Il custode Il sole si adagia sulle creste innevate, i

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Il custode Il sole si adagia sulle creste innevate, i
Il custode
Il sole si adagia sulle creste innevate, i raggi infiammano le pareti. Le cime trascolorano
dal rosa pallido a un debole viola, il cielo sfuma dall’indaco al cobalto e in breve si
incastona delle prime timide stelle. L’atmosfera è cristallina, trasparente, una trasparenza
di aria e luce, accompagnata dal canto del vento, che a tratti frusta il volto. Un gracchio si
posa sulla staccionata delimitante la baita. Piega la testa, osserva, occhi neri e profondi. Il
vecchio si gira e sorride. Si fissano. Vento. Il freddo gelido della sera lo costringe a
rientrare. Il gracchio lo segue con lo sguardo. Lo vede chiudere la porta e avvolgersi nel
torpore della stanza, le mani formicolanti si intrecciano, cercano calore. Aggiunge ceppi al
fuoco morente, e subito questo si ravviva schioccante e danzante. Il vecchio si siede alla
poltrona, sporca, consunta, lacera, piena di ricordi. Il gracchio vola via, lasciandolo nella
sua solitudine, a ricordare gli ultimi istanti della sua giovinezza.
“Sta arrivando! Sta arrivando.”
“Calmati. Calmati. Chi sta arrivando?”
“Lo sento. E’ vicino.”
Il vecchio sedeva immobile, le mani a cupola su un bastone scheggiato dagli anni. Sul
volto una serpaia di rughe si incuneava in piccoli occhi azzurri e proseguiva in una lunga
barba, crespa e grigia. Fissava la finestra, e al di là il cielo terso della sera, su cui placida
stava appesa la falce lunare. Da quando infuriava la guerra non faceva altro che starsene
seduto a fissare il vuoto, ma capitava che scattasse e urlasse all’improvviso frasi
sconnesse.
Il giovane non comprendeva il suo disagio. Gli porse una tisana fumante. Il vecchio la
accolse tra le nodose mani. Sembrava non percepire il bollore.
“Sarà dura, figliolo.” Bevve un sorso. Silenzio. “Molto dura. Tu non Bevi?”
“No.”
“Riscalda lo stomaco.”
“Non ho freddo.”
“Hai caldo?”
“Sto bene.”
“Io ho freddo.”
Sorrise, stanco. Il giovane ricambiò debolmente.
“Ragazzo mio, un ciclo si compie, un altro inizia.” Tossì.
Pugni pesanti batterono alla porta. Il giovane andò ad aprire. Un uomo basso, tozzo, una
lunga barba cinerina, vestito di pelli e muschi. Una sacca appesa al collo. Estrasse una
pergamena.
“Ho qui la p…”
“Buonasera a lei, mastro Hugul.”
“Oh, perbacco! Buonasera maestro. Scusi le maniere, non l’avevo vista. Sempre su quella
poltrona lurida, eh? Ehm, scusi i modi”, borbottò sottovoce “comunque, dicevo?”
“La pergamena.”
“Ah, già, già. Un dispaccio del re. Ecco qua.”
Porse al vecchio la pergamena, che la aprì con delicatezza, passando le dita sui bordi unti.
Assorto lesse. Finito di leggere richiuse la pergamena e la posò sul tavolo.
“Bene. E’ ora.”
“E’ ora per cosa?” intervenne il giovane.
“E’ giunto il tuo momento.”
“Il momento per cosa?”
“E’ lui sua saggezza?" L’omone fissò sbalordito il ragazzo. "L’erede?”
“Lui in persona Hugul, ma lo sai che non ci piace essere chiamati “eredi”, preferiamo
“custodi”.”
“Mi spiegate che sta succedendo?” interruppe il giovane, infastidito.
“Ma come, ragazzo, non lo sai? La guerra è ormai…oh mi perdoni maestro, racconti lei.”
“Non fa niente Hugul. Il ragazzo ha già compiuto il suo addestramento, è all’oscuro solo
degli ultimi avvenimenti.” Sorseggiò della tisana. “E del suo destino. Riley, abbiamo perso
la guerra.”
“Come?!” Gli occhi del giovane si infiammarono e scattò in piedi con impeto. “I miei
genitori? La mia contea? La mia gente? Come stanno?”
“Calma ragazzo. Stanno tutti bene, è scritto tutto lì.” disse Hugul indicando la pergamena.
Il vecchio porse la carta al giovane, che gliela prese e la lesse avidamente.
Il vecchio si piegò, lento, verso la finestra, ammirando i gracchi, fieri, danzanti nel vento.
Le valli eccheggiavano dei loro contrappunti striduli, dolci e lugubri allo stesso tempo.
“Sai cosa vuol dire questo? Che il Signore dei ghiacci ha vinto, ora inizia il lungo inverno.
Saranno tempi bui. Desolati. Freddi. Il tempo dell’autunno è finito, e con lui il mio mandato.
Ora tocca a te”
“Ma…come…cosa…Mi hai addestrato sull’autunno, non so nulla sull’inverno. Il mio
addestramento non è finito.”
“Oh, sì che lo è. Quello che devi sapere lo sai, ora devi metterci del tuo. E’ il tuo tempo.”
“Mi lasci così, da solo?” ruggì con rabbia.
“Non alzare la voce. Hai paura ed è normale. Tutti la abbiamo. Guai se non fosse così.”
Ci fu un lungo silenzio.
“Mi scusi, maestro, potrei prendermi della tisana?”
“Come? Oh sì, sì, Hugul, serviti pure. Ragazzo, ora è il tuo…”
“…Tempo.”, finì il giovane con un filo di voce.
Il vecchio scandì un largo sorriso. Invitò il giovane ad avvicinarsi alla finestra. Indicò fuori,
dove stormi di uccelli compivano evoluzioni nell’aria.
“Pyrrhocorax graculus, o gracchio alpino. Bestia stupenda, robusta, decisa. Raggiunge
quote elevate in estate, in inverno scende ma non si riposa. Vive in gruppi molto numerosi,
decine, centinaia di individui, anche migliaia nei periodi freddi.” Fece una lunga pausa, il
vento componeva piccoli frammenti di musica nel silenzio. “Non sei solo. Loro sono i tuoi
occhi, le tue orecchie. La tua anima. Sono i messaggeri. Loro hanno vissuto, hanno visto.
Custodiscono la memoria.”
Si fermò, statuario sulla sua sedia. Trattenne il respiro e il tempo parve fermarsi. Il giovane
scorgeva il suo volto a intermittenza, sincrono con la luce delle fiamme uscenti dal camino.
“Non è male l’inverno. Freddo, bianco, silenzioso. E’ il tempo dell’attesa, tutto si quieta,
tutto ascolta”.
Un ceppo schioccò.
Il vecchio si alzò. A passi stretti si avvicinò. Piegandosi sulle ginocchia sussurrò al giovane
“Riley, ora sei tu il custode. Il custode dell’inverno.”
Una sensazione di freddo penetrò nelle ossa del ragazzo. La porta si spalancò dando
libero sfogo a una tormenta di neve nata dal nulla. Stormi di gracchi si riversarono come
cascate nella stanza. Volarono in cerchio. Infine si posarono riempiendo ogni spazio libero.
D’istinto il giovane si buttò sul pavimento, coprendosi la testa tra le mani. Hugul si appiattì
al muro. Una folata di neve avvolse il vecchio. Le mani si dilatarono come un aquilone, si
ricoprirono di piume nere e lucenti. Le dita si fusero tra loro. Il viso segnato dall’età si fece
liscio, al suo posto comparve un becco affilato e splendente. Il corpo si vestì di penne e le
gambe si modellarono in fine ma robuste zampe, terminanti in affilati artigli. Occhi piccoli,
neri, lucenti fissarono in profondità il giovane incredulo. In un attimo la piccola bufera si
dissolse, abbandonando uno splendido gracchio, robusto, saltellante in ogni dove. Spiccò
il volo, rischiando più di una volta di rompere qualche oggetto nella stanza. I gracchi
intonarono un canto, note melliflue e cristalline si intrecciavano in un contrappunto mai
udito. Su queste armonie il vecchio, ora uccello, volò via dalla porta nella notte, nella
gelida notte e dietro di lui si riversarono in fila gli altri, come una cavalleria impazzita.
Appena l’ultimo varcò la soglia la porta si richiuse violentemente e il silenzio tornò a
regnare nella stanza.
Il giovane si ritrovò solo, solo col battito ancora veloce del suo cuore, che pian piano si
affievolì. Con uno sguardo abbracciò il silenzio. Si diresse verso la finestra e sbirciò fuori,
e quello che vide non lo dimenticò. Una moltitudine di gracchi, sui colli, sui pendii, sulle
creste. All’improvviso non era più solo, ma erano migliaia. Sconcertato, il giovane fissò
Hugul, che sorrise compiaciuto, chinò il capo rispettosamente e allargò le braccia. Ora è il
tuo tempo. Il giovane si voltò verso il camino, ancora sconvolto dagli ultimi avvenimenti. Il
fuoco ardeva gioioso, ma un brivido di paura scorreva dentro di lui.
Anni sono passati dall’ultima notte d’autunno. Il fuoco si sta spegnendo, nella baita cala il
buio e il freddo. Le cime spazzate dal vento, protese nel cielo come sciabole di ghiaccio,
stanno mute a guardia delle valli innevate. Sui dolci pendii radi abeti frangiati di ricami di
ghiaccio stanno impassibili al vento nel loro abito gelato. Il sole si sveglia al di là delle
ultime cime. Basso sull’orizzonte, illumina metà mondo, l’altra metà dorme ancora nella
notte.
L’attesa è finita, dopo un freddo, lungo inverno. Ora era il tempo della primavera. Il
vecchio ripone il calamaio, l’inchiostro ancora fresco sulla gialla pergamena. La chiude. La
passa sulla candela. La sigilla. Si alza dalla sedia con serafica lentezza, stringendo il
rotolo. Anche il mio mandato è finito. Aiutato dal bastone appartenuto a generazioni di
custodi, si avvia verso la porta, la apre, un timido sole lo bacia. Sorride. Sei tornato
finalmente. Fischia nella brezza mattutina, l’eco rieccheggia nelle mille valli. Subito un
gracchio si posa sulla staccionata. Riley sorride: “L’attesa è finita, ora è il tempo della
primavera. Consegna a chi di diritto questa pergamena”. Il gracchio urla nel vento.
Raccoglie la pergamena e vola via.
Ora è tempo di un nuovo custode. Il custode della primavera.