MARIO ULLIANA IL PAESAGGIO VITTORIESE NEGLI SCRITTI DI

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MARIO ULLIANA IL PAESAGGIO VITTORIESE NEGLI SCRITTI DI
Tratto dalla Rivista quadrimestrale di studi vittoriesi - IL FLAMINIO n°10 - 1997 - Edita dalla Comunità Montana delle Prealpi Trevigiane
MARIO ULLIANA
IL PAESAGGIO VITTORIESE NEGLI SCRITTI DI TITO ANTONIO
SPAGNOL
Il paesaggio vittoriese entra di prepotenza all'inizio di uno di quei romanzi
thriller che hanno reso famoso T.A. Spagnol, un giallo Mondadori del 1935: La
bambola insanguinata.
C'è un medico convalescente, che arriva in treno dalla capitale, accolto dallo
zio, don Poldo (una specie di Padre Brown di Chesterton, trapiantato nella
quiete della provincia italiana): "Mentre uscivamo dalla stazione, gli raccontai
della mia malattia. "Bene, bene, ora ti rimetterai presto. Senti che aria? Qui si
respira, altro che a Roma!" e mi trascinò ad una balaustrata in fondo al breve
piazzale della stazione: "Guarda che bellezza! ".
Così, tra l'ironico e l'affettuoso, il nostro scrittore approfitta per fare un pò di
propaganda turistica a favore della città natale. "Sotto di noi si spiegavano
magnifici giardini e una piazza armoniosa. (E la fotografia-standard, la cartolina
illustrata del centro di Vittorio). Tutto intorno si innalza vano le colline verdi e
dietro, le montagne azzurre ed aspre dai nudi dorsi. "Prima della guerra continua don Paolo - c'era gente che veniva qui perfino dall 'Egitto a villeggiare
e a fare le acque. A te che sei medico interesserà sapere che qui abbiamo delle
fonti termali eccellenti..." (Continua il cliché pubblicitario).
Quel ritorno, per Spagnol, è quasi autobiografico: per lui, irrequieto e
avventuroso, abituato a girare il modo, per lui che è stato a Parigi e poi negli
States, ad Hollywood, dove ha lavorato come sceneggiatore, a fianco del
MARIO ULLIANA. Già Sindaco di Vittorio Veneto e Assessore Regionale
all'Urbanistica, attualmente Presidente dell'Istituto per la Storia della Resistenza
e della Società Contemporanea della Marca Trevigiana, è autore di varie
pubblicazioni di argomento vittoriese.
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grande Frank Capra, e poi in Messico, in Canadà ... Anche quando si èfermato
in Italia, idealmente ha continuato a viaggiare, grazie all'ottima conoscenza di
molte lingue - da giovane aveva snobbato gli studi regolari e non aveva neppure
un diploma di scuola media superiore - spaziando nel campo della letteratura
internazionale con pregiate traduzioni di opere di autori stranieri (vedi
"Gerusalemme, Gerusalemme !"di Dominique Lapierre e Lany Collins). Si era
affermato come romanziere con "La griffe du lion" nelle prestigiose edizioni
Gallimard ed i suoi gialli più famosi erano tradotti in molte lingue ed edizioni.
Un po' il complesso dell'emigrante ce l'aveva. E lo stato d'animo di chi, spinto
dalla nostalgia, torna al proprio paese, lo si avverte in un racconto di Bassa
marea, intitolato appunto L'emigrante, che - guarda caso - gli offre lo spunto per
un rapido, ma efficace appunto ambientale su quel Montaner, che tra pochi anni
diverrà la prima base della Resistenza del vittoriese dopo l'8 settembre.
"Serafino non era nato a Sarmede, dove aveva costruito la sua casa, ma in una
frazione di Sarmede, Montaner. Come lo lascia intendere il nome, Montaner è
aggrappato alle ultime zolle di terra nera che riescono a tenere i crepacci di una
montagna aspra e nuda. La gente di Montaner contende alle rocce la sua vita,
che è dura e difficile. I suoi uomini fanno i contadini in paese, ipastori nelle
maighe e i carbonai nei boschi che rivestono la vetta e l'altro versante della
montagna, e cacciano difrodo il tasso e la volpe per le balze scoscese. Essi
amano i loro luoghi, ma guardano con invidia alle terre più grasse delle colline e
del piano, e il loro sogno è di scendervi e di stabilirvisi. Perciò emigrano per il
mondo, e così decise di fare Serafino, quando ebbe finito difare il soldato..."
L'emigrante che ritorna! Quante volte è tornato, realmente o col pensiero, T.A.
Spagnol alla sua "odiosamata" Vittorio! È tornato da amare esperienze, dalla
guerra, da esaltanti avventure giocate sull'assurdo e sulla temerarietà, è tornato
da importanti successi nell'attività di pubblicista, di narratore, di critico, di
inviato speciale. E sempre lo accoglieva la sua Vittorio. Anche per lui, appena
passato il Piave e man mano che il baluardo delle Prealpi si avvicinava, si
ripeteva la sensazione di entrare in un anfiteatro accogliente, nel quale la città come un fiore che si gode il sole contro un muro rivolto a mezzogiorno - si
adagia serenamente, quasi usufruendo di una protezione, nel grande abbraccio
delle colline che la cingono da ogni parte; un abbraccio rafforzato - quasi per
maggior sicurezza- dagli spalti possenti del Visentin e del Pizzoc, i quali, a
ricordo di lontane vicente geologiche, continuano ad affrontarsi, come
pachidermi preistorici caduti.
Dalle linee sinuose della vasta plaga coltivata si passa ai rilievi più a diretto
contatto con l'insediamento urbano: groppe di colli rinconentisi, con
affioramenti di creste e di corde e caratteri di ruvida scontrosità.
(Per inciso: quante volte Tiziano Vecellio, che di qua transitava nei suoi
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viaggi tra il Cadore e Venezia, ha dipinto questo paesaggio e lo ha posto a
sfondo delle tele destinate ai grandi della terra!
Per goderselo si era fatta costruire, in cospetto di esso, una casa in quel di Castel
Roganzuolo, sul Col di Manza. Di là poteva guardare il profilo dei monti che gli
nascondevano le sue Marmarole, aperti solo dalla breccia attraverso cui si
apriva la sua strada il fiume Meschio, e il grande arco delle colline, punteggiate
da torri barbariche su cui l'uomo aveva gradatamente sovrapposto le chiese
cristiane. Il paesaggio di Vittorio Veneto, anche per questi contrastanti aspetti di
lotta e di pace, comunica un senso di segreta orgogliosa bellezza).
T.A. Spagnol, vittoriese purosangue, anche se sovente 'prestato' all'estero, tutte
le volte che può, esalta la pecularietà e il fascino di questo ambiente, e al tempo
stesso mette in evidenza, lui che ha al suo attivo tante esperienze metropolitane,
i vantaggi di vivere in una città, - talvolta la ridimensiona a paese - a misura
d'uomo, la quale, pur con tutti i limiti e le angustie dei piccoli centri, possiede la
grandissima prerogativa di avere la natura a portata di mano, in godimento
diretto. È un privilegio da non poco.
Scrive ne Il ramarro, un racconto del 1968: "... Chi non abita in città smisurate,
ma in piccoli centri ha la natura, si può dire, fuori della porta di casa. Io vivo in
uno di questi luoghi, fortunatissimo perchè giace tra colli dolci e aspri, sotto alti
monti. Dorsi, pendii, valli e vallette, fratte, macchie e boschi, ruscelli e prati,
tutti a due passi. (Anche se nessuno più li compie quei due passi)". La parentesi
è sua.
Ne La bambola insanguinata è presente questo contatto della città con
l'immediata collina: "La strada, appena fuori della città, costeggia il piede delle
colline, poi si addentra principiando a salire tra siepi di gelsi e di acacie, su per i
fianchi delle brevi vallate coperte di vigneti, di macchie di noccioli e di prati. Le
colline non sono alte, ma erte... ".
Tale sistema collinare, nel periodo tra il '43 e il '45, faciliterà la guerriglia e sarà
teatro di tanti scontri che qui si consumarono. Anche la casa, che divenne la
sede clandestina del Comitato di Liberazione Nazionale, la casa di Gandin,
fruiva di questa collocazione: "... giorni caldi, anzi roventi, racconta in
Memoriette marziali e veneree - con morti e sparamenti perfino fuori dell'uscio
di casa sua, che sorgeva in una strada al limite della città vecchia, donde con un
balzo s'era sui viottoli delle colline e da qui sui sentieri per la montagna ".
Anche le notazioni meteorologiche sono intonate all'ambiente e ritraggono
fedelmente la situazione climatica. Ne La bambola insanguinata: "La giornata si
preannunciava afosa. Masse di vapori leggeri coprivano i monti vicini e si
distendevanofilacciosi nel cielo torbido e velato ".
Ne abbiamo un altro esempio in un elzeviro, comparso su "Il Corriere della
sera" nel febbraio 1941, col titolo Sul campanile di roccia. È qui di scena il Pian
delle lastre, una zona di malghe sotto il Monte Cavallo, uno
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degli epicentri delle imminente vicenda partigiana del Cansiglio: "... le nubi
gonfiarono su dalle valli quasi all'improvviso, avvolgendoci nelle loro
filaccefumose efredde. Poi tra tuoni e saette grandinò per mezz 'ora, e infine un
vento gagliardo disperse le nuvole .... al di sotto di noi erano le pareti lucide e
nere della montagna, e la conca verdissima dell'Alpago o lo specchio celeste del
lago che spiendevano". E più avanti: "... il lago incastonato nella conca verde
duemila metri più sotto...
In Memoriette, egli ci spiega il perché della sua familiarità con la zona, perché
era così pratico del Cansiglio: "In fanciullezza vi avevo trascorse lunghe
stagioni percorrendo la selva per ogni verso in compagnia di mio padre che era
un gran cacciatore, e la amavo legato ancora ai ricordi dei miei primi contatti
con la natura selvaggia e misteriosa. Vi avevamo anche una specie di villa a
qualche chilometro dal passo della Crocetta, sulla fascia esterna dell'altipiano
coperta dal ceduo che precede la foresta d'alto fusto: è da qui che muovevamo
andando a caccia ".
La costruzione esiste ancora ed è nota come Villa Natalia: "Quella casa era
annidata in una valletta della macchia nelle cuiforre ci era concesso di aggirarci"
ci informa in un altro racconto Andar per funghi su "Il Gazzettino" del marzo
1964- ma solo in compagnia del vecchio pastore Toni del Col delle Stelle, la cui
malga era sulla vetta della collina dal bel nome (in realtà è Pian de le Stele, che
è un' altra cosa n.d.r.) che sovrastava la nostra dimora che egli custodiva durante
l'inverno, abitandola col compito di mantenervi la giusta temperatura al
semebachi che mio padre gli affidava per l 'ibernazione ".
Per comprendere il passo citato, bisogna sapere che, in assenza dei frigoriferi, al
fine di ottenere la schiusura del semebachi al momento desiderato, si soleva
farlo ibernare in qualche sito di montagna. Il padre di Spagnol, Girolamo, aveva
lo stabilimento bacologico in via Bella Venezia (ora via Beniamino Labbi) e col
fratello Giuseppe ne possedeva un altro in via Garibaldi, angolo con via Rivetta.
In Andar per funghi: "Avevamo lasciata la casa avanti l'alba e raggiunto il Passo
della Crocetta c'eravamo inolt rati per la foresta, risalendo la oscura Valle
dell'Orso fra i grandi fusti degli abeti e dei faggi ..."
Nei racconti dello Spagnol c'è questa specialità: con rapidi, indovinati tocchi,
che non disturbano l'andamento del racconto, egli sa darci informazioni, anche
sotto l'aspetto socio-antropico, sull'ambiente in cui si svolge l'azione.
Ecco sul Cansiglio alcune note essenziali, panoramiche (in Memoriette). "Il
Cansiglio è una vasta conca che si invasa entro un perimetro di una trentina di
miglia, costituito dai crinali dei monti che la cingono. L'interno della conca è
ricoperto dalla foresta, tranne nella sua parte più bassa che forma un 'ampia
zona prativa, lievemente ondulata, costellata di malghe, ove con la buona
stagione vi monticano un migliaio di vacche: il Pian del
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Cansiglio, come è chiamato, al cui centro, in vetta alla maggiore elevazione,
sorge un albe rghetto, il 'Palazzo' e una villa, residenza estiva dell 'Ispettorato
della foresta.
L 'altipiano si raggiunge da Vittorio Veneto lungo una tortuosa rotabile che per
il passo della Crocetta lo attraversa, sboccando in un 'altra grande conca
alpestre, quella dell'Alpago, che divalla verso il lago di Santa Croce. Pochi altri
sentieri, sovente impervii e malagevoli, lo raggiungono. L'acqua sorgiva vi
manca, poiché la struttura geologica dell'altipiano è di tipo carsico con foibe e
inghiottitoi che smaltiscono le nevi e le piogge, tuttavia la foresta è
lussureggiante, grazie alle frequenti precipitazioni e alle condense notturne, che
nella stagione asciutta coprono con uno strato di nebbia la conca del piano.
Nel suo insieme i 'altipiano costituisce una specie difortezza naturale, di accesso
difficile, facilmente difendibile. Il paesaggio, col suo manto oscuro di abeti, di
faggi, di lanci è imponente e severo, quasi nordico ".
La natura, selvaggia e misteriosa, sedimentata nei ricordi della fanciullezza,
diventa prepotentemente teatro di lotta: "La guerra partigiana prese ad
accendersi anche nel mio paese che sorge ai piedi delle Prealpi e prossimo
all'altipiano del Cansiglio, che si protende con le pendici verso la pianura tra il
confine della Marca Trevigiana e il Friuli. L'altipiano è una specie di grande
conca guardata ali 'in giro da una fila di monti che dalla pianura appaiono nudi,
ma la conca è rivestita da una grande foresta, il 'Bosco da remi di San Marco'
della Repubblica di Venezia che ha una estensione di oltre seimila ettari e che è,
se non sbaglio, la maggiore foresta demaniale italiana ".
Circa l'estensione della foresta è giustificato l'inciso dubitativo, perché il
Cansiglio non è sicuramente la maggiore foresta demaniale italiana, superata
com'è dai 18.000 ettari di quella di Tarvisio e anche da quella della Sila. Quanto
alla qualità del prodotto e alla bellezza, si può discutere.
Egli trova modo di accennare anche ai Cimbri, i radi abitanti dell'altipiano,
gente di ceppo ladino (doveva dire 'germanico') emigrativi nel 1700 dai Sette
Comuni e ridotti ormai a poche famiglie.
Citando l'attività degli indigeni, descrive la gial (andrebbe scritto jal), lo spazio
rotondo dei vecchi carbonili, una delle poche risorse della grama economia della
zona (la troviamo anche ne L'aviatore americano), un racconto uscito nel
dicembre del 1948 su "Il Ponte" di Pietro Calamandrei, dove si sofferma ancora
sulla natura carsica dell'altipiano e sul Bus de la Lum.
"Tra le forre del Cansiglio trovarono rifugio i primi sbandati che si davano alla
macchia, e i soldati caduti nelle mani dei repubblichini e dei tedeschi che
riuscivano a saltare dai treni avviati in Germania per la linea Venezia Tarvisio ".
Presto corse voce della presenza di costoro, le cui file andavano progres57
sivamente infoltendosi; ma i partigiani erano pur presenti in forze sull'opposto
Col Visentin, le cui estreme propaggini vanno, una trentina di chilometri oltre, a
formare una spalla della stretta di Quero, attraverso la quale scende il Piave; e il
movimento si salda così con lo scacchiere bellunese.
Mentre la tracotanza nazista, con sovrano disprezzo verso l'alleato di Salò,
proclama l'annessione dell'Alpenvorland, la Resistenza trevigiana e bellunese
realizza un'unità funzionale tattica e strategica, confermata dalle missioni
alleate, a cavallo delle Prealpi.
Si attua così un'integrazione-scambio tra le due province: tanto da far deplorare
oggi che la collaborazione non sia continuata nel dopoguerra, tali erano le
esigenze e i problemi comuni che avrebbero potuto essere affrontati più
proficuamente insieme. Ma questo è un altro discorso.
Tito A. Spagnol, che stava progettando di tornare a Milano, dove suoi amici già
lavoravano nella Resistenza, entra nel Comitato di Liberazione Nazionale
vittoriese (avvicinato da Celante; di lui gli ha parlato Guggino), prende contatto
con Giovanni Gandin, che, dal suo seggiolone di miastenico, con sprezzo del
pericolo, tira le fila della cospirazione. Con lui dividerà il carcere nelle prigioni
veneziane.
Dal fascismo Spagnol era stato fuori, anzi tenuto a vista. In famiglia aveva
avuto uno zio paterno, l'avvocato Luigi, originale figura di politicante,
democratico, strenuo difensore dei poveri (le filandiere cantavano: "Viva
Spagnol, Viva Spagnol, via Luvigi il nostro protetòr! "), sempre in lotta con i
clerico-moderati e regolarmente battuto in tre successive elezioni alla Camera.
Ora, col nome di battaglia 'Tommasi', Spagnol opera nel C.L.N., che ha il
compito di sostenere le formazioni che gravitano sulla città, in special modo il
Gruppo Brigate Cansiglio, mentre le altre formazioni possono attingere a
Belluno e a Conegliano. Situazione non facile, se si pensa che Vittorio Veneto,
con due caserme e numerosi altri accantonamenti, è sede di Brigate Nere e poi
della X Mas, di comandi tedeschi, tra cui l'Intendenza della Luttwaffe. Spagnol
accredita la notizia che qui avrebbe trovato sede anche l'Ufficio Cartografico
della Whermacht in Italia (notizia che sarebbe oltremodo interessante anche per
questo nostro convegno imperniato sulla Geografia della Resistenza, ma che
non ha trovato riscontro in alcuna altra fonte consultata).
Lui salirà in Cansiglio per accompagnare il Battaglione territoriale "Trentin" e lì
i suoi capelli bianchi e il bastone fecero una certa impressione: era uno dei
partigiani più anziani (a conti fatti aveva quarantotto anni!).
Ci arriva nel momento peggiore, perché è già nell'aria il grande rastrellamento.
E sarà protagonista di un singolare episodio.
La situazione sta precipitando. Già si delinea l'attacco concentrico, da più
direttrici, di consistenti forze nemiche. I tedeschi hanno fatto un colpo di mano
alle Prese, fino alle malghe, sfruttando la sorpresa. "Era una maledetta
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montagna, con quella sua costiera boscosa e intersecata da innumerevoli valioni
sul versante tra Santa Croce e Farra, lungo i quali ci si poteva inerpicare senza
esser visti e uditifino al margine dei prati. Qualche giorno di poi una voce
minacciosa e nuova si fece udire: i cannoni da 149 che i tedeschi ave vano
piazzato sulle colline vittoriesi che formano l'antemurale ai dossi del Pizzoc.
Altre batterie di minor calibro, dal fondo della vallata del Fadalto battevano le
creste del Millifret e di Monte Prese. A sera tutte le macchie di ceduo che
pezzano i dorsali esterni di questo lato dell'altipiano erano in fiamme e i loro
riflessi illuminavano sinistramente il Piano del Cansiglio. Di notte il cannone
non smetteva di tuonare, le vampe delle granate sprizzavano sulle cime del
Pizzoc ".
Ormai la situazione è insostenibile: i tedeschi avanzano e premono da tutte le
parti. E allora viene ordinato il ripiegamento: nel più grande silenzio le brigate
avrebbero abbandonato le posizioni fino allora tenute, prendendo la via di
Candaglia e di qui per Pian Cavallo e la Val Cellina a ricongiungersi con le
formazioni friulane della Osoppo. L'unica via per sottrarsi ll'accerchiamento.
Secondo le tabelle di marcia: partenza alle tre del mattino.
Nella notte ci dovrebbe essere un lancio, ma gli aerei sorvolano due volte e se
ne vanno, forse disorientati dagli incendi.
Affranto, con le gambe che lo reggono a stento, Spagnol si sdraia in un giaciglio
nella 'dependance' dell'albergo e cade in un sonno di piombo. Si sveglia alle sei.
Non c'è nessuno. Sente crepitare mitragliatrici tedesche. Che era avvenuto?
L'alpino che doveva svegliarlo, lo ha scosso, ha avuto risposta, ha preso il suo
sacco e se ne è andato, convinto che l'altro lo avrebbe seguito. Ora si trova solo,
unico topo in una così grande trappola.
E comincia un'allucinante odissea. Muove verso Candaglia, ma viene a sapere
da due partigiani sbandati che c'è stato un contrordine: non più verso Candaglia;
gli uomini hanno avuto l'ordine di scendere alla spicciolata in pianura, cercando
di filtrare tra le maglie dell'accerchiamento. Coi due, che sono di Nove, decide
di cambiare direzione, puntare a destra verso Vallorch, salire verso l'orlo del
Millifret, tra Pian de la Pita e Col delle Fede. Una salita sfibrante, durissima.
L'aspetto della natura, fino ad allora descritta da lontano, ora attanaglia in presa
diretta: "... tutto un seguito diforre, di vailoni scoscesi, di gobbe, di ertipendii
che si intersecavano caoticamente. Il fusteto era altissimo, senza una radura".
E poi la scelta della discesa vertiginosa per il Fafon. "Mi feci spiegare cosa era
il Fafon. Era un burrone che smaltiva le acque di Pian de la Pita, svasandosi poi
in un amplissimo conoide che finiva sopra la strada di Ailemagna, nel punto in
cui si immette quella che scende dalle centrali idroelettriche di Basso Fadalto,
sulle rive del Lago Morto.., quasi a picco sotto di noi... come un vassoio opaco
di peltro, 1200 metri più in basso ".
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Al buio, per un sentiero a perpendicolo lungo le pareti del canalone, senza
sapere dove si posava i piedi, e poi il ghiaione con le continue frane di sassi e i
tedeschi allarmati che dal basso sparavano a casaccio.
Finito il ghiaione, cominciò l'altro tormento, quello dell'intrico dei rovi e della
sterpaglia, la prova più stressante, finché riescono ad arrivare alla nazionale.
"Tolteci le scarpe, in fila rasente al muraglione, iniziammo quella che si riteneva
la parte più rischiosa della nostra impresa, ma che invece si svolse nel modo più
tranquillo. La strada era deserta, di notte i tedeschi amavano poco muoversi,
così senza incontri arrivammo alle prime case di Nove, ove presso il cavalcavia
c'era una fontana: erano dodici ore che non toccavamo acqua ".
Dopo una cena improvvisata in una casa amica di un minuscolo borgo che sorge
più in là (Borgo Piccino Borgo Simoi), e un sonno ristoratore, il Nostro torna a
Vittorio in bicicletta, ben vestito. Al posto di blocco i tedeschi guardano appena
la carta di identità: i capelli bianchi e le rughe sono il miglior lasciapassare.
In Cansiglio ci si accinge a ricostituire le formazioni disperse. Anche se non c'è
più un fabbricato, una casera, una baita in piedi (così riferiscono le staffette),
resta il Comando della Divisione e del Gruppo Brigate, resta l'ospedale con
cinquanta feriti intrasportabili e un gruppo di ex prigionieri alleati, celati in un
recesso della foresta, dove i tedeschi si sono ben guardati dal penetrare.
Per ricostituire le formazioni occorrono mezzi di ogni sorta e il C.L.N. si
accinge alla nuova fatica, raccogliendo aiuti più abbondanti di prima.
Fin qui le Memoriette.
T.A. Spagnol, dopo la guerra, è intervenuto con altri scritti a commento della
Resistenza, ha detto la sua anche polemicamente, ha partecipato all'ampio
dibattito che si è sviluppato sulle scelte e sui modi della guerra partigiana.
Ma quest'ultimo scritto, quello che lui ha chiamato Memoriette del tempo nero e
che noi abbiamo abbondantemente citato, resta il tributo più bello che egli ha
rivolto a quella stagione di eroismi oscuri, scritto con uno stile realistico senza
enfatizzazioni, da "buon artigiano della scrittura", come amava definirsi, forse
con un pizzico di civetteria.
Il paesaggio del vittoriese e del Cansiglio sembra assumere in queste pagine una
particolare valenza: quasi un ruolo di coprotagonista, accanto agli uomini, alla
loro dura vita, alle fatiche, ai rischi, ai sacrifici anche supremi.
Essi lottavano per la libertà della loro terra. E il paesaggio, da insieme visivo di
profili, di rilievi, di alberatura, di coltivi, assume valore metafisico, sintesi di
natura, di storia, di fedeltà e di fierezza.
E la 'propria terra', il 'proprio paese' per quegli uomini. Diventa una forza.
Rappresenta per i volontari della libertà l'immagine viva degli ideali per i quali
combattevano e morivano.
NOTA
Memoriette marziali e veneree è stato stampato in Vicenza - Arti Grafiche delle Venezie nel
dicembre del 1970, editore Mario Spagnol.
T.A. Spagnol avverte in premessa: "Queste pagine, pubblicate per la prima volta da Leo
Longanesi su 'L'italiano' e 'Omnibus', e da Mario Fannunzio su 'il Mondo', sono state qui
raccolte secondo l'ordine temporale dei fatti e degli avvenimenti narrati
L'autore del presente testo ringrazia il signor Nino Roman per l'aiuto fomitogli nella ricerca dei
brani citati di T.A. Spagnol.