L`aspetto delle cose

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L`aspetto delle cose
Marco Dinoi
L’aspetto delle cose. Note sul colore nel cinema
...per Il deserto rosso ho scelto invece inquadrature molto corte.
Forse è stato il colore a suggerirmi questa esigenza, questo bisogno profondo di trattarlo a macchie, come fossero pulsazioni che
penetrano confusamente nel personaggio.
Michelangelo Antonioni, Fare un film è per me vivere
Il cieco nato riferisce tutto all’estremità delle punte delle dita. Noi
combiniamo punti colorati; lui non combina che punti palpabili o,
per dirla più esattamente, sensazioni tattili di cui ha memoria.
Nella sua testa non accade nulla di analogo a quanto accade nella
nostra: egli non immagina perché per immaginare bisogna colorare uno sfondo, e distinguere su quello sfondo dei punti, attribuendo loro dei colori differenti da quello dello sfondo.
Denis Diderot, Lettera sui ciechi per quelli che ci vedono
Con il colore non si usano gli stessi obiettivi che col bianco e nero.
Mi sono anche accorto che certi movimenti di macchina non si
accordavano sempre con l’uso del colore: una panoramica rapida è
efficace su un rosso vivo, su un verde marcio non serve a niente, a
meno che non si stia cercando un contrasto nuovo. Secondo me c’è
un rapporto tra i movimenti di macchina e il colore. Un solo film
non basta a studiare tutti gli aspetti del problema, ma è sicuramente un problema che va approfondito.
Michelangelo Antonioni intervistato da Jean-Luc Godard,
La politica degli autori
Le figure partecipano della natura che le circonda attraverso il colore dei
costumi, che amplifica per saturazione il rosso delle foglie (lei), il grigio della
strada (lui) — come fosse un vero e proprio cromatismo musicale: alterazione,
di un semitono ascendente o discendente, di una o più note di una scala diatonica. Lei disegna l’asse verticale del film, lui quello orizzontale, che serve a
legare lei a terra. Sono gli stessi colori, ma anche colori diversi, così che i
vagabondi legati sembrano essere generati dal paesaggio, vi è un accordo tra
personaggi e natura, tra uomo e mondo, ma anche un principio di allontanamento. Tale movimento di separazione si può produrre per saturazione — che
tuttavia ancora li lega all’ambiente — o per dissociazione netta, taglio: le figure
sono profilate da un alone di luce che ne sottolinea l’alterità rispetto al
paesaggio.
Relazioni coloriche al quadrato quindi: da un lato partecipazione e allontanamento dall’ambiente per accentuazione delle stesse scale cromatiche, dall’altra
separazione per taglio di figure che tendono a diventare bambole bidimensionali. La separazione dal mondo sembra infatti agire in questo modo: nell’assoluta negazione della profondità di campo, il mondo diventa colore su cui i corpi
si stagliano. All’inizio dell’autunno di Dolls, l’inizio della fine (le morti degli
altri due personaggi maschili, e quindi la dissoluzione definitiva di coppie mai
veramente formate, avverranno nelle sequenze successive) in un film scandito
dal ciclo delle stagioni, Takeshi Kitano radicalizza il suo gioco con il colore.
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La mancanza di profondità di campo non rende solo bidimensionale il quadro,
fa anche perdere le forme al circostante, di cui sembra permanere solo l’essenza, come colore — una pura essenza cromatica: l’autunno, non gli alberi,
non l’ambiente e lo spazio ma il tempo, la stagione, in cui esso è ripreso.
Se «l’amore di due amanti va rappresentato con l’unione di due colori complementari, con la loro mescolanza e compenetrazione reciproca, con la segreta
vibrazione delle loro componenti affini»1, allora il rosso e il verde del paesaggio, abbracciano i due personaggi, e la composizione cromatica diventa riflesso di una possibilità virtuale e di una reale impossibilità: gli amanti qui sono
legati dal loro amore, ma non uniti. L’emersione dei personaggi da queste
macchie di colore ed il loro distacco bidimensionale da esse, fa assumere loro
la forma di quelle macchine-bambole che per tutto il film non hanno smesso
di divenire (figg. 1-4).
1. Fotogramma
dal film Dolls,
di Takeshi Kitano.
I colori del mondo, con cui, sino a questo momento del film, si sono accordati
proprio nelle microdifferenze che rispetto a questi mostravano, li assorbono e
ne danno un riflesso dislocato rispetto al mondo stesso. Detto in altri termini: attraverso il colore passa l’accordo o il disaccordo con il mondo: nella
prima parte del film, colori dissonanti (il rosa dipinto della farfalla, la vestaglia dell’aspirante suicida, il giallo dell’automobile...) contrastano una scena
prevalentemente monocromatica, senza stagione, zona di bianchi e neri incollocabili, di forme geometriche stabili e tendenzialmente simmetriche.
Ed infatti in queste parti del film l’azione si colloca soprattutto in interni — è
anche il passato rispetto al tempo narrato, e ciò che è passato, morto, sembra
dirci Kitano, non ha colore, oppure è colorato da una memoria agente, quella
di un personaggio, come accade per il capo yakuza2.
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L’aspetto delle cose. Note sul colore nel cinema
2. Fotogramma
dal film Dolls,
di Takeshi Kitano.
3. Fotogramma
dal film Dolls,
di Takeshi Kitano.
4. Fotogramma
dal film Dolls,
di Takeshi Kitano.
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Nella sequenza che ci presenta quest’ultimo ad ogni piano di ogni inquadratura corrisponderà un colore diviso dagli altri dal bianco (fig. 5); quando il
personaggio sarà ripreso in uno sforzo rimemorante, l’inquadratura si stringerà sul suo primo piano, che avrà come sfondo solo il bianco di una pareteschermo — un bianco che contiene tutti i colori e tutte le storie (fig. 6): del
resto gli stessi personaggi si spegneranno prima cromaticamente e poi diegeticamente. Per i vagabondi legati invece l’accordo segna il punto in cui
avviene il massimo avvicinamento e inizia il movimento che porterà al
massimo distacco: preludio al bianco della neve nella sequenza finale, che
assorbirà tutti i riflessi di luce, tutta la storia.
5. Fotogramma
dal film Dolls,
di Takeshi Kitano.
6. Fotogramma
dal film Dolls,
di Takeshi Kitano.
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L’aspetto delle cose. Note sul colore nel cinema
Il carattere assorbente del colore al cinema è stato produttivamente individuato da Gilles Deleuze come uno degli aspetti che l’“immagine-colore” può
presentare: «le forme principali di questa immagine, il colore-superficie senza
profondità, il colore atmosferico che impregna tutti gli altri colori, il coloremovimento, che passa da un tono ad un altro, hanno probabilmente origine
nella commedia musicale e nella sua attitudine particolare a sprigionare da
uno stato di cose convenzionale tutto un mondo virtuale illimitato.
Di queste tre forme, solo il colore-movimento sembra appartenere al cinema,
mentre le altre forme sono già pienamente delle potenze della pittura.
Tuttavia l’immagine-colore del cinema ci sembra definirsi con un altro carattere, quantunque condivida tale carattere con la pittura, ma assegnandogli
una portata e una funzione differenti. È il carattere assorbente. La formula
di Godard, “non è sangue è rosso”, è la formula stessa del colorismo. In opposizione ad un’immagine semplicemente colorata, l’immagine-colore non si
rapporta a questo o quell’altro oggetto, ma assorbe tutto ciò che può: la potenza si impadronisce di tutto ciò che passa alla sua portata, o la qualità comune a oggetti del tutto differenti. Esiste certo un simbolismo dei colori, ma
non consiste in una corrispondenza tra un colore e un affetto (il verde e la
speranza...). Il colore è invece l’affetto stesso, cioè la congiunzione virtuale di
tutti gli oggetti che capta. Ollier dice che a volte i film di Agnès Varda, e
particolarmente Il verde prato dell’amore, “assorbono”, e non assorbono
soltanto lo spettatore, ma gli stessi personaggi e le situazioni, secondo movimenti complessi assunti dai colori complementari»3.
Si potrebbe sviluppare l’argomentazione di Deleuze attraverso Kitano e
pensare al rovescio della componente assorbente, un movimento di ritorno del
colore alla superficie dell’immagine per divisione, all’interno della stessa
frazione di spettro, utilizzata per esempio a diversi livelli di saturazione nei
piani molteplici della medesima inquadratura.
7. Fotogramma
dal film Dolls,
di Takeshi Kitano.
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Del resto l’operazione di Kitano sembra tanto più efficace perché non dà luogo
ad una stratigrafia dell’immagine attraverso il colore, in quanto, pur essendo
compresi nella stessa inquadratura, i personaggi e il paesaggio sono due poli
di un movimento paradossale: sia di generazione che di separazione — per via
della profilatura bianca, della linea che tende ad astrarli dallo sfondo, a farne
delle figure bidimensionali strappate allo sfondo stesso. A questa composita
organizzazione dell’inquadratura, di cui il trattamento del colore è il primo
responsabile, contribuisce anche la cancellazione delle ombre proiettate dai
corpi, e non di quelle proiettate sui corpi, come se l’ambiente mantenesse su
di essi una presa, ma in via allentamento.
La sequenza si conclude con quella che sembra un’inquadratura di raccordo
(fig. 7), un totale sull’ambiente, e che è invece un vero e proprio “piano di
scomparsa” delle figure nel paesaggio stesso, da cui sono assorbite o cancellate. Bambole tragiche del destino che non sfidano più una divinità ma il tempo
e il mondo — corpi come bambole perché si fanno automatismi desideranti per
connessione o sconnessione (anche e soprattutto cromatica) con il mondo e
con il tempo.
1. I colori: le loro funzioni
Si potrebbe forse tentare l’abbozzo di una tipologia funzionale specifica e
aspecifica del colore al cinema. Un esempio sarebbe rinvenibile negli aspetti
volumetrici interni alla composizione plastica dell’inquadratura di cui il
colore può essere condizione primaria; funzione aspecifica perché condivisa
con le altre arti figurative, e, nello stesso tempo, specifica, perché tale funzione
al cinema può o meno avere un carattere eminentemente metaoperativo
(v. Pierrot le fou di Godard), mentre in altre pratiche, per esempio in pittura,
essa ha sempre necessariamente tale carattere. Abbozzo di un’analisi funzionale, che è sempre locale — relativa al testo filmico preso in considerazione
oppure al corpus di un determinato autore, a quello di una determinata epoca
o di un genere.
Uno dei parametri che hanno storicamente guidato la costruzione di tale tipologia è coincidente con l’asse semantico: nell’associazione arbitraria del colore
ad una costellazione relativa al significato del colore stesso che può fare sistema
all’interno di un determinato film, o, diversamente, come partitura cromatica
in cui il colore funzioni da deittico o da leitmotiv, per esempio segnalando,
anticipando o facendo risuonare la presenza di un personaggio al di qua o al
di là della sua presenza sulla scena. A ben vedere i due casi, presi separatamente o nella loro interazione, non sono granché interessanti, perché la motivazione della scelta cromatica sembra essere quella di confermare aprioristicamente un sillogismo che sarebbe dispiaciuto ad Ejzenštejn. In questi casi il
colore è sempre alle dipendenze di altri tratti della messa in scena, di cui
semmai può essere il supporto. I coloristi (registi e direttori della fotografia
sopra tutti) saranno allora coloro che invertono o negano tale gerarchia,
subordinando all’orchestrazione cromatica gli altri elementi o trattandola
come una parte egualmente importante delle messa in scena.
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L’aspetto delle cose. Note sul colore nel cinema
Abbiamo il cinema colorista più coraggioso proprio quando il colore è trattato
come una dimensione autonoma che si innesta nel corpo del film insieme alle
altre; in tale cinema le scelte paradigmatiche, dei colori, e quelle sintagmatiche, del loro accostamento, devono essere tenute nel debito conto per il rilevamento delle tattiche operative e delle strategie significanti. Tutto ciò è
ancora troppo generico; sarà forse necessario tornare ad Ejzenštejn e alla sua
concezione di “drammaturgia del colore”:
«È evidente quanto grandi siano le possibilità del cinema a colori e quale sia
la sua caratteristica fondamentale: la riunificazione in una nuova sintesi
della ricchezza dei valori drammatici secondo la loro risonanza nell’elaborazione dei valori coloristici dello spettro... La causa delle catastrofi a colori di
cui oggi siamo testimoni davanti allo schermo sta proprio nella mancata
presa di coscienza dell’elemento del colore come elemento drammaturgico,
soprattutto da un punto di vista musicale inteso come variante strutturale
dell’opera drammaturgica. Affine al dramma musicale in ciò e per ciò: che qui
l’attivo flusso delle immagini colore deve slanciarsi attraverso l’ordinamento
e le peripezie dell’andamento drammatico delle situazioni con la stessa
ricchezza di risonanze con cui il flusso sonoro dell’orchestra penetra e costruisce l’andamento e il movimento emozionale del soggetto [...]
Quando parlo della funzione drammatica del colore, lo faccio in due sensi:
nel senso della subordinazione dell’elemento del colore nei confronti di un
determinato sistema drammaturgico che viene organizzato e manifestato
attraverso il colore (e allo stesso titolo attraverso gli altri elementi), oppure,
in un’accezione più ampia della drammaturgia del colore, nel senso dell’elemento attivo, interno al colore stesso, che esprime consapevolmente la
volontà di chi lo utilizza, a differenza dell’amorfo status quo della “datità”
naturale del colore»4.
Possiamo imparare dal metodo di Ejzenštejn: così interrogarsi sulla funzione
del colore ci dirà qualcosa anche sulla sua natura all’interno della significazione filmica. Quando egli scrive di “elemento attivo, interno al colore stesso”,
cosa vuol dire? Ejzenštejn sta teorizzando movimenti di attrazione e di gravitazione: il colore da questa angolazione prospettica può diventare l’elemento
portante per pensare un’architettura di risonanze che moduli un nucleo
tematico, concettuale ed emozionale accordandosi agli altri elementi della
scena, o accordando esso stesso tali elementi (rispettivamente la prima, più
ristretta, e la seconda, più ampia, accezione di drammaturgia del colore), per
arrivare ad un vero e proprio “tropo cromatico”, così come parlando della
composizione volumetrica dell’inquadratura di Aleksandr Nevskij parla di
“tropo plastico”.
«Il motivo plastico principale della rappresentazione, generalizzato a partire
da un gesto che accorda il movimento delle linee sullo schermo con l’andamento intonazionale della voce, diventa nello stesso tempo una premessa
necessaria per la messa a punto dell’equivalente musicale della rappresentazione, sia nella consonanza sia nel contrasto ma, in ogni caso e prima di tutto,
in connessione con il significato universale dell’immagine e dell’emozione che
hanno dettato quel gesto [...]
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Notiamo piuttosto il fatto che l’immagine interviene in modo assai più
concreto, attirando nella sua orbita non solo la dinamica dei contorni o le
tonalità della fotografia, ma anche le fattezze dell’oggetto. Allora abbiamo
di fronte un compiuto tropo plastico»5.
Più avanti, tornando al colore e anticipando l’analisi di Ivan il terribile:
«Allora il “campo di risonanza” del colore penetra con la regolarità del
proprio movimento, l’apparenza oggettuale degli eventi colorati, riproducendo
secondo le proprie modalità lo stesso compito eseguito dalla partitura musicale nella caratterizzazione emotiva dell’evento.
Allora diventano ancora più “sinistri” i riflessi dell’incendio sulle macerie, e
lo scarlatto assume il valore di uno scarlatto “tematico”.
Allora il freddo azzurro frena la furia della danza delle macchie arancione,
ripetendo a suo modo un criterio di contenimento presente nell’azione stessa.
Allora il giallo, associandosi alla luce del sole, e opportunamente sfumato di
azzurro, canta l’esaltazione della vita e la felicità sostituendo il nero nel rosso
delle braci»6.
Dalla tinta al colore, o dall’effetto di realtà del cinema “colorato” al cinema
“colorista” che fa del colore un elemento portante della partitura scenica.
Il passaggio non è così semplice, perché se da una parte Ejzenštejn poteva
affermare che il colore doveva essere separato dal suo oggetto, per divenire
autonomo e in questo modo essere reintegrato nella messa in scena, al servizio di un disegno generale che lo contemplava come modalità operativa
specifica del cinema audiovisivo: «così come lo scricchiolio doveva essere
disgiunto dallo stivale che scricchiolava per diventare elemento di espressione, anche qui dalla tinta di un mandarino dobbiamo separare l’idea di arancione perché il colore possa inserirsi in un sistema di mezzi di espressione
consapevolmente ed efficacemente diretti»7 ; dall’altra Wim Wenders molto
più recentemente poteva scrivere per Samuel Fuller una battuta che suona
come un alibi ben architettato: «la vita è a colori, ma il bianco e nero è più
realistico» (in Lo stato delle cose, 1982) — e in questo modo diceva sì qualcosa
sul bianco e nero e sul concetto di realismo al cinema, ma anche sul colore e
sul “credito” che una lunga tradizione cinefila gli ha accordato. Tradizione a
cui si potrebbe opporre, ed è solo un esempio, Michelangelo Antonioni e l’esigenza, nella realizzazione de Il deserto rosso, di accordare gli stati nevrotici
dei personaggi con una messa in scena in cui il colore diventa plesso drammaturgico tra i più importanti. Ed anche qui, come ricorda Roland Barthes
nella straordinaria lettera al regista ferrarese, si tratta dei mezzi con cui
«scuotere le fissità psicologiche del realismo»8.
Sta di fatto che quella di Ejzenštejn rimane ad oggi una riflessione ineludibile,
una radicalizzazione teorica singolarmente fertile nel suo tentativo
di mostrare alcune direttrici secondo cui l’utilizzo del colore può andare al di
là dell’aggiunta di un “di più di realtà”. Pietro Montani e Maurizio Grande
sintetizzano efficacemente il problema che il regista e teorico sovietico si
pone: «Il colore è affrontato da Ejzenštejn sotto il profilo dell’autonoma
prestazione drammaturgica con cui esso contribuisce ad arricchire la complessa “polifonia” dell’organismo espressivo del film. [...]
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L’aspetto delle cose. Note sul colore nel cinema
Il passaggio dal bianco e nero al colore finisce per apparire assai più problematico (e per ciò stesso assai più fecondo) di quanto non fosse stato a suo
tempo quello dal muto al sonoro. Prova ne sia, tra l’altro, l’insistenza con cui
Ejzenštejn mette in guardia i suoi allievi da un’interpretazione meccanicamente “contrappuntistica” della “linea colorica” del film, la cui funzione,
quantunque teoricamente assimilabile a quella della musica, resta nondimeno ancorata alla componente figurativo-oggettuale della rappresentazione.
Il che ne aumenta da un lato il bisogno di arbitrarietà, ma dall’altro — ed è
questo il problema centrale — ne aumenta anche il bisogno di motivazione.
L’uso del colore infatti, si presenta come un caso del tutto particolare di
“montaggio interno all’immagine” perché, analogo per un verso al carattere
astratto della musica, esso insiste, per altro verso, sulla congruenza della
composizione plastica: è in questo “campo di tensione” che si svolge la sua
azione espressiva»9.
O ancora: il colore è pensato «come elemento portante della composizione
estetica, come dimensione strutturale ed espressiva dell’opera cinematografica,
e, per questo, non limitato al puro aspetto cromatico dell’immagine, ma
promosso a costante semiotica dell’operare artistico [...] Ejzenštejn pensa al
colore al cinema, alla elaborazione di un tema visivo e dei suoi complessi
sottotesti psicologici ed estetici mediante un linguaggio del colore, che manifesti espressivamente e organizzi compositivamente la specificità organica
dell’opera nella connessione “tonale” di elementi interni ed esterni al film
(il materiale visivo “intonato” secondo una dominante tematica ed espressiva
coordinabile nella sfera emozionale e psicologica dello spettatore). Tanto che,
alla fine, la linea conduttrice (di linguaggio, di stile, di organicità compositiva,
di manifestazione espressiva, di risonanza di significati) risulta costituita
dalla musicalità dell’opera, la cui struttura formale non può essere che quella
dell’orchestrazione di elementi diversi che si co-implicano in una reciprocità
tematica e tonale non reperibile nella datità fenomenica della realtà»10.
2. Il colore: la sua estasi
Difficile stabilire “una” funzione del colore in Dolls — parafrasando ciò che
Paul Ricouer affermava della messa in scena del tempo in certe narrazioni, si
potrebbe dire che più che essere una favola sul colore, il film è una favola
“del” colore: tutte le significazioni, tutta la produzione di senso del film passa
attraverso di esso — non solo la composizione plastica dell’inquadratura, ma
anche il montaggio che crea rapporti di risonanza tra una sequenza e l’altra,
soprattutto utilizzando il rosso, a partire tuttavia non da un legame associativo, ma da una dimensione a-significante del colore stesso: il rosso dell’autunno in questo caso non sta per “passione”, “violenza”, “sangue”... rosso
significa rosso (e autunno). Il “rosso-sangue” è in Dolls il punto di passaggio,
o di arresto momentaneo, di un tracciato cromatico che si apre con il “rossorosso” e si chiude in maniera analoga, come se il regista giapponese desiderasse verificare l’efficacia del colore, nella sua autonomia ed anche nella sua
dipendenza da associazioni culturali.
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Queste ultime rimangono, ma alla stregua di residui, di tracce di una morte
già avvenuta e tenuta rigorosamente fuori campo: evento non semplicemente
terminale, perché non smette di produrre la sua eco sui personaggi che
rimangono, mostrati da soli, in un tempo di attesa (la donna anziana) o sospeso (la giovane cantante).
Da una zona d’ombra a una di luce, da un colore ad un altro, non si oppongono solo gli spazi, ma anche i tempi, con effetti di continuità e discontinuità,
ed una produzione di schemi di alternanza, ritmici, timbrici... Lo sviluppo in
continuità può essere collegato all’illusione dello spazio tridimensionale e alla
genesi di un tempo lineare; in questo senso in Dolls, l’accentuazione della
bidimensionalità attraverso la saturazione dei colori contribuisce a scardinare la definizione degli spazi e dei tempi. Siamo ovviamente molto lontani qui,
già solo per questo motivo, dall’utilizzo del colore come effetto di realtà che si
aggiungerebbe agli altri tratti dell’immagine. Anzi, l’effrazione di uno spazio
o la permeabilità del tempo, saranno tanto più efficaci, quanto più quello
spazio e quel tempo sono stati presentati come omogenei o comunque aventi
una configurazione stabile (il prologo del film, costituito dalla rappresentazione bunraku che narra la storia dei vagabondi legati, serve anche a fare da
ancoraggio a tale configurazione). Il colore evidentemente gioca la propria
operatività al di qua e al di là della rappresentazione.
8. Fotogramma da
The Wild Blue Yonder,
di Werner Herzog.
In altre parole il gioco del colore sembra regolare tutta una serie di rapporti:
con le forme, con i volumi, con la luce e quindi con il movimento, con la drammaturgia dell’azione, con la musica... Ed ovviamente queste sono relazioni
incrociate, che non mancano di far sentire la loro retroazione sulla composizione cromatica. Nella più recente produzione di Werner Herzog, soprattutto in
The Wild Blue Yonder. A Science Fiction Phantashy (L’ignoto spazio profondo,
2005), questi rapporti tendono consapevolmente allo zero quando si tratta di
esplorare un mondo alieno, che è il nostro, ma visto da una prospettiva inedita.
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L’aspetto delle cose. Note sul colore nel cinema
Le sequenze subacquee all’inizio del film presentano quasi esclusivamente, e
comunque in maniera preponderante, un requiem di colore e luce, dove le forme
non sono riconoscibili e i movimenti sono assolutamente erratici, come quelli
suggeriti ad uno sguardo spettatoriale, sarei tentato di dire, liberato. La rifrazione della luce solare al di sotto della calotta polare provoca una sorta di
colata lavica all’interno dell’immagine, come quelle dei vulcani così importanti
nella filmografia del cineasta tedesco (figg. 8-10).
9. Fotogramma da
The Wild Blue Yonder,
di Werner Herzog.
10. Fotogramma da
The Wild Blue Yonder,
di Werner Herzog.
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Questa volta, tuttavia, si tratta di una colata di luce irradiante, senza direzione, la cui rifrazione e riflessione ci restituiscono il colore come gradiente,
ma soprattutto lo sottraggono ad una forma a cui non è più assegnabile:
Yonder è blu, tutte le gradazioni del blu.
Almeno all’inizio è un’immagine del mondo che si sottrae alla dicibilità per
una semplice e letterale inversione prospettica rispetto alle nostre abitudini
ottico-esistenziali. Questa l’immagine. Altra cosa ancora è la potenzialità
dello sguardo che si costituisce della sua singolarità e della sua azione di
organizzazione del mondo — non ricezione passiva del mondo (come accade
con i cliché) ma com-prensione di esso e quindi intervento in esso, che è parte
del nostro medesimo essere, come voleva Merleau-Ponty.
Da questo punto di vista l’immagine di Herzog è sintetica — non dialetticamente, come coalescenza di opposti — perché produce, distilla differenza e
dislocazione a partire da ciò che è ordinario, mostrando ciò che è, alla lettera,
elementare: l’aria, la terra (di cui non è rimasto altro che un ammasso di residui), lo spazio, l’acqua, il fuoco (visto attraverso l’immagine elettronica del
sole — sole rosso e blu). La dislocazione è appunto quella dello sguardo che
deve errare all’interno dell’inquadratura, non può far altro, in un’oscillazione
tra il figurativo e l’astratto.
Insieme mondo dello sguardo e mondo prima dello sguardo — nella immaginata sparizione finale dell’uomo che consentirebbe a questo pianeta di tornare
al suo splendore primigenio — mondo fatto di colore e luce, e di forme disegnate solo successivamente dalle loro rifrazioni e dai loro riflessi. Prima viene
la luce, poi il colore, poi la forma.
Immagine liquida all’inizio. Immagine in cui dobbiamo appunto nuotare con
gli occhi perché non ci sono centri di orientamento visibili che possano guidare
la nostra percezione. Solo dopo scopriremo che è ripresa al di sotto di una
lastra di ghiaccio che fa filtrare la luce in modo tale da mettere totalmente in
crisi la nostra capacità di riconoscimento.
Forse Herzog non poteva essere più chiaro sin dall’inizio: mostrare il nostro
mondo come fosse un mondo altro, alieno, è un modo per distanziare il nostro
sguardo dalla materia, per liberare la visione da tutti quei cliché che la legano
ad una immagine ormai sclerotizzata.
Non “un altro mondo è possibile”, allora, perché questo mondo e l’uomo che lo
abita sono già altri da se stessi e abbiamo continuamente sotto gli occhi tale
feconda alterità, la potremmo toccare, se non fosse che è incessantemente
obliterata, messa tra parentesi ed infine cancellata da quella ipertrofia
percettiva, che, nella moltiplicazione di differenze apparenti, ci fa vedere il
mondo sempre uguale a se stesso, o a quel simulacro determinato dalla pervasività dei cliché.
Il tentativo di Kitano sembra molto diverso anche da quello di un altro grande
colorista, Jean-Luc Godard: «l’associazione del rosso col sangue, con la
violenza, è codificata, banale, quasi universale. Il blu, nonostante sia un colore
ritenuto “freddo”, ha un registro di connotazioni più ampio, meno fisso: può, in
altri contesti, significare l’azzurro del cielo, Dio o l’assoluto, come in Je vous
salue Marie, appunto. Con il suo lavoro su questi due colori in Pierrot le fou,
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L’aspetto delle cose. Note sul colore nel cinema
Godard fa, senza forzature, esattamente quello che si può fare con il colore:
utilizzare il suo valore simbolico e culturale, conferirgli un altro valore
“idiolettale”, proprio dell’opera e di questi due tipi di valori fare sistema»11.
“Non è sangue, è rosso”: è necessario riconoscere a Godard un’intelligenza del
meccano-cinema che va molto al di là della ricognizione dell’ovvio; l’affermazione significherà allora non solo che si tratta di sangue fittizio, ma soprattutto che il lavoro sul colore di una parte importante del cinema contemporaneo prende l’abbrivio da quelle associazioni che la storia di una cultura
produce.
Ogni associazione è sottoposta ad una filogenesi, può o deve mutare, fino a
poter abbracciare connotazioni antonimiche (il verde della speranza e quello
bilioso di Jago); in questo modo e per questo motivo, Godard potrà definire
quell’idioletto cromatico di cui parla Aumont poggiando su denotazioni a
diversi gradi fluttuanti, ma comunque almeno in partenza riconoscibili.
D’altra parte il porto che Ejzenštejn ha in vista nella sua ricerca sul colore
resiste al tempo e ai flussi e riflussi della tradizione, proprio perché l’arbitrarietà del singolo elemento cromatico è primigenia, non passa, almeno virtualmente, attraverso nessuna denotazione statuita: è il divide come base fondamentale dell’impera, il distacco del colore dall’oggetto che ne fa da supporto a
far valere il singolo colore per se stesso e a fargli avere una funzione solo
attraverso la solidarietà con gli altri elementi della messa in scena.
Questo non vuol dire che correlazione o associazione tra colore e significato
non possa esserci, tuttavia «in arte non è la correlazione assoluta a decidere,
ma quelle correlazioni arbitrarie comprese nel sistema delle immagini dettato
da una particolare opera. Pertanto il problema non è e non sarà mai risolto da
un catalogo di colori simboli, ma la sensatezza emozionale e l’efficacia del
colore nasceranno dall’ordine vitale seguito nello stabilire la linea delle
immagini-colore dell’opera, secondo lo stesso processo formativo dell’immagine globale e del movimento vitale dell’opera intera»12.
La motivazione del colore, allo scopo di produrre quella “generalizzazione del
senso” per Ejzenštejn così importante, è sempre di ordine decostruttivo e
costruttivo insieme, come due tempi di uno stesso movimento.
Il quadro concettuale che il regista sovietico disegna è euristicamente radicale,
ma ciò non toglie che come linea metodologica e teorica la sua elaborazione
resti estremamente feconda, proprio per ciò che di essenziale sembra rilevare
nell’utilizzo del colore al cinema — la sua spinta eminentemente estatica, che
tende a dislocarlo fuori dalla forma che lo vorrebbe contenere — almeno in
quel cinema che va al di là (o resta al di qua) degli schemi associativi per arrivare alla dimensione drammatica del colore.
Ejzenštejn non poteva saperlo, ma sarebbe possibile cercare una verifica di
tale spinta nella fisiologia della percezione visiva: prima vediamo il colore, poi
la forma, poi il movimento.
In tale sequenza vengono attivate tre zone diverse della corteccia cerebrale
che sono almeno parzialmente in competizione tra loro13.
Questa postura del cinema contemporaneo non è una sua caratteristica esclusiva, per il semplice motivo che il colore in tutte le pratiche artistiche e nei
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discorsi su tali pratiche sembra non avere un suo linguaggio, ha semmai un
lessico. Il fatto che quest’ultimo sia spesso trattato in termini dinamici14 e non
statici costituisce tuttavia un indice importante, e sulla funzione del colore in
quelle pratiche e sul “pensiero cromatico” che in esse è consciamente o inconsciamente espresso: il colore sembra non tanto appartenere all’oggetto o al
soggetto percipiente, quanto essere un relais tra l’occhio e l’oggetto, catturati
entrambi da una relazione che li fa continuamente essere “sul punto di” divenire un’altra cosa: il concetto di estasi (ex-stasi) caro ad Ejzenštejn, ma anche
quello di incrocio tra lo sguardo e il mondo caro a Merleau-Ponty.
«Il colore è “il luogo dove s’incontrano il nostro cervello e l’universo” dice
Cézanne in quell’ammirevole linguaggio da artigiano dell’Essere che Klee
amava citare. È a vantaggio del colore che bisogna mandare in pezzi la formaspettacolo. Non si tratta dunque dei colori, “simulacri dei colori della natura”,
si tratta della dimensione del colore, che crea da se stessa a se stessa delle
identità, delle differenze, una struttura, una materialità, un qualche cosa...
Tuttavia una chiave segreta del visibile senza dubbio non esiste: non è certo
il solo colore, così come non lo è lo spazio. Il ritorno al colore ha il merito
di condurre un po’ più vicino al “cuore delle cose”: ma questo è al di là del
colore-involucro, così come dello spazio-involucro. Il Portrait de Vallier colloca
fra i colori dei bianchi, che avranno d’ora in poi la funzione di plasmare, di
ritagliare un essere più generale dell’essere-giallo o dell’essere-verde o dell’essere-blu — come negli acquerelli degli ultimi anni, lo spazio che si credeva l’evidenza stessa, e al cui riguardo il problema dove non si pone, s’irraggia intorno a piani che non sono in alcun modo assegnabili, “sovrapposizione di superfici trasparenti”, “movimento fluttuante di piani di colore che si ricoprono,
avanzano e indietreggiano”. Come si vede, non si tratta più di aggiungere una
dimensione alle due dimensioni della tela, di organizzare un’illusione o una
percezione senza oggetto la cui perfezione consisterebbe nel rassomigliare
il più possibile alla visione empirica. La profondità pittorica (come anche
l’altezza e la larghezza dipinte) viene da non si sa dove a posarsi, a germogliare sul supporto. La visione del pittore non è più uno sguardo su un
di fuori, relazione meramente “fisico-ottica” col mondo. Il mondo non è più
davanti a lui per rappresentazione: è piuttosto il pittore che nasce nelle cose
come per concentrazione e venuta a sé del visibile, e il quadro, infine, può
rapportarsi a una qualsiasi cosa empirica solo a condizione di essere innanzitutto “autofigurativo”; può essere spettacolo di qualche cosa solo essendo
“spettacolo di niente”, perforando la “pelle delle cose” per mostrare come le
cose si fanno cose, e il mondo mondo»15.
Colore come dimensione che «crea da se stessa a se stessa delle identità, delle
differenze, una struttura, una materialità, un qualche cosa...».
Sembra, qui, che il filosofo voglia modulare il proprio linguaggio su quello
dell’artista-artigiano dell’essere, sembra che desideri essere ugualmente e
produttivamente “impreciso”, soprattutto riguardo a quel “qualche cosa” di
cui il colore sarebbe la cifra o lo strumento per arrivare «un po’ più vicino
al “cuore delle cose”». Evidente in ogni caso la necessità di sfuggire alla
tentazione definitoria.
30
L’aspetto delle cose. Note sul colore nel cinema
Che lo si pensi come cifra, come mezzo o come vero e proprio “corpo-colore”, il
colore di cui parla Merleau-Ponty sfugge alle due dimensioni che Platone
chiedeva di distinguere: «quella delle cose limitate e misurate, delle qualità
fisse, sia permanenti sia temporanee, ma che sempre suppongono soste e
stati di quiete, costituzioni di presenti, assegnazioni di soggetti: un soggetto
dato ha una data grandezza, una data piccolezza»16 e un dato colore in un
tempo dato; dimensione che si oppone a «quella di un puro divenire senza
misura, vero divenire-folle, che non si arresta mai, nei due sensi contemporaneamente, che schiva sempre il presente, che fa coincidere futuro e passato,
il più e il meno, il troppo e il non-abbastanza nella simultaneità di una
materia indocile»17. Il colore tende a fuggire l’alternativa costituita da
queste dimensioni, cercando altre vie di esistenza. La composizione cromatica, quando non si tratta di tinta, di coloritura, non è un oggetto, non è solo
una predicazione oggettuale, ma un evento, o meglio: fa evento.
Il colore come mezzo del pittore e del cineasta per installarsi (e installarci)
all’interno del visibile e, nello stesso tempo, il colore come movimento costitutivo del visibile, sorgente della mondanità del mondo.
«— MARGARETHE: [...] ma vorrei distaccare nettamente il colore dal misterioso
regno dei sensi. Quanto più discendiamo in questo secondo regno (della ricettività sensoriale), cui non corrisponde alcuna capacità creativa, tanto più gli
oggetti di questo regno si fanno sostanziali e tanto meno i sensi possono limitarsi ad afferrare pure proprietà. Non è possibile coglierli in se stessi con un
atto puro e autonomo della mente, ma solo come proprietà di una sostanza.
Ma il colore nasce dal profondo della fantasia proprio perché non è altro che
proprietà, in nulla è sostanza o ad essa si riferisce. Del colore si può dire solo
che è proprietà non che abbia proprietà. Per questo chi non ha fantasia ne ha
fatto dei simboli. Nel colore l’occhio si rivolge allo spirituale, risparmiando
all’artista il cammino attraverso le forme della natura. Il colore dirige il
senso, attraverso la pura percezione, direttamente verso lo spirito, verso
l’armonia. Colui che vede si identifica con il colore, guardare un colore
significa affondare lo sguardo in un occhio estraneo che lo inghiotte dentro
di se, l’occhio della fantasia. I colori contemplano se stessi, in loro è il puro
vedere ed essi sono al tempo stesso l’oggetto e l’organo che lo percepisce.
Il nostro occhio è colorato. Il colore nasce dalla vista e colora il puro sguardo.
— GEORG: l’hai detto molto bene: nel colore appare l’essenza propriamente
spirituale dei sensi, il percepire; il colore, in quanto spirituale e immediato, è
la pura espressione della fantasia. Solo ora capisco cosa vuol dire la lingua
quando parla dell’aspetto (Aussehen) delle cose. Vuole indicare il viso
(Gesicht) del colore»18.
Il giovane Benjamin scrive del colore in modo singolare: una proprietà, una
predicazione senza oggetto, o meglio che tende a lasciare sul posto il proprio
oggetto; il colore si iscriverebbe in una forma solo nella sua tensione a debordarla. Con obiettivi, stili, pratiche diverse è quello che il grande cinema colorista ha tentato di fare in una ricerca che è lungi dall’essere terminata, una
ricerca virtualmente interminabile.
31
Marco Dinoi
Avremo allora almeno due macro-funzioni che il colore, per quegli autori che
possono essere intesi come coloristi (ma Diderot già diceva di poter fare l’elenco
di molti buoni disegnatori, e di poter contare pochi coloristi), condivide con
altre strategie del cinema contemporaneo: “vedere di più” — per esempio con
la saturazione cromatica, come in Dolls, in cui attraverso il colore si colgono
i legami tra i personaggi e tra i personaggi e il mondo, per accedere ad un vero
e proprio sguardo visionario; è l’intensità di cui parlava Barthes nella lettera
ad Antonioni:
«Un altro motivo di fragilità, è, paradossalmente, per l’artista, la fermezza e
l’insistenza dello sguardo. Il potere, qualunque esso sia, perché è violenza,
non può guardare: se guardasse un minuto di più (un minuto di troppo),
perderebbe la sua essenza di potere. Lui, l’artista, si ferma e guarda a lungo,
e posso immaginare che tu ti sei fatto cineasta perché la macchina da presa
è un occhio, obbligato, per predisposizione tecnica, a guardare. Quello che tu
aggiungi a tale predisposizione, comune a tutti i cineasti, è il modo radicale
di guardare le cose, radicale fino al loro esaurimento. Da una parte tu guardi a
lungo ciò che, dalla convenzione politica (i contadini cinesi) o dalla convenzione narrativa (i tempi morti di un’avventura), non ti era stato chiesto di guardare. Dall’altra parte il tuo eroe preferito è colui che guarda (fotografo o
reporter). Il che è pericoloso, perché guardare più a lungo del richiesto (insisto su questo supplemento d’intensità) disturba gli ordini stabiliti, quali che
siano, nella misura in cui, di solito, il tempo dello sguardo è controllato dalla
società; da cui, quando l’opera sfugge a tale controllo, la natura scandalosa di
certe fotografie e di certi film: non i più indecenti, ma semplicemente i più
“posati”.
L’artista è dunque minacciato, non solo dal potere costituito [...] l’attività
dell’artista è sospetta perché disturba il comfort, la sicurezza dei sensi stabiliti, perché è nello stesso tempo dispendiosa e gratuita [...] La nostra sorte è
incerta, e questa incertezza non ha un rapporto semplice con gli esiti politici
che possiamo immaginare per il disagio del mondo: essa dipende da questa
storia monumentale, che decide, in maniera pressoché inconcepibile, non più
dei nostri bisogni, ma dei nostri desideri»19.
“Vedere di più”, sarebbe allora la prima opzione; la seconda: “vedere di meno,
frapporre un’interferenza tra noi e il mondo” per dilatare il tempo della cognizione, dello sguardo e quindi riappropriarcene strappandolo ai cliché, alla
proliferazione iconica della “civiltà dell’immagine”. “Non è sangue, è rosso”,
diceva Godard, ma dobbiamo avere il tempo per divaricare il dato cromatico
da quello oggettuale-tematico. In entrambi i casi si tratta di mettere in
questione i concetti di oggettività e soggettività, proseguendo una strada che
il cinema ha tentato di esplorare sin dai suoi inizi: si tratta di soggettivizzare
la visione, smascherando ogni presunta oggettivazione trasparente (il cosiddetto villaggio globale) o di oggettivarla, sganciandola da uno sguardo che sia
appunto simulacro dell’uno, di uno sguardo atomizzato sul mondo, o localizzato in uno qualsiasi degli apparati-protesi della visione, fosse anche quello
cinematografico. Per Serge Daney è appunto questo uno dei compiti del
cinema che ci ri-guarda.
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L’aspetto delle cose. Note sul colore nel cinema
Una delle ipotesi da verificare sarebbe allora questa: che nel nucleo di quel
cinema colorista che non smette di essere narrativo ci sia un’ineludibile spinta
alla messa in questione del figurativo, di contraddizione e superamento del
rappresentativo, fosse anche a dispetto della sua sottomissione ultima alla
rappresentazione, alla potenza del continuum, al senso, un agente permanente
di spostamento? Già Balasz presentiva questo movimento: il cammino del
colore, il passaggio da un colore ad un altro mette l’accento sul processo: non
il pallore, ma l’impallidire.
Il colore come “proprietà pura”, dice Margarethe, qualcosa che può essere
percettivamente agganciato ad una cosa, come predicato della cosa stessa, ma
che nello stesso tempo tende ad abbandonarla, a farsi “percezione pura”
bastante a se stessa, e necessaria a riacquistare l'incanto del mondo e,
direbbe Deleuze, l'innocenza del divenire, oltre la funzione riconoscitiva
dell'oggetto e ben oltre quella simbolico-associativa di “chi non ha fantasia”.
Note
1. Vincent Van Gogh cit. in Sergej M.
Ejzenštejn, Cvet, Iskusstvo, Mosca, 1963-1970,
tr. it. di G. Bellezza et alii, in Pietro Montani
(a cura), Il colore, Marsilio, Venezia, 1982, p. 72.
2. A seconda dei diversi tempi che il film
mostra, incrociandoli, abbiamo diversi tipi di
rapporto: rapporti di valore (per esempio chiaro/scuro; rarefazione/saturazione...) e rapporti
di tonalità (per esempio caldo/freddo). Cfr. a
questo proposito Gilles Deleuze, Francis
Bacon. Logique de la sensation, tr. it. di S.
Verdicchio, Francis Bacon. Logica della sensazione, Quodlibet, Macerata, 1995, pp. 197-199.
Se si rendesse conto delle grandi differenze con
i problemi posti dalla pittura, questa potrebbe
essere una feconda direzione di ricerca per lo
studio del colore al cinema.
3. Gilles Deleuze, Cinéma 1. L’image-mouvement, Les Editions de Minuit, Paris 1983, trad.
it. di J. P. Manganaro, L’Immagine-Movimento,
Cinema 1, Ubulibri, Milano, 1984, p. 142.
4. Sergej M. Ejzenštejn, Il colore, cit., pp. 34 e
80.
5. Ivi, p. 62.
6. Ivi, p. 84.
33
7. Ivi, p. 83.
8. Roland Barthes, Cher Antonioni, in «Cahiers
du Cinéma», n. 311, marzo 1980, tr. it. di S.
Toni, Caro Antonioni, in S. Toffetti (a cura),
Sul Cinema, il melangolo, Genova, 1994, p. 172.
9. Pietro Montani, Introduzione a Sergej M.
Ejzenštejn, Il colore, cit., p. X-XI.
10. Maurizio Grande, Il cinema in profondità
di campo, a cura di Roberto De Gaetano,
Bulzoni, Roma, 2003, pp. 265 e 267.
11. Jacques Aumont, L’Œil interminable.
Cinéma et peinture, Nouvelle Editions Séguier,
1995, tr. it. di D. Orati, L’occhio interminabile.
Cinema e pittura, Marsilio, Venezia, 1991, pp.
166-167. A questo punto dovrebbe essere già
chiaro, ma forse vale la pena di sottolinearlo:
Kitano, ma prima di lui tutta una tradizione di
coloristi, da Minnelli ad Antonioni, starebbe a
dimostrare i limiti dell’affermazione di
Aumont: l’assetto “associativo”, che sia sclerotizzato o pensato ad hoc, “idiolettale”, è solo
uno tra quelli che il lavoro del cineasta sul colore può presentare. È lo stesso Aumont a cogliere efficacemente il gioco cromatico di Minnelli,
«la sua maniera di isolare colori, ostentati,
brutali, di intrecciarli sistematicamente, come
Marco Dinoi
una specie di risvolto, ancora più direttamente
sentimentale della storia raccontata» in Some
Come Running; «altrove in Yolanda the Thief,
in certi sketches di Ziegfield Follies, Minnelli
moltiplicherà le ambientazioni, azzurrate,
dorate, rossastre, marroni: “ambientazioni”,
vale a dire il primo grado di quel lavoro del
senso del colore di cui Ejzenštejn aveva posto
l’assioma», ivi, p. 138.
12. Sergej M. Ejzenštejn, Izbrannye proizvedenija v_esti tomach, Iskusstvo, Mosca, 19631970, tr. it. di AA.VV., Il Montaggio, a cura di
Pietro Montani, Marsilio, Venezia, 1986, pp.
176-177. A questo proposito Montani fa giustamente notare le implicazioni profonde delle
posizioni di Ejzenštejn in relazione alle figure
di rovesciamento e ambivalenza, facendo in
questo modo giustizia di alcuni luoghi comuni,
tanto approssimativi quanto difficili da estirpare, sul cosiddetto “montaggio sovrano” (v.,
per esempio, la reiterazione di tale approccio
trivializzante in AA.VV., Estetica del film,
Lindau, Torino, 1995, p. 53). Al contrario,
secondo quanto afferma Montani, «se è vero
[...] che il procedimento costruttivo del colore,
esattamente come un caso particolare di
montaggio, rompe l’ordine naturale delle cose
per ricostruirlo sotto un segno diverso, allora in
questo nuovo costrutto troverà comunque posto
l’idea di un rovesciamento: naturalmente tale
idea dovrà essere successivamente elaborata
[...] ma è fin d’ora chiaro che il processo di
formazione dell’ “ immagine-colore” (e cioè,
come dice Ejzenštejn, la capacità di pensare, o
meglio di “sentire” un tema in termini di colore) è un processo internamente segnato dalle
figure del rovesciamento e dell’ambivalenza.
Insomma l’ “ immagine-colore” non è solo l’organica realizzazione di un tema dal punto di vista
di una dominante cromatica (il che sarebbe
perfino ovvio e darebbe inevitabilmente luogo a
quei cataloghi di correlazioni che Ejzenštejn
non perde occasione di respingere drasticamente), ma è anche il risultato di un processo
nel corso del quale allo stesso contenuto di
pensiero è restituita la possibilità di essere
pensato o sentito come alcunché di ambivalente», Pietro Montani, cit., p. XVI.
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13. Cfr. Semir Zeki, Inner Vision, An
Exploration of Art and the Brain, Oxford
University Press, Oxford-New York, 1999, tr.
it. di P. Pagli e G. De Vivo, La visione dall’interno, Bollati Boringhieri, Torino, 2003, soprattutto capp. 16 e 18.
14. Ecco un esempio analizzato da Marc Le
Bot: Figure Standing at a Washbasin, opera di
Francis Bacon del 1976, «è come un relitto
trascinato da un fiume di colore ocra, con
gorghi e una scogliera rossa, il cui doppio effetto spaziale è probabilmente di restringere
localmente e trattenere per un istante l’espansione illimitata del colore, in modo tale che
questa ne risulti rilanciata e accelerata. Lo
spazio dei quadri di Francis Bacon è così attraversato da larghe colate di colore. Se lo spazio
è qui paragonabile a una massa omogenea e
fluida nella sua monocromia, spezzata però da
frangenti, il regime dei segni non può dipendere da una rigida geometricità. In questo quadro
il regime dei segni dipende invece da una dinamica che fa scivolare lo sguardo dall’ocra chiaro al rosso. Per questa ragione può esservi
iscritta una freccia di direzione», citato in
Gilles Deleuze, Francis Bacon. Logica della
sensazione, cit., pp. 213-214.
15. Maurice Merleau-Ponty, L’Œil et l’Esprit,
Gallimard, 1964, tr. it. di A. Sordini, L’occhio e
lo spirito, SE, Milano, 1989, pp. 48-49.
16. Gilles Deleuze, Logique du sens, Les
Editions de Minuit, Paris, 1969, tr. it. di M. De
Stefanis, Logica del senso, Feltrinelli, Milano,
1975, p. 9.
17. Ivi.
18. Walter Benjamin, L’arcobaleno, da
Gesammelte Schriften, trad. it. parziale,
Metafisica della gioventù, a cura di Giorgio
Agamben, Einaudi, Torino, 1982, pp. 154-155.
19. Roland Barthes, op. cit., pp. 174-175.