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Prefazione.
Tratta da recensione comparsa su
“Toga Picena”,
anno XVII, N. 2, 2005, pubblicazione a diffusione nazionale ed unica nelle Marche
a firma dell’Avvocato Adria Stella Infrasca,
Direttore del periodico giuridico del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Ascoli Piceno.
.
“Angelo Squarti Perla, In nome del Re.
Il Dottore Angelo Squarti Perla, Nobile di Narni e Nobile di Orte, scrive un saggio, titolato
appunto “In nome del Re”, saggio che potrebbe erroneamente apparire di interesse molto relativo
al di fuori del contesto nobiliare al quale il conte Squarti Perla appartiene, per nascita e per
convinzione assoluta.
Confesso di averlo letto con molto scetticismo e con molta prevenzione oltre che con il
distacco del “repubblicano” convinto, non proprio ammiratore di Casa Savoia.
Ho dovuto, mio malgrado, mutare opinione e ringraziare l’Autore perché l’opera è unica, di
grandissimo interesse e merita il massimo rispetto oltre che notevole ammirazione.
Il dottore Squarti Perla è un chirurgo oftalmico eppure il suo scrivere denuncia una
padronanza totale della lingua italiana, il suo è uno stile estremamente raffinato, elegante e
ricercato, ma al tempo spontaneo e di immediata presa sul lettore.
Ma ciò che più colpisce e rende pregevole l’opera è la rigorosa disamina storico-giuridica che la
informa, del tutto nuova ed inattesa. Il tema che si è posto l’Autore ha come punto focale il Diritto
Dinastico ed il contenuto del saggio è racchiuso nelle indicazioni iniziali: “Perché il figlio di un
Re, anche se unico e primigenito non sempre e/o necessariamente, rappresenta il legittimo
successore al Trono”. “Differenza sostanziale tra le posizioni di semplice “erede legittimo” e di
“esercente la patria potestà” regolate dal diritto privato, e le posizioni di “chiamato in
successione” e “Capo della Casa Reale”, rigidamente ed inequivocabilmente regolate dal Diritto
Dinastico, sempre incardinato nell’impianto giuridico dello Stato monarchico (Costituzione e leggi
dello Stato) o della Dinastia.”
“Status nell’ambito della Famiglia Reale di Vittorio Emanuele di Savoia: condizioni soggettive ed
oggettive disabilitanti, de iure, alla successione dinastica.”
La disamina storico-giuridica è rigorosa e ineccepibile. Fondate, coerenti e consequenziali
sono le argomentazioni addotte, irrefutabili e compiute le conclusioni raggiunte.
Inattesa ma graditissima sorpresa: dalla lettura emerge una figura sconosciuta dell’ultimo
Re d’Italia, Umberto II. Nel suo breve Regno è restato nel ricordo dei più per la sua avvenenza e
l’apparente incapacità decisionale. Nel periodo dell’esilio è stato “riabilitato” dalla grande
dignità con la quale lo ha affrontato e lo ha vissuto nella tristezza di Cascais.
Dal saggio del dottore Squarti Perla emerge, invece, un uomo grandemente e
disinteressatamente innamorato dell’Italia, forse il vero ed unico Savoia Italiano, un uomo dalla
sorprendente capacità e volontà di assumere decisioni dolorose per l’essere umano e il padre,
sottomessi entrambi al Re. Un Re che, lasciando in eredità all’Altare della Patria il Collare
dell’Annunziata, ha consegnato all’Italia l’insegna del supremo Ordine Cavalleresco dei Reali di
Savoia, deputandola sua unica erede.
Un’opera da leggere e da meditare”.
Adria Stella Infrasca.
Perché il figlio di un Re, anche se unico o primogenito, non sempre e/o necessariamente,
rappresenta il legittimo successore al Trono.
Differenza sostanziale, tra le posizioni di semplice “erede legittimo” e di “esercente la patria
potestà”, regolate dal diritto privato, e le posizioni di “chiamato in successione” e “Capo della Casa
Reale”, rigidamente ed inequivocabilmente regolate dal Diritto Dinastico, sempre incardinato
nell’impianto giuridico dello Stato monarchico (Costituzione e leggi dello Stato) o della Dinastia.
Status nell’ambito della Famiglia Reale di Vittorio Emanuele di Savoia: condizioni soggettive ed
oggettive disabilitanti, de iure, alla successione dinastica.
Con la morte del Re Umberto II di Savoia e sopratutto con la sospensione della XIII disposizione transitoria
della nostra Costituzione repubblicana con la quale dopo circa cinquanta anni si pone fine all’esilio
comminato (anche per la spinta difficilmente eludibile imposta dall’Onorevole Togliatti e recepita
dall’Assemblea Costituente), ad Umberto di Savoia e ai Suoi discendenti maschi, si è aperta la questione
dell’erede legittimo “chiamato in successione” nella pretendenza al Trono d’Italia.
La questione dinastica tale non è, per chi abbia un minimo di conoscenza del diritto nobiliare e del diritto
dinastico, o per chi sia sinceramente monarchico, e per tanto ne rispetti le norme, o si senta legato all’obbligo
morale derivante dalle più che esplicite volontà ed indicazioni, inequivocabilmente espresse dall’ultimo Re
d’Italia.
Sia ben chiaro che lo scritto non si arroga il diritto di conferire Corone o negare pretendenze (possibilità
peraltro che, come da seguito espresso, per le rigide normative in materia, non era concessa neanche ad un
Re), ma rappresenta unicamente l’enunciazione di una obiettività giuridica, e dinastica, inoppugnabile,
collegata a meccanismi automatici ed ineludibili.
Sia altrettanto ben chiaro che quanto di seguito vergato nulla toglie al doveroso rispetto da tributare a
Vittorio Emanuele di Savoia, nulla toglie all’atteso tripudio per la fine d’un immeritato, iniquo ed
oggettivamente persecutorio esilio, altro non fosse per l’innegabile discendenza, di questi, dall’ultimo Re
d’Italia e per il nome della Dinastia.
Vale la pena ricordare che, al di là dell’Unità d’Italia, processo storico di portata epica, l’attuale moderna
concezione dell’ordinamento civile della nostra Patria è dovuta unicamente a questa Dinastia millenaria,
all’intraprendenza, alla cultura, alla lungimiranza e alle doti militari di molti suoi esponenti, tra i quali non
mancarono inoltre Papi, Santi, Beati e Porporati di rango.1
1
”La recente polemica circa la supremazia della nostra civiltà su quella islamica (facente seguito ad un fare diplomaticamente
inopportuno, ma non certo privo di solidi argomenti se si considerano, a paragone tra le due civiltà, i fondamenti dell’ordinamento
giuridico, dell’evoluzione storica e culturale, dell’espressione artistica ed architettonica ecc.), non ha, e questo risulta quanto mai
singolare, preso in considerazione il primum movens di quanto, soprattutto oggi, rappresenta l’origine della sostanziale differenza fra
i due diversi ceppi etnici e religiosi.
Se noi oggi riusciamo, con pacata obiettività, perché il concetto risulta tanto digerito da apparire naturalmente equo, perfettamente a
scindere le pertinenze spirituali da quelle temporali, assegnando a ciascuna unicamente il rispettivo ambito di competenza svincolato
da qualsivoglia ingerenza reciproca, lo dobbiamo all’intraprendenza politica e al liberalismo di Casa Savoia, Dinastia particolarmente
intraprendente ed illuminata.
Nello Stato della Chiesa infatti, la sovrapposizione storica del potere temporale con lo spirituale, ha rappresentato una realtà più che
concreta e, per i quasi due millenni di applicazione, una normale, immutabile, ed apparentemente non sovvertibile forma
amministrativa.
Non dimentichiamo che nella figura del Papa Re, si fondevano, sfumando fra loro sì da renderli indistinguibili, i due poteri: i
Cardinali Legati in ogni provincia rappresentavano il potere centrale in maniera sovrapponibile a quella degli attuali prefetti; in un
certo modo assimilabili le funzioni del Vescovo a quelle del questore, per non parlare delle alte gerarchie dello Stato a partire dal
Cardinale Segretario di Stato; i reati di maggior rilevanza (che, se accertati, comportavano dalla pena capitale alla cancellazione dal
ceto, alla radiazione dall’elenco della Nobiltà con estensione, giuridicamente abominevole, ai discendenti e collaterali, alla decadenza
dai privilegi e dal grado negli ordini ad impronta religioso-militare), erano l’empietà, l’aver dato grave scandalo violando la legge di
Dio o mancando ai doveri di deferente rispetto verso la Chiesa ed il Sovrano Pontefice; titolo di preferenza per la nomina a cariche
pubbliche erano benemerenze religiose verso la chiesa, la Santa Sede, i luoghi santi, le missioni e le opere del Patriarcato Latino di
Gerusalemme, la custodia Francescana di Terra Santa; la stessa geografia territoriale era plasmata ad impronta religiosa risultando
divisa in Delegazioni Apostoliche.
Parimenti negli altri Stati Preunitari, tutti deferentemente cattolicissimi e vassalli dello Stato Pontificio, nessuna successione dinastica
o elezione di alte cariche dello Stato e persino la concessione di titoli poteva verificarsi se non previo assenso, temporale e spirituale,
della Sovrana Santità.
Citiamo ad esempio la chinea che veniva inviata come contributo simbolico annuale al Santo Padre come riconferma del vassallaggio
a Roma dai Re delle due Sicilie o l’apposizione obbligatoria, ai fini della validità, del Visto e del Sigillo della sezione dei Brevi
Apostolici sul diploma di nomina da parte del Gran Maestro del Sovrano Ordine di Malta per Dame e Cavalieri.
Giova meditare che a lungo si è discusso sull’incostituzionalità dell’esilio, delle discriminazioni
ingiustificate ed irragionevoli, anche in frangenti sostanzialmente analoghi.2
Si è coniato per la Famiglia Savoia, in poche parole, una sorta di esilio indiscriminato e permanente che, in
un certo senso, potrebbe costituire la forma laica e secolare di una sanzione tipica del diritto canonico, senza
adottarne temperamenti e rimedi, in questa, previsti: la Scomunica. Cioè l’allontanamento dalla comunità di
alcuni soggetti, dei quali tuttavia vengono trattenuti, ed avocati allo Stato, i beni patrimoniali.3
Si badi bene, espropriazione senza corresponsione d’indennità alcuna, in deroga all’art. 42 della
Costituzione! 4
Si badi ancor meglio, benché per i beni personali della Famiglia Reale5 si applicasse, nel previgente regime
giuridico, il diritto comune, il Tribunale di Roma con sentenza 16.3.1950, depositata 6.6.1950, e della Corte
di Appello, sempre di Roma, con sentenza 6.3.1952, n. 700, depositata il 3.6.1952, ha negato l’usufrutto
legale alla vedova del Re!
Non dimentichiamo che sino al XV secolo erano vassalli del Papa non solo il Re di Napoli, ma anche i Duchi di Piemonte, di
Mantova, di Milano, di Modena, di Reggio, di Parma, di Siena, di Ferrara, d’Urbino ed il Re di Sicilia (tutti meno quest’ultimo,
perché collegato alla Corona d’Aragona, lo erano anche del S.R.I.).
Solo l’ardire militare, che sfidando il retaggio storico millenario di uno Stato teocratico alleato del S.R.I., della Francia, della
cattolicissime Spagna e Polonia, e la visione liberale, ma per il tempo rivoluzionaria, della gestione del potere manifestata dalla
Dinastia Sabauda, permisero di separare nettamente gli aspetti civili da quelli religiosi per le competenze, obblighi e diritti di ciascun
cittadino.
Il poter giudicare, oggi, come civilmente arretrata una società ove i capi di Stato sono anche i vertici religiosi, ove il magistrato
amministra la giustizia avendo come testo di riferimento il Corano, rappresenta quindi unicamente il frutto della politica e delle mete
perseguite da Casa Savoia.
Altrettanto singolare risulta la non menzione dell’attuale libertà di Fede che, in assenza di reciprocità, pur ci vede, nella nostra
nazione, concedere moschee e tutelare sinagoghe.
Anche questa libertà di espressione religiosa (non certamente possibile nello stato della Chiesa, e negli altri stati preunitari per le
ragioni suesposte, ove per gli ebrei esistevano i ghetti e per gli arabi la schiavitù con mansione di mozzi da remo alla catena nelle
galere della flotta papale) rappresenta in un certo modo il retaggio della generosa liberalità di Casa Savoia che iniziò, pur
cattolicissima, a concedere libertà di culto a tutti i cittadini della nuova Nazione unificata (Ebrei e Valdesi compresi), sino a giungere
all’inaugurazione, voluta e presenziata dal Sovrano, della prima sinagoga di Torino.
Parimenti è possibile oggi criticare lo stato di segregazione femminile, adottato nelle varie regioni del mondo dominate dall’Islam,
grazie sempre all’illuminato liberalismo della Dinastia Sabauda che per la prima volta, primato assoluto per la nostra penisola dalla
sua esistenza, concesse il diritto di voto alle donne, non più da quel momento discriminate per alcun privilegio legale rispetto
all’uomo.
Tutto questo oggi ci appare scontato e normale -per onestà bisognerebbe anche dire che verosimilmente il fenomeno della
separazione dei poteri, della concessione della libertà di culto, della equiparazione nei diritti femminili, per le spinte ed interazioni
sociali, manifestatesi fra il XIX ed il XX secolo, avrebbe verosimilmente condotto l’Italia agli stessi risultati- ma quantomeno è
doveroso ricordare a chi deve essere attribuito il primato nel merito.
E per non mostrarci dimentichi della storia e delle origini delle nostre superbe e migliori tradizioni patrie, sarebbe mandatorio
concretizzare la nostra riconoscenza quantomeno ponendo fine ad un vergognoso, perché illiberale, esilio di vivi incolpevoli e di
morti, più ancora dissonante nel paragone con l’illuminata civiltà mostrata, ed elargitaci, dalla Dinastia Sabauda.
A tutte queste riflessioni varrebbe la pena aggiungere inoltre che, se l’espansione turca non fosse stata fermata a Lepanto, battaglia in
cui parteciparono 3 galere sabaude (per rendersi conto della consistenza dell’apporto basta pensare che le gallee papali erano solo 8!),
e non si fosse rotto l’assedio giunto ormai a Vienna (il primo assedio fu 1529 da parte del Sultano Sulaiman I forte di 10.000 armati,
il secondo del 1683 da parte di Kara Mustafà con 200.000 soldati turchi) solo grazie alle capacità d’insuperato stratega di Eugenio di
Savoia (pienamente poi messe in luce a Zenta nel 1697), forse anche noi oggi saremmo obbligati a ruminare versetti coranici o ad
indossare le tristemente famose sette paia di mutande sacrificali in Italia, ridotta a lontana provincia dell’Impero Ottomano”. Angelo
Squarti Perla, L’Islam ed i Savoia, Il Resto del Carlino, lettere al Direttore, 2002.
2
F. Finocchiaro, Le fonti del diritto ecclesiastico nella Costituzione, pag. 492. Voce “Esilio” nell’Enciclopedia del Diritto, vol. XV,
pag. 726, di M. Bon di Valsassina. Crisafulli, Paladin, Commento breve alla Costituzione, pag. 826.
3
C. Mistruzzi di Frisinga, La competenza dell’autorità giudiziaria in materia nobiliare, Giuffrè, Milano, 1956. Salvatore Bordonali,
Un ipotesi adeguatrice della XIII disposizione costituzionale transitoria, Rivista Araldica, 1995-1998.
4
Cfr.: Baschieri, Bianchi d’Espinosa, Giannattasio, La costituzione italiana, pag. 464.
5
Che la legge 3.3.1951 all’art. 9, secondo comma, preveda la cessazione del conferimento delle onorificenze dell’Ordine dei Santi
Maurizio e Lazzaro e non la soppressione, come per gli altri Dinastici, sta a rappresentare la difficoltà repubblicana di ingurgitare in
un sol boccone le enormi ricchezze dell’Ordine (proprietà a Nizza, in Sardegna e (non so se ancora nel XX secolo) le tenute di
Stupinigi e Vinovo; l’ospedale di Aosta, l’ospedale di Valenza, l’ospedale a Lanzo, chiese e beni della Congregazione dei Canonici
regolari di San Bernardo situati negli stati sabaudi – donati il 19.8.1752 da Benedetto XIV-, i benefici ecclesistici di 26 chiese -donati
da Clemente VIII-, ecc.). Naturalmente, trattandosi d’Ordine Dinastico, patrimonio familiare da secoli (benefici annessi), lo spoglio
delle proprietà non rappresenta che una delle tante opinabili espropriazioni perpetrate dalla Repubblica nei confronti di Casa Savoia.
Peraltro trattandosi di Ordini Dinastici (quindi con diritti diversi da qualunque altro Ordine di Corona e con legittimazione
internazionale data dalla “protezione” della Città del Vaticano) il Parlamento repubblicano veniva a trattare, legiferando in tal senso,
materia non sottoposta alla sua giurisdizione.
Del medesimo parere Emilio Nasalli Rocca di Corneliano secondo il quale: “I Decreti e le Bolle, da cui traggono origine,
riconoscimento e legittimità, gli Ordini Dinastici non possono abrogarsi o sospendersi con atti unilaterali né da parte delle stesse
dinastie titolari degli Ordini, né, tanto meno, da governi estranei successori”.
“Con l’occasione, vale appena accennare che il riferimento normativo alla XIII disposizione, non pare in
alcun modo ricollegabile a motivazioni di ordine patrimoniale, per cui rimane inspiegabile che la
Repubblica abbia avocato a se il legato legale d’usufrutto uxorio su beni privati spettante all’ex Regina
Elena alla morte del marito, e, a dir poco, non convincenti le decisioni giudiziali che ne sono seguite”.6
“Come sappiamo la norma riguardante l’esilio, era stata pensata, almeno in parte, per colpire il
predecessore di Umberto II, Re Vittorio Emanuele III, che si riteneva compromesso con il regime cui la
nuova Costituzione si opponeva, ed in qualche misura, anche per semplice desiderio di rompere con un
recente passato e con la tradizione. In effetti si veniva a perseguire con uguale durezza il di lui figlio, ed i
discendenti d’entrambi nonché genericamente tutti i “membri e discendenti di Casa Savoia”. La norma,
istitutiva di una responsabilità oggettiva, veniva in tal modo a proiettarsi oltre il contesto eccezionale in cui
era sorta ed appariva destinata a perseguitare in futuro soggetti incolpevoli, pur di ricordare un peccato
che, riferito all’Istituzione, neppure potrebbe definirsi originale, dato che l’episodio condannato
apparteneva ad un periodo ben lontano da quello di fondazione del Regno e alla gran parte della sua storia;
e che, riferita alle persone, non si sarebbe potuta giustificare che per una sola persona, dato che le altre
erano rimaste estranee a quella vicenda, non foss’altro che per ragioni anagrafiche”. 7
°°°°°°°°°
La perdita del diritto alla successione per Vittorio Emanuele di Savoia si basa su quattro punti
fondamentali ed ineludibili: A) le leggi (Regie Lettere Patenti emanate da Vittorio Amedeo III) che
hanno regolato e regolano lo status dei Principi di Casa Savoia, rimaste valide sino all’ultimo Re
sabaudo; B) il Codice Civile del Regno d’Italia, tutt’ora vigente; C) il mancato Assenso al matrimonio
da parte del Sovrano, Capo della Dinastia; il manifesto dissenso. D) motivi di opportunità, per lo stesso
interesse dell’Istituzione Monarchica.
Disamina dei punti A) e B).
Regie Lettere Patenti di Vittorio Amedeo III e Codice Civile, quest’ultimo ancora vigente.
Durante il vigore dello Statuto Albertino la materia nobiliare non era disciplinata né dal Codice Civile del
1865 né da quello del 1942, ma demandata a normative speciali: dal primo Real Decreto N. 5318 del
10.10.1869, agli ultimi due, i NN. 651 e 652 del 7.6.1943.8
Il Diritto Dinastico è stato disciplinato, per ciò che concerne Casa Savoia, dalle Regie Lettere Patenti del
7.9.1780, 13.9.1780 e 20.9.1780, emanate e sottoscritte da Re Vittorio Amedeo III, (ricordiamo, Monarca
assoluto, e quindi nella pienezza, anche, del potere legislativo), dal Reale Biglietto del 28.10.1780 e dal
Regio Editto 17.7.1782, sempre del medesimo Re.9
Ricorderò quanto nelle Regie Lettere Patenti di cui sopra testualmente vergato:
Art. I: “Non sarà lecito a Principi del Sangue contrarre matrimonio, senza prima ottenere il permesso
Nostro o dei Reali Nostri Successori, e mancando alcuni di essi a questo indispensabile dovere, soggiacerà
a quei provvedimenti, che da Noi o dai Reali Successori si stimeranno adatti al caso”.
6
S. Bordonali, Il matrimonio tra pubblico e privato in riferimento al nuovo testo degli art. 84 e 90 del Codice Civile, negli studi in
memoria di M. Condorelli, Milano, 1988, Vol. I, Tomo I. Salvatore Bordonali, Un ipotesi d’interpretazione adeguatrice della XIII
disposizione costituzionale transitoria, Riv. Arald., anni 1996-1998.
7
Salvatore Bordonali, Un ipotesi adeguatrice della XIII disposizione costituzionale transitoria, Rivista Araldica, 1955-1998. M.
Ruini, Il referendum popolare e la revisione della Costituzione, Giuffrè, Milano, 1953. P. Biscaretti di Ruffia, Diritto Costituzionale.
A. Reposo, la forma repubblicana secondo l’art. 139 della Costituzione, Giuffrè, Milano, 1953.
8
Per la Sorte dei Titoli Nobiliari, C. Mistruzzi di Frisinga, I diritti nobiliari e la costituzione italiana, Giuffrè, Milano, 1956. C.
Mistruzzi di Frisinga, la competenza dell’autorità giudiziaria in materia nobiliare, Giuffrè, Milano, 1956. Pezzana, “La Costituzione
ed i Titoli Nobiliari”, Giur. It., 1967. Bon Valsassina, “La XIV disposizione finale della Costituzione e la sua opinabile ricostruzione
ermeneutica”, Giur. Cost., 1967.
9
Conte Professor Marino Bon di Valsassina, Enc. del Dir., vol. XV. G. Baschieri, L. Bianchi d’Espinosa, C. Giannattasio, La
costituzione Italiana, commento analitico. L. Scotto, Diritto costituzionale, seconda edizione, Giuffrè, Milano, 1992. C. Esposito,
commento alla costituzione, in la Costituzione Italiana, Padova, 1954.
Art. II: “Se nell’inadempimento di questa obbligazione si aggiungesse la qualità di matrimonio contratto
con persona di condizione e stato inferiore, tanto i contraenti che i discendenti da tale matrimonio si
intenderanno senz’altro decaduti dal possesso dei beni e dei diritti provenienti dalla Corona e dalla
ragione di succedere nei medesimi, come pure da ogni onorificenza e prerogativa della Famiglia”.
Art.III: “Quanto però il riflesso di qualche singolare circostanza determinasse Noi, od i Reali Nostri
Successori a lasciare che si contragga matrimonio disuguale, riserviamo in tale caso alla Sovrana Autorità
di prescrivere per gli effetti di esso le condizioni e cautele, che dovranno osservarsi”.
Art. X: “I maritaggi dei Principi della Nostra Corona ed il bene dello Stato, non potranno perciò contrarsi
senza la permissione Nostra o dei Reali Successori e mancando alcuni di essi Principi a questo
indispensabile dovere soggiacerà a quei provvedimenti, che all’occorrenza dei casi, sì dà Noi, che da Reali
Successori verranno ordinati, anche a tenore delle Patenti Nostre del 13.9.1780, con riserva pure di
accompagnare le permissioni con le condizioni che si giudicheranno proprie e convenienti”.
Dalla nota storica del Conte Professor Marino Bon di Valsassina e Madrisio, Patrizio Veneto, in “Regie
Patenti”, nel 1987: “Ciò fece proprio Re Vittorio Amedeo III nell’ottobre successivo, con un Regio Biglietto
relativo al matrimonio del Principe Tommaso Ilarione di Savoia Carignano, da lui autorizzato al
matrimonio”.
Per completezza storica e riconferma dell’omogeneità ed inderogabilità della norma nel diritto successorio,
sarebbe sufficiente citare il Regio Dispaccio del 20.12.1880 nel Regno di Sicilia che vietava matrimoni
indegni, anche a semplici Nobili, con la pena, per il trasgressore, “di essere cancellato con la sua posterità
dal libro della Nobiltà cui appartenga”. 10
10
Al di là delle norme che regolavano i diritti ed i doveri della Casa Regnante, in genere oggetto di legislazione separata, anche per la
semplice Nobiltà o Titolatura, vigevano leggi assimilabili (a conferma della unicità della Fons Honorum, impersonata dal Sovrano, e
della ripugnanza per matrimoni diseguali, o peggio, con donne di bassa estrazione), che comportavano, sempre, ed in qualunque
Monarchia (ma anche Repubblica purché retta con principi basati sull’aristocrazia), la decadenza dal proprio ceto originario e relativi
privilegi, riportiamo integralmente: “Per amore storico si ricorda che sempre più nel tempo si tenderà nel Regno di Napoli, come in
ogni altra Monarchia, a far derivare la Nobiltà dalla volontà sovrana più che dall'esercizio di cariche civiche o dalla nuova
acquisizione di un feudo, anche se nobile.
Tutto verrà ricondotto ad esclusiva prerogativa del Sovrano che, se solo in prima persona si fosse degnato di concedere feudi (o
suffeudi alle dirette dipendenze della corona) e di elargire consenso per subinfeudazioni effettuate da grandi feudatari, dal
provvedimento poteva ingenerarsi Nobiltà.
La tendenza a trasferire ogni principio di Nobiltà nelle mani del Sovrano risolutamente iniziò con il Regio Dispaccio del 27.10.1793
di Ferdinando IV°: "... il diritto deve essere esercitato unicamente dalla Sovrana autorità del Principe, unica fonte d’ogni Nobiltà ed
onore ...".
Culminò con la legge che aboliva i Sedili di Napoli ed il Tribunale di San Lorenzo per dar luogo ad un Supremo Tribunale
conservatore della Nobiltà del Regno e alla promulgazione dei quattro famosi registri nobiliari: 1) Libro d' Oro; 2) Registro delle
Piazze dichiarate chiuse; 3) Registro delle Famiglie feudatarie da oltre duecento anni; 4) Registro delle Famiglie dei Cavalieri di
Malta ammesse per giustizia. (Legge. 25.04.1800).
Tornando all'argomento conduttore originario, dobbiamo dire che concetti analoghi al fine di costituzione o riconoscimento di una
Nobiltà, venivano espressi nel Regno Lombardo (Costituzione di Ceto nobile, delibera del Consiglio Generale di Milano,
13.05.1718; Regio Editto sulle Nobiltà, così detto Editto Teresiano del 20.11.1769), che al capo primo, II° capoverso sancisce le
norme per il riconoscimento di Nobiltà generose collegate a storia e status degli ascendenti paterni; al III° capoverso il
riconoscimento di Nobiltà per antico possesso di titoli concessi da precedenti Autorità Sovrane; al IV° capoverso Nobiltà collegata
al Feudo con giurisdizione; al V Nobiltà per grazia sovrana; al VI° Nobiltà d'ufficio.
Quanto sopra viene ribadito e meglio collegato alla storia e al tempo per qualifiche non inferiori ai 200 anni di esercizio, nell'editto
29.04.1771 portante "Ulteriori provvidenze sul Regolamento delle Nobiltà ".
Parimenti nel Granducato di Toscana (legge 31.07.1750 del Granduca Francesco II° sul "Regolamento delle Nobiltà e
cittadinanze") e a Venezia, in cui l'origine della Nobiltà é prevalente d'ufficio (cfr. atti relativi a "Serrata del Gran Consiglio" del
1297 e decreto per l' ascrizione nascite di figli di famiglie iscritte alla "Balla d'Oro " del 1506).
Altrettanto per la Repubblica di Genova con le divisioni in 28 Alberghi (Famiglie) e relativo registro detto "Liber Nobilitatis " del
1528.
Da ricordare che il 26/10/1583 furono codificate le norme relative ad arti il cui esercizio rappresentava deroga ai fini di Nobiltà.
Non diversamente per Modena e Reggio in cui l'origine della Nobiltà é prevalentemente legata a cariche civiche (confronta
Chirografo del Duca Ercole III° d'Este del 22.03.1788; Editto 2.01.1816 del Duca Francesco IV° d'Austria-Este).
In stretta analogia la Repubblica di Lucca (Principato sotto Napoleone e sotto i Borboni di Parma fino a quando, nel 1847, fu unita
al Granducato di Toscana, di cui seguì le sorti) e del consorte Principato di Piombino (antico feudo degli Appiani, dei Ludovisi, dei
Boncompagni ed infine appannaggio di Elisa Buonaparte).
Nello Stato della Chiesa per il riconoscimento di uno status nobiliare (ovvero di una vita condotta more nobilium, che, con
l'ascrizione nei ceti nobiliari tradizionalmente considerati costitutivi di Nobiltà, avrebbero, poi, dato luogo a titolo primordiale di
Nobiltà generosa) le condizioni che dovevano essere verificate erano: domicilio in città, decorosa abitazione e trattamento; pingui
sostanze (in genere rendita netta annua non inferiore ai duemila scudi) possidenze nei limiti della città, o anche altrove, sufficienti
per continuare un decoroso trattamento, lungi dall'esercizio di qualunque professione non liberale; aver contratto decorosi
matrimoni; risultare immuni da delitti che avessero comportato pena infamante (anche se in contumacia o se di un avo).
Nobiltà pertanto prevalentemente “Civica o Decurionale“ anche se, pur di eccezionale riscontro, è possibile rinvenire, nello Stato
della Chiesa, Nobiltà legata al feudo “Baroni Possidenti anche se rinunciatari ai diritti feudali“. Il resto delle titolature
naturalmente era conseguenza di un breve di sovrana concessione. Per quanto a noi consta sino al 20.11.1915 i privilegi nobiliari di
concessione e conferma a famiglie italiane, conferiti dal Sovrano Pontefice dopo il 1870 erano 44, dei quali 2 titoli di Duca, 2 (uno
personale) di Principe, 6 di Marchese, 28 di Conte, 2 di Barone e 4 stemmi gentilizi. Tali concessioni, a seguito di Regi Decreti e
Regie Lettere Patenti di autorizzazione all’uso nel Regno, nell’aprile del 1929 erano arrivate ad 82.
In tal senso è di estremo interesse consultare i vari brevi, chirografi e i "motu proprio" elargiti nel tempo dalle Loro Sovrane Santità
come, ad esempio, quello di Papa Clemente X del 15/3/1671, che permetteva ai Nobili di esercitare il commercio senza pregiudizi
per la Nobiltà, o il chirografo di Innocenzo XI del 18/2/1679, che vietava i predicati territoriali sopra luoghi non abitati.
Di non secondaria importanza, proprio perché inerenti la Nobiltà nello Stato Pontificio, le seguenti emanazioni papali o dei senati
locali: il 28/11/ 1727 il senato di Bologna approva il Catalogo Ufficiale delle Famiglie Nobili della città; il 4/1/1746 nella
Costituzione Pontificia Urbem Romam Benedetto XIV stabilisce ordini propri per la Nobiltà Civica, elenca le 60 famiglie coscritte e
le 180 patrizie; il 12/1/1746 lo stesso Papa con chirografo reintegra le famiglie omesse in precedenza; il 31/7/1777 si ha la
pubblicazione da parte del Prolegato Apostolico dell’elenco delle Famiglie Patrizie di Bologna; il 6/7/ 1816 Pio VII con un motu
proprio richiede relazioni ed elenchi relativi alla Nobiltà nello Stato della Chiesa ai Cardinali Legati e ai Prelati Delegati; il
26/9/1820 sempre Pio VII con un breve riapre il Libro d’Oro della Nobiltà di Bologna, abolito insieme alle insegne e titoli nobiliari
dalla Repubblica Cisalpina; il 14/5/1823 emana la circolare riservata N. 14055 inviata ai Cardinali Legati e facente seguito al motu
proprio 6/7/1816; il 21/12/1827, facendo seguito al motu proprio del 5/10/1824, Leone XII con altro motu proprio ordina che tutte le
città dello stato che avessero goduto di Nobiltà generosa la conservassero oltre ad emanare disposizioni comunitative circa la
composizione del governo cittadino ed i rapporti con la Nobiltà; il 2/5/1853 Pio IX con chirografo sancisce nuove disposizioni per
gli aggiornamenti dell’Albo d’Oro dei Nobili Romani e per la concessione della Nobiltà personale.
A seguito del motu proprio di Pio VII del 6/7/1816 e alla circolare riservata N. 14055 del 14/5/1823 furono compilati gli Elenchi
Ufficiali relativi alla Nobiltà nello Stato della Chiesa, comprendenti una dettagliatissima enumerazione (quasi sempre con
riferimento all’antichità della Nobiltà e all’eventuale, se reperibile, anno di aggregazione), delle famiglie ascritte al Ceto Nobile,
della loro titolatura e se estinte o ancora fiorenti. Un vero e proprio puntualissimo censimento della Nobiltà comprendente almeno
5 secoli.
L’aggregazione al Consiglio Generale de Nobili di una Famiglia, doveva sottostare ad un vero e proprio processo nobiliare con
verifica delle prove prodotte e votazione finale. Le modalità del processo, grosso modo, erano più o meno le stesse in tutte le città
dello Stato.
Per curiosità storica si riporta quanto stabilito per l’ammissione nella città di Senigallia:
“Per l’ammissione al Consiglio o al Senato senigalliese, vi è la legge statuaria del Paese, che il candidato debba essere abitante o
possidente in questa Città, deve dare supplica allo stesso Senato, il quale aduna nel Pubblico Palazzo, al suono di campana e quindi
lettosi la supplica di quello che richiede l’aggregazione in detto Consiglio Generale de’Nobili che non possono essere meno di 17
Senatori si pone alla ballottazione o sia a partito per voti segnati, e qualora due terzi di detti voti siano favorevoli si intende subito
ammesso al godimento, di tutti li onori e Cariche Pubbliche, ed in specie del Gonfalonierato, ed acquistata così una volta la Nobiltà,
non si perde se non mutandosi di domicilio, mentre in questo caso siccome non potrebbe esercitare quella tal Famiglia le cariche
commutative, e specialmente il Magistrato, cosi doppo una o due Generazioni non sarebbero ammesse per buone e valide quelle
prove, che fossero mancanti di simile condizione“.
Dall’aggregazione derivava la Nobiltà generosa trasmissibile:
“Si conchiude adunque che la Nobiltà Generosa si acquista con l’aggregazione al Senato Aristocratico e con l’esercizio del
Gonfalonierato“.
Da rimarcare che, a seconda delle varie Delegazioni Apostoliche e a seconda delle varie città, venivano apportati ai requisiti
richiesti per l'ammissione al ceto nobile ulteriori restrizioni, limitazioni o deroghe come qui d'appresso: non essere illetterati, età
non inferiore ai 25 anni; non aver mai sofferto per manifesta pazzia propria o dei familiari; reddito non inferiore ai 5.000 scudi,
deroghe per matrimoni diseguali; estensione anche agli avi delle limitazioni preclusive.
Tutte queste caratteristiche distintive della Nobiltà, naturalmente dovevano essere mantenute dai singoli componenti nel tempo
perché la qualifica del rango ricoperto non fosse “cassata“.
A tal proposito, le Autorità preposte all’uopo, periodicamente inviavano informazioni riservate sui componenti di ogni singola
Famiglia Nobile perché fossero, a livello centrale, regolarmente vagliate.
D’interesse storico, ed oggi non più coperta da segreto, la relazione sulle famiglie di Ascoli inviata il 18.6.1823 alla Segreteria
Apostolica. In questa nome per nome, che non riporterò trattandosi di Famiglie tutt’ora fiorenti, erano annotate le seguenti
osservazioni come d’appresso: “Famiglia di Nobiltà antica, di ristrettissimi capitali”; “Famiglia di Nobiltà antica, domiciliata in
Teramo, Regno di Napoli“; “Famiglia antica e povera ha contratto matrimonio con persona di bassa estrazione”; “si distingue per
i suoi talenti, si mantiene con lustro e decoro, riscuote la pubblica opinione “; “ Famiglia non antica, dissestata economicamente,
maritata con .... toscano“; “ Famiglia antica e povera, esercita per vivere l’impiego di ispettore di polizia a Porto d’Ascoli“;
“Famiglia antica, assai povero, per il che è obbligato ad esercitare l’officio di Novizio di questa Dogana di riscossione“;“Famiglia
antica il cui attuale rappresentante si è macchiato contraendo matrimonio con donna indegna e di infima estrazione”.
Come curiosità storica sono da ricordare le prerogative comuni in tutte le città dello Stato ai 4 Priori esercitanti la Somma
Magistratura cittadina nelle "insegne e decorazioni magnifiche: Mazza, Baldacchino, Ombrello, Trombe, Campana, numerosa corte
e vesti Senatorie a guisa del Senato di Roma". Pag. 230, La Nobiltà nello Stato Pontificio del Conte Carlo Alberto Bertini Frassoni,
Roma, scuola tipografica Pio X.
Altra curiosità é la non uniforme suddivisione in ceti nelle varie città dello stesso Stato, es.: 4 ceti ad Orte, 3 ceti a Trevi; cfr. pag.
99 e pag. 350 della Nobiltà nello Stato Pontificio ecc..
In Genere quattro ceti, così composti: “Sono adunque quattro distintissimi Ceti di Cittadini il primo è quello dei Patrizi, che stanno
in bussolo separato e distinto, e che veramente presiedono al governo e cura della Città. Il secondo è quello dei Primi Priori, nel
quale è solamente quella Cittadinanza che vive more nobilium senza esercitare arti meccaniche ed in questo rango regolarmente non
Ricordiamo inoltre che tutt’ora, ogni Monarchia, e non solo europea, sempre con il fine superiore
della salvaguardia dell’Istituzione, del decoro e prestigio dei suoi esponenti ed in funzione di una sana
amministrazione, per il matrimonio di Principi e Principesse di Casa Reale, impone, quantomeno, il consenso
delle Camere legislative.11
Ma citeremo comunque qualche storico caso, per miglior memoria: il Conte d’Aquila, Principe della Real
Casa di Borbone Due Sicilie, perse il suo status e le prerogative per aver ostinatamente voluto contrarre
matrimonio impari; il Principe Eugenio di Carignano ottenne il reintegro nella Famiglia, pur senza
riacquisire le prerogative ed i titoli, andati irreparabilmente persi, solo grazie a straordinaria “procedura di
reintegro”, oggetto del Regio Viglietto 28.10.1780; Eugenio Maurizio di Savoia (2.5.1633 – 6.6.1673) ultimo
Principe di Carignano, dopo nozze diseguali contratte con tale Olimpia Mancini nel marzo del 1657, ottenne
il “reintegro” con attribuzione di titolo comitale, pur con la perdita del proprio cognome e l’assunzione di
quello di Villafranca-Soissons, e ferma restando l’esclusione dai membri di Casa di Savoia e dal diritto
successorio; i Principi, primo e secondogenito della Casa Hohenzollem Prussia, per aver contratto
matrimonio diseguale persero ogni prerogativa, pretendenza naturalmente compresa, di Principi Reali,
rispettivamente nel 1966 e 1967; Edoardo VIII d’Inghilterra fu costretto ad abdicare volendo
irrinunciabilmente unirsi ad una divorziata. Ecc.12
Sua Maestà Giorgio VI Duca di York e Re
d'Inghilterra
è incoronato il 12 marzo 1937, dopo
l'abdicazione del fratello Edoardo VIII
travolto dall'insana passione per la
pluridivorziata,
e borghese, Wallis Simpson.
Ricordo che Edoardo VIII, prima di essere
costretto al divorzio, regnò come Re di Gran
Bretagna ed Irlanda ed Imperatore delle
Indie, per meno di un anno, nel 1936.
Quando ancora Principe Ereditario, Edoardo
fu insignito del Collare della Santissima
Annunziata il 23 giugno 1915.
si ammettono li Notari. Il terzo grado detto de li Secondi Priori, non comprende altro che mercanti facoltosi. L’ultimo è quello di
coloro che esercitano arti meccaniche e vili”.
E’ d’uopo sapere che non tutti gli agglomerati urbani potevano vantare “la Nobile e Distinta Magistratura e la separazione dei Ceti
“cioè non a tutti era riconosciuto il diritto di fregiarsi dell’appellativo di “Città “. Solo nelle città pertanto, era possibile che
germogliasse Nobiltà.
Tali città nello Stato Pontificio erano divise in quattro classi, a seconda della qualità nobiliare vantata e realmente posseduta; nella
I erano annoverate le città che “nei tempi antichi medi e presenti, hanno provato in ogni tempo Nobiltà generosa“; nella II città che
“sebbene non siano decadute dal loro antico splendore ed abbiano conservato la Nobiltà generosa delle loro famiglie, da lungo
tempo non hanno più fornito prova di tale tenore nobiliare“; nella III “quelle che hanno una nobile e distinta Magistratura, che
sono riconosciute per nobili e come tali trattate dal Sommo Pontefice, ma che non hanno mai dato prove di Nobiltà pur meritando di
avere limiti e di esserne ammessi a somministrarne“; nella IV “città che sebbene vantino distinta e nobile origine, sebbene siano
state in alcuni tempi illustri e famose, decadute adesso dal loro splendore non hanno più la nobile e distinta Magistratura“. Angelo
Squarti Perla: “Titoli e Nobiltà”, Rivista Araldica. Roma. 2002.
11
Confronta il recente matrimonio di Felipe Juan Pablo Alfonso y Todos los Santos Borbone-Anjou, Principe delle Asturie, con
donna borghese necessariamente preceduto dal consenso delle Camere. Tale ramo, onde distinguerlo dagli altri, vien detto d’Anjou
dal fondatore che regnò come Filippo V di Spagna dal 24 novembre 1700.
12
Cfr. Prof. Aldo Marchese Pezzana Capranica del Grillo, “Quesiti Araldici”, pag. 290. Agli esempi di cui sopra, sono da aggiungere
quello offerto dal Principe Giorgio Guglielmo Alberto della Casa Granducale di Sassonia-Weimar-Eisenach che, per contrarre
matrimonio diseguale, rinunciò ai suoi diritti successori ed il 22.1.1953 cambiò, per rispetto degli altri membri della Famiglia, il
nome e ed il cognome originari in quelli di Jorg Brena. Parimenti dicasi di Leopoldo Francesco Pietro Arciduca d’Austria che, lo
stesso giorno (18.6.1993) in cui contraeva matrimonio impari, rinunciava ai suoi diritti come Capo della Casa Granducale di Toscana.
Da sottolineare che per la Famiglia Reale s’intendeva, di là dalla regola privatistica che riconosce la
parentela legale entro il VI grado incluso, un’estensione delle parentele, tipica del diritto nobiliare, almeno
sino al X grado incluso.13
Questa norma appare fornita di una sua intrinseca giustificazione, ove si tenga conto delle regole della
Monarchia secondo cui non tutti gli appartenenti alla Famiglia fanno parte della Famiglia Reale, potendo
essere esclusi o, seguendo specifiche modalità, riammessi.14
La dizione di Famiglia Reale esprimeva un concetto più ampio della Famiglia del Re “indicando le persone
legate da legittima parentela col Re e capaci di assumere la Corona”. 15
Come peraltro le dizioni di “Regina Madre” e “madre del Re” –art. 14 dello Statuto-, figure dalle qualifiche e
mansioni distinte e non sempre coincidenti; ed ancora la distinzione giuridica tra Corona, di cui è titolare,
come Capo dello Stato, il Monarca ed Ufficio, di cui è titolare il Re.16
“In definitiva si ha all’interno della Famiglia Reale una graduazione di figure giuridiche e di compiti
specifici: una più allargata che le comprende tutte, che sul piano dei soggetti ingloba insieme al Re i
Principi Reali, i Principi del Sangue e le loro consorti; l’altra, più ristretta, detta Famiglia Regnante, al cui
interno si ha un nucleo ulteriormente minimo, che è indefettibile per la Monarchia, composto
necessariamente dal Re e dal suo immediato successore; in fine, quella coincidente con regole privatistiche
della famiglia legittima, che si applica quanto alla parentela (con le ricordate eccezioni), e in special modo
(ma con minori eccezioni) al profilo genealogico, nonché nella materia dei beni patrimoniali”.17
La dizione di “Principe Reale” e “Principe del Sangue”, anche se dalla legge siano a volta accumunati dalla
semplice dizione di Principi e Principesse Reali, naturalmente sta ad indicare figure e prerogative diverse pur
nell’ambito della Famiglia Reale: per Principi Reali s’intendono i discendenti del Re e del Principe
Ereditario; per Principi del Sangue tutti gli altri parenti che discendono dal capostipite comune al Re. Per
puntualità lo Statuto, all’art. 21, parla di “Principi della Famiglia e del Sangue Reale“, mentre il Codice
Civile, all’art. 92 –oggetto precipuo del presente studio– e agli art. 105 e 114, li definisce “Persone della
Famiglia Reale”.18
“Per fare un riferimento attuale, con riferimento alle linee viventi, il capostipite è costituito rispettivamente,
per il Principe Amedeo di Savoia, Duca d’Aosta, da Vittorio Emanuele II di Savoia, I Re d’Italia; per il
Principe Eugenio di Savoia, Duca di Genova e di Ancona, da Carlo Alberto di Savoia, Re di Sardegna.”.19
Lo status giuridico dei Principi di Casa Reale fu trasferito nell’art. 69 del primo Codice Civile. Tale
articolo fu poi trasfuso nell’art. 92 nell’ultimo Codice Civile, approvato con Regio Decreto 16.3.1942:
ricordiamo che il Codice Civile del 1942 è tutt’ora vigente perché mai abrogato da leggi o decreti successivi
e, sottolineiamo, che le normative ivi comprese, in particolare la successione dinastica regolata dalla Legge
Salica, rappresentano l’ultima volontà normativa in materia di un Sovrano di Casa Savoia.
La XIII disposizione transitoria della vigente Costituzione repubblicana, prevedendo una sostanziale
disparità tra maschi e femmine, si adegua alle leggi dinastiche di Casa Savoia e alla conseguente qualifica di
13
C. Mistruzzi di Frisinga, la competenza dell’autorità giudiziaria in materia nobiliare, Giuffrè, Milano, 1956.
M. Santilli: Sulla nozione di Famiglia e Famiglia Reale, pag. 172. Santi Romano, Corso di diritto costituzionale, pagg. 214 e 220.
C. Caristia, Corso di Istituzioni, V edizione, pag. 182. Baschieri, Bianchi d’Espinosa, Giannattasio: La Costituzione italiana,
commento analitico, pag. 464.
15
Santi Romano, Corso di diritto costituzionale, VII ed, pag. 212. Istruttiva l’esegesi condotta in occasione del rientro in Patria degli
Asburgo-Lorena, riprodotta per estratto in lingua italiana in AA.VV., “ Il ritorno della Regina e la XIII transitoria in tema di esilio”,
nonché ripresa nella Relazione dell’Ufficio giuridico e del coordinamento legislativo del 5.3.1987, pag 85.
16
M. Santilli: Sulla nozione di Famiglia e Famiglia Reale, pag. 172. Pezzana, “La Costituzione ed i Titoli Nobiliari”, Giur. It., 1967.
Bon Valsassina, “La XIV disposizione finale della Costituzione e la sua opinabile ricostruzione ermeneutica”, Giur. Cost., 1967.
17
S. Bordonali, Un ipotesi di interpretazione adeguatrice della XIII disposizione costituzionale transitoria, Riv. Aral. 1996-1999. S.
Bordonali, Il sistema delle opposizioni matrimoniali, Cedam, Padova, 1985, pagg. 66 e seg.. S. Bordonali, Il matrimonio tra pubblico
e privato in riferimento al nuovo testo degli art. 84 e 90 del Codice Civile, negli studi in memoria di M. Condorelli, Milano, 1988,
Vol. I, Tomo I. S. Bordonali, La posizione dei Cardinali, nell’ordinamento giuridico italiano, con particolare riferimento alle norme
del protocollo, Quaderni di diritto e politica ecclesiastica, 1989-1992.
18
F. Finocchiaro, Matrimonio. Tomo II, nel Commentario del Codice Civile Scialoja Branca, libro primo: persone e Famiglia art. 84,
Zanichelli, Roma-Bologna, 1993. S. Bordonali, Il sistema delle opposizioni matrimoniali, Cedam, Padova, 1985, pagg. 66 e seg.
19
S. Bordonali, Il matrimonio tra pubblico e privato in riferimento al nuovo testo degli art. 84 e 90 del Codice Civile, negli studi in
memoria di M. Condorelli, Milano, 1988, Vol. I, Tomo I. S. Bordonali, Un ipotesi di interpretazione adeguatrice della XIII
disposizione costituzionale transitoria, Riv. Aral. 1996-1999.
14
Principe ereditario, che, nell’ufficializzarlo come potenziale successore, lo distacca dagli altri discendenti,
per trattamento giuridico e per onori.20
La stessa Costituzione repubblicana dunque, adeguandosi alle norme giuridiche e dinastiche che regolano la
successione dinastica in Casa Savoia, indirettamente riconosce tuttora valide, o comunque applicabili
all’interno della Famiglia, le norme successorie applicabili ai Principi di Sangue o comunque ai maschi
potenzialmente, per decadimento dai diritti e dalle prerogative, chiamabili alla successione.
“In poche parole la Costituzione repubblicana, pur non volendo richiamarsi direttamente ai meccanismi
successori della tradizione e legislazione italiana, nei fatti, ne ripercorre tutti i meccanismi, ivi compresi
quelli ulteriori dell’automaticità della successione disposti per l’autotutela della Monarchia, che sarebbero
potuti apparire pericolosi, in quanto avrebbero individuato, sempre e comunque, un legittimo successore
alla Corona, sino all’estinzione della Dinastia”. 21
“D’altra parte, la norma specifica del Codice Civile per i membri della Famiglia Reale non potrebbe essere
giudicata sprovvista del necessario supporto costituzionale, e quindi da considerare implicitamente
abrogata dalla Repubblica, proprio in virtù della XIII disposizione che la mantiene in vita; mentre
quest’ultima norma costituzionale non potrebbe rimanere indifferente all’estinzione della linea genealogica
della Famiglia ex regnante italiana, per cui risulta essere stata emanata specificatamente”.22
“La disposizione costituzionale XIII funziona, finché operante, da supporto (logico e costituzionale) della
speciale nozione pubblicistica di Famiglia Reale, disciplinata in taluni aspetti dall’art. 92 del vigente Codice
Civile il quale, pertanto, non potrebbe essere ritenuto superato o implicitamente abrogato, ma, viceversa,
esplicitamente confermato dalla Repubblica”. 23
Per ciò che concerne l’art. 92 del Codice Civile, circa il matrimonio dei Principi Reali: “Per la validità dei
matrimoni dei Principi e delle Principesse Reali, è richiesto l’Assenso del Re Imperatore”.
Quest’articolo del vigente codice, riprendendo testualmente l’art. 69 del Codice Civile del 1865, che a sua
volta richiamava precedenti atti sovrani (7.4.1829 e 12.3.1836) riporta l’istituto dell’Assenso Regio alle
nozze dei Principi della Casa Reale.
Tale norma, oltre che non essere stata abrogata, di fatto, continua a persistere ed applicata dal Capo dello
Stato repubblicano.
Infatti l’Assenso del Capo dello Stato sui militari e diplomatici di carriera non è altro che il medesimo Regio
Assenso esercitato anche dopo la Costituzione repubblicana. Non a caso lo scopo che si prefigge
l’applicazione della norma è, sia nella Monarchia sia nello Stato Repubblicano, la medesima: tutelare il
prestigio, il decoro e l’immagine ufficiale di alcuni organi dello stato, sia che si trovi ad essere impersonata
da un funzionario pubblico che da un Principe della Casa Reale.
Alla luce di quanto sopra risulta ora mandatorio chiarire il concetto d’automatismo della successione nelle
Monarchie ereditarie.
“I Poteri del nuovo Re non derivano dal precedente, ma direttamente dalla Costituzione”. 24
A miglior specifica si precisa che “in effetti non si tratta di successione, nei termini e nei sensi del diritto
ereditario che si riferisce ai privati cittadini, La Corona, in questo senso, non si eredita”.25
L’automatismo qualifica la superiorità dei princìpi monarchici (quantomeno di una Monarchia
ereditaria) su quelli repubblicani:
1) non richiedendo per l’attuazione del princìpio un’interpretazione laboriosa ed opinabile di leggi dello
Stato;
20
G. Cansacchi, Precedenze nelle cerimonie, Nuovissimo digesto italiano, vol. XIII, UTET, Torino, 1966. F. Caffarelli, Consuetudini
di cerimonia, Roma, 1943, pag. 102. Bon di Valsassina, Temi Romana, 1984, II.
21
Santi Romano, Sull’estinzione della Dinastia, Corso di diritto costituzionale, pag. 211.
22
Cfr. C. Mistruzzi di Frisinga, ”I diritti nobiliari e la Costituzione Italiana”, Giuffrè, Milano, 1956. C. Mistruzzi di Frisinga, ”La
competenza dell’autorità giudiziaria in materia nobiliare, Milano, 1956.
23
S. Bordonali: Il matrimonio tra pubblico e privato, pag. 236 e ss..
24
O. Ranelletti, Istituzioni di diritto pubblico, pag. 160.
25
C. Caristia, Corso di Istituzioni …, pag. 182.
2) non imponendo un periodo di “vacatio” necessario per la nuova elevazione al Trono come nelle
Monarchie elettive, vedi attuale Stato della Chiesa o ex Regno di Polonia;
3) escludendo, come avviene a fine mandato di un Presidente della Repubblica, qualunque alchimia, spesso
di lunga gestazione temporale, destinata a conciliare gli interessi particolari espressi dai singoli partiti;
4) rigettando il dilettantismo approssimativo di un Presidente di Repubblica, non dalla nascita allevato e
rigidamente istruito per ricoprire professionalmente una posizione verticistica di comando;
5) imponendo, considerato che dal momento dell’ascesa al Trono di un Re già si conoscono tutti i chiamati in
successione, secondo un ordine automatico ed ineludibile, che il futuro successore, sin dalla più tenera età,
sia plasmato, nell’interesse dell’Istituzione e della Nazione, a comandare con l’equità super partes che ancora
una volta qualifica e stabilisce il primato della Monarchia sulla Repubblica, quest’ultima, per definizione, e
anche se a livello subliminale, partigiana;
6) non consentendo una scelta dettata da componenti sentimentali, affettive o di banale discendenza
patrilineare.
In poche parole: continuità certa e prestabilita, collegata all’automatismo; indiscussa professionalità del
chiamato in successione; immancabile equilibrio dell’Ufficio; predeterminazione – e quindi indipendenza da
qualsivoglia volontà - del chiamato a regnare; garanzia di stabilità di reggimento.
Sulle garanzie di continuità offerte dalla Monarchia.26
E’ proprio il motivo di escludere una discontinuità, sia pratica che teorica, nella Corona, che le leggi
fondamentali del Regno esigono certezza soprattutto verso il Principe ereditario o verso l’Erede designato,
così definiti in base alla regola dinastica, della prevalenza della linea sul grado e di quella più prossima sulle
altre, con preferenza di quella discendente del Re cessante; per proseguire nei confronti degli altri
componenti della Famiglia Reale, che non se ne siano staccati “per matrimonio o altra causa”. 27
“L’esperienza e l’esempio di dieci Monarchie europee, come di molte altre d’ogni parte del mondo, ci
dimostrano quotidianamente l’importanza della continuità di un simbolo che appartiene a tutti e a ciascuno
e dalla storia trae l’autorevolezza per esercitare, nelle moderne democrazie parlamentari, quelle funzioni di
garanzia, di equilibrio, di riferimento unitario proprie del Capo dello Stato. E la cui assenza è da tutti
avvertita, pur senza avere il coraggio di denunciarne i motivi ed il logico rimedio, nel marasma in cui va
precipitando la nostra vita politica.
Ogni Monarchia, nell’arco della propria evoluzione costituzionale si è data leggi e norme che regolano i
meccanismi della successione dinastica.
Pur nella diversità, (si pensi per citare casi recenti alla Costituzione spagnola del 1978 e alla riforma
successoria svedese) tali leggi sono tutte egualmente ancorate al principio dell’automatismo, incardinato
nell’impianto giuridico e costituzionale dello Stato monarchico.
“ Il Re è Morto. Viva il Re!” In questa frase carica di tradizione e di pathos, è riassunto ed espresso
l’altissimo valore umano e politico della Monarchia che al Re fa succedere, senza soluzione di continuità, il
suo discendente, cioé colui che si trova nella posizione d’erede secondo la Costituzione, il diritto dello Stato
e della Dinastia.
Non sempre queste condizioni coincidono con il figlio del Re o del Capo della Casa Reale. Basti osservare,
per attenerci ad esempi contemporanei alle vicende familiari dei Borboni di Spagna e degli Orlean di
Francia. Due dinastie, l’una regnante, che hanno visto esclusi dalla successione, in forza del diritto, alcuni
Principi il cui “status” si è modificato nel corso d’eventi personali e familiari.
Ma l’automatismo resta, la linea retta della successione, permane immutata ed immutabile a presidio
dell’Istituto monarchico e dell’interesse nazionale.
E’ il caso italiano. La Dinastia Sabauda, che già ha vissuto analoga situazione nella circostanza della
successione di Re Carlo Alberto a Re Carlo Felice, si trova oggi con al vertice il Principe Amedeo di Savoia,
Duca d’Aosta, pronipote di Re Vittorio Emanuele II, erede diretto di Umberto II, a causa della perdita di
ogni diritto e della conseguente uscita dalla linea di successione, anche per i propri discendenti, di Vittorio
Emanuele di Savoia”. 28
26
A. Bozzi, Istituzioni di diritto pubblico, IV ed., Giuffrè, Milano, 1973. A.C. Jemolo, Continuità e discontinuità costituzionale nelle
vicende italiane…, atti dell’Accademia Italiana dei Lincei, 1947. C. Lavagna, Istituzioni di diritto pubblico, pag. 108.
C. Caristia, Corso di Istituzioni di diritto pubblico, Catania, 1935, pag. 181.
28
C. Z., U.M.I., M. N., 1987.
27
A quanto sopra, per completezza e a dimostrazione dell’universalità del concetto, aggiungiamo: “Rex
numquam moritur”, The King never dies”, “Le Roi est mort, vive le Roi”, per sottolineare la continuità
dell’Ufficio, nonostante l’avvicendarsi dei suoi titolari.
Da “Le Regie Patenti” del Conte Professor Marino Bon di Valsassina, lavoro pubblicato nel 1987:
E’ opportuno altresì, richiamare l’opinione di alcuni giuristi italiani, che hanno trattato l’argomento durante
il regime costituzionale.
Morelli (il Re, 1899, pag. 257 e seg.) ricorda che: “in quasi tutte le costituzioni monarchiche, specialmente
in Germania, il matrimonio principesco, perché i figli possano succedere al Trono, debba essere uguale,
sebbene in passato l’osservanza di tale principio non sia stata assoluta e generale”. Afferma che la
costituzione italiana (cioé lo Statuto) non ha imposto la nascita di matrimonio eguale come requisito per la
successione al Trono, ma opina che “nella successione dell’Ufficio Regio, abbiano diritto a concorrere
soltanto quelli che sono nati da un matrimonio rispondente alla coscienza sociale, all’onore, all’interesse
dello Stato”. E rammenta come talune costituzioni straniere impongano il consenso delle Camere legislative
per il matrimonio dei Re e Principi, auspicando che altrettanto si stabilisca in Italia per il Re.
Secondo Miceli (Diritto Costituzionale, 1913, pag. 486): “…non si possono considerare come legittimi
discendenti per la successione al Trono, se non i figli nati da matrimonio considerato legittimo secondo i
principi del nostro diritto pubblico. Perché a tali effetti il matrimonio sia legittimo occorre: a) che sia stato
fatto con l’Assenso del Re conformemente alla disposizione dell’art. 69 del Codice Civile (oggi art. 92); B)
che non sia stato contratto con persona di condizione inferiore, cioè non appartenente alla categoria dei
Principi di Famiglie regnanti – o ex regnanti -. Ciò in forza della Reale Patente del 13.9.1780 e del Reale
Biglietto del 28.10.1780”.
Si capisce che qui il diritto s’informa al criterio di conservare alto il prestigio del Capo dello Stato. “La
successione al Trono non è retta dai principi comuni del diritto civile. Legalmente capace di tutti i diritti è la
successione legittima per matrimoni provenienti da nozze riconosciute come principesche”.29
Ed in nota aggiunge che “… l’art. 69 del Codice Civile fa obbligo, per la validità dei matrimoni dei Principi,
dell’autorizzazione del Re”.
Il Presutti (Diritto Costituzionale, 1915, pag. 298) contesta che “i matrimoni debbano essere conformi alla
patente citata, fondandosi però sull’ulteriore regolamento della materia da parte del Codice Civile”.
“Per quanto potrebbe sembrare, a prima vista, che l’invalidità concerna il matrimonio, a più meditato
giudizio, è facile rendersi conto che essa riguardi esclusivamente “le nozze legalmente riconosciute come
Principesche”. Intendiamo dire che l’Assenso matrimoniale del Re si comporta sotto il profilo della
comminata invalidità: in riferimento ai normali effetti civili del matrimonio, da impedimento impediente; nei
confronti delle nozze Principesche, da elemento costitutivo. Cioé che, sul piano degli effetti, la mancanza
dell’Assenso, rende il matrimonio da celebrare di per se inidoneo a produrre nei nubenti il particolare stato
coniugale dei principi reali, dal quale status dipendono importanti conseguenze giuridiche, tra cui la stessa
permanenza nel coetus; ma non tocca, sul piano della validità del vincolo, gli effetti che discendono dalla
comune nozione privatistica di matrimonio.
La libertà matrimoniale dei membri di quella Famiglia, ha quindi modo di esplicarsi interamente nelle
forme disciplinate dal diritto comune; tuttavia è ben chiaro che la scelta del regime matrimoniale comporta
per essi una previa scelta di status. Vale a dire che l’omissione della richiesta d’Assenso regio, o la
celebrazione del matrimonio, nonostante il rifiuto, equivale ad una implicita rinuncia al particolare status e
comunque ad un affrontarne consapevolmente la decadenza de iure. Ferma restando, ove percorribile,
l’ipotesi di ripiego delle così dette nozze diseguali morganatiche.
La giustezza di quanto affermato trova conferma nel parallelismo con l’altro tipo di Assenso regio, poi
convertito in presidenziale: quello per il matrimonio di diplomatici e dei militari di carriera. Il difetto
d’Assenso non produce l’invalidità del vincolo matrimoniale civile, contratto in base al diritto comune, ma
la cessazione dall’ufficio o dal servizio effettivo.
In altre parole una situazione che è rispondente a quella del Principe che, per il matrimonio o altra ragione,
non faccia più parte della Famiglia Reale.
29
Crosa: (La Monarchia nel diritto pubblico italiano, 1922, pag. 20).
In effetti, l’invalidità di cui trattasi, non oltrepassa il piano in cui essa ha avuto origine, e sul quale è
destinata ad operare, cioè l’ufficialità del ruolo. A questo essa risulta collegata, a prescindere
dall’ordinamento preso a termine di riferimento.
Vale a dire che, in ogni caso, la fattispecie appare destinata ad avere come unico sbocco una situazione
analoga a quella sopra descritta che determina la perdita dell’ufficio; con la peculiarità, tuttavia, che
quando il diniego dell’Assenso regio sia fondato sullo status familiare anzidetto – cioé per via della diversità
di ceto – si rende inevitabile una diretta conseguenza su quel piano, dove ufficialità e status vengono a
coincidere.
Vale a dire che insieme al mancato acquisto del coetus del coniuge si ha anche quello delle funzioni
connesse al corrispondente status.
Una volta interessato lo status è, infatti, inevitabile che si producano tutte quelle conseguenze giuridiche che
ne dipendono. Pertanto, le nozze non consentite, incidendo sullo status personale della coppia, si riflettono
anche sulla prole. Questa non potrebbe ricevere dai genitori più di quanto essi stessi abbiano, cioè non
parteciperebbe della condizione familiare cui è connesso il diritto a succedere nella Corona, pur
acquistando sul -solo- piano del diritto comune lo status proprio della filiazione legittima.” 30
“Occorre tuttavia precisare che la prole di cui discutiamo, neppure successivamente, potrebbe essere
ricompresa in quella considerata dalle regole dinastiche. Infatti non sarebbero invocabili gli effetti del così
detto matrimonio putativo (per i coniugi in buona fede), in quanto esclusi per la mancanza del fondamentale
requisito della buona fede di chi ha infranto deliberatamente la prerogativa del Re; non potrebbe verificarsi
un provvedimento del Re, che nello specifico equivarrebbe a stravolgere la regola familiare fondamentale su
cui si fonda la successione dinastica e quella costituzionale dell’ordine della chiamata.” 31
Ricordiamo che il rispetto delle regole dinastiche e statutarie non è stato mai abbandonato dalla Famiglia
Savoia: ”Le Regie Patenti sono e rimangono regole fondamentali della nostra Famiglia”. 32
Ed ancora: “Lo Statuto Albertino (nel quale risultano impiantate le Regie Lettere Patenti del 1780 e quindi le
norme di successione dinastica, n.d.r.)... è ancora oggi la legge fondamentale, perpetua ed irrevocabile della
Monarchia”. 33
Nel principio dell’automatismo successorio, collegato alla realtà giuridica, dunque, trova certo corpo
l’inabilitazione alla successione dinastica di Vittorio Emanuele.
La decadenza “de iure” dal particolare “status” comporta la perdita d’ogni titolo, prerogativa,
qualifica e trattamento, nessuno escluso, tra cui la stessa permanenza nel “coetus” originario.
La Signora Ricolfi Doria, per il diniego dell’Assenso regio fondato sullo status familiare, non ha
acquisito il coetus del coniuge, né le funzioni connesse al corrispondente status.
Emanuele Filiberto di Savoia non può partecipare della condizione familiare paterna e non può essere
esser ricompreso nella nozione di Famiglia Reale per l’inosservanza delle iuxtae nuptiae dei genitori
(cioè di quelle tipiche che siano state preventivamente consentite dal Re e alle quali è condizionata
l’appartenenza alla Famiglia Reale), pur avendo acquisito sul piano del diritto comune lo status
proprio della filiazione legittima.
Punto C)
Il Consenso
Non dobbiamo dimenticare che Sua Maestà il Re Umberto II, Sovrano mai abdicatario, non ha in nessuna
occasione rinunciato alle regie prerogative derivanti dall’aver, di fatto, regnato con pienezza di giurisdizione
territoriale (vedi l’emissione di: provvedimenti nobiliari di Grazia Sovrana, emanati nella forma di Decreto
30
S. Bordonali, Il sistema delle opposizioni matrimoniali, Cedam, Padova, 1985.
S. Bordonali, Un ipotesi d’interpretazione adeguatrice della XIII disposizione costituzionale transitoria, Riv. Aral. 1996-1998. S.
Bordonali, Il sistema delle opposizioni matrimoniali, Cedam, Padova, 1985, pagg. 66 e seg. S. Bordonali, Il matrimonio tra pubblico
e privato in riferimento al nuovo testo degli art. 84 e 90 del Codice Civile, negli studi in memoria di M. Condorelli, Milano, 1988,
Vol. I, Tomo I.
32
Da un’intervista del giornalista Gigi Speroni al Duca d’Aosta comparsa sul libro “In nome del Re”, Rusconi editore, 1986, pagg. 910-11.
33
Dichiarazione testuale di Vittorio Emanuele di Savoia tratta dal documento, impropriamente definito “I Decreto Reale”, del
15.12.1969, di cui a nota da seguito.
31
Reale, di Concessione, Rinnovazione, Convalida, Assenso ed Abilitazione, Regie Lettere Patenti di Regio
Assenso ecc..34
Peraltro l’importanza e l’automaticità delle conseguenze giuridiche spiegano perché siano previsti modi di
esteriorizzazione dell’Assenso che ne costituiscono al contempo la prova. Esso deve essere dato, all’atto
della celebrazione, pubblicamente attraverso la dichiarazione resa “verbalmente dalla persona presente al
matrimonio, ovvero con atto scritto notarile, che i nubenti consegneranno personalmente all’ufficiale dello
Stato Civile del comune di celebrazione del matrimonio”. (art. 75, del Codice Civile del 1865).35
“Dal momento che non è possibile prestare l’Assenso in altro modo da quello sopra descritto ed
escludendosi che lo si possa fare “per atto, sotto forma privata, né tacitamente” non si dava infatti nessuna
possibilità di silenzio-assenso in questo campo, nessun dubbio formale dovrebbe poter sussistere in seguito
sull’adempimento; né, d’altra parte, si richiederebbe di accertare la mancanza quando manchi la prova.
La struttura previa o contestuale dell’Assenso, fa sì che l’invalidità di cui trattasi non richieda particolari
procedure per l’accertamento, a differenza di quanto generalmente avviene per le altre invalidità
matrimoniali. Ciò vale sia per quanto attiene al rimedio preventivo, costituito dalle opposizioni
matrimoniali, - con riferimento agli art. 91 e 102 del vigente Codice Civile – sia per quanto attiene alla
declaratoria giudiziale, di nullità, che sostanzierebbe una presa d’atto della assenza della formale
esteriorizzazione. E’ noto che, di fatto, la verifica dell’esistenza di requisiti siffatti è compito che
34
Regie Lettere Patenti (RR.LL.PP.) erano chiamate nel diritto nobiliare italiano la forma meno solenne, ma più riservata, della
manifestazione della volontà sovrana sciolta da ogni vincolo e costituente unica fonte legislativa in materia di onori, diretta ad
autorizzare l’assunzione, l’uso e la trasmissione di titoli, qualifiche nobiliari, trattamenti e stemmi. Il primo a concederne pare sia
stato Filippo l’Ardito che ne accordò nel 1270.
Il vocabolo patente deriva dalle medioevali litterae patentes, consistenti in diplomi regi che erano trasmessi aperti (a distinzione delle
litterae clausae) e la cui autenticità veniva comprovata da un sigillo appostovi dalla cancelleria, con i quali il Sovrano rendeva noto a
ciascuno (dal latino patere) la sua volontà insindacabile di Principe assoluto, e che quindi aveva valore di legge.
“Dal secolo XVI con queste lettere patenti furono concessi dai Sovrani privilegi di varia natura, derivanti dalla larga concezione dei
diritti di regalia.
Il termine patente fu adottato in Francia, da dove passò in Piemonte. Nel Regno di Sardegna (Piemonte, Liguria, Sardegna) le
lettere patenti furono regolate dal Codice Sardo del 1837 che prescriveva la procedura per la loro formazione. Esse dovevano
portare la firma del Re, la controfirma del Capo del Dicastero che le sottoponeva alla firma sovrana, il visto di due ministri e del
Controllore Generale, i quali dovevano prima esaminarle, e, trovandovi delle difficoltà a darvi corso, potevano restituirle al Re. In
oltre le lettere dovevano essere interinate, ossia registrate dai Senati e dalla Camera dei Conti, i quali potevano sospenderne la
registrazione e fare le opportune rimostranze, nel caso che esse non fossero, al loro parere, conformi al Regio Servizio.
Esse corrispondevano ai moderni decreti reali e servivano a concedere, fra gli altri diritti di regalia, titoli nobiliari, qualifiche,
trattamenti, stemmi, o ne autorizzavano i trapassi e le modificazioni.
Negli altri stati preunitari italiani non si faceva uso del termine Lettere Patenti, ma si adoperava quello di Privilegio o Diploma,
firmato dal Sovrano, e di Breve negli Stati della Chiesa, il quale però veniva rilasciato in nome del Pontefice a firma del Cardinale
Segretario dei Brevi Apostolici fino al 29.6.1908, e successivamente dal Cardinale Segretario di Stato, e di Chirografo se scritto
tutto di pugno dal Pontefice o dal Sovrano.
Appare così nella legislazione italiana questa nuova forma (ma come si è visto, antica nel Regno Sardo) di manifestazione della
volontà Sovrana, che si concretava nelle Lettere Patenti, senza che queste fossero precedute da apposito Decreto Reale, come
avveniva per tutte le altre forme di provvedimenti di grazia. L’assenso regio, infatti, già esisteva in Piemonte fin da prima
dell’abolizione della feudalità, e chiamatasi Abilitazione, Gradimento, Licenza.
Col nome di Beneplacito venne accordato anche dopo il 1860 e fino al regolamento del 1896.
Si hanno così due tipi di Lettere Patenti, l’uno derivativo come documento comprovante l’avvenuta emanazione di un decreto reale
di concessione, conferma, rinnovazione e riconoscimento di titoli nobiliari, qualifiche e stemmi; l’altro come manifestazione
originaria a se stante della volontà sovrana, nei casi di beneplacito o di assenso, senza che essa assumesse la forma del Decreto
Sovrano.
In oltre mentre i Decreti Reali, giusta l’art. 30, venivano conservati in originale presso la Consulta Araldica e trascritti in un
apposito registro presso l’Archivio di Stato di Roma, le Lettere Patenti venivano solo trascritte nell’apposito registro della Consulta,
mancando così per esse quella forma di maggiore solennità ed importanza attribuita ai decreti, per il fatto della loro trascrizione
nell’Archivio di Stato.
L’anzidetto Assenso, che fu usato con larghezza di criteri tanto da consentire il trapasso di titoli anche fra famiglie non legate da
vincoli di parentela entro il sesto grado della successione nobiliare, e talvolta soltanto da vincoli di affinità, doveva trovare poi
larga applicazione per effetto del R.D. 16.8.1926 N. 1489, modificato dal R.D. 16.5.1927 N. 1091, sullo statuto successorio.
L’ordinamento nobiliare 21.1.1929 N. 61 stabilì, all’Art. 6, che i provvedimenti nobiliari, secondo la loro natura di atti Sovrani di
grazia o di atti governativi di giustizia, sarebbero stati emanati mediante Decreto Reale o per decreto del Capo del Governo;
All’Art. 9 che alla persona in favore della quale era stato emanato un decreto Reale veniva spedito un diploma in forma di R.R. L.L.
P.P. sottofirmate dal Capo del Governo, trascritte a cura del Cancelliere in speciale registro presso la Consulta Araldica, e all’Art.
10 definì l’assenso come l’atto col quale il Re prestava il proprio consenso ai provvedimenti indicati negli articoli 59, 60 e 65 dello
stesso ordinamento”. Arnone, Riv. Ar., marzo-aprile, 1951; Squarti Perla A., “Predicati territoriali feudali nelle Marche”, 2002.
35
Marcadtl, Spiegazione teorico pratica del Codice Napoleonico, pag. 462.
generalmente viene demandato all’Ufficiale dello Stato Civile; proprio come nella fattispecie è confermato
dalla legge medesima, che impone a questi di fare espressa menzione dell’Assenso nell’atto di matrimonio:
quindi di verificare o darne direttamente la prova, in quel medesimo contesto, in cui si documenta il
matrimonio.
Comunque, anche ad affrontare il problema sul piano processuale, la struttura dell’istituto ed il tenore
letterale della norma sono tali da determinare, in quella sede, un’inversione dell’onere della prova. Vale a
dire che anche in questa ipotesi si perverrebbe sempre al medesimo risultato che, contestandosi lo status,
spetti ai coniugi fornire la prova del previo Assenso”. 36
Previo Assenso che, aggiungeremo noi, non c’è mai stato.
Le Regie Lettere Patenti citate, e le norme che regolano nel Codice Civile il matrimonio, con il relativo e
consequenziale diritto alla successione, di un Principe di Casa Reale, sono e rimangono regole fondamentali
alle quali si uniforma la Famiglia Savoia. Preclaro, e relativamente recente, esempio di quanto sopra è
rappresentato dal matrimonio celebrato tra l’allora Principe Umberto e la Regina Maria Josè: una moderna,
ma storicamente ineccepibile, ricostruzione televisiva (primavera 2002), ha mostrato, innanzi lo sposo, indi
la nubenda, prima del fatidico “si” al Celebrante, rivolgersi verso i rispettivi genitori, entrambi Re in carica,
per ottenere pubblicamente ed esplicitamente il consenso. Il formale Assenso era naturalmente stato,
anteriormente e nelle debite forme, esplicitato:
“Ovviamente, Assenso previo, sia perché lo comporta l’Istituto per sua natura, sia perché sarebbe contrario
ai principi istituzionali della Monarchia i quali inequivocabilmente sottraggono al potere di chiunque, e sia
pure del Re, la designazione del Capo dello Stato o influire sulla designazione stessa, alterando un ordine
successorio già consolidatosi, a tenore della citata Regia Lettera Patente, con la scelta matrimoniale in
ipotesi men che regolare, compiuta da taluno dei chiamati alla successione. Può ricordarsi utilmente, a
questo riguardo, che nel marzo 1873 -mi pare il 13- fu richiesto l’Assenso scritto dei Principi di Casa
Genova, per il reintegro del primo Duca d’Aosta nell’ordine di successione al Trono, dal quale era uscito
andando a regnare in Spagna e nel quale rientrava, condizionatamente ai predetti consensi, dopo aver colà
abdicato”. 37
Sembra quasi superfluo ricordare che, rientrando il mancato Assenso nuziale nella materia attinente alla
successione al Trono, come tale sottratta alla libera disponibilità del medesimo Sovrano, si ha per
conseguenza la sostituzione, ope legis, del primo chiamato con quello susseguente: questi a sua volta,
manterrà la precedenza acquisita sugli ulteriori chiamati, finché perdurerà il suo status personale.
Altro esempio, questa volta recentissimo e riferito all’esercizio delle proprie prerogative, mai rinunciate da
parte del Re Umberto II, il matrimonio di Maria Pia di Savoia nel 1955, ove, con analoga metodica gestuale,
fu richiesto, dalla nubenda l’Assenso paterno.
E, sino a prova contraria, Sua Maestà Umberto II, non ha mai concesso l’Assenso formale, né tanto meno
pubblico, visto che non solo non ha voluto essere presente alle nozze del figlio Vittorio Emanuele, ma indicò
– termine confacente ad un Monarca dalla riserbatezza e dignità esclusive del Primo dei Gentiluomini, ma
equivalente, per l’autorevolezza, al termine “vietò: “A noi Savoia Aosta e ai Savoia Genova di non
intervenire né al Matrimonio a Teheran, né al successivo ricevimento a Ginevra. Sua Maestà ne soffrì
moltissimo e l’Unione Monarchica Italiana venne consigliata da Cascais a non inviare auguri e regali agli
sposi”.38
Da non sottacere che la perdita del diritto alla successione dinastica, aveva fatto sperare nell’ipotesi, più che
concreta dal punto di vista giuridico, di rendere inefficace la XIII disposizione costituzionale transitoria, con
un possibile, consequenziale, superamento dell’esilio: tale ipotesi sostenuta anche da molti monarchici,
sdegnosamente non è stata neanche presa in considerazione da Vittorio Emanuele.
A tal proposito:
36
S. Bordonali, Un ipotesi di interpretazione adeguatrice della XIII disposizione costituzionale transitoria, Riv. Aral. 1996-1999.
Da un articolo sulle Regie Lettere Patenti a cura del Conte Professor Marino Bon di Valsassina, comparso su Monarchia Nuova nel
1987. Cfr. anche “A proposito di revisione della forma di governo”, in Studi Urbinati, Milano, 1953-1954.
38
Da un’intervista del giornalista Gigi Speroni al Duca d’Aosta comparsa sul libro “In nome del Re”, Rusconi editore, 1986, pagg.
9/10/11.
37
“Proprio la sanzione della “invalidità” delle nozze reali comminata espressamente dal Codice Civile
verrebbe a far cadere un presupposto essenziale per ricondurre una particolare qualifica pubblicistica al
soggetto considerato dalla XIII disposizione. Qualifica che a quel punto non troverebbe supporto nella
Monarchia per difetto dell’atto formativo del vincolo cui è connesso il particolare status familiare e,
comunque, per via dell’avvenuta automatica sostituzione del chiamato (alla successione) che ha perso il suo
rango originario in luogo di un altro membro della Famiglia; e che non potrebbe trovare appiglio nella
Repubblica, per via dell’evoluzione in senso privatista dell’istituzione familiare di diritto comune: il solo che
a tal punto sarebbe applicabile. Dal momento che la perdita del particolare status dinastico si sarebbe
determinata proprio sulla base di una norma del Codice Civile vigente, si ha che tale circostanza non solo
non potrebbe essere ignorata dall’ordinamento, ma che anzi deve essere tenuta in conto per gli ulteriori
risvolti che si hanno sul piano, per così dire, istituzionale. Vale a dire che, venuta meno la qualifica
pubblicistica dell’individuo che ha cessato di far parte della Famiglia Reale, si renderebbe privo di ogni
razionalità anche il divieto di soggiorno in Italia comminato dalla XIII disposizione, che ancora più
apertamente apparirebbe contrario all’art. 16 della Costituzione”. 39
Altrettanto, e a maggior ragione, si è potuto affermare per il giovane Emanuele Filiberto:
“Nella fattispecie, sembrerebbe, proprio che al giovane –discendente- in questione difetti addirittura
più di un fondamentale requisito per essere ricompreso nella nozione di Famiglia Reale.
Più precisamente vi osterebbe: la non appartenenza, all’epoca del matrimonio, della di lui madre (né ad una
Famiglia Reale né ad una casa mediatizzata, così come sarebbe richiesto, per le nozze saliche dai rigidi
statuti delle Case Reali tedesche) e, genericamente, dalle Case Reali; ma sopratutto l’assenza, come
ulteriore risvolto del medesimo requisito nonché come autonomo e più fondamentale motivo, delle iuxtae
nuptiae dei genitori, cioè di quelle tipiche che siano state preventivamente consentite dal Re, e alle quali è
condizionata l’appartenenza alla Famiglia Reale. Il soggetto in questione, comunque, trarrebbe la sua
legittimità di status dalle nozze regolate dal diritto comune e non dalle mancate nozze principesche, motivo
per cui non sarebbe consentito allo Stato di fare ricorso alla specifica normativa pubblicistica al solo fine di
arrecargli uno svantaggio.
Seguendo le regole della Monarchia, si avrebbe peraltro l’alternativa: considerare il matrimonio (ove
possibile) come morganatico oppure come matrimonio avvenuto in spregio alle regole della Casa. Nel primo
caso, si avrebbe l’esclusione dei figli dalla speciale successione, pur conservandosi altri diritti che
competono all’affiliazione legittima; nel secondo caso, la perdita dello speciale diritto sarebbe la
conseguenza dell’estromissione e sostituzione (ai fini della Corona) del genitore che coinvolgerebbe anche
la di lui discendenza. Con ciò in ogni caso concludendosi il novero dei soggetti inquadrabili nella nozione di
Famiglia ex regnante e da includere tra i successori degli ex Re della discendenza maschile dei due Sovrani
vissuti al tempo del passaggio dalla Monarchia alla Repubblica; esattamente nell’arco temporale
intercorrente tra l’indizione del referendum e la proclamazione dei risultati. Vera questa ricostruzione si
avrebbe che l’esilio e tutte le altre conseguenze persecutorie che discendono dalla XIII disposizione
costituzionale per il soggetto considerato integrerebbero un’ultrattività della norma costituzionale che
apparirebbe tanto iniqua quanto irragionevole”. 40
Il Dissenso
Oltre il diniego dell’Assenso, innumerevoli ed inequivocabili le manifestazioni di volontà dissenziente
espresse da Sua Maestà il Re Umberto II, e di fondamentale importanza, mai rinunciatario alle regie
prerogative a questi spettanti come Re non abdicatario e, comunque, enunciate in qualità di Capo di Casa
Savoia, in quanto Real Casa di Savoia, coincidente con la Casa (ex) regnante italiana.
Incidenter è da ricordare che la Famiglia Reale rappresenta un’unità politica, sotto l’alta direzione del Re, il
quale ne è Capo; quest’ultimo vi esercita poteri ben diversi da quelli indicati dal Codice Civile per la patria
potestà.
“Si tratta di Prerogative Sovrane che comportano, nel caso d’inosservanza, l’automatica cessazione di
appartenenza alla Famiglia e talvolta l’applicazione di ulteriori provvedimenti e sanzioni specifiche. Il
39
S. Bordonali, Un ipotesi d’interpretazione adeguatrice della XIII disposizione costituzionale transitoria, Riv. Aral., anni 19961998.
S. Bordonali, Un ipotesi d’interpretazione adeguatrice della XIII disposizione costituzionale transitoria, Riv. Aral., anni 19961998.
40
fulcro della disciplina ruota attorno al collegamento della Famiglia con il meccanismo costituzionale della
successione nella suprema carica dello Stato (la Corona) che risulta essere regolato interamente dal diritto
pubblico”. 41
1) Lettera scritta al figlio, a conferma del diniego ed avversità al matrimonio: “Io che sono il
quarantaquattresimo Capo della Casa non intendo e non ho diritto di mutare, nonostante l’affetto per te,
la legge della nostra Casa vigente da 29 generazioni e rispettata da 43 capi famiglia miei predecessori
succedutisi, secondo la legge salica, attraverso matrimoni contratti con Famiglie di Sovrani”.
Questo scritto, secondo Gabriele Villa, redattore dell’articolo sulla Famiglia Savoia, comparso sul
settimanale Gente di Ottobre 2002, pare sia sfuggito al rastrellamento dei documenti contenuti nell’archivio
di Famiglia prima della consegna da parte di Vittorio Emanuele alla Repubblica Italiana, secondo le
disposizioni testamentarie paterne.42 Di analogo documento, di cui si ha certa prova,43 in cui era avviata la
procedura ufficiale per “rasare” dalla Famiglia e dalla successione Vittorio Emanuele, è andata perduta, dopo
l’accurata verifica di cui sopra, ogni traccia.44
2) Dall’Unità d’Italia in poi, per ricordare la sottomissione del Regno delle due Sicilie, ma anche per
indicare la posizione pacificatrice attribuita alla Famiglia Savoia nell’unificazione, alternativamente, dal
1860 in poi, i Re d’Italia hanno assunto il titolo di Principe di Piemonte e Principe di Napoli. In questo caso,
nella tradizione dinastica sabauda, il titolo rappresentava dunque, se conferito ad un Principe di Sangue, il
designato alla successione.45
La mancata concessione al nipote Emanuele Filiberto del titolo di Principe di Piemonte, sostituito con il
titolo, del tutto estraneo alla Dinastia -ed addirittura di nuovo conio, se si eccettua un brevissimo periodo
d’uso per concessione ad un non italiano, in epoca napoleonica-, di Principe di Venezia non si presta che ad
univoca, dissenziente e preclusiva interpretazione.46
3) La mancata concessione del Collare dell’Ordine Supremo della Santissima Annunziata al nipote
Emanuele Filiberto, con contestuale conferimento – per di più anomalo in quanto in deroga all’età minima
canonica richiesta -, ad Aimone di Savoia, Duca delle Puglie, figlio di Amedeo Duca di Aosta, non si presta
che ad univoca interpretazione.47
4) Un’attenta lettura del Libro d’Oro della Nobiltà Italiana, sebbene pubblicazione di un organismo
privato e quindi di nessuna pubblica valenza giuridica, porta alle seguenti conclusioni: sin ché Sua Maestà il
Re Umberto II è stato Presidente Onorario ed il Barone Giovanni di Giura – notoriamente in Patria “longa
manus” del Sovrano -, Presidente del Collegio Araldico romano,48 per Vittorio Emanuele non è mai
comparso, evidente e tangibile espressione della Sovrana volontà, il titolo di Duca di Savoia, titolo spettante
41
S. Bordonali, Un ipotesi di interpretazione adeguatrice della XIII disposizione costituzionale transitoria, Riv. Aral. 1996-1999.
Biscaretti di Ruffia, Diritto costituzionale, pag. 471. Crosa, La Monarchia nel diritto pubblico italiano, Torino, 1922. Bon di
Valsassina, Temi Romana, 1984, II.
42
Per le disposizioni testamentarie relative all’archivio di Sua Maestà il Re Umberto II ed in particolare ai legati 17 e 24 luglio 1982,
confronta gli atti del notaio Oliver Gampert del 25.3.1983.
43
44
Cfr. “Libero”, pag. 15, dell’8.7.2006.
Confronta l’interrogazione parlamentare presentata da Luigi Biscardi il 18.2.1993 (112f seduta del Senato), diretta al Ministro per i
Beni Culturali Alberto Ronchej, con risposta scritta del 20.4.1993 (143f seduta del Senato). Nella risposta, il Governo così si
espresse: “Tutt’ora sono state consegnate allo Stato solo 88 delle 217 cartelle dell’archivio Savoia, individuate nel maggio del 1983
dall’apposita commissione istituita secondo la volontà testamentaria del defunto Umberto di Savoia. In particolare, non risulta
consegnata la documentazione relativa ad Umberto II e, più in generale, al XX secolo....”.
45
Coscia, “La Corte Costituzionale ed i predicati nobiliari”, Foro pad., 1968. Bon di Valsassina, Temi Romana, 1984, II.
46
Il titolo fu concesso da Napoleone I ad Eugenio Beauharnais, titolato ma non di Sangue Reale e figlio dell’amante Giuseppina, nel
1805. Eugenio era figlio del Visconte Alessandro, di antica Nobiltà orleanese, decapitato nel 1794; un Ramo, decorato da Luigi XV,
era stato investito del marchesato di Ferté Beauharnais. Passando i discendenti di Eugenio in Russia ed imparentandosi con i
Romanoff, assunsero il nome di Romanovski.
47
La concessione avvenne il 13.10.1982.
48
S.E. il Barone Giovanni di Giura era stato Presidente del II Congresso Internazionale d’Araldica e Genealogia su disposizione del
Sovrano che presiedette il Comitato d’Onore. Riporto integralmente da scritto dell’epoca: “Il Comitato d’Onore era composto da:
S.M. il Re Umberto II, Capo della Real Casa di Savoia; Monsignore il Conte di Parigi, Capo della Real Casa di Francia; Monsignor
il Conte di Barcellona, Capo della Real Casa di Spagna; S.A.I. il Granduca Vladimiro, Capo della Casa Imperiale di Russia; Il
Duca di Castro, Capo della Real Casa delle Due Sicilie; S.A.R. il Duca di Wuttemberg; S.A.S. il Principe Ernesto Augusto di Lippe.
Tra gli oratori fu dato il giusto risalto al Barone A. Monti della Corte e al Duca della Salandra e di Serracapriola”.
al Re in carica di Casa Savoia o al Principe ereditario o all’erede presuntivo o al designato, secondo il grado
di parentela legittima e le regole della successione dinastica.
Per Emanuele Filiberto, mai comparso il titolo di Principe di Piemonte, mai citato il conferimento del Collare
della Santissima Annunziata.49
Con la morte di Umberto II e del Barone di Giura, nelle edizioni successive, sotto evidenti pressioni
esercitate dagli interessati (ed in palese contrasto con la volontà del Sovrano, compaiono i titoli di
Principe di Piemonte, di Duca di Savoia e si appalesano fantomatici conferimenti di Collari della
Santissima Annunziata.50
5) Al fine d’indicare inequivocabilmente che con la sua scomparsa si verificava l’estinzione della
linea genealogica della Famiglia (avendo Vittorio Emanuele cessato di far parte della Famiglia Reale per
perdita del suo rango originario e comunque per via dell’avvenuta automatica sostituzione del chiamato alla
successione), Umberto II ha preteso che i Regi Sigilli a secco, tramandati per generazioni nella Famiglia e di
spettanza del Re o del suo legittimo successore, fossero con lui sepolti. Gli Aiutanti di Campo di Sua Maestà,
protetti in contenitori di cuoio, li avrebbero posti sotto le ascelle del defunto Sovrano.
Parimenti per volontà testamentaria ha disposto che i Collari della Santissima Annunziata, Ordine Supremo
di prerogativa dinastica, fossero donati, unitamente al glorioso vessillo del Savoia Cavalleria
(miracolosamente e tra mille perigli ricondotto in Italia, dopo la leggendaria e luttuosissima ultima carica),
all’Altare della Patria.
Si fa notare che tale disposizione testamentaria è stata da Vittorio Emanuele disattesa giungendo sino al
punto di autonominarsi Gran Maestro dell’Ordine e dar luogo a, ovviamente invalide ed illegittime, novelle
concessioni.51
Incidenter, si ricorda che, grazie proprio a questi comportamenti, censurabili per qualunque figlio anche se
borghese, ma vieppiù indecorosi se riferiti ad un Principe del Sangue con pretese dinastiche, che gli esecutori
testamentari nominati da Sua Maestà il Re Umberto II (e cioé Sua Altezza Reale il Principe d’Assia, Sua
Altezza Reale Simeone di Bulgaria ed il Marchese Solaro del Borgo),52 giudicando ogni polemica dannosa
per la causa monarchica ed avvilente per la memoria, l’alto senso morale e la regale dignità del defunto
Sovrano e, solo per questo, tacendo dignitosamente, hanno ritenuto opportuno, nel figlio rispettando il Padre,
di dimettersi dall’incarico.53
“ Non vi è dunque rimedio ad una condizione di fatto e di diritto contraria alle leggi dinastiche e civili, tutte
ostative per Vittorio Emanuele. A nulla valgono le dichiarazioni, le smentite, gli atteggiamenti assurdi e
carnevaleschi, per cui s’inventano Re e Regine e Principini ereditari, ornati di Collari della Santissima
Annunziata, che sono, tra l’altro, nonostante la diversa disposizione testamentaria del Re Umberto II,
materialmente in possesso di Vittorio Emanuele.
Perché non si è preso esempio dall’esilio dignitoso di Re Umberto II e dal comportamento serio e
scrupoloso di Otto di Asburgo, del Conte di Parigi, degli Stessi Borboni di Napoli dopo Gaeta?”.54
Punto D)
Condizioni di opportunità
Condizioni, soggettive ed obiettive, ma anche di opportunità per la salvaguardia dell’Istituto monarchico, che
inabilitano Vittorio Emanuele alla successione dinastica:
1) Tentativo, di destituire il Padre, sufficiente da solo a togliere ogni diritto ereditario ad un Principe. 55
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Vedi “Libro d’Oro della Nobiltà Italiana”, edizioni 1969-1972 e 1981-1985, rispettivamente a pagg. XV e XIII.
Vedi “Libro d’Oro della Nobiltà Italiana”, edizione 1995-1999, pagg. XIX e XX.
Vedi “Libro d’Oro della Nobiltà Italiana”, edizione 1995-1999, pagg. XIX e XX.
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Secondo altre fonti il terzo esecutore testamentario sarebbe M. Charles Ghilbert di Udekem.
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I Cavalieri della S.S. Annunziata creati da Vittorio Emanuele risultano: Emanuele Filiberto di Savoia il 22.6.1986; S. A.
Eminentissima Frà Andrew Bertie, Gran Maestro dello S.M.O.M. il 15.10.1988; S. E. Reverendissima Cardinale Agostino Casaroli il
17.10.1988; S. A.Imperiale Granduca Georgj Michailovic di Russia il 31.3.1993; S. E. il Conte Carlo d’Amelio, Ministro della Real
Casa il 20.11.1994; S. E. Giovanni de’Giovanni Greuther, Duca di Santaseverina il 20.5.1996; S. M. il Re Alberto II del Belgio il
22.10.1997; S. Eminenza Reverendissima il Cardinale Sodano nel dicembre 2002.
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Conte Professor Marino Bon di Valsassina e di Madrisio, Patrizio Veneto, Presidente Nazionale U.M.I., 1987.
55
Confronta il “Regio Decreto” datato 15.12.1969, depositato presso il notaio Duport E. Lucien, a Firma anche, oltre che da Vittorio
Emanuele (per l’occasione, e vivente il Re Umberto, autodefinitosi Re d’Italia), dell’ex Gran Maestro della Massoneria Italiana
Giordano Gamberini. Per puntualità si riporta quanto vergato al punto 6 del citato documento: “Per effetto dell’avvenuta
successione, Ci competono anche i diritti di Capo legittimo della Dinastia Sabauda e tali diritti eserciteremo d’ora innanzi,
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Vedi, in aggiunta, il tentativo di conferimento di un titolo nobiliare alla consorte al fine di superare
l’impedimento del matrimonio diseguale.56
Il Re è, e rimane, l’unica “fons honorum”: chiunque pretendesse di sostituirsi alle sue prerogative, oltre
che dar luogo ad un provvedimento privo di qualsivoglia valenza giuridico-nobiliare, di fatto ne tenta la
destituzione.
“A parte il fatto che, se pure Vittorio Emanuele fosse l’attuale capo di Casa Savoia, non potrebbe in
nessun modo, non essendo, e non essendo mai stato, Re, attribuire o attribuirsi titoli di sorta”. 57
2) Mancata osservanza delle disposizioni testamentarie paterne.
A tal proposito giova ricordare che: “Con Decreti Reali, su proposta del Capo del Governo, sentito il
parere della Consulta Araldica, le persone insignite di titoli o di altri attributi nobiliari, o aventi diritto
a succedervi, possono esserne privati per azioni nocive agli interessi della Nazione, per infedeltà verso il
Re Imperatore, la Patria ed il Regime, per mancanza all’onore e per fatti che in qualunque modo ne
dimostrino la morale indegnità, anche se tali fatti non costituiscono reati previsti del Codice penale o
da leggi speciali, e non diano luogo a condanne che importino la perdita delle distinzioni nobiliari”.58
Premesso che:
A) il Corpo della Nobiltà Italiana, organismo presieduto da Umberto II sino al giorno della morte, non
ha mai cessato di far riferimento al sopracitato Ordinamento dello Stato Nobiliare;
B) Vittorio Emanuele, esigerebbe di succedere all’Augusto Genitore anche nella qualifica di Primo dei
Gentiluomini;
C) l’inosservanza delle volontà testamentarie paterne rappresenta incontrovertibilmente un atto che
dimostra indegnità morale,
ci chiediamo:
se per un semplice Nobile o titolato, per mancanza dell’onore o per morale indegnità, è prevista la
perdita dei titoli e degli attributi nobiliari, che cosa si pensa che possa avvenire per un Principe Reale, la
cui condotta è regolata da leggi dinastiche, molto più rigide ma sopratutto automatiche, se non la perdita
del suo status, titoli, prerogative, qualifiche e trattamenti, nessuno escluso? Come si potrebbe pretendere
di presiedere questo Consesso di Gentiluomini, quando si è i primi a non rispettare le leggi e le norme
che questi si sono date, alle quali si attengono e sopratutto alle quali sottostanno?
3) Riconoscimento, non richiesto, della Repubblica: non dimentichiamo che Umberto II, mai abdicatario,
pur di non riconoscere la Repubblica, tutt’ora non legittimata dalla Corte dei Conti per mancata ratifica
dei risultati del referendum istituzionale del 1946 su cui gravavano pesanti sospetti di brogli, ha preferito
morire in terra straniera.59
Il dissenso di Umberto II si basava sulle modalità in cui, di fatto, si era svolta la consultazione elettorale,
l’esclusione di una parte del corpo elettorale dal voto cui avrebbe avuto diritto, la non definitività dei
risultati, la mancata proclamazione ufficiale di essi da parte del Ministro degli Interni (Romita, acceso
repubblicano), l’esiguità dell’effettiva maggioranza repubblicana che, nonostante le circostanze
summenzionate, sarebbe stata di soli 244.451 voti, ed, in fine, le voci insistenti di avvenuti brogli
elettorali, che sarebbero addirittura sconfinati in massicce sostituzioni di schede votate e la duplicazione
di certificati elettorali.60
Il Santarelli in un’opera recente non esita a parlare di prevalenza di “stretta misura” dei repubblicani.61
Secondo G. di Cesare: “Il monarchico De Nicola rappresentava la figura più indicata per affrontare la
delicata fase di trapasso da una monarchia dalle tradizioni millenarie, nella quale per circa un secolo si
solo temperati dalla discrezione che lo stato fisico e morale di S. M. l’ex Re Umberto II detta alla Nostra coscienza di figlio”.
Da sottolineare che nell’atto, giuridicamente aberrante, e come tale inefficace, compare la dizione di “Ex Re”, che accostata alle
improvvide parole di “coscienza di figlio”, suona nell’evidente contrasto morale, a dir poco oltraggiosa.
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Concessione, invalida, di titolo di “ Duchessa di Sant’Anna di Valdieri”.
57
Conte Professor Matteo de Nardelli, già Presidente della Commissione Centrale di Controllo dell’Elenco Ufficiale della Nobiltà
Italiana (ex Consulta Araldica dello Stato).
58
Ordinamento dello Stato Nobiliare Italiano, approvato con Regio Decreto 7.6.1943, N. 651, registrato alla Corte dei Conti il
17.71943, Atti del Governo, registro 459, foglio 61, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del Regno in data 24.7.1943, quale
supplemento al n. 170 della Gazzetta stessa. Art. 33, Norme Generali.
59
Pezzana, “La Costituzione ed i Titoli Nobiliari”, Giur. It., 1967. Bon Valsassina, “La XIV disposizione finale della Costituzione e
la sua opinabile ricostruzione ermeneutica”, Giur. Cost., 1967.
60
Il Re dall’esilio, seconda edizione, S.M. editore, Milano, 1979, pag. 19; O. Ranelletti, Istituzioni di Diritto Pubblico, Giuffrè,
Milamo, 1947, pag 219.
61
E. Santarelli, Editori riuniti, Roma, 1974, pag. 21.
era riconosciuta l’unità dello Stato ed una Repubblica d’inedito conio, uscita vittoriosa con un margine
piuttosto ristretto, e sotto molti aspetti opinabile, dalla consultazione popolare”. 62
Obiettivamente si deve infatti ricordare che Umberto II non solo risultava personalmente estraneo e non
coinvolto nei vari movimenti politici di cui i Costituenti discutevano, ma rappresentava a tutti gli effetti
colui che ufficialmente indiceva per il 2 giugno 1946, quando il passato regime non esisteva più di fatto
e di diritto, il referendum istituzionale, (D.L. 10.3.1946, N. 74), che era basato sul democratico principio
maggioritario, la cui fonte remota risaliva allo Statuto Albertino.63
In Breve, il Re avendo assicurato, quanto meno potenzialmente, la legalità della Repubblica e comunque
quella del momento genetico fondato sulle regole della democrazia, pretendeva la reprocità dei principi –
a nostro avviso ingenuamente, non potendosi pretendere da politicanti repubblicani e dal loro patrimonio
ideologico l’equanimità propria del Sovrano -, tra i quali spicca il rispetto dovuto alla minoranza.64
Vale la pena di ricordare che nel messaggio del Re Umberto II, che accompagnava l’atto di abdicazione
paterno, da trasmettere al Presidente del Consiglio, venivano riaffermati gli impegni assunti nei confronti
del referendum istituzionale e della Costituente.65
Risulta peraltro opportuno ricordare l’astio manifestato, in maniera inestinguibile e quasi uniforme, nei
Confronti di Umberto II di Savoia, dai vari Presidenti della Repubblica Italiana: tra tutti da rammentare
quello di Sandro Pertini, che Gli nègò persino di morire in Patria, seppur contestualmente accettando
quanto in dono all’Italia da Questi perveniva.
Non ultimo quello di O.L. Scalfaro66 il quale, pur traendo origine per il proprio titolo baronale da un
provvedimento di Grazia Sovrana Savoiarda,67 ebbe ufficialmente a scrivere che: “La XIII disposizione
Costituzionale sarebbe da mantenere... in quanto irrevocabile la forma repubblicana.... anche quando di
per se sarebbe rimasta priva di linfa vitale e sussisterebbe come un fantasma che presenta il volto tipico
delle società arcaiche, nocivo per l’immagine stessa della Repubblica, rappresentandone un segno non
di debolezza, ma di inesistenza”.68
Sul: “Proclama di protesta del Re”.69