barbiere igre giò la testa

Transcript

barbiere igre giò la testa
pulci nell’orecchio
Saroyan
William
illustrazioni di Fabian Negrin
Lo zio del barbiere
e la tigre
che gli mangiò la testa
Storie che saltano di testa in testa,
lasciando il prurito contagioso della lettura.
Piccoli capolavori ritrovati,
grandi autori classici che ci consegnano
schegge d’infanzie indimenticabili.
Bambini che si misurano con un mondo
severo, estraneo e, spesso, assurdo
e incomprensibile: quello degli adulti.
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W. Saroyan Lo zio del barbiere e la tigre che gli mangiò la testa
Nato da genitori armeni emigrati negli Stati
Uniti, William Saroyan (Fresno1908-1981)
fece mille mestieri prima di diventare
scrittore e drammaturgo di fama. Eclettico,
seppe fondere nei suoi ritratti umani un forte
umorismo e profonda sensibilità. La sua
storia personale -conobbe povertà e ricchezza
estreme- traspare nella sua narrazione attenta
di una America minore. Con una semplicità
mai melensa o banale e una disinvoltura che
ricorda il racconto orale, scrisse piccole storie
di vite difficili. Forse in nome di questo,
rifiutò il premio Pulitzer che gli venne
conferito nel 1939.
“Il mondo aveva ragione.
La signorina Gemma aveva ragione.
Mio fratello Krikor aveva ragione.
Bisognava mi tagliassi i capelli,
così nessun passero avrebbe più cercato
di farsi il nido sulla mia testa.”
La bottega di un barbiere armeno
e un ragazzino che ha i capelli troppo
lunghi. Giunto nella bottega di quello
strano personaggio –che forse come
barbiere non vale nulla ma come narratore
nessuno lo batte– quel ragazzino sognatore
ascolta la storia di un uomo forte
e coraggioso che finì a lavorare in un circo.
Dalla Cina all’India, dall’India
all’Afghanistan, dall’Afghanistan alla Persia,
ogni giorno quell’uomo intrepido metteva
la testa nella bocca di una tigre…
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pulci nell’orecchio
William Saroyan
Lo zio del barbiere e la tigre
che gli mangiò la testa
illustrazioni
Fabian Negrin
traduzione di elio vittorini
www.orecchioacerbo.com
La signorina Gemma diceva che
avevo bisogno di tagliarmi i capelli,
mia madre diceva che avevo bisogno
di tagliarmi i capelli, mio fratello
Krikor diceva che avevo bisogno di
tagliarmi i capelli; tutti volevano che
andassi a tagliarmi i capelli. Il mondo
non mi permetteva di avere una testa
così grossa di capelli. Troppi capelli
neri, troppi, diceva il mondo.
Stampa: Futura Grafica ‘70 · Roma
Finito di stampare nel mese di marzo 2017
Tutti dicevano:
pulci nell’orecchio
Serie a cura di Fabian Negrin
Titolo originale: The Barber whose Uncle Had
his Head Bitten off by a Circus Tiger, 1935
Traduzione di Elio Vittorini
© 2017 orecchio acerbo s.r.l.
viale Aurelio Saffi, 54 · 00152 Roma
L’editore si dichiara disponibile a corrispondere i diritti
di cui non è stato possibile raggiungere i detentori.
«Quando vai a tagliarti i capelli?»
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C’era un uomo d’affari nella nostra
città che si chiamava Huntington e
che ogni giorno soleva comprare da
me l’Evening Herald.
Era un uomo che pesava più di un
quintale, possedeva due Cadillac, seicento jugeri di terreno piantati a uva
di Alicante, un milione di dollari, e
aveva una piccola testa calva in cima
a una grossa persona.
Egli portava i forestieri di passaggio
per la nostra città a vedere la mia testa.
«È grande la California» urlava in
mezzo alla strada. «C’è aria buona»
urlava. «Ma, santo Dio, avete mai visto tanti capelli su una testa?»
La signorina Gemma diventava ogni
giorno più feroce in proposito.
Un giorno disse:
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«Non faccio nome, ma se un certo
giovanotto di questa classe non va a
tagliarsi i capelli uno di questi giorni finisce che lo mando al riformatorio».
Non faceva nomi. Però mi guardava.
«Perché non te li tagli?» diceva mio
fratello Krikor.
«Pensa a Sansone» dicevo io. «Pensa alla
collera di Sansone quando gli tagliarono i capelli.»
«Che c’entra questo?» diceva mio fratello Krikor. «Tu non sei Sansone.»
«Ah, no? Sei sicuro che non lo sono?
Che cosa ti fa pensare che non lo
sono?»
Ero contento che tutti ce l’avessero con me per i miei capelli, ma un
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e la tigre che gli mangiò la testa
giorno un passero cercò di farsi il
nido nella mia testa; così corsi da un
barbiere.
***
Dormivo sull’erba appiè del noce nel
nostro cortile quando il passero volò
giù dall’albero e cominciò a rimestare
nei miei capelli.
Era una tiepida giornata d’inverno e
il mondo dormiva. Tutto era fermo,
tranquillo nel mondo. Nessuno andava attorno in automobile, e non
altro si udiva che il ronzio caldo e
fresco, malinconico e gioioso della
realtà terrestre.
Ah, gran Dio, era bello vivere!
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e la tigre che gli mangiò la testa
Era splendido avere una piccola casa
nel mondo, col portico davanti, spazioso e pieno d’ombra, per i lunghi
pomeriggi d’estate… E con le stanze,
le tavole, le seggiole, i letti. Un pianoforte. Una stufa. Alle pareti quadri
fatti con le illustrazioni del Saturday
Evening Post.
Era strano e miracoloso esser vivo in
un qualche punto del mondo. Vivo,
capace di muoversi attraverso il tempo e lo spazio, mattina, meriggio e
notte; e respirare, mangiare e ridere;
parlare, dormire e crescere. E vedere,
udire, toccare. Camminare per i luoghi del mondo, sotto il sole. Essere al
mondo. Nel mondo.
Ero contento che il mondo esistesse,
e che potessi, così, esistere anch’io.
ma ero contento pure. Ossia, ero
tanto contento per ogni cosa che mi
sentivo triste. E tanto triste e contento ero insieme che volevo sognare, pensare ai luoghi che non avevo
mai visto. Le magiche città del mondo: New York, Londra, Parigi, Berlino, Vienna, Costantinopoli, Roma,
Cairo. Le strade, le case, e la gente
viva ovunque. Le porte e le finestre
ovunque. E i treni, nella notte, e nella notte i piroscafi per il mare. Il malinconico mare oscuro. E i momenti
luminosi di tutti gli anni morti, le
città sepolte sotto gli anni, i luoghi
che non esistevano più: tutto quello
ch’era stato vivo e ch’era morto e che
per sempre era vivo perché il vivo viveva in eterno sulla terra.
Ero solo, ed ero triste per ogni cosa,
Ah, Gesù, io feci un sogno una volta
nel 1919 e sognai che i viventi viveva-
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no in eterno! Sognai questo e la fine
della morte; eterni il sole in alto, in
mezzo al cielo, e il calore sulla terra.
***
Fu allora che il passero volò giù
dall’albero sul mio capo, e cominciò
a fabbricarsi un nido nei miei capelli.
Io mi svegliai.
Aprii gli occhi, ma non mi mossi.
Non sapevo di avere un passero nei
capelli, e non lo seppi che quando il
passero si mise a cantare.
Mai prima in tutta la mia esistenza
avevo udito il grido di un uccello
così distintamente, e quello che udii
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fu straordinario e nuovo, e allo stesso
tempo naturalissimo e vecchio.
Poi mi resi conto che la cosa non poteva andare.
Cantava, l’uccello, come ogni altro
uccello può cantare, ma a me sembrava che dicesse: piangere, piangere,
piangere, non vi è altro da fare che
piangere. E questo malinconico messaggio l’uccello articolava con uno
spirito di assoluta letizia.
Era contro natura che un piccolo passero si facesse il nido nei miei capelli.
D’un tratto, nel silenzio del mondo,
era cominciata questa musica e questa orazione. Per un momento, mentre ero ancora mezzo addormentato,
tutto mi parve perfettamente naturale: il passero nei miei capelli, e il
suo parlarmi, e la contraddizione tra
quanto diceva e lo spirito con il quale
lo diceva.
Dolore da una parte, gioia dall’altra.
Perfettamente naturale.
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Così saltai in piedi e corsi in città, e
il passero, spaventato a dovere, volò
via lontano.
Il mondo aveva ragione. La signorina
Gemma aveva ragione. Mio fratello
Krikor aveva ragione. Bisognava mi
tagliassi i capelli, così nessun passero avrebbe più cercato di farsi il nido
sulla mia testa.
In via Mariposa c’era un barbiere armeno che si chiamava Aram, e ch’era un contadino in realtà, o forse un
maniscalco, o forse un filosofo, non
un barbiere.
Ma io non sapevo. Sapevo soltanto
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che aveva una piccola bottega in via
Mariposa e che lì passava il suo tempo a leggere l’Asbarez e altri giornali
armeni, nonché ad arrotolare e fumare sigarette, e guardare la gente che
attraversava la strada. Mai io lo vedevo tagliare i capelli o fare la barba
a qualcuno, tuttavia penso che ogni
tanto qualcuno entrava per sbaglio
da lui, in tutta innocenza.
Io andai in via Mariposa ed entrai
nella bottega di Aram, e lo svegliai.
***
SEGUE…
Seduto dinanzi al tavolino egli aveva
un libro armeno aperto sulle ginocchia, e dormiva.
«Volete tagliarmi i capelli? Ho venticinque centesimi.»
«Ah» disse il barbiere. «Lieto di vedervi. Come vi chiamate? Sedetevi» disse. «Vi farò il caffè prima.»
E ancora disse:
«Che bella testa piena di capelli che
avete!»
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