenti offensivi che, ledendo i diritti umani, civili, culturali, religiosi, contrastano palesemente
con una società civile e democratica (ASL 10 Firenze).
138
Sviluppare una policy organizzativa: un codice di condotta antimobbing
Worthing Priority Care NHS Trust dichiara che qualsiasi forma di molestia morale o
mobbing è assolutamente inaccettabile e risponderà seriamente a ogni caso presentatosi con approfondite indagini e prendendo appropriate azioni in merito
(Worthing Priority Care NHS Trust).
Come rilevato da Richards e Daley (2003), la policy dovrebbe contenere:
• un’affermazione in cui si espliciti che il mobbing non è tollerato;
• il riconoscimento che il mobbing è un fenomeno organizzativo;
• un’affermazione in cui si dichiara il diritto dei lavoratori di essere trattati con dignità
e rispetto;
• l’impegno a promuovere un ambiente di lavoro libero dal mobbing;
• un’affermazione che faccia presente ai lavoratori i comportamenti che sono tenuti a
rispettare e che renda noto che, nel caso di mancata osservanza delle regole deontologiche stabilite, verranno prese le dovute e previste sanzioni disciplinari;
• un riconoscimento che il mobbing ha effetti sulla salute della vittima e sull’organizzazione del lavoro, riferendosi, se necessario, alla letteratura e alla giurisprudenza in merito.
Definizione
Inoltre, nella policy deve essere riportata una definizione che possa:
• essere comprensibile da parte di tutti i lavoratori, qualsiasi sia il livello di istruzione o
l’inquadramento professionale;
• essere al contempo dettagliata e accurata, specificando quali sono i criteri basilari caratterizzanti le situazioni di mobbing (cfr. capitolo secondo);
• includere degli esempi di azioni mobbizzanti;
• porre l’attenzione sulla vittima e non sul mobber (in alcuni casi l’aggressore potrebbe
agire in modo non intenzionale);
• evidenziare cosa non debba essere considerato mobbing, inibendo così lo svilupparsi
del processo di percezione soggettiva di essere mobbizzato;
• far capire con chiarezza che le azioni mobbizzanti non sono tollerate neanche a livello di management e gestionale.
Esempi di azioni mobbizzanti
Pressioni o molestie psicologiche, maltrattamenti verbali, intimidazioni, calunnie,
insulti, critiche o rimproveri reiterati e infondati, e ogni altra azione tesa a sminuire il valore della persona; diffusione di notizie riservate, e ogni altra azione rivolta a
creare pregiudizio all’immagine della persona; emarginazione dall’attività lavorativa, atti rivolti a provocare seri disagi alle condizioni fisiche e psicologiche della persona con riguardo all’attività di lavoro e di studio, limitazioni della facoltà di espressione; impedimento sistematico e immotivato all’accesso a notizie e informazioni
inerenti all’ordinaria attività di lavoro e di studio (Università degli Studi di Firenze).
Responsabilità dei manager e dei leader
Una corretta policy dovrebbe contenere un’affermazione riguardante le responsabilità e i doveri dei manager e/o leader nella gestione e nella messa in atto concreta della
stessa policy da parte dei propri collaboratori. È fondamentale responsabilizzare in parti-
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139
Mobbing: virus organizzativo
colare i manager su come essi devono prevenire il fenomeno del mobbing e come devono prendere appropriate precauzioni quando si verificano i primi segnali di molestia.
Una formazione ad hoc per i manager appare non solo utile ma addirittura doverosa.
L’applicazione del codice è demandata ai Direttori delle Unità Operative e delle
Strutture aziendali in quanto la molestia morale/mobbing è una violazione del dovere di comportamenti conformi alle funzioni che essi sono tenuti a rispettare e a far
rispettare.
Al Direttore Sanitario, al Direttore Amministrativo e al Coordinatore dei Servizi Sociali
viene in particolare affidato il compito di vigilare sul rispetto delle norme del codice
da parte dei Direttori delle Unità Operative nei settori di rispettiva competenza.
In particolare tutti i Responsabili di Unità Operative e i Responsabili di Struttura
sono tenuti ad assicurare un clima relazionale confacente allo svolgimento del lavoro e condizioni ambientali e organizzative tali da prevenire eventuali forme di isolamento e discriminazione (ASL 10 Firenze).
Procedimento di segnalazione dei casi di mobbing
La policy deve anche fornire informazioni chiare e precise in merito a come poter
procedere nei casi in cui le vittime vogliano denunciare il mobbing. Se in alcune aziende è possibile rivolgersi ad alcuni referenti, in altre possono non esserci commissioni o
organi deputati alla trattazione del mobbing, per cui sarebbe opportuno che nella policy
venisse esplicitato che la presunta vittima dovrebbe contattare il proprio manager, o nel
caso in cui la vessazione subita provenga proprio da tale figura, un altro manager di
grado pari o superiore, o un manager da egli/ella conosciuto, nel quale ha fiducia, all’interno dell’organizzazione. La policy dovrà indicare le forme, le modalità e le strutture che
possono offrire supporto, nonché indicare le associazioni sindacali e/o altri appositi
organi che possono offrire consulenza.
Nei casi in cui un richiamo diretto da parte della persona importunata sia inefficace
o appaia inappropriato, è possibile rivolgersi alle sotto elencate entità.
Entità responsabili in questo senso sono:
– la commissione interna;
– la delegata per le donne;
– il servizio del personale;
– il servizio sanitario.
Questi, dopo essere venuti a conoscenza dei fatti, devono immediatamente e
comunque al più tardi entro una settimana:
– supportare e consigliare la persona molestata;
– accertare e documentare il fatto mediante colloqui comuni o separati con il molestato e il molestatore;
– chiarire al molestatore i rapporti tra doveri oggettivi e atteggiamenti sul posto di
lavoro e le conseguenze di una molestia nel senso anzidetto sul posto di lavoro;
– proporre a chi di dovere le contromisure ed eventualmente i provvedimenti lavorativo-legali nell’ambito del procedimento in essere;
– approfondire tutte le segnalazioni, anche se confidenziali, e le lagnanze di molestia nel senso anzidetto;
– su richiesta degli interessati, accompagnarli in tutti i colloqui e le discussioni,
incluse le sedute della commissione del personale, consigliandoli e sostenendoli in
rappresentanza.
140
Sviluppare una policy organizzativa: un codice di condotta antimobbing
Circa la partecipazione di persone di fiducia alle sue sedute, la commissione del personale decide in considerazione delle circostanze del singolo caso.
I colleghi molestati possono rivolgersi in ogni momento anche a persone di loro
fiducia e alla commissione interna dell’azienda.
La validità dei § 84 e 85 del regolamento aziendale in merito al diritto generale di
reclamo rimane immutata. Il presente reclamo non deve arrecare danni a chi lo presenta (Accordo aziendale Volkswagen. Atteggiamento di collaborazione sul posto di
lavoro).
Le presunte violazioni alle disposizioni del presente Codice devono essere segnalate
per iscritto al coordinatore della “Commissione interdisciplinare per la trattazione
dei casi di molestia morale” di cui al successivo art. 7, appositamente istituita. Il
Coordinatore esaminerà preliminarmente le situazioni evidenziate per valutarne la
congruità e l’attinenza con i contenuti del presente Codice e darà un primo ascolto
al dipendente, previo appuntamento.
Le segnalazioni dovranno pervenire presso la sede della Commissione.
Il coordinatore, definito il problema, può attivare proposte al fine di indirizzare
verso soluzioni idonee ad affrontare il problema segnalato o investire del caso la
Commissione.
La suddetta Commissione assicura e predispone strategie e percorsi utili alla risoluzione del caso e, qualora, individui responsabilità da parte di singoli o di gruppi nell’azione di molestia morale, può richiedere l’attuazione di procedimenti di natura
disciplinare, o sanzioni consequenziali previste dalle norme vigenti.
Ove la situazione sia tale da richiedere una consultazione diagnostico-terapeutica,
sarà compito della suddetta Commissione indirizzare il dipendente a un servizio specialistico, interno o esterno all’Azienda, appositamente rivolto alla gestione delle
problematiche del mobbing e dello stress lavorativo (ASL 10 Firenze).
Riservatezza
Nella policy dovrebbe essere raccomandata ed essere garantita la totale riservatezza
dei dati: le informazioni e gli eventi, i dati personali dovrebbero essere assolutamente
protetti dal segreto degli uffici nei confronti di terzi che non facciano parte del procedimento. Tutte le persone coinvolte nella trattazione dei casi di mobbing dovrebbero essere tutelate dalla privacy.
Attività di informazione e formazione
Nonostante sia maggiormente auspicabile la formazione delle figure apicali aziendali, che a loro volta possono trasferire “per via gerarchica” ai propri collaboratori i contenuti e i processi appresi, tutti i lavoratori dovrebbero ricevere una formazione di base
sul mobbing. Gli obiettivi principali dovrebbero essere quelli di mettere in luce i principali antecedenti ed effetti del mobbing, fornire una chiara esplicazione della policy e verificarne la comprensione, offrire delucidazioni su come segnalare gli incidenti, fornire
strumenti e strategie per gestire il conflitto e così via.
Anche l’informazione dovrebbe essere capillare e circolare ai vari livelli organizzativi, nonché risultare facilmente accessibile a tutti: pubblicazioni della policy, poster, flyers,
informazioni attraverso e-mail sono particolarmente funzionali per una corretta diffusione della policy.
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141
Mobbing: virus organizzativo
Il Coordinatore della Commissione, i Comitati Pari Opportunità e i dirigenti devono dare particolare risalto ai progetti che comprendano prevenzione, formazione e
informazione in relazione alle tematiche di cui al presente Codice.
In particolare dovranno essere previsti interventi formativi, anche in collaborazione
con soggetti pubblici o privati, sulle qualità manageriali necessarie al miglioramento del clima relazionale e alla prevenzione del mobbing.
Sarà cura del Coordinatore della Commissione dare periodica informazione ai
Comitati Pari Opportunità sulle attività aziendali inerenti ai temi in oggetto e promuovere la diffusione di una cultura del rispetto fra tutti i dipendenti (ASL 10
Firenze).
Supporto per i mobbizzati
La policy dovrebbe, inoltre, rimarcare come il mobbing influenzi negativamente la
prestazione lavorativa provocando effetti altamente disfunzionali sullo stato di salute
della vittima. Chi avverte sintomatologie connesse al mobbing potrebbe sentirsi incoraggiato a segnalare all’organizzazione il proprio vissuto di vessazione e/o a cercare qualche forma di supporto o aiuto. È evidente che non devono esistere forme di discriminazione nei confronti di chi soffra o abbia sofferto di problemi di salute dovuti al mobbing,
e la massima attenzione dovrebbe essere posta nei confronti di coloro che sono stati
assenti a lungo dal posto di lavoro, con l’eventuale possibilità di fornire forme di supporto, quali riabilitazione o counseling psicologico, se ritenute necessarie.
Step 4: il monitoraggio della policy
Ogni policy deve essere soggetta a monitoraggio nel tempo. Il monitoraggio è necessario in quanto permette di valutare l’efficacia e l’adempimento degli intenti contenuti
nella policy. Inoltre, riflette un impegno duraturo dell’organizzazione di fare fronte al
mobbing, incoraggiando indirettamente le vittime a denunciare la propria situazione
qualora si sentano (o siano) oggetto di violenza morale e psicologica sul proprio luogo
di lavoro. Il monitoraggio dovrebbe avvenire nel medio/lungo termine (ad esempio, una
volta all’anno o ogni due anni), o nel momento in cui si presentino uno o più casi di
mobbing all’interno dell’organizzazione.
142
CAPITOLO DODICESIMO
Valutare i rischi psicosociali
1. I rischi psicosociali
Come sottolineato nei capitoli precedenti e dimostrato dalla copiosa letteratura di
riferimento, il mobbing provoca un danno alla salute della vittima. Partendo da questo
concetto in ambito lavorativo, si comprende che ci si trova davanti a un fattore di rischio
di reale pericolosità: pertanto anche per il mobbing vale lo stesso ragionamento che
viene fatto per gli altri rischi (di natura fisica e chimica) inerenti agli ambienti e all’organizzazione del lavoro. Trattandosi di rischio prevedibile, va programmata ed effettuata un’adeguata opera di prevenzione. Tuttavia, per una precisa valutazione è necessario
un approccio strutturato che integri i vari elementi.
Come già scritto precedentemente, quando la persona si percepisce vittima di mobbing inizia a manifestare problemi di salute che possono poi aggravarsi fino a sfociare in
gravi disturbi (cfr. gli effetti del mobbing a lungo termine). Appare, pertanto, prioritario
intervenire quando il mobbizzato è ancora ai primi stadi e i problemi di salute si sono
manifestati soltanto per un breve periodo. È necessario, quindi, avere tutti gli strumenti per l’individuazione della percezione soggettiva di mobbing, al fine di ridurre o annullare sia le possibili conseguenze negative, ad essa connesse, sia l’intensificazione della
situazione conflittuale già in atto.
In questa sezione vengono brevemente presentati i concetti chiave dello studio dei
rischi psicosociali in una prospettiva di risk management e vengono discusse le conseguenze dei fattori psicosociali sulla salute, ma ampliando il contesto di riferimento. Gli
studi scientifici che hanno messo in luce un legame diretto tra lo stress organizzativo e
le conseguenze negative sulla salute sono ormai numerosi, e a livello teorico, considerando che il mobbing è stato concettualizzato come una forma estrema di stress
(Favretto, 2005; Zapf, 1999), non si può non tenere in considerazione anche la letteratura scientifica sullo stress occupazionale come starting point per un approccio di misurazione integrato del mobbing.
143
Mobbing: virus organizzativo
È evidente che i rischi psicosociali sul lavoro non possono essere eliminati in assoluto, ma possono e devono essere controllati, ridotti e resi meno dannosi possibile. Lo
scopo del risk management è, pertanto, quello di minimizzare, piuttosto che rimuovere,
il rischio di danno o, più precisamente, ridurre il rischio a un livello che sia accettabile.
In questa logica, occorre distinguere il concetto di pericolo, ovvero ciò che ha il potenziale di causare il danno, dal concetto di rischio, ovvero la probabilità che questo danno
si verifichi.
Cox (1993) definisce il pericolo come un aspetto della mansione, dell’organizzazione e della gestione del lavoro che può provocare danni psicologici o fisici alla persona.
Considerare il pericolo come correlato/connesso all’espletamento dei compiti propri
della mansione o del ruolo ricoperto implica che il singolo lavoratore possa, in qualche
circostanza, essere considerato responsabile: ad esempio, se ha messo in atto pratiche
lavorative inappropriate e/o non sicure. Tuttavia, la responsabilità finale per il controllo
dell’esposizione al rischio è del datore di lavoro. In questo senso l’approccio è compatibile con un’ottica organizzativa di natura psicosociale che enfatizza il ruolo dell’ambiente di lavoro, piuttosto che quello dell’individuo, nel generare particolari problematiche (Cox, 1993).
In linea con questa piattaforma teorica, in cui il luogo di lavoro è la fonte dei pericoli, emerge l’assunzione che i pericoli dovrebbero essere rimossi alla fonte, invece che
richiedere ai singoli di adattarsi a far fronte a un ambiente pericoloso e dannoso. Questo
concetto viene definito con il termine gerarchia di controllo. Ad esempio, l’uso di vestiti
protettivi per ridurre l’esposizione a vapori tossici (guanti, maschere, elmetti) dovrebbe
essere considerato come l’ultima opzione possibile, da attuare quando tutte le ricerche e
i controlli eseguiti avessero provato l’impossibilità di adottare altre soluzioni (Molyneux,
1999). Applicando questo approccio al rischio mobbing, formare alla gestione di tecniche di coping individuali (prevenzione secondaria) potrebbe essere considerato un inadeguato surrogato. Nella valutazione del rischio mobbing ci si muove invece nella direzione dell’eliminazione delle fonti di stress organizzativo e delle inefficienze dell’organizzazione del lavoro (prevenzione primaria).
Un altro elemento caratterizzante la valutazione dei rischi psicosociali è, appunto,
il danno, ossia la natura e il tipo di impatto che si ha sulla salute dei lavoratori. Il danno
può essere acuto o cronico e presentare conseguenze negative sulla salute fisica (ad esempio, sul sistema immunitario, su quello cardiocircolatorio, su quello digerente ecc.) e
sulla salute psicologica. Negli studi sullo stress, gli effetti disfunzionali maggiormente
riscontrati sulla salute mentale sono ansia e depressione; nel mobbing, oltre all’ansia e
alla depressione, frequentemente sono stati riscontrati anche il disturbo post-traumatico da stress e il disturbo di adattamento, mentre riguardo alla salute fisica è il metabolismo il più colpito. Evidenziati i possibili effetti critici, è necessario considerare il rischio,
ovvero il grado in cui l’esposizione al pericolo porterà al danno. Una strategia preventiva dovrebbe avvalersi di misure di sorveglianza e controllo, costruite sulla base delle relazioni esistenti fra rischio potenziale, danno e rischio fattuale.
Nella letteratura di ricerca sullo stress occupazionale e sul mobbing, numerosi studi
hanno dimostrato in modo convincente un’associazione tra caratteristiche dell’ambiente di
lavoro e problemi di salute. Tuttavia, tali risultati sono a volte inficiati da problemi metodologici, pertanto un effetto causale delle caratteristiche del lavoro sulla salute (ad esempio, che una determinata caratteristica dell’ambiente lavorativo porti a un particolare
effetto disfunzionale sulla salute della persona) è difficile da dimostrare. La dimostrazio-
144
Valutare i rischi psicosociali
ne dell’effetto causale rischio-salute appare, invece, essenziale in quanto, se l’associazione non è causale, gli interventi per far fronte ai rischi psicosociali potrebbero non
migliorare il benessere dei soggetti target (Macleod e Davey Smith, 2003).
Filoni di ricerca affini evidenziano la relazione causale tra rischi psicosociali e danno
alla salute. Questa è stata rilevata in studi empirici condotti su lavoratori in situazioni di
reale vita lavorativa, in studi sui meccanismi biologici fondanti la relazione rischiodanno alla salute e nelle indagini organizzative effettuate con l’ausilio di survey e report.
I primi sono stati compiuti sia in laboratorio (Frakenhauser, 1981), con simulazioni di
contesti organizzativi (Cox, Cox, Thirlaway e Mackay, 1982), sia sul campo (Mackay,
1984; Parkes, Mendham e von Rabenau, 1994), sia utilizzando report clinici (Broadbent,
1981) o case study (Parker e Williams, 2001). Per quanto riguarda, invece, i meccanismi
biologici, numerose evidenze empiriche dimostrano una moltitudine di processi biologici che mediano il legame tra stress e stati di disagio psicologico e/o fisico (ad esempio,
Brunner, 2002; Sapolsky, 2003). I meccanismi principali che collegano i rischi psicosociali a determinate disfunzioni nello stato di salute, possono essere così sintetizzati:
• cambiamenti omeostatici e dei meccanismi allostatici in risposta allo stress (Sterling e
Eyer, 1998);
• cambiamenti neuroendocrini (Frakenhauser, 1981) e alterazioni delle funzioni autonome (O’Connor, O’Connor, White e Bundred, 2000);
• sviluppo di sindromi metaboliche e resistenza all’insulina (Brunner, 2002);
• problemi nella coagulazione del sangue (Brunner, 2002);
• infiammazioni e risposte immuni che mediano la suscettibilità a infezioni (Cohen et
al., 1998);
• meccanismi psicologici come ansia e ipervigilanza (Mann, 1992).
Nell’ambito dei rischi psicosociali, infine, molti sono i dati di ricerca che confermano la connessione tra lavoro e disfunzionalità sullo stato di salute mentale e fisico, sul
sistema immunitario e sui livelli di pressione sanguigna. Ciò accade quando c’è una
discrepanza fra le abilità, le capacità, i valori della persona e le richieste del lavoro; il risultato è una mancanza del fit person-environment (persona-ambiente), che contribuisce a una
percezione delle richieste dell’ambiente come conflittuali e ambigue rispetto al ruolo,
determinando un sovraccarico (Caplan, 1987). Tale sovraccarico può essere di tre tipi:
• sovraccarico di ruolo: le aspettative di coloro che hanno creato il ruolo superano le
effettive capacità di chi dovrà interpretarlo;
• conflitto di ruolo: vi sono percezioni contraddittorie delle aspettative, dei valori e delle
richieste degli individui nei confronti del proprio lavoro;
• ambiguità di ruolo: la persona percepisce un grado di incertezza nei confronti dei doveri e delle aspettative in relazione al lavoro.
La connessione tra lavoro e disfunzionalità sullo stato di salute mentale e fisico è
evidente anche:
• nel modello di Karasek (1979) “Domanda/Controllo”. Esso si focalizza sull’interazione
fra le richieste sul lavoro, il margine di decisione e il controllo dei lavoratori nel soddisfare queste richieste. In modo particolare, il grado di controllo che la persona crede
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145
Mobbing: virus organizzativo
•
•
•
•
di avere nelle situazioni incide sulla cognitive appraisal di una data relazione personaambiente (Lazarus e Laumier, 1978) e rappresenta l’ingrediente principale del coping
(Lazarus e Folkman, 1984). All’interno di questo orientamento, un filone di ricerche
suggerisce che taluni fattori, quali il controllo sui propri compiti, la partecipazione alle
decisioni, il comportamento di coping, possono modificare il livello di stress percepito o la relazione fra stressor e salute (Caplan, 1987);
nella mancanza di supporto organizzativo. Il ruolo chiave del supporto è stato, per
lungo tempo, focus di un programma estensivo di ricerca europea che legava il supporto sociale a outcome sulla salute. Nella letteratura organizzativa il supporto sociale è
definito in termini di qualità delle relazioni instaurate dai lavoratori nei confronti dei
supervisori, colleghi, famiglia e amici e in termini di assistenza e disponibilità da essi
ricevuti nello svolgimento della mansione;
in presenza di cambiamento organizzativo. Il cambiamento organizzativo, se mal gestito, può creare forte stress. Ci sono molti esempi in letteratura di programmi di cambiamento che sono risultati disastrosi (Burnes e Weekes, 1989; Cummings e Huse, 1989
ecc.) e dannosi;
quando ci sono cattive relazioni interpersonali. Selye (1974), uno dei più famosi studiosi dello stress, asseriva che vivere con altre persone è uno degli aspetti più stressanti della vita. Le relazioni sul lavoro implicano frequenti interazioni di un individuo con colleghi, superiori ecc. Queste relazioni oltre ad essere fonte di supporto
sociale, come già ricordato, possono anche essere fonte di stress. Arnold, Cooper e
Robertson (1998) evidenziano che queste relazioni sociali, fonte di stress, sono caratterizzate da mancanza di fiducia, scarso supporto e scarso interesse per gli altri e per
venire incontro alle problematiche lavorative altrui. Quick e Quick (1984) identificano cinque stressor interpersonali che sono generati dal sistema delle relazioni sociali
al lavoro: incongruenza di status, densità sociale, personalità abrasive, stile di leadership, pressione di gruppo;
nel mobbing. I risultati empirici enfatizzano gli effetti altamente disfunzionali delle
azioni mobbizzanti sulla salute fisica e mentale e sull’organizzazione (cfr. capitolo
nono, paragrafi 5-7), contribuendo a rafforzare l’associazione rischi psicosociali e
danno alla salute. Per essere sicuri che il rischio psicosociale sia effettivamente coinvolto nella catena causale dello sviluppo del disagio, è bene ricordare quegli studi che
hanno implicato il cambiamento del job design e che avevano l’obiettivo, attraverso l’eliminazione o la riduzione dell’esposizione al rischio, di diminuire il livello del disagio
(Parker, Jackson, Sprigg e Whybrow, 1998). È stato dimostrato che quando veniva effettuato il job redesign e le risorse umane venivano coinvolte attivamente nel cambiamento (che appare essere un requisito imprescindibile), il benessere dei lavoratori raggiungeva livelli decisamente più positivi ed elevati. In un recente studio condotto presso il Department of Veterans Affairs negli Stati Uniti, Keashly (2005) ha evidenziato
che l’introduzione di un redesign nel sistema organizzativo comportava una diminuzione delle azioni negative e dei comportamenti ostili subiti dai lavoratori, minore turnover e maggiore partecipazione e soddisfazione lavorativa.
Per concludere questa breve introduzione sul risk management, va ricordato che la
valutazione del rischio richiede una serie di step operanti in continuo feedback: identificare e definire il problema o il pericolo; valutare la frequenza e la severità del pericolo, il
numero delle persone affette dal problema e i fattori presenti sul posto di lavoro che pos-
146
Valutare i rischi psicosociali
sono aumentarne il rischio. Questi due step costituiscono il cuore del processo di risk
assessment. Sulla base di questa stima, dovrebbero essere attuate misure preventive cui far
seguire una valutazione sulla funzionalità ed efficacia degli interventi.
2. Valutazione del rischio mobbing: un modello psicosociale
Riconoscimento del pericolo
Identificare la presenza di un potenziale pericolo costituisce il primo step di un processo di risk management. Per prima cosa occorre una definizione condivisa della minaccia in questione. Nel caso di mobbing, occorre stabilire quali siano i comportamenti non
accettabili e quelli, invece, tollerabili sul posto di lavoro. Ovviamente, è essenziale la percezione soggettiva dell’individuo, che non solo può variare da persona a persona, ma
anche all’interno dello stesso individuo nel tempo. Inoltre, ciò che costituisce mobbing
è in qualche modo soggetto alla cultura organizzativa e alla cultura nazionale (creando
particolari difficoltà nel caso di aziende multinazionali).
Gli aspetti principali che dovrebbero essere considerati per giungere a una definizione condivisa sono: la natura e le caratteristiche dei comportamenti negativi, la loro
frequenza e durata, i criteri basilari caratterizzanti situazioni di mobbing. L’obiettivo
principale è creare una comune comprensione, nell’organizzazione, di cosa costituisca
mobbing e di cosa, invece, non lo sia. È inevitabile che questa comprensione risulti
approssimativa rispetto alle definizioni più precise che si possono incontrare per descrivere, ad esempio, rischi fisici e chimici, in quanto molti pericoli non possono essere
misurati o calibrati con l’ausilio di determinate scale. In ambito ergonomico, ad esempio, molti pericoli sono descritti dal punto di vista qualitativo e quindi soggetti a diverse interpretazioni (Pheasant, 1987).
Valutazione del rischio
Essenziale, nella fase di valutazione del risk management, è determinare se una organizzazione abbia un problema serio in relazione alla minaccia in questione. Per far ciò,
occorre acquisire i seguenti tipi di informazione: la frequenza degli incidenti di mobbing, il numero delle persone affette da mobbing, le caratteristiche delle persone affette
(il tipo di lavoro, il livello di inquadramento, l’età, il genere ecc.), la frequenza degli incidenti per chi presenta gravi problemi sulla salute, il totale dei giorni malattia e di turnover dello staff e, infine, le caratteristiche dell’organizzazione che costituiscono fattori
di rischio. Rispondere a queste domande comporterà molti elementi di soggettività, per
cui nella maggior parte dei casi la percezione soggettiva rappresenta ancora una volta la
misurazione più valida per il mobbing. Ciò risulta familiare per coloro che lavorano nelle
discipline psicologiche, ma potrebbe presentare difficoltà per alcuni professionisti o per
manager e datori di lavoro.
Per quanto riguarda il metodo di indagine per un setting organizzativo, l’approccio
qualitativo è estremamente funzionale, in considerazione della sensibilità del tema e
delle difficoltà di costruire uno “spazio di riflessione su” nel luogo di lavoro. Tuttavia
anche l’approccio quantitativo è indicato, in quanto i questionari possono offrire maggiori garanzie sull’anonimato e tale aspetto è necessario e altamente auspicabile in un’in-
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147
Mobbing: virus organizzativo
dagine che ha come oggetto il mobbing. Bisogna, comunque, sottolineare che i questionari self-report potrebbero sovrastimare o sottostimare la diffusione del fenomeno. Il
mobbing quindi deve essere misurato con strumenti non solo validi e attendibili, ma ai
quali vengono applicati criteri specifici per consentire una individuazione inequivocabile delle potenziali vittime (come il NAQ-R Italia). È ormai noto da tempo che i rischi psicosociali in generale, e il mobbing in particolare, sono spesso mal interpretati a tutti i
livelli dell’organizzazione, il che significa che il datore di lavoro e i lavoratori sono poco
attrezzati nel riconoscere e nel riportare forme specifiche di mobbing, e ciò vale per tutti
gli attori: mobbizzati, mobber o testimoni.
Come per gli altri rischi lavorativi, quindi, la valutazione del mobbing richiede un
elevato grado di competenza ed è necessario studiare nel dettaglio quali siano i casi più
rischiosi che necessitano di un intervento prioritario. Un’indagine tesa alla valutazione
del rischio mobbing dovrebbe, perciò, delineare un quadro delle possibili scelte di priorità di intervento sulle situazioni, utilizzando indici quali gravità (G), probabilità (P),
rilevabilità (R), che sono finalizzati a caratterizzare la criticità del caso.
Con la gravità si intende quanto severo può essere l’effetto dell’azione, la probabilità è relativa alla prevedibilità del verificarsi di tale azione e la rilevabilità concerne il
grado di evitabilità che si producano gli effetti dell’azione. Nella determinazione del
terzo indice, va tenuto conto della probabilità che verificatosi l’evento, questo porti
all’effetto studiato. È infatti possibile interrompere la catena di causalità fra evento ed
effetto dannoso.
La metodologia sopra indicata si propone di studiare il problema con un approccio
integrato, cercando di oggettivare la criticità delle possibili azioni di mobbing sulla base
della percezione soggettiva della vittima, e intervenendo grazie a una lista di priorità,
con l’obiettivo di ridurre o abbattere il tasso di rischio. Le aree indagate per la valutazione dei rischi psicosociali e del mobbing all’interno delle organizzazioni dovrebbero
essere strettamente connesse alla percezione di azioni mobbizzanti subite dalle presunte
vittime, ma al contempo dovrebbero mettere in luce eventuali problematiche rispetto
allo stato di salute della persona, nonché considerare la percezione negativa di variabili
organizzative antecedenti al fenomeno e i possibili stressor organizzativi. Queste variabili organizzative, come esposto nei precedenti capitoli, possono in qualche modo funzionare da filtro per la percezione di mobbing.
Dall’esperienza consulenziale degli Autori e dagli studi condotti, il rischio mobbing
dovrebbe essere misurato con un questionario strutturato che includa:
•
•
•
•
•
•
•
percezione soggettiva di mobbing e self-labelling;
intensità delle azioni mobbizzanti subite;
frequenza delle azioni di mobbing;
durata del mobbing;
asimmetria di potere tra le parti (reale o percepita) e self-efficacy;
danno: cognitivo, psicologico, fisico, lavorativo;
percezione negativa di clima organizzativo o di variabili organizzative antecedenti al
mobbing.
Se tali variabili convergono nella direzione del mobbing, è possibile ipotizzare che
l’esposizione al rischio, già portatrice di effetti disfunzionali (ansia, stress, percezioni
negative dell’organizzazione ecc.), si possa manifestare nel danno: peggioramento dello
148
Valutare i rischi psicosociali
stato di salute, forte depressione, ansia cronica, disturbo post-traumatico da stress,
disturbo di adattamento. La portata del rischio può essere calcolata, sulla base degli indici gravità, probabilità e rilevabilità sopra descritti, applicando scale self-report utilizzate
dagli Autori in varie ricerche/intervento condotte presso diverse organizzazioni. L’indice
di gravità può essere quantificato utilizzando diverse sottodimensioni: l’intenzione di
lasciare l’organizzazione, la performance lavorativa, lo stato di salute e le percezioni di
clima organizzativo. La probabilità, invece, include la percezione di comportamenti vessatori subiti e il self-labelling, l’ammissione della vittima di subire il mobbing. La rilevabilità contiene invece l’asimmetria di potere e la self-efficacy.
Nella figura 12-1 vengono riportate le variabili considerate nel modello di rischio,
frutto di un review della letteratura scientifica e dell’esperienza consulenziale degli
Autori. Se l’indice GxPxR assume un certo valore critico, vuole dire che si è in presenza
di mobbing e che un danno grave può essere prodotto a livello di singola persona. Tale
calcolo va ripetuto per tutta la popolazione appartenente a quella data organizzazione e,
pertanto, è possibile anche mettere in luce il rischio aggregato di mobbing in un determinato contesto organizzativo. Sulle basi di questo modello, il profilo tipico del mobbizzato è quello di una persona che si dichiara vittima e ritiene di subire comportamenti vessatori legati alla propria attività lavorativa in modo sistematico e per un certo lasso
di tempo, manifesta problemi nella sfera della salute, può presentare assenteismo e un
Figura 12-1
Quantificazione del rischio mobbing
P (Probabilità,
diffusione)
NAQ-R Italia
Self-labelling
(percezione soggettiva
di mobbing)
G×P×R
Indice priorità rischio
G (Gravità)
Assenteismo
Performance
Stato di salute
Clima
Intenzione di
lasciare l’azienda
R (Rilevabilità)
Self-efficacy
Asimmetria di potere
MOBBING
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149
Mobbing: virus organizzativo
calo nella produttività ed efficienza, è soggetta a stressor nell’organizzazione del lavoro,
percepisce il clima organizzativo in modo negativo ed è arrivata a uno stadio del conflitto in cui vive un’asimmetria di potere (reale o percepita) nei confronti del mobber, che
non permette di difendersi.
Prevenzione e controllo
L’ultima fase del processo di risk management riguarda l’impianto di misure che prevengono o controllano l’esposizione al rischio di mobbing. Ciò implica non soltanto
portare avanti specifiche azioni per limitare l’esposizione, ma anche costruire sistemi
che assicurino l’implementazione e la valutazione regolare delle azioni attuate e dei
loro effetti.
Innanzitutto, l’intervento dovrebbe essere basato sul cambiamento dei fattori antecedenti del mobbing nell’ambiente lavorativo, al fine di ridurre il rischio che possano
continuare a sussistere (rimuovere alcune con-cause). Dove c’è il mobbing, molte caratteristiche potrebbero essere state identificate nel corso di una valutazione dei rischi psicosociali più generali, ad esempio fattori come workload, qualità della comunicazione,
leadership e opportunità per lo sviluppo personale (Cox, 1993). Lo stress prodotto sia a
livello individuale che organizzativo può essere espresso non soltanto nel mobbing ma
anche in altre forme di conflitti, comportamenti ostili, inciviltà. Potranno, pertanto,
essere utilizzati interventi che formulano strategie per ridurre lo stress occupazionale alla
fonte, in linea con la gestione della prevenzione di altri “rischi convenzionali”. Tuttavia
il mobbing ha specifici e determinati antecedenti organizzativi, per cui saranno proprio
quegli interventi che si focalizzano sulle variabili pertinenti al fenomeno, a permettere
di ridurne davvero il rischio. Più l’intervento sarà preciso, basato su caratteristiche che
in un determinato ambiente lavorativo predicono il mobbing, maggiore risulterà la qualità, l’efficacia e il grado di successo dell’intero processo.
Valutazione
L’elemento finale in un sistema di gestione del rischio è la valutazione dell’efficacia
delle misure che sono state adottate (Cox, Griffiths, Barlowe, Randall e Rial-Gonzalez,
2000). Essa consta di tre elementi fondamentali: il contenuto, il processo, l’efficacia. Per
ciascuno di essi è fondamentale che ci si pongano e si risponda positivamente alle
seguenti questioni.
• Contenuto. Le procedure stabilite coprono, o hanno coperto, tutti gli aspetti del problema? Nel caso del mobbing, queste dovrebbero tenere conto dei seguenti punti: fare
informazione e formazione rivolte a tutti i dipendenti, intervenire tempestivamente e
gestire al meglio i casi di mobbing, programmare accuratamente la prevenzione primaria.
• Processo. I meccanismi del processo funzionano come previsto? Il lavoratore sa riconoscere e comprende cosa è il mobbing? La definizione di mobbing dei lavoratori coincide con quella dell’organizzazione? I lavoratori segnalano la loro esperienza di mobbing alla persona giusta e in modo appropriato? C’è certezza che vengano presi provvedimenti quando il mobbing viene denunciato? Le misure di natura preventiva e la
loro implementazione sono sotto controllo? Funzionano?
150
Valutare i rischi psicosociali
• Efficacia. Quanto è efficiente/efficace il sistema implementato per ridurre o per eliminare il mobbing dall’organizzazione? Questo è l’aspetto più problematico della valutazione, in quanto, per i rischi psicosociali, il lasso di tempo fra la progettazione, l’implementazione e realizzazione dell’intervento e i risultati finali da esso prodotti può
coprire un periodo di mesi o anni.
3. Prevenire il mobbing migliorando il clima organizzativo
Già negli anni Quaranta Lewin aveva dato all’atmosfera psicologica un posto preciso nell’ambito della sua teoria del campo, considerando la persona e il suo ambiente
come un’unica costellazione di fattori interdipendenti. Su queste basi storiche si sono
succeduti nel tempo vari approcci ai climi organizzativi. Da alcuni il clima organizzativo è stato riferito a determinanti esterne, ovvero alla struttura, ai sistemi premianti, alla
logistica ecc., da altri alle determinati interne all’individuo che interpreta la situazione.
Altre teorie evidenziano la componente della condivisione del contesto, oppure più
recentemente mettono in luce il ruolo centrale che la cultura gioca nella formazione dei
processi di produzione del clima (D’Amato e Gazzaniga, 2001). Da queste considerazioni si evince che il clima:
•
•
•
•
•
è un fenomeno multidimensionale a cui partecipa una pluralità di elementi;
nasce e si produce nelle relazioni tra individui e organizzazioni;
è un fattore percettivo;
ha carattere valutativo;
è frutto di influenze individuali, sociali, situazionali, culturali.
Come puntualizzano Majer et al. (2002), diagnosticare l’organizzazione significa
effettuare un’analisi globale dell’azienda trattandola non più solo come un fatto obiettivo, esterno, tecnico, ma considerandone l’insieme degli atteggiamenti, dei sentimenti e
delle percezioni, dei fattori critici per la qualità della vita lavorativa. La diagnosi organizzativa mediante l’analisi del clima ha costituito, pertanto, la base di riusciti percorsi
tesi a studiare le organizzazioni come realtà strutturali e con un approccio di tipo psicologico, e il costrutto di clima si può annoverare, assieme a quello di cultura organizzativa, tra i due più importanti costrutti di cui la ricerca si può avvalere per la comprensione della dimensione umana delle organizzazioni, nonché per la sua importanza nel
modellare la vita organizzativa (D’Amato e Majer, 2001). Ne consegue che un numero
sempre crescente di aziende pubbliche e private, cogliendo i vantaggi che un “buon
clima sociale” può portare ai livelli di produttività e alla soddisfazione dei dipendenti, è
orientato a fare ricerche/intervento di clima al fine di valutare “le percezioni relative alla
struttura, le percezioni dei rapporti, delle relazioni e delle attività che, all’interno dell’organizzazione, si definiscono” (Majer et al., 2002, p. 66) e che costituiscono il fondamento del comportamento organizzativo.
Chi effettua una diagnosi spesso come prima cosa vuole conoscere la sua utilità in
termini pragmatici e funzionali e, dal momento che i vantaggi pratici non mancano,
deve essere compito primario del ricercatore, o del consulente di processo, informare
direttamente la direzione sui seguenti marker.
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151
Mobbing: virus organizzativo
• La diagnosi di clima è una “fotografia” del particolare momento che sta attraversando l’organizzazione che può fornire informazioni precise, ma pur sempre di tipo
conoscitivo (diagnostico appunto), e non si configura come già terapia. Va pure evidenziato a chiare lettere come si tratti di un esempio di action-research. Ne consegue
che il momento stesso in cui si effettua la misurazione, e si creano presupposti per un
cambiamento, comporta già varie modifiche all’interno del sistema osservato. È fondamentale, proprio per la natura del cambiamento sollecitato, che tutto venga gestito con la massima trasparenza, al fine di evitare ogni forma di resistenza da parte dei
partecipanti. Gli obiettivi devono essere chiari e ben illustrati a tutti i livelli e deve
essere garantito l’anonimato a tutti gli individui che parteciperanno in modo attivo e
consapevole.
• Come afferma Spaltro (1977), il “check-up organizzativo” ha, e deve avere, una valenza psicosociale in cui la componente soggettiva-individuale, sempre trascurata in nome
di esigenze strutturali e oggettive, si riappropria della dinamica organizzativa mediante una più diffusa presa di coscienza dell’importanza dei problemi quotidiani e della
possibilità di risolverli. “Conoscere il proprio punto di vista è sempre fonte di maggiore coscienza e incidenza sulla realtà, ma conoscere anche l’altrui punto di vista dà forza
e speranza in un cambiamento fatto su richiesta e nell’interesse dei molti (se non di
tutti) e non su imposizione e pseudo tecnicismo dei pochi incontrollati e arbitrari
potenti, tradizionalmente e totalizzantemente padroni del fatto organizzativo”
(Spaltro, 1977, p. 17).
• L’analisi di clima assume spesso un ruolo motivante e, stimolati dall’interesse concreto che la Direzione mostra nei loro riguardi, i lavoratori tendono a mostrare maggiore
soddisfazione e un conseguente aumento di arousal generale, che potrebbe generare un
netto aumento della produttività (effetto Hawtorne). È evidente che una diagnosi di
clima organizzativo generi un’attenzione particolare mirata alle aspettative che essa
crea negli individui, ed è altrettanto evidente che queste aspettative vadano negoziate
nella direzione unanime della condivisione e del realismo, affinché nessuno possa sentirsi deluso dall’inadeguatezza delle risposte fornite alla fine dall’organizzazione.
• Il continuo e insostituibile processo di feedback, teso alla condivisione a tutti i livelli
delle varie fasi del processo e dei risultati attraverso comunicati, riunioni o incontri di
gruppo, può favorire l’aumento della coesione tra quegli individui che riusciranno a
cogliere la loro reciproca interdipendenza.
• La diagnosi di clima non può non avere un seguito comprendente la pianificazione
dettagliata di interventi formativi o di cambiamenti, sia strutturali che relazionali,
mirati a modificare aspetti critici emersi. Deve essere, altresì, un momento di programmazione di nuove misurazioni a distanza nel tempo, se non dell’intera multidimensionalità climatica, almeno di quelle variabili che hanno mostrato maggior salienza. Solo in questo modo è possibile osservare, in modo scientifico, gli effetti delle azioni condotte e misurare, oggettivamente, i cambiamenti ottenuti mediante la comparazione delle diverse analisi.
• L’analisi di clima può prevenire il verificarsi di rischi psicosociali e mobbing. Ad esempio il burnout è presentato in taluni studi come un effetto dell’ambiente organizzativo; il conflitto tra le aspettative del ruolo e le politiche organizzative costituisce la forza
che scatena la sindrome; l’innalzamento dell’autonomia del gruppo di lavoro è proposta come una delle possibili soluzioni per arginare l’insorgere della sindrome
(Friedman, 1991).
152
Valutare i rischi psicosociali
Il contesto organizzativo è una variabile determinante anche nello stimolare le
dimensioni cognitive e motivazionali sottostanti alle molestie sessuali (Fiske e Glick,
1995). Nel riconosciuto modello di Fitzgerald, Drasgow, Hulin, Gelfand e Magley (1997),
il sexual harassment è considerato un fattore specifico di stress organizzativo che media
la relazione tra il clima e tre outcome: la soddisfazione lavorativa, la salute/benessere, le
condizioni psicologiche. Il clima viene definito come la tolleranza organizzativa nei confronti del sexual harassment ed è operazionalizzato in tre subscale: risk of reporting, likelihood of being taken seriously, probability of sanctions. I risultati dello studio dimostrano
un aumento di episodi di sexual harassment quando nelle organizzazioni si ha un clima
favorevole al suo emergere.
Per quanto concerne infine il mobbing, nella letteratura di ricerca degli ultimi dieci
anni è stato approfondito lo studio di variabili organizzative che, considerate singolarmente o in interazione tra loro, possono favorire comportamenti vessatori sul lavoro
(Depolo, 2003; Einarsen et al., 1994; Giorgi e Majer, 2004; Notelaers et al., 2004; Salin,
2003; Vartia, 1996; cfr. capitolo decimo).
Per quanto riguarda il rapporto tra mobbing e clima aziendale alcuni studi (Einarsen
et al. 1994; Vartia, 1996) hanno messo in luce come il mobbing sia legato a una percezione negativa del clima organizzativo: ad esempio, basso livello di cooperazione e alto
livello di competizione interna. Anche in uno studio italiano sulla qualità della vita organizzativa e sul mobbing (Depolo, 2003), viene fatto presente come il clima organizzativo, nelle sue dimensioni di team, comunicazione, leadership e libertà, abbia un legame
consistente con la presenza di azioni mobbizzanti. Vartia (1996) e Einarsen et al. (1994)
hanno evidenziato una correlazione significativa tra mobbing e percezione negativa del
clima organizzativo sotto forma di scarsa cooperazione sul lavoro, elevata competizione
interna e invidia. In uno studio di Zapf (1999) emerge che le vittime di mobbing percepiscono il clima organizzativo e l’ambiente di lavoro in modo più negativo rispetto alle
non vittime.
Da una survey condotta presso dodici organizzazioni italiane su un campione totale di più di 926 soggetti, le dimensioni climatiche che predicono il mobbing, e sulle quali
l’organizzazione dovrebbe porre maggiore attenzione, risultano essere (cfr. figg. 12-2 e
12-3): il gruppo di lavoro, il ruolo lavorativo, il dinamismo organizzativo, la leadership
e l’innovatività (Giorgi, in corso di stampa). Tali dimensioni sono state dedotte dal
Majer_D’Amato Organizational Questionnaire 10 (M_DOQ10; D’Amato e Majer, 2005a), un
questionario per la misura del clima organizzativo, sviluppato e validato come ausilio
all’attività dei responsabili delle risorse umane e dei consulenti aziendali di sviluppo
organizzativo.
A giudizio di chi scrive, una diagnosi globale del clima organizzativo al fine di ridurre il mobbing potrebbe risultare meno efficace qualora cercasse di cambiare il clima organizzativo nella sua interezza. Un’analisi del “clima organizzativo per il mobbing” appare invece più puntuale. Con la determinazione di specifiche dimensioni di clima organizzativo che sono predittive del mobbing, si consente un intervento più puntuale, più
breve, meno costoso e soprattutto più efficiente ed efficace. Occorre, inoltre, ricordare
che, perché un’analisi di clima abbia successo, ci sono delle specifiche modalità di attuazione, degli step generalmente condivisi dalla letteratura di riferimento e a livello pratico-operativo (ad esempio, D’Amato e Majer, 2005b).
Affinché la diagnosi non rimanga un fatto meramente conoscitivo, avulso dalla vita
e dall’operatività dell’organizzazione, è necessario che le informazioni raccolte vengano
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153
Mobbing: virus organizzativo
Figura 12-2
Un modello di equazioni strutturali di clima per il mobbing
Dynamism
Personal
bullying
.56
Leadership
Job
description
.79
.60
.70
Team
.48
.68
Organiz.
climate
Bullying
–.69
.71
Work-related
bullying
Innovation
Figura 12-3
Le cinque dimensioni di clima per il mobbing
1. Team: coesione di gruppo
Indaga l’insieme dei comportamenti, espressi concretamente sul lavoro, che indicano una disponibilità da parte dei membri del gruppo in cui si opera a collaborare, a fornire informazioni, supporti
e know-how. I gruppi che manifestano un clima interno di collaborazione risultano disponibili nel
modificare piani e programmi, al fine di raggiungere obbiettivi comuni e sovraordinati
2. Leadership: relazioni e comunicazioni con i superiori
Analizza le percezioni relative allo stile di comando dei superiori. Alti punteggi nella scala indicano che i responsabili mostrano una “leadership di tipo democratico”, che si concretizza in un ricco
scambio di informazioni e comunicazioni, e che espletano la loro funzione in modo poco direttivo. La supervisione e il controllo dell’operato dei collaboratori e del raggiungimento degli obiettivi si svolge in modo sostanzialmente partecipativo e non inquisitorio
3. Dinamismo: vitalità organizzativa e propensione all’innovazione
Indaga le percezioni in merito al dinamismo e al cambiamento organizzativo e in particolare alla
velocità in cui si declinano le scelte operate. Fornisce la stima della sensazione che vengono incoraggiate la produzione di idee e soluzioni di tipo innovativo, tanto da rendere orgogliose le persone.
Alti punteggi indicano persone fiere di appartenere a un’azienda da loro considerata all’avanguardia
4. Job description: sensibilità sociale e sentimento di imparzialità
Valuta le percezioni relative alla misura in cui ciascuno dei dipendenti conosce la portata del suo
ruolo e le attese dell’organizzazione nei suoi confronti
5. Sviluppo: apertura al progresso sociale e personale
Penetra le percezioni degli individui circa l’atteggiamento e le azioni che l’azienda mette in atto
per favorire il progresso personale e lo sviluppo organizzativo. Le realtà organizzative che ottengono punteggi elevati risultano, pertanto, essere percepite dai propri dipendenti come socialmente avanzate, aperte allo sviluppo dei singoli e/o del sociale
154
Valutare i rischi psicosociali
interpretate nel loro significato più profondo e determinino delle azioni coerenti, atte a
migliorare la qualità della vita di lavoro dei dipendenti e, con ciò, la stessa efficienza
organizzativa. Se così non fosse, si correrebbe il rischio di aver solo sprecato energie e
risorse più produttivamente utilizzabili in altre direzioni, andando a incidere sulla credibilità anche di altre iniziative gestionali.
Perché il tutto non si risolva in un fotogramma o in azioni estemporanee, pur di
una certa consistenza, è necessario che la rilevazione venga replicata periodicamente,
tanto da costituire un osservatorio permanente che permetta di monitorare l’efficacia
delle azioni intraprese e dare un significato ancora più pregnante ai dati raccolti, consentendo una comprensione sempre più profonda delle problematiche organizzative,
condizione che appare quanto mai necessaria per far fronte a un fenomeno così complesso come il mobbing.
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155
CAPITOLO TREDICESIMO
La formazione
1. La formazione antimobbing
Formare significa aiutare persone, gruppi e organizzazioni ad apprendere per cambiare, ovvero per raggiungere meglio i propri obiettivi e i traguardi organizzativi che si
propongono nel rapporto con gli altri. I singoli dovranno adattare i loro comportamenti alle esigenze degli altri, apprendendo quei meccanismi e quelle conoscenze che consentiranno loro di avere buone relazioni sul posto di lavoro.
Riguardo agli aspetti possibili di un corso di formazione sul mobbing, la prima parte
potrebbe essere occupata da una serie di lezioni tenute dal formatore mirate a mettere in
luce le caratteristiche di base del fenomeno, fornendo all’utenza delle strategie per riconoscerne i segnali premonitori. La seconda parte potrebbe essere, invece, mirata a incoraggiare lo sviluppo di capacità interpersonali che frenino la possibile messa in atto di
comportamenti vessatori. L’intelligenza emotiva, dall’esperienza consulenziale degli
Autori, appare essere la variabile target intraindividuale per un corso antimobbing, anche
per le sue potenzialità di creare circoli virtuosi nell’organizzazione (cfr. Giorgi, 2006).
2. L’intelligenza emotiva e il mobbing
L’intelligenza emotiva si riferisce a un insieme di skill, capacità, competenze che
influenzano l’abilità della persona nel far fronte alle richieste e alle pressioni ambientali (Martinez, 1997). Il costrutto è anche stato definito come un insieme di competenze
emotive e sociali che determinano quanto una persona sia in grado di relazionarsi con
se stessa e con gli altri tanto da permetterle di far fronte alle richieste e alle pressioni di
ogni giorno (Bar-On, 2000). L’intelligenza emotiva è un’intelligenza sociale che permette alle persone di riconoscere le proprie emozioni e le emozioni degli altri, e di scegliere
pertanto cosa fare e come far fronte a determinate situazioni. L’intelligenza emotiva può
156
La formazione
essere definita anche come l’abilità di usare la propria consapevolezza di sé e sensibilità
per riconoscere le dinamiche e i processi sottostanti a una comunicazione interpersonale, all’interno dei quali si resiste alla tentazione di rispondere in modo impulsivo e irragionevole e/o diffidente e paranoico, ma si agisce con autenticità, riflessività e trasparenza. Matthews e Zeidner (2000) sostengono che l’intelligenza emotiva favorisce una
migliore gestione di situazioni stressanti.
Le persone che possiedono risorse emotive utilizzano strategie di coping con maggiore successo, poiché percepiscono e valutano i loro stati emotivi, sanno come e quando esprimere i propri sentimenti e possono regolare i loro stati di umore. È possibile, pertanto, ipotizzare che persone con elevata intelligenza emotiva riescano a far fronte in
modo più efficiente anche a situazioni estreme di stress come il mobbing. Infatti, da un
recente studio condotto presso più di 400 soggetti è risultato che le persone che riportano livelli bassi di intelligenza emotiva subiscono azioni mobbizzanti in modo più frequente e persistente (Giorgi, 2007). Le skill che abbracciano il costrutto dell’intelligenza
emotiva potranno quindi aiutare a far fronte a comportamenti ostili o mobbing attraverso una comunicazione aperta, stabilendo costruttive relazioni interpersonali ed esprimendo capacità di leadership, di negoziazione dei conflitti, una buona gestione dello
stress e così via. Inoltre, l’intelligenza emotiva potrebbe aiutare anche manager e lavoratori ad essere più consapevoli delle proprie emozioni e più attenti ai bisogni e sentimenti altrui e, quindi, ad essere meno soggetti a compiere azioni ostili o mobbizzanti nei
confronti di altri lavoratori e/o dei propri collaboratori empatizzando con le loro emozioni, invece che usare coercizione o comportamenti che possono essere percepiti come
mobbizzanti (Sheehan, 1999).
Riferendosi in modo specifico alle singole dimensioni dell’intelligenza emotiva,
ogni sua componente potrebbe influenzare il modo in cui un soggetto percepisce e reagisce ad azioni mobbizzanti. Chi ha un alto livello di self-awarness può avere un quadro
più chiaro degli eventi. Ad esempio, individui con una visione distorta di sé oppure particolarmente ansiosi possono mettere in atto un comportamento aggressivo nel caso in
cui percepiscano una minaccia per la propria autostima (Quebbeman e Rozell, 2002). La
self-regulation è, forse, il più forte legame tra un evento scatenante e la scelta comportamentale. Self-control, adaptability e self-monitoring influenzano in modo determinante la
reazione individuale al conflitto e allo stress sul posto di lavoro (Quebbam e Rozell,
2002). Andersson e Pearson (1999) evidenziano che i soggetti con scarsa capacità di autoregolarsi commettono maggiori azioni incivili sul luogo di lavoro. Neuman e Baron
(1998) affermano che soggetti con un alto grado di self-monitoring sono più concilianti
in situazioni di conflitto. Un alto livello di empathy può conferire maggiore accuratezza
nell’interpretare le azioni altrui. Un bias attribuzionale, ovvero una percezione erronea
di un intento ostile (Neuman e Baron, 1998), è probabile che stimoli comportamenti
aggressivi da parte degli altri (effetto della profezia che si autoavvera-circolo vizioso).
Inoltre, chi possiede maggiore empatia risulta più capace di adattarsi qualora percepisca
delle ingiustizie. Gli individui che hanno buone social skill sanno limitare gli eventi
aggressivi e riescono a costruire importanti network sociali.
Lo sviluppo dell’intelligenza emotiva attraverso attività formative (workshop, corsi
ecc.), in particolare per coloro che ricoprono posizioni apicali nell’organizzazione, può
consentire una migliore gestione delle relazioni interpersonali sul luogo di lavoro.
Manager e dirigenti, imparando a riconoscere i sentimenti che provano e quelli provati dagli altri lavoratori e/o collaboratori, possono riuscire a collaborare e gestire al
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Mobbing: virus organizzativo
meglio le persone con cui hanno a che fare. In sintesi, l’empatia e la consapevolezza
emotiva rendono ricca ed emotivamente soddisfacente la vita relazionale e influenzano
positivamente il benessere organizzativo. Al contrario, quando non si è attenti a propri
sentimenti e a quelli altrui non si riesce a entrare in sintonia relazionale con gli altri, con
il rischio di incorrere nel conflitto.
3. Formare sulla consapevolezza del mobbing e delle azioni negative
L’evidenziazione delle azioni negative fornisce degli spunti per gestire relazioni
positive sul lavoro a sostegno e sviluppo di coloro che, in particolare, non considerano
l’effetto vessatorio che possono avere certi comportamenti per alcune persone.
Accrescendo la consapevolezza delle azioni vessatorie sul posto di lavoro e del loro
impatto, si riducono e si controllano in modo più efficace questi comportamenti negativi. Anche in presenza di una certa consapevolezza di azioni mobbizzanti non accompagnate da una condotta consona, la formazione diventa il mezzo per la trasformazione
della consapevolezza in azioni positive concrete.
Per quanto concerne la metodologia didattica per la prevenzione del mobbing, oltre
alla tradizionale lezione d’aula possono essere produttivamente utilizzati i lavori di gruppo, i metodi dei casi e le simulazioni.
158
CAPITOLO QUATTORDICESIMO
La gestione dei casi: mediazione,
counseling e riabilitazione
1. La mediazione
La mediazione e la discussione aperta con il gruppo di lavoro costituiscono una
delle modalità più efficaci per gestire il mobbing. Tuttavia la mediazione è funzionale
soltanto se il conflitto è ai primi stadi. Essa, infatti, non risulta utile quando il conflitto
si è intensificato al punto che la vittima non voglia altro che giustizia, vendetta o una
qualche forma di remunerazione del danno subito. Quando la percezione di ritenersi
feriti è molto forte, le parti hanno bisogno di parlare separatamente della loro esperienza e di esprimere i propri sentimenti in modo individuale. Soltanto dopo che entrambe
le parti hanno parlato delle proprie esperienze individualmente possono considerare la
situazione abbastanza sicura per una discussione congiunta.
Lo scopo della mediazione è trovare una soluzione che permetta a tutti di stare nel
gruppo di lavoro, favorendo una gestione positiva delle relazioni. I partecipanti alla discussione potrebbero essere la vittima, l’aggressore, un manager e un consulente esterno che ha
il vero e proprio ruolo di mediatore. È essenziale, inoltre, l’imparzialità dei moderatori. Le
parti, infatti, presentano spesso differenti opinioni e interpretazioni delle situazioni e degli
incidenti che hanno portato al conflitto. Le situazioni possono diventare estremamente
complesse a causa dei conflitti non risolti. È probabile inoltre che i coinvolti nel conflitto
si percepiscano entrambi come vittime (Einarsen, 1999). In questi casi è spesso impossibile
poter dire chi è nel giusto e chi è nel torto, ma è chiaro che non ci debba essere nessun tipo
di favoritismo nei confronti dei contendenti, né da parte del manager né da parte del consulente esterno. Nella mediazione, pertanto, i seguenti punti sono fondamentali:
• il mediatore deve essere neutrale e capace di gestire la discussione con un sguardo
oggettivo e imparziale;
• all’inizio dell’incontro dovrebbero essere spiegati gli scopi della mediazione. Ciascuno
dovrebbe conoscere i motivi che hanno portato alla sua convocazione;
159
Mobbing: virus organizzativo
• le regole dell’incontro dovrebbero essere accettate da tutti, ad esempio: “In questo
incontro, parleremo dei vostri vissuti ed esperienze conflittuali, a nessuno è permesso
di offendere qualcun’altro e sono proibiti insulti di qualsiasi genere”;
• ognuno dovrebbe sentirsi libero di ascoltare, di esprimere i propri sentimenti e di fornire le proprie interpretazioni degli eventi;
• dovrebbero essere fatti sforzi per incoraggiare i partecipanti a dare suggerimenti e fornire soluzioni;
• il focus della discussione dovrebbe essere quello di trovare una soluzione che permetta a tutti di andare avanti con il proprio lavoro; ripensare troppo al passato è spesso
fuorviante e/o inutile e può creare nuovi conflitti;
• dovrebbe essere raggiunto un accordo comune e dovrebbe essere scritta una nota di
decisione;
• prima che l’incontro si concluda, le parti dovrebbero trovare un accordo sui metodi e
tempi per un follow-up della situazione.
La mediazione è un lavoro che richiede molto impegno. Il mediatore deve essere
flessibile, empatico e, al contempo, deve far rispettare le regole della mediazione. È da
tener conto che il mobbing, inoltre, implica sempre forti emozioni e tocca l’orgoglio personale. La discussione deve essere guidata nella direzione di trovare soluzioni costruttive e giungere ad accordi e a decisioni condivise. Nel caso di Susan qui presentato (cfr. fig.
14-1), la mediazione fu utilizzata per prevenire un conflitto interpersonale che si sarebbe potuto evolvere in mobbing.
2. Il counseling per il mobbing
Una strategia importante per la gestione dei casi di mobbing è il counseling.
Come rileva Di Fabio (2003),
[il counseling] individua un’area approfondita di intervento che si orienta verso la
congruenza delle capacità decisionali dell’individuo comprese le possibilità di scelta
reali e da lui ravvisate, la sua modalità di percepire e formulare il problema e di trovare soluzioni. Richiede abilità e competenza nella strutturazione e nel mantenimento della relazione con il cliente, nella facilitazione per accrescimento della sua
consapevolezza, nella valorizzazione delle risorse, delle sue capacità decisionali,
delle sue capacità di rappresentarsi le aree problematiche e di individuare correttamente gli ostacoli e gli impedimenti al fine di trovare autonomamente risposte e
soluzioni (p. 34).
Fornire supporto alle vittime di mobbing significa, fondamentalmente, aiutare l’individuo ad aiutare se stesso, mediante l’attivazione e riorganizzazione delle sue risorse
personali. Ciò permette, nella declinazione armonica di complessità interna e complessità esterna (Di Fabio, 1999), di rendere maggiormente oggettive le circostanze nelle
quali l’individuo è stato implicato, potenziando risorse di lettura propositiva, human
agency e predisponendo l’attivazione di energia positiva da impiegare proficuamente
nella risoluzione dei conflitti interno/esterno.
Il counseling per il mobbing costituisce, pertanto, un intervento di aiuto alla persona in termini sia di incremento di consapevolezza, autonomia e autodeterminazione
160
La gestione dei casi: mediazione, counseling e riabilitazione
Figura 14-1
La mediazione
Un caso di situazione conflittuale sul posto di lavoro: la mediazione
Susan, una commessa, decise di rivolgersi a uno psicologo perché si sentiva mobbizzata. Dopo
aver seguito un corso di formazione e assentatasi per un breve periodo, al suo ritorno al lavoro non le fu più consentito di svolgere la sua mansione. Le fu richiesto di svolgere compiti
meno qualificanti di prima e di lavorare da sola. Susan si sentì delusa, arrabbiata e umiliata. Un
conflitto tra Susan e una sua collega, Betty, fu individuato come lo starting point della situazione che si era venuta a creare. Durante la formazione, Susan faceva pratica all’ufficio e, in un
giorno particolarmente faticoso a causa dell’eccessiva mole di lavoro, notando che Betty era
seduta a bere un caffè invece che lavorare, l’aveva criticata.
Tale critica offese Betty, che riferì dell’episodio al suo supervisore, il quale, a sua volta, inviò
una nota scritta a Susan, nella quale veniva trasferita a lavorare da sola. Susan sentiva di non
aver avuto l’opportunità di spiegare il proprio comportamento.
Successivamente, discusse della questione con il manager e con un avvocato del suo sindacato. Il manager si rivolse a uno psicologo consulente per la mediazione. Furono tenuti vari
incontri in cui erano presenti lo psicologo, Susan, Betty e il suo supervisore. La situazione fu
definita altamente conflittuale, in quanto le parti avevano divergenti opinioni circa possibili
spiegazioni e soluzioni del problema.
In ogni modo, una soluzione fu trovata. A Susan venne dato un nuovo lavoro più consono alla
propria formazione e fu situata in un altro dipartimento. A Susan e Betty fu richiesto di concentrarsi maggiormente sulla propria attività e di instaurare relazioni meno conflittuali con i
propri colleghi di lavoro.
Modificato da: Vartia, Korppoo, Fallenius e Mattila (2003).
che di processo di empowerment, vale a dire sviluppo, espansione del sé, riconoscimento
di nuove opportunità e nuovi significati da sperimentare e confermare. Sebbene il counseling abbia come ottica privilegiata e punto di partenza il reperimento delle condizioni
di benessere portate dalla persona, tuttavia i lavoratori che hanno bisogno di counseling
per il mobbing e di un aiuto di tipo psicologico, dopo aver subito vessazioni sul lavoro,
presentano delle sintomatologie comuni con cui confrontarsi: alti livelli di ansia, depressione, problemi fisici come forti dolori allo stomaco, attacchi di panico e disturbi del
sonno. Nei casi più gravi si possono anche presentare disturbi più rilevanti, come il già
menzionato disturbo post-traumatico da stress.
Tehrani (2003) sostiene che il counseling applicato ai mobbizzati dovrebbe assumere come punto di partenza il racconto da parte della vittima della sua storia. È, inoltre,
necessario partire anche dalla ricognizione del malessere dell’individuo, per facilitarne il
successivo benessere. Due sono gli step principali nel counseling rivolto a una persona
mobbizzata: un momento valutativo dello stato psicologico della vittima connesso all’esperienza di vessazione subita e, successivamente, il vero e proprio intervento che
andrebbe specificatamente “sartorializzato” sulla base degli esiti emersi dalla valutazione psicologica. Sarebbe inoltre auspicabile coinvolgere attivamente il lavoratore nella
scelta dell’intervento da effettuare, affinché egli/ella maturi la consapevolezza della propria situazione e dei relativi step da affrontare, giocando, al contempo, un ruolo attivo
nel processo.
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161
Mobbing: virus organizzativo
Step 1: la valutazione psicologica
È importante che il counselor parta da una valutazione psicologica della vittima
indagandone le sintomatologie più comuni. La valutazione del counselor dovrebbe attestarsi maggiormente su rilevazioni di natura psicosociale. Le aree indagate afferiscono
strettamente alla vita lavorativa della vittima e, tuttavia, implicano la messa a fuoco di
eventuali problematiche che possono riguardare l’interfaccia lavoro/famiglia e lo stile di
vita adottato.
Il processo di valutazione evidenziato nella figura 14-2, frutto dell’esperienza consulenziale e di un review della letteratura di riferimento degli Autori, ha una durata di
circa un’ora e mezza e si propone di evidenziare una completa valutazione psicosociale
del lavoratore. È possibile prevedere ulteriori momenti valutativi sulla base dei risultati emersi.
Conclusosi il processo valutativo, dovrebbero essere fornite ai lavoratori informazioni di ritorno in merito alle comuni risposte psicologiche delle vittime di mobbing e
su come possa essere possibile ridurre il loro impatto e le sintomatologie ad esse connesse. Dovrebbero inoltre essere fornite delle linee guida su come migliorare il proprio
benessere e lo stato di salute.
Step 2: il debriefing
Dopo il momento valutativo, il primo intervento è un debriefing degli episodi di
mobbing, sulla cui base si svilupperanno le azioni di counseling. Il debriefing identifica
un particolare incidente, o più incidenti, correlabile ai sintomi identificati nella fase di
valutazione. Questa tecnica consente l’espressione della componente emozionale legata
Figura 14-2
La valutazione psicologica del mobbizzato
Outline di un processo di valutazione della vittima di mobbing
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•
Descrizione delle azioni mobbizzanti subite
Descrizione delle reazioni emotive e fisiologiche della vittima agli episodi mobbizzanti subiti
Breve ricostruzione della storia di vita della vittima
Descrizione di sensazioni nel rivivere l’esperienza
Descrizione di risposte di evitamento degli stimoli associati con l’esperienza
Cambiamenti nello stato di salute e nel benessere psicologico
Cambiamenti nello svolgimento della prestazione lavorativa
Descrizione di comportamenti negativi o mobbing subiti in passato
Outline di questionari di valutazione della vittima di mobbing
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•
General Health Questionnaire 12 (GHQ12; Goldberg e Williams, 1988);
Negative Acts Questionnaire Revised Italia (NAQ-R Italia);
Impact of Event Scale (IES; Horowitz, Wilner e Alvarez, 1979);
Organizational Emotional Intelligence Questionnaire (ORG-EIQ; Giorgi e Majer, in corso di
stampa).
162
La gestione dei casi: mediazione, counseling e riabilitazione
agli avvenimenti considerati, che se non sufficientemente elaborata potrebbe impedire
il raggiungimento dei successivi obiettivi dell’intervento. Partendo dal debriefing e integrandolo con gli step successivi nell’intervento di counseling, si perseguono le seguenti
finalità: normalizzare la risposta delle vittime a incidenti traumatici; stimolare nella vittima senso di fiducia e percezione di supporto da parte degli altri; ridurre gli effetti negativi e le eccessive reazioni di stress; ridurre la durata e l’intensità della risposta a un evento che può essere percepito come traumatico.
Come sottolinea Tehrani (2003), il debriefing nelle vittime di mobbing dovrà porre
particolare attenzione agli episodi mobbizzanti subiti in relazione alle sintomatologie ad
essi connessi nella valutazione psicologica. Inoltre, essendo un debriefing post-trauma, è
importante cominciare la sessione facilitando la narrazione della vittima a partire da
eventi temporalmente antecedenti al verificarsi del mobbing. Sarà, pertanto, indispensabile far riemergere la vita lavorativa e relazionale della persona quando il mobbing
ancora non era presente. Successivamente, il lavoratore viene stimolato a ricordare episodi di mobbing subiti e a esplicitare la propria esperienza, anche dal punto di vista sensoriale: colori, odori e immagini. È importante che il counselor si soffermi su questi vissuti sensoriali, in quanto a certe immagini, colori o odori è possibile che sia associata la
molla che fa scattare le sensazioni di rivivere l’esperienza e l’attivazione fisiologica (arousal) di sintomatologie tipiche delle vittime di mobbing. Successivamente, durante l’approfondimento dell’esperienza di mobbing fatta dalla vittima, il counselor incoraggerà il
ricordo di pensieri legati alle vessazioni subite, cercando di facilitare nella vittima la
distinzione dei pensieri razionali e irrazionali. Il counselor, infine, potrebbe decidere di
richiedere un ulteriore sforzo alla vittima, aiutandola a focalizzarsi sulle risposte emotive agli episodi di mobbing e ai pensieri ad esso connessi. Alla fine del debriefing, seguendo questo percorso, il counselor avrà consentito l’identificazione degli input sensoriali
che innescano l’arousal, i rivissuti dell’esperienza e il pensiero irrazionale.
Step 3: l’intervento
Dopo il debriefing, il counselor dovrà scegliere quale percorso di supporto attivare.
Come rileva Tehrani (2003), la terapia narrativa e la terapia cognitivo/comportamentale
sono particolarmente funzionali nei casi di mobbing. La terapia narrativa aiuta a far
comprendere alla vittima la sua storia di vita, rendendola consapevole di eventuali tendenze a creare storie disfunzionali del proprio sé, sottolineando e focalizzando storie in
cui emerge un’accettazione di se stessi e una spinta a una continua crescita personale.
Dal momento che alcune storie di vita possono diventare dominanti rispetto ad altre e
che alcune storie potranno essere di aiuto, mentre altre potranno avere un’influenza
negativa, la terapia narrativa incoraggia la persona a intervenire costruttivamente sulla
narrazione, quando le storie di vita sono negative e fonte di problemi. L’invito è a reinterpretarle o a costruirne delle nuove. In questo processo di “ricostruzione” di storie di
vita, il lavoratore accresce la propria conoscenza del sé, comprende ulteriori significati
dell’esperienza di mobbing subita e potenziali insigh (cfr. fig. 14-3).
Un altro supporto funzionale a risolvere i problemi per le vittime di mobbing è
quello cognitivo/comportamentale. Esso è basato sull’assunzione che gli individui
dovrebbero avere pensieri razionali e realistici per conseguire un miglior stato di benessere psicologico. Le vittime di mobbing invece presentano spesso un pensiero irrazionale del tipo:
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163
Mobbing: virus organizzativo
Figura 14-3
Un caso di terapia narrativa
Una segretaria fu oggetto di false accuse e comportamenti incivili da parte del suo superiore, e
anche quando cercò di spiegare come erano andate le cose, il manager continuò a urlarle
addosso e insultarla tanto che ella lasciò l’ufficio in evidente stato di stress.
L’approccio narrativo, seguito dal counselor, mise in luce che la segretaria aveva vissuto una vita
basata su una storia che si era creata fin dall’infanzia in risposta a un padre ipercritico e una
madre poco assertiva. Tale storia verteva sulle seguenti raccomandazioni e atteggiamenti ad
esse conseguenti: “Devi essere brava a trattare con persone difficili”, “I tuoi bisogni non contano molto”, “È sbagliato avere reazioni esagitate”, “Devi sempre mantenere una buona reputazione”.
La storia spiegava la ragione per cui la segretaria non era mai stata capace di fronteggiare e/o
ribellarsi ai comportamenti ostili del manager, in quanto da bambina adempieva alle costanti
richieste dei genitori. Con il manager tuttavia si era trovata in una situazione in cui ripercorrere la storia di infanzia non funzionava.
La risposta iniziale della segretaria sarebbe stata quella di seguire la sua storia di vita dominante, sarebbe tornata al lavoro, si sarebbe scusata per la sua reazione esagitata e avrebbe cercato di essere più accondiscendente con il manager. Tuttavia, ulteriori sedute di counseling
misero in luce che la segretaria possedeva anche altre storie alternative a quella dominante.
Durante la vita lavorativa era stata particolarmente efficiente nel far fronte a situazioni difficili e le radici di ciò si ritrovavano nel lavoro svolto come insegnante e nella capacità di far valere le proprie credenze e ideali.
Questa storia alternativa aiutò la segretaria a creare un nuovo modo di relazionarsi con il
manager. Con l’adozione di questa storia di vita, la segretaria diventò più assertiva e fu capace di negoziare con il manager adeguati standard di comportamento per entrambi.
Modificato da: Tehrani (2003).
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“Devo aver fatto qualcosa di male perché tutto ciò sta accadendo proprio a me”;
“Qualcuno avrebbe dovuto fare qualcosa per fare cessare la situazione”;
“Tutti mi odiano”;
“Non uscirò mai da questa situazione”.
Quindi, il compito del counselor è quello di trasformare i pensieri irrazionali della
vittima in pensieri razionali tramite l’uso di tecniche cognitivo/comportamentali. Il
counselor è volto a stimolare nella percezione dei lavoratori vittime di mobbing la consapevolezza che le credenze irrazionali sviluppatesi negli episodi mobbizzanti sono delle
credenze irrealistiche, percezioni distorte, piuttosto che azioni concrete che avevano l’intento di nuocere. Tale consapevolezza permetterebbe al lavoratore di testare le proprie
credenze irrazionali nella realtà e gli effetti negativi da esse risultanti. Ad esempio, quando un individuo ha la credenza irrazionale che tutti lo odiano, il suo comportamento
diventa più aggressivo nei confronti degli altri individui, provocando un circolo vizioso
in cui le altre persone tendono a rispondere in modo poco amichevole e ostile. Ciò
rafforza la credenza dell’individuo di essere odiato e favorisce a sua volta la percezione
soggettiva di mobbing.
Quindi, la consapevolezza delle credenze irrazionali può aiutare la persona a sviluppare credenze razionali al fine di sperimentare forme di comunicazione e comportamenti maggiormente adattivi e una migliore qualità della vita.
164
La gestione dei casi: mediazione, counseling e riabilitazione
3. La riabilitazione
La riabilitazione è un processo centrale nel trattamento del mobbing. Per alcuni
lavoratori il mobbing lede talmente la dignità e il proprio sé che costoro preferiscono
cambiare lavoro. In queste circostanze il compito del counselor è quello di facilitare la
ricostruzione dell’autostima e del senso di fiducia della vittima, fornendo supporto alla
gestione delle transizioni implicate. In altri casi è possibile che il counselor sia chiamato
in causa per aiutare la vittima in momenti difficili, come ad esempio quello processuale, che implicano un forte coinvolgimento emotivo. Infatti, nessuno strumento, né ordine di cessazione della molestia né pubblicazione della sentenza, potrà reintegrare davvero per la vittima la dignità perduta, né le consentirà di riacquistare lo status di lavoratore capace. Il processo rischia, pertanto, di costituire una grossa fonte di stress a causa
di tutti gli outcome negativi e delle aspettative psicologiche di cui il lavoratore si fa carico in questa fase maggiormente che in altre.
Se la vittima decide di rimanere nell’organizzazione, il processo di riabilitazione
dovrebbe coinvolgere anche altri lavoratori. Sarebbe, ad esempio, auspicabile fissare un
incontro con il responsabile del personale e/o il manager di linea e discutere il modo
migliore per reintegrare il lavoratore che è stato vittima di mobbing. Inoltre, sarebbe
opportuno, prima che il mobbizzato rientri a lavoro, svolgere un’analisi di clima organizzativo o una valutazione dei rischi psicosociali. Successivamente, dove possibile e dove
ritenuto più necessario, andrebbero ampiamente discussi i risultati emersi dall’indagine.
È necessario che il lavoratore, rientrando al lavoro, possa disporre delle risorse utili
per potersi reintegrare in modo ottimale; è auspicabile che, qualora ne faccia espressamente richiesta, sia sottoposto nel breve termine a un carico di lavoro limitato e/o possa
usufruire di un impiego con orario ridotto e/o personalizzato. In Giappone, ad esempio,
i soggetti riabilitati possono lavorare per le prime settimane soltanto poche ore al giorno e, successivamente, quando sono ben reintegrati, svolgono un’attività lavorativa più
consistente, fino ad arrivare a svolgere la mansione come gli altri colleghi.
Come è comprensibile, la riabilitazione del mobber tende a risultare difficile senza il
supporto dell’organizzazione. Spesso al mobber non viene data la stessa qualità di counseling e di supporto che viene data alla vittima, ma in alcuni casi anche il mobber può
avere bisogno di essere riabilitato. In particolare, dovrebbe essergli fornito un programma ad hoc che stimoli il cambiamento del proprio modo di agire e di comportarsi.
In conclusione, il counseling appare uno strumento interessante ed efficace nella
complicata gestione del fenomeno del mobbing. È bene tuttavia sottolineare che il counselor deve avere una preparazione approfondita, sia in relazione alla specificità tecnica della
gestione del colloquio (Di Fabio, 2003) sia, trattandosi di counseling per il mobbing, una
specifica preparazione maturata dall’ambito della psicologia del lavoro e delle organizzazioni sul fenomeno e sulle disfunzioni organizzative connesse. Appare indispensabile la
conoscenza approfondita dei criteri basilari caratterizzanti le situazioni di mobbing (cfr.
capitolo secondo), dei suoi antecedenti organizzativi, delle conseguenze organizzative
implicate dall’uso attivo della prevenzione sia primaria, sia secondaria che terziaria. Il counselor può avere una visione obiettiva sulla complessità dei fenomeni organizzativi solo se il
suo sguardo non è inficiato dalla mancanza di preparazione sulla tematica del mobbing.
Quando i clienti descrivono gli episodi mobbizzanti in cui presentano le loro azioni nel
modo migliore possibile e, al contempo, attribuiscono ad altri la colpa di aver iniziato e
fatto perdurare il conflitto, la conoscenza del contesto organizzativo risulta primaria.
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165
CAPITOLO QUINDICESIMO
Conclusioni
1. Migliorare la pratica: riscoprire la teoria e la ricerca per debellare il virus del mobbing
Nell’ultima decade sono state condotte, a livello nazionale e internazionale, alcune
iniziative di sensibilizzazione nei confronti del mobbing e sono stati anche implementati dei programmi di prevenzione e intervento. Qualche volta le iniziative sono state
promosse da gruppi di auto-aiuto, associazioni e sindacati, altre volte da aziende oppure sono state formulate proposte allo scopo di prevenire e contrastare il mobbing e riabilitare le vittime dalle conseguenze subite. Al fine di strutturare interventi efficaci, può
essere proposta una tassonomia basata sulla combinazione di due assi ortogonali. Il
primo asse implica l’intervento, ossia la prevenzione, l’intervento per contrastare il mobbing nei momenti di crisi, la riabilitazione (Cox e Cox, 1993). Il secondo asse riguarda il
livello di intervento, ossia individuale, di gruppo, organizzativo, collettivo. L’incrocio di
questi assi permette di classificare diversi tipi di interventi che sono stati messi in pratica con successo in diversi Paesi.
• Prevenzione: sono stati realizzati programmi di prevenzione a livello di singolo individuo (formare le persone sullo sviluppo di capacità interpersonali, sulla gestione dei
conflitti ecc.), a livello di organizzazione (valutazione dei rischi psicosociali, diagnosi
di clima organizzativo, interventi sulla leadership) e a livello di collettività (ad esempio, i cambiamenti adottati nella legislazione) (cfr. Barker, McCarthy, Sheehan e
Henderson, 2002; Barron, 2002; Hoel et al., 1999; Keashly, 2005; Kelly e Borrow, 2005;
Leymann, 1996; Osborne e Kelly, 2005; Porteus, 2002; Yamada, 2002 ecc.).
• Interventi per contrastare il mobbing: sono stati realizzati interventi che cercano di contrastare il mobbing quando è in atto in un certo contesto a livello di individuo, di gruppo e di organizzazione. Questi interventi combinano azioni miste che agiscono sul
mobber (ad esempio, Hoel et al., 1999), sulla vittima e sulle procedure che trattano il
fenomeno nello specifico contesto di riferimento (ad esempio, Hoel et al., 1999). Fanno
166
Conclusioni
parte di questa classificazione la mediazione tra mobber e vittima, il counseling all’aggressore e alla vittima, la formazione, l’utilizzo di sanzioni disciplinari per il mobber.
• Interventi di riparazione del danno e riabilitazione: si attuano quando il danno si è ormai
prodotto e la vittima, diventata un caso (Hoel et al., 1999; Leymann, 1996; Leymann e
Gustafsson, 1996), è svuotata del proprio potere e dignità (ad esempio, la psicoterapia).
Nel presente testo sono stati presentati quelli che, dall’esperienza di ricerca e intervento degli Autori e dal review della letteratura di riferimento, rappresentano le modalità
di intervento e i relativi strumenti a cui le aziende dovrebbero fare riferimento per prevenire e contrastare quello che è stato qui definito nuovo “virus organizzativo” (per ulteriori delucidazioni, cfr. fig. 15-1).
La prospettiva del libro, in chiave prettamente psicologica, ha inoltre evidenziato la
necessità di misurare la percezione soggettiva di mobbing. Soltanto se si agisce sul filtro
soggettivo di ogni individuo è possibile intervenire preventivamente sul fenomeno, inibendo l’infezione dell’ambiente organizzativo e il diffondersi di azioni negative.
Maggiore attenzione deve essere posta alle cosiddette variabili organizzative antecedenti al fenomeno del mobbing, con particolare riguardo alla promozione di un clima
organizzativo positivo e all’inibizione della leadership distruttiva che potrebbe essere diffusa in Italia in considerazione dell’elevata distanza di potere tra superiore e collaboratore, in linea con la teoria di Hofstede (1991).
Un altro elemento da prendere in considerazione è la variabile “organizzazione di
appartenenza”. Il mobbing, dai risultati presentati dagli Autori, è chiaramente legato al
sistema organizzazione, e pertanto si suggerisce, anche per fini medico-legali, la diagnosi dell’organizzazione di appartenenza. Così come deve essere diagnosticato un disturbo
grave alla vittima come condicio sine qua non per la rivendicazione sul piano legale, così
anche il contesto organizzativo dovrebbe essere considerato maggiormente come variabile determinante per il verificarsi del mobbing.
Inoltre, appare necessario mappare la natura e la diffusione dei comportamenti
mobbizzanti in determinati contesti organizzativi. Tali azioni negative possono essere
oggetto di interventi di prevenzione, prima che la percezione di mobbing si trasformi in
una forma di mobbing cronica. Il NAQ-R Italia si pone come uno strumento particolarmente utile per interventi di prevenzione e valutazione del rischio mobbing e dei rischi
psicosociali in generale.
Dal confronto della ricerca italiana, condotta dagli Autori, con quella estera emerge
inoltre come una cross-cultural expertise sia fondamentale per la comprensione più
profonda di un fenomeno così complesso come quello del mobbing. Per quanto riguarda la prevenzione e gestione del fenomeno del mobbing, occorre qui ricordare quanto
emerso dalle pagine precedenti: pochissimi, soprattutto in Italia, sono gli interventi in
materia di mobbing fondati sull’analisi e sull’applicazione di una seria metodologia
scientifica, e ancora più scarsi quelli basati sul modello psicologico, che pure risulta non
solo il primo ma pure il più efficace nella comprensione e soprattutto nella gestione di
questo fenomeno. Nel prossimo futuro è raccomandato l’utilizzo del modello psicologico e del legame tra ricerca e intervento, al fine di migliorare da una parte la qualità e l’efficacia dell’agire professionale, dall’altra per trovare soluzioni a problematiche sociali,
come il mobbing, che si stanno diffondendo a macchia d’olio nel nostro Paese.
Particolare attenzione va posta anche nel “costrutto ombrello” dei comportamenti
negativi sul luogo di lavoro che sembra oggi più che mai presente nella realtà italiana,
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167
Mobbing: virus organizzativo
Figura 15-1
Mobbing: cosa fare
Informazione: è lo starting point per la gestione del fenomeno. Fare informazione capillare e
ripetuta ai dipendenti attraverso comunicati, locandine affisse, l’intranet, semplici depliant.
Ribadire e sottolineare che il mobbing è considerato una violazione delle norme interne dell’azienda e che non sarà tollerato. Informare, sensibilizzare e fare comprendere ai lavoratori cos’è
il mobbing, quali e quanto gravi possono essere i suoi effetti per la persona vessata e per l’organizzazione nel suo complesso. Informare i lavoratori dove possono reperire ulteriori informazioni in merito al fenomeno
Socializzazione antimobbing: sin dalle delicate fasi dell’accoglimento e dell’inserimento,
nonché della socializzazione del personale neoassunto, mostrare una “tolleranza zero” per il
mobbing e le azioni vessatorie. Includere il tema del mobbing nei programmi di orientamento
e di formazione dei nuovi dipendenti
Selezione del personale: inserire come requisito per la selezione del personale caratteristiche
individuali che inibiscono la messa in atto di azioni negative, e verificare possibili segni di comportamenti negativi messi in atto dal candidato in esperienze lavorative pregresse. Le aspettative di comportamento dei lavoratori, inoltre, possono essere comunicate, e in un certo grado
modellate, anche in questa fase di conoscenza reciproca candidato-azienda
Coaching: affiancamento e coaching per le vittime e per coloro che possono essere, per determinati motivi, a maggior rischio di mobbing
Un referente: formare una figura interna all’organizzazione che goda della fiducia della direzione e delle organizzazioni sindacali, in grado di essere il referente per problemi connessi al
mobbing
Job description: includere nella job description, come norma comportamentale, la richiesta di
trattare i colleghi con rispetto e dignità
Reporting: creare un ambiente in cui le vittime di azioni vessatorie siano incoraggiate a denunciare “a chi di dovere” gli abusi subiti (manager, superiori di alto livello, consigliere di fiducia
ecc.). Stabilire procedure di comunicazione con i dipendenti in modo da facilitare le segnalazioni di questi episodi
Monitorare il turnover e l’assenteismo: costruire e tenere aggiornate banche dati inerenti alla
mobilità interna (da reparto a reparto) ed esterna (dimissioni), nonché i livelli di assenteismo,
in modo che sia possibile evidenziare i reparti e/o le aree in cui si presentano valori anomali
Promuovere la valorizzazione della direzione/ufficio delle risorse umane: spesso il mobber
è proprio il superiore della vittima; il mobbizzato si rivolgerà pertanto all’ufficio delle risorse
umane, qualora sia presente in azienda, che deve adottare un atteggiamento disponibile in
modo da evitare l’impressione che il mobbing sia tollerato
Promuovere il talento: il mobbing può essere originato da un’eccessiva competizione, tollerata dalla cultura organizzativa, che può creare una selezione perversa, in cui i migliori e più intelligenti vengono “fatti fuori” dall’organizzazione a discapito dei più aggressivi e incivili
Dotare il personale di skill e capacità di gestire il conflitto sul lavoro: prevedere corsi di formazione rivolti particolarmente ai responsabili/manager, ma non solo, su queste tematiche
168
Conclusioni
Figura 15-2
Attività intraprese in Norvegia per prevenire e contrastare il mobbing
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Ricerca scientifica sul mobbing condotta per più di 15 anni
Campagne politiche
Il Prime-minister, il re e la regina si sono espressi contro lo harassment e il mobbing
Una legge contro il mobbing
Focus sulla vittima, prima che diventi un “caso”, ovvero sulla sua percezione soggettiva di
mobbing
Un approccio alla gestione del conflitto attraverso la mediazione
Un atteggiamento non punitivo nella gestione del mobbing
Un focus sulla line management responsability per le condizioni lavorative
Interventi nelle prime fasi del conflitto che promuovono collaborazione e soluzioni informali
Formazione di manager, di professional, di human resource manager ecc. su tematiche quali il
mobbing, il conflict management, la comunicazione
evocato anche dalla cronaca di tutti i giorni che ha portato alla ribalta in Italia fenomeni estremamente legati alla violenza fisica e alla devianza lavorativa (furti e aggressioni
sul luogo di lavoro, omicidi, ricatti di natura morale e sessuale, corruzione ecc.). Il dilagare di comportamenti negativi non può che evidenziare un disagio sul posto di lavoro
e una cattiva gestione degli interventi legati alla promozione e allo sviluppo della qualità
della vita delle persone. Una conferma arriva da una recente indagine condotta su campioni di lavoratori rappresentativi della popolazione norvegese, dove il mobbing sembra
che si stia attenuando. La comparazione di due survey, una datata 1990 e l’altra 2005, che
hanno condiviso lo stesso impianto metodologico e la stessa piattaforma teorica, ha evidenziato che mobbing e comportamenti ostili in Norvegia risultano ridotti del 50%
(Einarsen, 2005; Nielsen et al., 2008). Le molteplici ragioni che vengono elencate (cfr. fig.
15-2), a giudizio di chi scrive, hanno come file rouge quello di una fiorente attività di
ricerca e della capillare informazione scientifica in Norvegia su questo fenomeno, con un
costante e presente contributo degli psicologi del lavoro e delle organizzazioni mirato
quanto meno al suo contenimento se non anche alla sua completa risoluzione.
E in Italia quando tutto ciò? Gli Autori auspicano, ovviamente, quanto prima che
anche il presente scritto possa stimolare “chi di dovere” (un po’ tutti noi) a un maggiore impegno per debellare questo subdolo virus organizzativo e arrivare a una “tolleranza
zero” verso il mobbing.
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169
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APPENDICE A
Misura della percezione soggettiva di mobbing
Il mobbing può essere definito come un’aggressione psicologica, una forma di offesa morale, volta a spingere una persona alla sua esclusione dal contesto lavorativo o
a danneggiare alcuni aspetti del ruolo lavorativo e della mansione.
Per etichettare come mobbing determinate attività e processi, i comportamenti di
vessazione devono essere esercitati ripetutamente e regolarmente (ad esempio, una
volta alla settimana) e per un certo periodo di tempo (ad esempio per almeno 6 mesi).
Il mobbing è un processo di intensificazione di un conflitto (escalation), nel corso
del quale una persona si trova in una posizione di inferiorità ed è vittima di sistematiche azioni negative da parte di uno o più aggressori.
Il mobbing non si riferisce né a un conflitto scaturito da un incidente o da un evento isolato, né a un conflitto in cui tra aggressore e vittima intercorre la stessa relazione di potere (Einarsen et al., 2003, p. 15, in Giorgi, 2004, p. 291).
In riferimento alla definizione di mobbing riportata:
1) È stato/a vittima di mobbing per un periodo superiore agli ultimi 6 mesi?
No (continui alla domanda 6) Sì, molto raramente Sì, qualche volta Sì, qualche volta al mese Sì, qualche volta alla settimana Sì, quasi tutti i giorni 2) Quando è iniziato il mobbing?
In un periodo inferiore a 6 mesi Da 1 a 2 anni Da 6 a 12 mesi Da più di 2 anni 3) Da quante persone ha subito mobbing?
Numero di uomini: ____
Numero di donne: ____
187
Mobbing: virus organizzativo
4) Da chi?
Supervisore/i, manager Subordinato/i Collega/colleghi Cliente/i 5) Quante persone sono state mobbizzate?
Solo Lei Lei e qualche altro collega Tutti nel Suo gruppo di lavoro 6) Ha osservato o è stato/a testimone di mobbing sul Suo posto di lavoro per un periodo superiore agli ultimi 6 mesi?
No, mai Sì, ma raramente Sì, qualche volta Sì, spesso 7) È stato/a mobbizzato/a sul lavoro negli ultimi 5 anni?
Sì No 8) Ha osservato o è stato/a testimone di mobbing sul Suo posto di lavoro negli ultimi 5
anni?
Sì No 188
APPENDICE B
Focus group mobbing: un esempio
Obiettivi
1. Condividere una definizione di mobbing, confermando o rivisitando le opinioni pregresse.
2. Rilevare le interpretazioni e gli atteggiamenti individuali verso il mobbing.
3. Comprendere le variabili organizzative antecedenti al mobbing.
4. Comprendere le conseguenze del mobbing.
5. Definire le lacune, i bisogni e i suggerimenti per azioni di miglioramento future.
Griglia di intervista
1. Potete dare per favore una definizione del mobbing?
Scopo di questo stimolo è raccogliere tutte le interpretazioni che ciascun partecipante ha del
fenomeno.
2. Alcuni Autori hanno dato delle loro definizioni del fenomeno mobbing. Leggere la
definizione di Einarsen et al. (2003; cfr., supra, Appendice A). Cosa ne pensate: siete
d’accordo con la definizione data? Pensavate che il mobbing fosse davvero questo?
3. Pensate che le persone con cui lavorate abbiano la stessa concezione di mobbing data
dalla definizione?
4. Secondo la Vostra opinione, quali sono le tipologie di azioni negative più diffuse
all’interno della Vostra organizzazione?
5. Quali fattori organizzativi contribuiscono in maniera predominante alle varie forme
in cui si manifesta il mobbing?
189
Mobbing: virus organizzativo
Nota per il moderatore. Nel caso sia difficile ottenere risposte dal focus group, ricorrere a
domande probe, quali “Alcune cause possono essere legate a
ruoli lavorativi;
leadership;
relazioni di gruppo”.
6. Oggi avete chiarezza sui ruoli e la struttura della Vostra organizzazione?
7. Potete descrivere le relazioni nel Vostro gruppo di lavoro?
8. Potete descrivere le relazioni con il/i Vostro/i superiore/i?
9. Considerate la Vostra organizzazione “in salute”?
10. Quali sono, secondo Voi, le possibili conseguenze del mobbing?
Nota per il moderatore. Si possono discutere sia conseguenze nella sfera individuale che in
quella organizzativa.
11. Che tipo di sistema di supporto esiste nella Vostra organizzazione per chi si ritenga
vittima di mobbing?
Nota per il moderatore. Si possono eventualmente suggerire alcuni esempi quali: commissione pari opportunità, punto di ascolto, supporto psicologico, sorveglianza sanitaria, programmi di benessere al lavoro ecc.
12. Secondo la Vostra opinione, cosa dovrebbe essere fatto per migliorare i servizi di supporto per chi si ritenga oggetto di comportamenti vessatori?
13. Nel Vostro contesto di lavoro sono presenti misure di prevenzione del mobbing di
cui siete a conoscenza? Se sì, quali di queste ritenete essere maggiormente efficace?
Cosa potrebbe essere fatto per migliorare queste misure di prevenzione?
190
APPENDICE C
Traccia di intervista: mobbing sul ruolo
e sugli aspetti lavorativi della mansione
• Qualcuno trattiene informazioni necessarie per il Suo lavoro? Con frequenza? Qual è
stato il risultato di queste azioni?
• È tenuto a svolgere lavori che sono chiaramente inferiori al Suo livello di competenza?
Con che frequenza? Mi può fare un esempio recente? Che cosa è successo poi?
Riguarda solo Lei?
• Responsabilità cruciali che Le competono Le sono tolte o vengono sostituite con compiti di poca importanza? In che grado ciò ha interferito nello svolgimento del Suo lavoro? Come ha reagito?
• Le vengono assegnati compiti con obiettivi precisi e/o con scadenze ragionevoli? Con
che frequenza? Da quanto tempo?
• È esposto a un carico di lavoro che Le permette di eseguire un compito dall’inizio alla
fine? Mi può fare, invece, un esempio di quando è stato esposto a un carico di lavoro
impossibile da gestire? Che cosa ha fatto quando è successo? Anche altri lavoratori
sono stati impossibilitati a svolgere il lavoro?
191
APPENDICE D
Log book mobbing
Azione mobbizzante: _____________________________________________________________
__________________________________________________________________________________
Data: ____________________________________ Ora: ___________________________________
Luogo: ___________________________________________________________________________
___________________________________________________________________________________
Testimoni: ________________________________________________________________________
___________________________________________________________________________________
___________________________________________________________________________________
___________________________________________________________________________________
Descrizione dell’evento: ___________________________________________________________
___________________________________________________________________________________
___________________________________________________________________________________
___________________________________________________________________________________
___________________________________________________________________________________
___________________________________________________________________________________
___________________________________________________________________________________
___________________________________________________________________________________
___________________________________________________________________________________
193
APPENDICE E
Checklist per la valutazione
in sede di visita INAIL
A) Eventi della vita lavorativa
A.1. Il lavoratore è stato esposto a eventi traumatici estremi?
– Violente aggressioni verbali con gravi minacce da parte di colleghi o superiori
– Violente aggressioni verbali con gravi minacce da parte di utenti/clienti
– Violenze fisiche da parte di colleghi o superiori
– Violenze fisiche da parte di utenti/clienti
– Rapina con minacce di morte o con lesioni personali
– Tentativo di violenza sessuale
– Evento lavorativo in cui persiste pericolo di vita per la persona o per i compagni
A.1.1. È passato più di un mese tra l’evento e l’insorgenza di sintomi?
NO: la diagnosi probabile è “Reazione Acuta da Stress”
SÌ: la diagnosi probabile è “Disturbo Post-traumatico da Stress”
A.2. Lamenta una o più delle seguenti condizioni (correlate a stress, costrittività organizzativa o mobbing)?
– Si sono verificati episodi di discriminazione ripetuti
– Sono stati adottati provvedimenti palesemente ingiusti
– Si sono verificati ripetuti episodi di pressione psicologica
– Il lavoratore vede ignorate le sue comunicazioni informali e formali
– Il lavoratore è stato demansionato senza valido motivo
– Il lavoratore viene tenuto da molto tempo in una condizione di inoperosità forzata
– Il lavoratore è isolato dai compagni di lavoro
– Il lavoratore viene escluso dalle comunicazioni e dalle informazioni appropriate al suo
ruolo e mansione
195
Mobbing: virus organizzativo
–
–
–
–
–
–
Il lavoratore è costretto in una postazione di lavoro fortemente disagiata
Il lavoratore viene minacciato in modo palese o indiretto
Il lavoratore subisce controlli continui e contestazioni per motivi futili
Il lavoratore viene investito di responsabilità non sue
Al lavoratore vengono sottratte le risorse lavorative
Il contesto lavorativo è fortemente conflittuale
B) Eventi di vita non lavorativa
– Incidente proprio o di un congiunto
– Malattia grave propria o di un familiare
– Lutto familiare
– Problemi economici
– Divorzio
– Matrimonio
C) Sintomi psichici maggiormente indicativi di esposizione a grave stress psicosociale
– Ricordi spiacevoli ricorrenti e intrusivi delle vicende lavorative che comprendono
immagini, pensieri, o percezioni
– Rivivere episodi emotivamente significativi della vicenda lavorativa con particolare
intensità emotiva, come se si stessero verificando in quel momento
– Sogni spiacevoli ricorrenti di fatti collegati al problema lavorativo
– Incapacità di narrare in modo ordinato la vicenda lavorativa: i ricordi si impongono
alla memoria forzati dalla loro valenza emotiva, indipendentemente da ogni ricostruzione logica o cronologica
– Disagio psicologico intenso all’esposizione a fattori scatenanti interni o esterni che
richiamano fatti, pensieri o emozioni relativi alla vicenda lavorativa
– Reattività fisiologica all’esposizione a fattori scatenanti interni o esterni che richiamano fatti, pensieri o emozioni relativi alla vicenda lavorativa
– Sforzi per evitare pensieri, sensazioni o conversazioni associate con le tematiche lavorative
– Sforzi per evitare attività, luoghi o persone che evocano la vicenda lavorativa
– Incapacità di ricordare qualche aspetto importante della storia lavorativa
– Riduzione marcata dell’interesse o della partecipazione ad attività significative
– Sentimenti di distacco o di estraneità verso gli altri
– Affettività ridotta (ad esempio, incapacità di provare sentimenti di amore)
– Sentimenti di diminuzione delle prospettive future (ad esempio, aspettarsi di non poter
avere una carriera, un matrimonio, o dei figli, o una normale durata della vita)
– Difficoltà ad addormentarsi o a mantenere il sonno
– Irritabilità o scoppi di collera
– Difficoltà a concentrarsi
– Ipervigilanza
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Appendice E
– Esagerate risposte di allarme
– Sentimenti di rabbia che si presentano in forme e intensità estranee al carattere della
persona
D) Sintomi psicosomatici più frequentemente associati a condizioni di stress psicosociale
– Ipertensione arteriosa
– Aritmie cardiache
– Disturbi intestinali funzionali
– Gastrite
– Discinesie colecistiche
– Eruzioni cutanee aspecifiche
– Dermatite seborroica
– Psoriasi
– Dolori del rachide
– Tensioni muscolari del cingolo scapolare
– Periartrite scapolo-omerale
– Disturbi respiratori funzionali
– Digrignamento notturno
– Alopecia aerata e perdita di capelli
197
Ringraziamenti
Il presente lavoro è il risultato di interessanti esperienze estere e fruttuosi incontri
che hanno tenuto Gabriele Giorgi un anno lontano dall’Italia: dalla Norvegia, dove è
stato membro del Bergen Bullying Research Group, al Giappone, dove ha lavorato come
research fellow presso la Tokyo Gakugei University.
Il confronto cross-culturale e umano che ne è derivato ha aperto nuovi orizzonti e
ha notevolmente contribuito ad arricchire la ricerca su un fenomeno così complesso
come quello del mobbing.
Uno speciale ringraziamento va a Stale Einarsen e Takashi Asakura, supervisori delle
permanenze estere di Gabriele Giorgi, che hanno fornito sapienti spunti di riflessione
per la stesura di questo testo.
Si ringraziano anche il Ministero degli Affari Esteri, il Research Council of Norway
e la Japan Society for the Promotion of Science per le research grants concesse.
Inoltre, il presente lavoro è stato arricchito da ricerche intervento condotte dagli
Autori presso più di venti organizzazioni italiane sia nel settore pubblico che nel privato. Sono in corso al momento ulteriori indagini presso altre organizzazioni, con particolare riferimento a strutture universitarie e ASL.
Un particolare ringraziamento va alla ASL 10 di Firenze, alla ASL Lecce e al
Politecnico di Milano, nei quali Vincenzo Majer sta svolgendo delle valutazioni dei rischi
psicosociali su tutte le popolazioni organizzative.
Infine, si ringraziano per il prezioso contributo alla stesura del presente testo la
dott.ssa Marina Gazzaniga, la prof.ssa Annamaria Di Fabio e la dott.ssa Elena Viganò.
199
Indice
Prefazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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PARTE PRIMA
STORIA E TEORIA
Capitolo I. Origini e sviluppi del mobbing . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
1. Le radici del mobbing . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
2. La violenza fisica e la violenza psicologica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
3. La questione terminologica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
4. Riflessioni critiche . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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9
12
17
18
Capitolo II. Definire il mobbing . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
1. La definizione di mobbing . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
2. I nove criteri basilari caratterizzanti situazioni di mobbing . . . . . . . . . . . . . . .
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19
22
Capitolo III. Gli approcci allo studio del mobbing . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
1. L’approccio multidisciplinare . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
2. L’approccio sociologico ed economico . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
3. L’approccio medico . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
4. L’approccio giuridico . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
5. L’approccio psicologico: il mobbing soggettivo e il mobbing oggettivo . . . . . . . .
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36
37
38
40
42
Capitolo IV. I modelli esplicativi della psicologia del lavoro e delle organizzazioni
1. Il mobbing predatorio . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
2. Il mobbing conflittuale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
3. Il modello di Leymann . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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47
50
52
4. Gli sviluppi del modello di Leymann . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
5. Il modello di Einarsen . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
6. Un modello integrato per la comprensione del mobbing . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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60
Capitolo V. Le tipologie di mobbing . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
1. Il mobbing verticale e orizzontale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
2. Il mobbing collettivo/organizzativo e il bossing . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
3. Il mobbing sulla persona e il mobbing sul ruolo lavorativo e sulla mansione . . .
4. Il doppio mobbing . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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63
64
66
67
Capitolo VI. Gli attori del mobbing . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
1. Il mobber . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
2. Il mobbizzato . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
3. Le figure satellite del processo di mobbing: bystander, side-mobber e whistleblower
4. Il mandante . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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74
Capitolo VII. L’analisi differenziale del mobbing: i comportamenti
negativi sul lavoro . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
1. Il mobbing e i comportamenti negativi sul lavoro . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
2. L’inciviltà sul posto di lavoro . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
3. La devianza lavorativa . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
4. La violenza/aggressione sul posto di lavoro . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
5. Il conflitto organizzativo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
6. Il sexual harassment . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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75
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PARTE SECONDA
RICERCA E DIAGNOSI: ALCUNI RISULTATI EMPIRICI
Capitolo VIII. Strumenti e metodi di studio del mobbing . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
1. La misura del mobbing . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
2. I questionari di stima del mobbing . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
3. Le scale di valutazione/percezione soggettiva del mobbing . . . . . . . . . . . . . . . .
4. I focus group . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
5. L’intervista . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
6. La compilazione di un diario . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
7. La misura del danno da mobbing . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
8. Considerazioni critiche . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
95
95
95
98
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100
101
101
103
Capitolo IX. La spiegazione del problema . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
1. Gli antecedenti individuali del mobbing . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
2. Le variabili organizzative antecedenti al fenomeno del mobbing . . . . . . . . . . .
104
104
108
Capitolo X. L’evidenza . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
1. La diffusione del mobbing . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
2. I risultati della diffusione del mobbing a livello internazionale . . . . . . . . . . . .
3. I risultati della prevalenza del mobbing a livello nazionale . . . . . . . . . . . . . . .
116
116
119
121
4.
5.
6.
7.
8.
Gli
Gli
Gli
Gli
Gli
effetti
effetti
effetti
effetti
effetti
del
del
del
del
del
mobbing
mobbing
mobbing
mobbing
mobbing
sulla persona . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
a breve termine . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
a lungo termine . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
sugli osservatori . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
sull’organizzazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
125
127
129
130
130
PARTE TERZA
COSA FARE: PREVENIRE E CONTRASTARE IL MOBBING
Capitolo XI. Sviluppare una policy organizzativa: un codice
di condotta antimobbing . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
1. I codici di condotta . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
137
137
Capitolo XII. Valutare i rischi psicosociali . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
1. I rischi psicosociali . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
2. Valutazione del rischio mobbing: un modello psicosociale . . . . . . . . . . . . . . . .
3. Prevenire il mobbing migliorando il clima organizzativo . . . . . . . . . . . . . . . . .
143
143
147
151
Capitolo XIII. La formazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
1. La formazione antimobbing . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
2. L’intelligenza emotiva e il mobbing . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
3. Formare sulla consapevolezza del mobbing e delle azioni negative . . . . . . . . . .
156
156
156
158
Capitolo XIV. La gestione dei casi: mediazione, counseling e riabilitazione . . . . .
1. La mediazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
2. Il counseling per il mobbing . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
3. La riabilitazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
159
159
160
165
Capitolo XV. Conclusioni . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
1. Migliorare la pratica: riscoprire la teoria e la ricerca per debellare
il virus del mobbing . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
166
166
Bibliografia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
171
Appendice A. Misura della percezione soggettiva di mobbing . . . . . . . . . . . . . . . .
Appendice B. Focus group mobbing: un esempio . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Appendice C. Traccia di intervista: mobbing sul ruolo e sugli aspetti
lavorativi della mansione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Appendice D. Log book mobbing . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Appendice E. Checklist per la valutazione in sede di visita INAIL . . . . . . . . . . . . .
187
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193
195
Ringraziamenti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
199
IN COLLANA
Vincenzo Majer e Emanuele Farinella
IL METODO DEI CASI
Modelli teorici e prassi operativa per l’assessment
Il metodo dei casi è uno tra i più affascinati ed efficaci strumenti ad uso dei professionisti che
hanno fatto delle risorse umane la loro specializzazione. In un mondo del lavoro, come quello moderno, in cui sempre più spesso si richiede ai suoi componenti di sapersi relazionare efficacemente e gestire con altrettanta fluidità il lavoro in team e la complessità, il metodo dei
casi si rivela un potente alleato e un prezioso supporto per chi è chiamato a scoprire e valutare le potenzialità delle persone che “abitano” le organizzazioni. Nonostante questo primato, il metodo dei casi è purtroppo ancora relativamente poco conosciuto e ad oggi è difficile
reperire materiale informativo e formativo che prepari adeguatamente al suo utilizzo. Questo
libro ambisce quindi a colmare questa lacuna editoriale e al contempo vuole offrire spunti teorici e operativi ad “apprendisti” ed esperti, accompagnando il lettore alla scoperta delle simulazioni di gruppo seguendone l’applicazione passo per passo all’interno di un virtuale processo di valutazione che fa da cornice pragmatica e realistica a tutta l’opera. Vengono inoltre presentati modelli e strumenti operativi per l’osservazione dei comportamenti, schede per la loro
rilevazione e per l’assegnazione dei relativi punteggi. È stato dato spazio anche alle modalità
di elaborazione dei profili quantitativi e qualitativi dei soggetti in valutazione.
Carlo Bisio
PSICOLOGIA PER LA SICUREZZA SUL LAVORO
Rischio, benessere e ricerca del significato
Questo volume costituisce una presenza del tutto originale nel panorama editoriale italiano.
Esso affronta, infatti, un tema attuale e discusso come quello della sicurezza sul lavoro attraverso una prospettiva che nel nostro Paese (a differenza che in altri) è quasi completamente
inedita: il punto di vista umano. Al centro della trattazione si trovano non tanto i principi normativi o tecnici preposti alla tutela della sicurezza sul lavoro, quanto la psicologia dei gruppi
e delle persone che, attraverso il loro comportamento, la loro competenza, le loro abitudini,
il loro modo di comunicare, costruiscono – o disfano – la reale sicurezza sul lavoro e i risultati che ne conseguono. L’analisi è volta a dimostrare che i rischi psicosociali (come stress, burnout, mobbing e comportamenti a rischio, tutti puntualmente trattati in queste pagine) derivano in molti casi dal deterioramento di elementi organizzativi e sociali come il gruppo, la
leadership, il clima e la comunicazione. Dopo avere enunciato alcune proposte concrete di
interventi migliorativi nella progettazione della sicurezza e del benessere, l’Autore giunge a
una conclusione fondamentale: il benessere sul lavoro non è semplicemente l’assenza di
malattia o di infortuni, quanto una dimensione complessa che mette l’essere umano in grado
di dare significato al proprio lavoro (e, dunque, alla propria vita) attraverso processi sociali e
culturali come le relazioni interpersonali, l’espressione creativa della propria identità, l’apprendimento di nuove abilità, l’attribuzione di significato alle proprie azioni. È questa la vera
sicurezza che un’organizzazione efficace e competitiva deve essere in grado di offrire, e che
il presente volume riesce a descrivere in ogni suo aspetto.
Carlo Odoardi (a cura di)
FORMAZIONE E SVILUPPO NELLE ORGANIZZAZIONI
Innovare e integrare il sistema della formazione continua
Il volume fornisce, nell’ambito della ricerca-azione, l’analisi teorica e applicativa di un processo innovativo all’interno di un’organizzazione attraverso la creazione di un Laboratorio di
innovazione per lo sviluppo della formazione continua nell’area delle risorse umane. Vengono
presentati gli aspetti psicosociali legati ai processi di innovazione nelle organizzazioni. Segue
una disamina delle principali dimensioni (competenza, processo di formazione, gruppi di
miglioramento della qualità, tecnologie per lo sviluppo dei sistemi informativi e formativi)
concorrenti alla creazione di un sistema innovativo e integrato della formazione. Si descrivono, inoltre, le logiche, le strategie, la metodologia e gli strumenti che hanno caratterizzato le
fasi operative durante l’introduzione di questo nuovo servizio di formazione. Sono riportati i
risultati di un’indagine sulla percezione della formazione e sulla salute organizzativa utili per
definire e promuovere piani di miglioramento nei rispettivi sistemi della formazione e dell’organizzazione. Nelle conclusioni, si evidenziano alcuni elementi teorici per la definizione di un
approccio di formazione mista, integrata e continua.
Il libro è quindi un contributo che cerca di favorire, soprattutto negli studenti, conoscenza
e consapevolezza su come le teorie, i modelli e i paradigmi della psicologia si traducano in
sistemi operativi per lo sviluppo e la valorizzazione degli individui che vivono nelle organizzazioni.
Finito di stampare nel mese di marzo 2009
presso Stabilimento Poligrafico Fiorentino – Calenzano (FI)