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Silvia Vettori – Teoria generale del diritto
TEORIA GENERALE DEL DIRITTO
PARTE PRIMA
SEQUENZA NORMATIVA
Il fenomeno terroristico in Italia affonda le proprie radici nella fine degli anni ’60 , il 12 dicembre 1969 si ha
la strage di Piazza Fontana di Milano che inaugura la stagione del terrorismo stragista è da gran parte della
dottrina annoverata ad episodio di esordio della stagione dei cd. anni di piombo; anche se la violenza
cosiddetta politica cresce e si consolida nei primi anni 70, caratterizzandosi per notevoli dimensioni e
inadeguatezza di ogni risposta giuridico-sanzionatoria. Il 1972 vede cadere sotto il fuoco proletario Luigi
Calabresi, giovane funzionario di polizia della questura di Milano, 4 sequestri di persona di matrice ideologia
(Idalgo Macchiarini dirigente Sit Siemens, Bruno Labate sindacalista Cisnal, Michele Mincuzzi dirigente
dell’Alfa Romeo e Ettore Amerio dirigente Fiat) e l’omicidio di Giuseppe Mazzola e Graziano Giralucci due
simpatizzanti della destra politica.
Il primo vero e proprio scossone istituzionale si ebbe nel 1974 con il sequestro di Mario Sossi, sostituto
Procuratore della Repubblica di Genova, episodio criminoso di primaria importanza sia per la peculiarità
della qualifica soggettiva della vittima sia per il disorientamento politico-giuridico che contraddistinse la fase
della prigionia e del ricatto. Sossi fu sequestrato il 18 aprile e il 24 venne formulata la richiesta, quale prezzo
della liberazione, della scarcerazione di 7militanti del gruppo XXII ottobre detenuti per il sequestro di Sergio
Gadolla. I sequestratori ottennero la concessione della libertà provvisoria subordinata alla condizione che
fosse assicurata l’incolumità e la liberazione di Sossi. Tuttavia l’efficacia della concessione della libertà
provvisoria, per iniziativa ex officio dalla Corte d’Assise d’Appello di Genova, viene sospesa a causa
dell’impugnazione di fronte alla Corte di Cassazione da parte del procuratore Generale Francesco Coco,
ucciso nel 1976. Il 23 maggio Sossi fu liberato dai suoi rapitori.
In tale occasione vi fu la prima reazione normativa alle insidie del fenomeno terroristico con la L. 497/1974
con la quale fu:
1. aumentata la cornice edittale sanzionatoria delle ipotesi base ed aggravata del delitto di sequestro di
persona a scopo di estorsione e
2. inserita una circostanza attenuante ad effetto speciale per l’ipotesi dell’attività finalizzata al
riacquisto della libertà per il soggetto passivo senza il pagamento del prezzo della liberazione
Tuttavia non era contemplata in alcun modo la rilevanza penale autonoma della categoria concettuale della
finalità di terrorismo, quale specifica caratterizzazione della condotta delittuosa, nonostante l’esordio degli
anni ’70 mostrasse un fenomeno delittuoso non immediatamente riconducibile agli schemi tipici del nostro
sistema penale. La ripetizione di accadimenti criminali in grado di importanti effetti destabilizzanti iniziava a
diffondere l’idea che si stava formando un fenomeno delittuoso sostanzialmente nuovo.
La prima scelta interessante di politica criminale fu la L. 152/1975 “legge Reale” la quale si sostanziò in un
intervento legislativo che non incise in alcun modo sui meccanismi sanzionatori e repressivi, avendo ad
oggetto la sola prevenzione speciale ante delictum, ossia misure restrittive della libertà personale e
patrimoniale, di natura amministrativa, irrogabili prima e a prescindere dalla commissione di fatti
penalmente rilevanti, a carico di soggetti considerati socialmente pericolosi, sulla base di un giudizio
probabilistico circa la futura commissione di atti criminosi, allo scopo di evitarne la commissione. Consiste
nell’applicazione di misure di natura personale (sorveglianza speciale di pubblica sicurezza, obbligo e
divieto di soggiorno) e di natura patrimoniale (sequestro, confisca dei patrimoni di sospetta provenienza
illecita, cauzione). La legge in questione estese l’applicabilità delle misure di prevenzione antimafia della L.
575/1965 in materia di reati di mafia a determinati soggetti sospettabili di pericolosità sociale sul versante
della delinquenza sovversiva.
I soggetti cui viene estesa la disciplina sono elencati all’art.18 come coloro i quali:
1. operanti singolarmente o in gruppo pongono in essere atti preparatori obiettivamente rilevanti, diretti
a sovvertire l’ordinamento dello Stato con la commissione di delitti contro l’incolumità pubblica di
comune pericolo tramite violenza, compresi tra strage e rimozione od omissione dolosa di cautele
contro gli infortuni sul lavoro, o delitti di insurrezione armata contro i poteri dello Stato,
devastazione, saccheggio, strage con finalità di attentato alla sicurezza dello Stato, guerra civile,
banda armata, epidemia, avvelenamento di acque o sostanze alimentari, sequestro di persona anche a
scopo di estorsione. In sostanza si tratta di delitti contro la personalità dello Stato o che avevano già
dimostrato la loro idoneità ad essere politicamente condizionanti;
2.
hanno fatto parte di associazioni politiche disciolte a norma della legge di attuazione della XII disp.
trans. Costituzione che vieta, sotto qualsiasi forma, la riorganizzazione del disciolto partito fascista;
3. compiono atti preparatori obiettivamente rilevanti diretti alla ricostituzione del partito fascista, in
particolare con l’esaltazione o la pratica della violenza.
4. sono stati condannati per delitti in materia di controllo delle armi quando, per il comportamento
successivo, si possano considerare proclivi a commettere un reato della stessa specie, sempre col fine
indicato al num. 1;
L’ambito della soggettività è altresì esteso a: istigatori, mandanti (visti come concorrenti nel reato),
finanziatori (coloro che forniscono somme di denaro o altri beni, con la consapevolezza dello scopo cui sono
destinati) delle suddette condotte.
L’art 18 indica inoltre i criteri normativi fondativi del sospetto di pericolosità sociale: per i soggetti di cui al
num. 1. e 3. si tratta di atti preparatori obiettivamente rilevanti diretti alla commissione di uno dei reati
specificamente indicati. In particolare rileva la distinzione tra atti preparatori ed esecutori, laddove i primi
sono appunto quelli che ancora non hanno raggiunto la soglia della fase esecutiva in senso penalistico
(altrimenti sarebbero applicabili le fattispecie penali). Il rischio è che le misure preventive possano spingersi
a colpire delle mere risoluzioni o tendenze soggettive, ma sarà necessario che tali atti o fatti abbiano
rilevanza oggettiva , per questo la norma esige che tali atti comportino la modificazione obiettiva dello stato
dei fatti e delle cose, in vista della commissione del reato.
Per i soggetti di cui al num. 1 gli atti devono essere posti in essere con un duplice fine:
sovvertire l’ordinamento dello Stato,
- commettere uno dei reati specificatamente indicati.
Si è discusso se tale direzione finalistica debba essere intesa:
- in senso oggettivo porrebbe il problema della difficile tracciabilità della linea di confine tra le misure
preventive e talune ipotesi incriminatici contro la personalità dello Stato;
- in senso soggettivo, appare preferibile anche se tale ricostruzione richiede un grado di realizzazione
talmente prossimo alla consumazione del reato da far cadere il senso stretto delle misure preventive,
anche se questo può in effetti porre nel rischio di andare a colpire dei semplici sospetti.
Si è discusso inoltre se il sovvertimento dell’ordine dello stato debba interpretarsi:
- in senso stretto, come mutamento dell’assetto costituzionale (è la soluzione preferita)
- in senso lato, come semplice alterazione dei rapporti politici ed economico-sociali; in questo senso la
fattispecie preventiva verrebbe ad assumere dimensioni indeterminate e quindi potenzialmente
troppo ampie.
La fattispecie preventiva degli atti preparatori appare integrata quando concorrono:
a) un requisito negativo: tali atti non devono aver raggiunto la soglia di incriminabilità di un delitto o di
un tentativo punibile;
b) due requisiti positivi:
piano soggettivo: scopo criminoso diretto alla sovversione politica mediante volontà di
commissione di uno dei reati descritti dalla norma
piano oggettivo: realizzazione di atti obiettivamente costituenti condizione o facilitazione al
perseguimento dello scopo previsto.
La previsione dell’art. 18 non stabilisce una presunzione di pericolosità sociale nei confronti delle categorie
di persone ivi indicate: è necessario il previo accertamento in concreto della pericolosità del soggetto.
La L. 575/1965 utilizza, per identificare la pericolosità del soggetto alcuni criteri interpretativi:
- scelta ideologica manifestata;
- fattiva partecipazione all’organizzazione eversiva secondo i canoni di clandestinità, omertà e
violenza;
- mancanza di fatti successivi che dimostrino la scomparsa dei fattori precedenti.
L’art. 18 della L. 152/1975 è stato ritenuto scevro da profili di incostituzionalità, afferenti l’uso di una
nozione, quale quella di atti preparatori, eccessivamente generica ed evanescente. La Corte costituzionale ha
ritenuto che tale nozione, se correttamente intesa, risulti sufficientemente determinata: atti non ancora
esecutivi di una fattispecie criminosa ma che, a partire dalla prima manifestazione esterna del proposito
delittuoso, predispongono i mezzi o creano le condizioni per il delitto, che abbiano quindi carattere
strumentale rispetto alla realizzazione non ancora iniziata di un atto delittuoso.
Silvia Vettori – Teoria generale del diritto
Alla prigionia di Aldo Moro, il legislatore reagì con il d.l. 59/1978, convertito in l. 191/1978 nel quale per la
prima volta, in relazione alla figura di reato del sequestro di persona a scopo di terrorismo o di eversione
dell’ordine democratico, fu inserita nella legislazione penale la nozione di terrorismo.
Il decreto legislativo contiene:
- norme processuali afferenti all’abrogato codice del 1930 in materia di richieste di atti ed
informazioni a fini preventivi da parte dell’autorità giudiziaria e del ministro dell’interno; sommarie
informazioni assunte in assenza del difensore; intercettazioni telefoniche e giudizio direttissimo
- l’ introduzione del fermo di pubblica sicurezza laddove il fermato rifiuti di declinare le proprie
generalità ovvero ricorrano sufficienti indizi afferenti la falsità dell’identità personale dichiarata o
dei documenti esibiti;
Con l’art. 1 viene previsto all’art. 420 cp il delitto di attentato ad impianti di pubblica utilità, in luogo del
precedente delitto di pubblica intimidazione col mezzo di materie esplodenti. L’esigenza dell’introduzione di
tale delitto risaliva ad un disegno di legge del 1977 ma l’incriminazione fu ricondotta al novero delle
necessità di contrasto del montante fenomeno terroristico poiché tali strutture potevano assurgere con grande
facilità ad obiettivo di azioni di vandalismo per mettere a repentaglio la tranquillità della convivenza sociale.
Con l’art 2 viene introdotto il delitto di sequestro di persona a scopo di terrorismo od eversione dell’ordine
democratico nel nuovo art. 630 cp, che con la conversione diventa autonomamente previsto al 289 bis.
Con l’art.3 viene introdotto al 648 bis il delitto di riciclaggio, sulla base di un disegno di legge già del 1977
per la repressione delle forme di criminalità finalizzate a far fruttare i ricavi dei delitti di rapina aggravata,
estorsione aggravata e sequestro di persona a scopo di estorsione.
Con l’art. 12 viene previsto il nuovo illecito della mancata denuncia di cessione del fabbricato, punita con
arresto e ammenda, per chiunque a qualsiasi titolo in previa disponibilità di un immobile non comunichi alla
locale autorità di pubblica sicurezza nel termine di 48 ore l’avvenuta cessione a terzi della disponibilità dello
stesso. In sede di conversione viene degradata ad illecito amministrativo.
Attraverso l’introduzione dell’art. 289 bis cp, la nozione di terrorismo e di eversione dell’ordine
democratico fecero ingresso nella legislazione penale italiana, e pur tuttavia in una condizione di emergenza
istituzionale e non preceduta da una coerente ed approfondita elaborazione concettuale del nuovo fenomeno
delittuoso incriminato.Le ragioni che ne avevano determinato l’introduzione tuttavia erano già tutte presenti
sul piano dell’esperienza con sufficiente chiarezza: violenza, politica e spietatezza ma ciò che mancava era
una coerente elaborazione giurisprudenziale e dottrinale della fattispecie.
Il d.l. 625/1979, cd. Decreto Cossiga, fu emanato sull’onda del disagio emotivo conseguente al sequestro, ad
opera del gruppo terroristico Prima linea di oltre duecento persone all’interno dell’Istituto di
amministrazione aziendale Fiat La Valletta, conclusosi con la pubblica gambizzazione di dieci persone.
Venne creato un corpus normativo fortemente innovativo, caratterizzato da nuove linee di tendenza:
- enucleazione dei reati con finalità specifica terroristico-eversiva onde predisporre per essi un
trattamento sanzionatorio e processuale peculiare;
- aggravamento della metrica sanzionatoria, anche attraverso la formulazione di nuove tipologie di
reato;
- creazione di aree di attenuazione della pena o di non punibilità per le condotte di dissociazione;
- rafforzamento dei poteri della polizia giudiziaria e dell’autorità di pubblica sicurezza;
- circoscrizione della libertà dell’imputato sia in fase investigativa che processuale.
Vengono introdotti:
all’art.1 una nuova circostanza aggravante;
all’art.2 e 3 due nuove ipotesi criminose ex artt. 270 bis e 280 cp.;
all’art.4 una circostanza attenuante ad effetto speciale per il concorrente che, in relazione ad un delitto con
finalità di terrorismo, dissociandosi dagli altri, si adoperi per evitare l’attività delittuosa o aiuti l’autorità di
polizia nella cattura dei concorrenti;
all’art.5 una causa di non punibilità per le condotte di dissociazione ogniqualvolta il colpevole abbia
impedito l’evento e abbia indicato elementi per l’individuazione dei concorrenti. Questa scelta entro ben
presto come prototipo delle scelte seguenti:
- con la l.894/1980 il modello premiale entro a far parte della nuova disciplina sanzionatoria del
delitto del sequestro di persona a scopo di estorsione;
- con la l.304/1982, legge sui pentiti, si introdusse per la prima volta la distinzione tra dissociazione
(condotta di chi avesse confessato i reati commessi e si fosse adoperato per attenuare le
conseguenze) e collaborazione processuale (condotta di chi avesse aiutato l’autorità di polizia per la
cattura di autori di reati con finalità terroristiche);
- con la l.34/1987, legge sulla dissociazione, si definì come dissociazione dal terrorismo la condotta di
chi, imputato o condannato per reati terroristici, avesse abbandonato l’organizzazione, ammesso le
attività svolte e tenesse un comportamento oggettivamente incompatibile con il permanere del
vincolo associativo ripudiando la violenza come metodo di lotta politica.
Tali disposizioni sono oggi sostanzialmente inapplicabili in quanto la l.304/82 e la l.34/87subordinavano
l’applicazione delle misure ai reati commessi prima della loro entrata in vigore;
all’art.6 un nuovo fermo praeter delictum fino alle 48 ore in relazione ad attività di prevenzione dei reati;
infine agli artt.7-11,14 catture obbligatorie e libertà provvisoria, perquisizioni, blocchi di edifici, termini di
custodia cautelare, sequestri, esame di atti e corrispondenza, carcerazione per i reati del personale di pubblica
sicurezza , identificazione obbligatoria per movimenti finanziari di una certa rilevanza.
Nel panorama della legislazione antiterrorismo il d.l. diviene il cardine della legislazione di emergenza.
CONCETTO DI “TERRORISMO”
La mancanza di una pregressa elaborazione concettuale di riferimento determinò la consapevolezza che la
finalità di terrorismo non esprimeva un concetto chiaro ed univoco cosicché della medesima potevano essere
date le interpretazioni più disparate.
Le prime elaborazioni dottrinali sul punto furono costrette ad indagare i contributi in materia provenienti da
altre scienze sociali, quali criminologia e sociologia secondo le quali le molteplici descrizioni del fenomeno
terroristico presentavano tutte dei tratti distintivi comuni:
- lotta politica come finalità;
- violenza quantitativamente e qualitativamente molto invasiva;
- efferatezza dell’azione idonea a spargere panico e disorientamento generalizzato all’interno di una
comunità tramite spietatezza nell’esecuzione, potenzialità aggressiva dei mezzi utilizzati e disprezzo
per qualsivoglia presidio difensivo e l’amplificazione degli effetti tramite la ricerca della massima
pubblicità e risonanza delle azioni delittuose presso i mezzi di comunicazione di massa.
Tuttavia vi erano alcuni fenomeni, anche di massa, coevi al sorgere della questione giuridica sul terrorismo,
di difficile collocazione. Sul piano soggettivo cominciarono ad essere tracciate delle linee di confine,
tutt’altro che definite, rispetto a quelle forme di criminalità politica di matrice non terroristica, generalmente
definite anarchiche, come ribellioni solitarie o di piccoli gruppi, essenzialmente dimostrative e molto meno
pericolose. Sul piano obiettivo le manifestazioni specifiche della criminalità organizzata (estranee dalla
criminalità politica), dimostravano una capacità di utilizzo di mezzi violenti ed una idoneità offensiva così
insidiosa da essere in grado di intimorire la collettività.
La ricerca di un profilo di analisi giuridicamente più puntuale, porta ad evidenziare due elementi nuovi:
- durevolezza degli effetti della condotta criminosa nei confronti dell’assetto sociale, tale elemento in
realtà rilevava non appare innovativo stagliandosi sull’insidiosità della condotta;
- qualità soggettive della persona offesa dal reato, infatti l’esperienza italiana ha visto consumarsi una
pluralità di delitti nei confronti di soggetti appartenenti alle Istituzioni.
Tale secondo elemento non appare dirimente sul versante classificatorio poiché il tenore letterale dei disposti
normativi non vi fa riferimento, infatti nel delitto ex 289 bis e dal d.l. 625/79 non emerge una specifica
qualifica soggettiva della vittima del reato a scopo di terrorismo o eversione, anche se in effetti essa è
prevista all’art 1 lett. c) della Convenzione europea per la repressione del terrorismo, ratificata dall’Italia nel
1985, creata al fine di favorire la cooperazione giudiziaria che non venga ostacolata da veti all’estradizione
sulla base della natura politica dei delitti commessi: sono espressamente annoverati tra i delitti terroristici i
reati gravi che comportano un attentato alla vita, all’integrità fisica o alla libertà di persone che godono della
protezione internazionale con ciò implicitamente riconoscendo una singolare rilevanza della qualifica
soggettiva della vittima del reato. La rilevanza nella fattispecie delle qualifiche personali della vittima
finirebbe però per limitarne la portata, stante che molti sequestri che si sono succeduti negli anni non hanno
colpito soggetti politicamente rilevanti, come ad es. il rapimento di Emanuela Orlandi, figlia di un
dipendente civile della Casa Pontificia della Città del Vaticano.
La dottrina ha quindi individuato una quadruplice classificazione dei modelli di atto terroristico:
1. terrorismo punitivo: il criminale dirige la propria azione contro soggetti la cui eliminazione o lesione
può apparire come un atto di giustizia sommaria, normalmente uomini delle istituzioni o che si sono
macchiati di dissociazione dalla lotta armata o di collaborazione processuale;
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2. terrorismo selettivo: sono coinvolti più soggetti passivi, selezionati non per la loro rilevanza
individuale ma per la loro natura di obiettivo collettivo come nel caso La Valletta (vd anche 11-09);
3. terrorismo indiscriminato: colpisce senza differenziazione ed è mirato a determinare una situazione
di incertezza sociale assoluta;
4. terrorismo rivoluzionario: connota la pratica terroristica come strumentale rispetto all’obiettivo della
provocazione di un processo rivoluzionario, si presenta come una vera e propria strategia della
guerriglia per la conquista dello Stato. si distingue dalle precedenti per l’esaltazione della sua
funzione politica strumentale, ben potendosi poi sviluppare in concreto attraverso condotte materiali
riconducibili alle tre ipotesi precedenti.
Si può effettuare inoltre ulteriori distinzioni:
1. Distinzione sulla base della pratica terroristica:
- tattica: l’azione terroristica è concepita come azione di fiancheggiamento non esauriente di una ben
più ampia e complessa situazione di lotta;
- strategica: il terrorismo viene posto in essere in conseguenza di un giudizio di valore che esclude
qualsiasi alternativa tecnica di lotta politica
2. Distinzione sulla base della direzione dell’azione terroristica:
- finalistica: concepita come autosufficiente ed esclusiva e quindi coinvolgente tutte le fasi della lotta
politica, sino al conseguimento dell’obiettivo perseguito con la scelta terroristica
- strumentale: indirizzata non al successo diretto bensì ad innescare, a mo’ di detonatore, un
meccanismo, un processo politico a catena successivamente idoneo, autonomamente, a realizzare
l’obiettivo politico perseguito
L’idea fondamentale, al di là di queste classificazioni principalmente di tipo descrittivo, resta quella di
un’azione politica, violenta e spietata, dimostrativa di un assoluto disprezzo per i beni giuridici protetti
dall’ordinamento, tale da generare il panico della collettività, le cui finalità si affermano nel proposito di far
valere attraverso atti di violenza delle vere e proprie istanze di tipo politico, differentemente ad es. dal delitto
anarchico il quale, essendo posto in essere da pochi individui isolati, appare inidoneo al sovvertimento del
sistema politico con un notevole deficit di pericolosità rispetto al delitto terroristico.
EVERSIONE DELL’ORDINE DEMOCRATICO
Per ordine democratico si intende il complesso di principi ed istituti attraverso i quali si esprime la forma
democratica dello stato secondo la Cost. e la sua disciplina di coesistenza tra libertà individuali e collettive.
L’esegesi del lemma era facilitato dalla scelta già precedentemente operata con la l. 191/1978 di collocare il
289 bis nella medesima sezione dell’art 283, che incrimina l’attentato alla Costituzione, implicitamente
sostenendo con democrazia l’insieme delle strutture dell’ordinamento costituzionale.
Il termine eversione richiama ogni forma di rovesciamento violento dell’ordine costituzionale o comunque
posto in essere al di fuori delle regole che presiedono alla modificazione degli assetti istituzionali.
Tali scelte giustificano la scelta della l. 304/82 di interpretazione autentica dell’espressione eversione
dell’ordine democratico nel senso di “eversione dell’ordinamento costituzionale”.
Analogamente la giurisprudenza ha fatto propria una nozione di ordine democratico che va a riferirsi
all’ordinamento costituzionale, vale a dire a quei principi fondamentali che formano il nucleo intangibile
destinato a contrassegnare la specie di organizzazione statale, che emerge in particolar modo dai primi 5
articoli della Cost. e che ha come norma chiave quella dell’art 2. Pertanto per connotare una condotta come
eversiva non è sufficiente fare riferimento al solo dato dell’azione politica violenta, essendo necessario che
tale azione si indirizzi al sovvertimento dell’assetto costituzionale esistente ovvero si sostanzi nell’uso di
ogni mezzo di lotta politica che tenda a rovesciare il sistema democratico previsto dalla Cost., o nella
disarticolazione delle strutture dello Stato o nella deviazione dai principi fondamentali che lo governano.
La sovversione antidemocratica è l’elemento caratterizzante ogni condotta a matrice eversiva.
Resta tuttavia da definire se il rapporto tra terrorismo e eversione sia caratterizzato da:
- duplicità della finalità
L’attività terroristica e l’attività eversiva possono sostanziarsi in fenomeni differenti, tanto da poter essere
analizzati in modo indipendente e il fatto che il legislatore abbia inteso coniugarli in questa fattispecie con la
congiunzione “o” dimostrerebbe che si tratta di fenomeni e nozioni separate e distinte.
La finalità di terrorismo non sempre si accompagna ad intenzioni eversive dell’ordinamento costituzionale
come quando lo scopo di spargere il terrore non è necessariamente inteso come funzionale ad un processo
politico rivoluzionario e parimenti quando per il perseguimento di un obiettivo eversivo non sia ritenuto
essenziale lo spargimento del terrore. Es. sono: terrorismo c.d. economico-sociale diretto solo contro le
principali strutture produttive di un paese e disinteressato al rovesciamento dell’ordine costituzionale dello
stesso; terrorismo ecologico in cui la finalità eversiva appare del tutto assente. Alla stessa stregua possono
essere portate ad es. ipotesi di condotte con chiara matrice eversiva e tuttavia svincolate dall’uso di violenza
terrorizzante come il sabotaggio delle banche dati.
Tale prospettiva si sostanzia in una sorta di proposta di separazione degli elementi classificatori più volte
richiamati: violenza come metro della sussistenza della finalità di terrorismo e matrice politica come
parametro della finalità di eversione.
Altra tesi a favore della duplicità è quella che vede terrorismo ed eversione come caratterizzati egualmente
dall’uso della violenza in posizione strumentale ma la violenza caratterizzante l’atto terroristico non è di
massa bensì di dimensioni individuali, mentre l’eversione è di massa, diffusa e generalizzata.
La giurisprudenza parimenti sostiene la tesi della duplicità della finalità di terrorismo o di eversione, in
quanto dati concettualmente differenti e indipendenti: l’azione terroristica è normalmente avvinta da un
nesso di strumentalità al fine eversivo ma tale rapporto non è prospettabile in ogni caso.
Tuttavia configurano due ipotesi di un’unica aggravante: la finalità di terrorismo si esaurisce in quella di
incutere terrore nella collettività per scuotere la fiducia nell’ordine costituito ed indebolirne le strutture;
la finalità di eversione si identifica nel fine più diretto di sovvertire l’ordinamento costituzionale e di
travolgere definitivamente l’assetto democratico dello stato disarticolandone le strutture, impedendone il
funzionamento e deviandolo dai suoi principi fondamentali. Pertanto non potrebbe escludersi l’ipotesi di una
condotta terroristica che non si accompagni a scopi di destabilizzazione dell’ordine costituzionale o di
delinquenza eversiva che prescinda dalla diffusione del terrore.
D’altra parte quest’affermazione non pare del tutto condivisibile, posto che in effetti l’elemento “fine
politico” della condotta fa parte di un genus molto più ampio della species in cui si colloca la protezione
dell’ordine costituzionale dello stato italiano, tanto che nel momento in cui viene a mancare la volontà
eversiva nei confronti di quest’ultimo non si può necessariamente dedurre che venga per questo anche a
mancare il primo. Il principio di diritto in esame venne esplicitato nella sentenza in relazione alla vicenda del
dirottamento della motonave Achille Lauro da parte del Palestine Liberation Front nel 1985 che determinò il
sequestro dei passeggeri e dell’equipaggio e finì con il ferimento di un marinaio e l’omicidio di un cittadino
statunitense di origine ebraica. La finalità politica dei sequestratori era indirizzata ad ottenere la liberazione
di una cinquantina di detenuti palestinesi in terrà d’Israele, è palese che non ci fosse un fine diretto di
sovversione dell’ordinamento costituzionale dello Stato italiano, ma parimenti non si può negare né il fine
politico dell’azione né l’effetto destabilizzante in concreto ottenuto, senza menzionare il fatto che lo
scorporamento dei due fini avvenne proprio strumentalmente all’inquadramento del reato nella fattispecie ex
289 bis.
- unitarietà della finalità
Un’altra dottrina, minoritaria, giunge a conclusioni differenti: la collocazione dell’art. 289 bis tra i delitti
contro la personalità interna dello Stato, subito dopo l’art. 289 (= attentato contro organi costituzionali e
assemblee regionali) ed in prossimità dell’art. 283 (= attentato contro la costituzione dello Stato) suggerisce
una notevole affinità, se non addirittura identità dell’oggetto della tutela penale, ossia l’ordinamento
costituzionale dello Stato. Alla finalità di terrorismo non può assegnarsi una rilevanza autonoma rispetto a
quella caratterizzante il fine eversivo dell’ordine democratico: l’atto terroristico è una forma violenta
dell’attività eversiva, strumentale all’obiettivo della trasformazione illegale dell’ordinamento costituzionale
dello Stato. L’attività terroristica, anche quando non finalizzata direttamente o esclusivamente all’eversione
dell’ordine democratico, reca sempre con sé un effetto destabilizzante, che si concreta in una forma di
eversione. La specificazione adottata dal legislatore di far riferimento sia alla finalità terroristica che a quella
eversiva assume un valore meramente esemplificativo.
Un’ulteriore posizione dottrinale, facendo ricorso ai principi ermeneutici interni al sistema della legge,
giunge ad identico approdo ricostruttivo: l’art 270bis incriminava l’associazione con finalità di terrorismo
‹e› di eversione dell’ordine democratico descrivendo come specifica finalità quella del compimento di atti di
violenza con fini di eversione dell’ordine democratico, esplicitamente dunque evidenziando la
sovrapposizione tra le supposte due finalità e la strumentalità del terrorismo al fine dell’eversione.
La finalità terroristico-eversiva descritta dall’art.270bis era unica con la conseguenza di considerare
inapplicabile la circostanza attenuante della condotta dissociativa, la causa di non punibilità ex art. 5 nel caso
in cui il soggetto attivo si fosse impegnato ad impedire l’evento e i termini di custodia preventiva ex art. 10.
Tuttavia lo stesso autore, Vigna, ha successivamente rivisto la sua tesi, sostenendo che il fine politico
eversivo debba riferirsi al solo ordinamento costituzionale dello Stato, mentre quello terroristico abbia una
valenza politica in senso più ampio.
Silvia Vettori – Teoria generale del diritto
Esiste una pronuncia giurisprudenziale che sembra far propria la tesi della finalità terroristico-eversiva come
unica, descrivendo la finalità di terrorismo come sussistente solo laddove funzionale a far valere delle istanze
di natura politica. La pronuncia aveva ad oggetto l’esclusione dell’aggravante ex art. 1 l.625/1979 per
l’ufficiale di polizia infiltrato a fini di smantellamento di un gruppo terroristico che si era reso colpevole di
attentati dinamitardi. La corte di legittimità escluse l’aggravante poiché il fine era quello di assicurare i
colpevoli alla giustizia e non poteva essere compatibile quello antitetico di eversione dell’ordine
democratico.
La giurisprudenza dominante si è assestata sulla soluzione della finalità terroristico – eversiva come duplice;
la finalità di terrorismo e quella di eversione vengono descritte in modo autonomo l’una dall’altra.
D.L. 625/1979
Art. 1 co. 1 assume i tratti di una norma di chiusura, residuale, corrispondente all’esigenza di sanzionale
tutte le ipotesi di terrorismo. Si tratta di un’aggravante comune applicabile a tutti i reati punibili con pena
diversa dall’ergastolo, ad effetto speciale e rigida in relazione all’aumento fisso della pena della metà. È
descrittiva di un dolo specifico ed appartenente alla dimensione psichica del soggetto agente. Si tratta di una
circostanza tendenzialmente soggettiva, ma tale fine specifico non può esaurirsi in un dato prettamente
interiore ma deve essere calato nell’ambito della tipicità coinvolgendo un giudizio obiettivo di idoneità
strumentale della condotta rispetto allo scopo che l’agente vuole perseguire.
Pertanto risulta più consona la definizione di aggravante teleologica, che sussiste sia quando l’agente
soggettivamente voglia porre in essere una condotta che persegua il fine del terrore o dell’eversione sia
quando tale intenzione risulti sussistente alla stregua di un riscontro obiettivo in un comportamento
materialmente offensivo. Tale aggravante non si estende ai concorrenti e può essere applicata solo quando
non sia considerata elemento costitutivo di una particolare figura criminosa, sia esplicitamente presente (artt.
270 bis, quater, quinquies, 280, 289 bis cp), sia quando non sia espressamente richiamata dal disposto
normativo (come ad es. l’incriminazione dell’art. 283cp).
La circostanza è compatibile, oltre che con il reato doloso, anche con il reato colposo alla luce sia del
contenuto di disvalore che il legislatore riconduce all’aggravante in esame, sia alla lettera della legge che,
facendo riferimento a tutti i reati quali potenziali destinatari dell’aggravio coinvolge altresì le
contravvenzioni nella generalità dei casi punibili a titolo di colpa.
Quanto all’ammissibilità dell’aggravante al delitto tentato in dottrina si parla di tentativo circostanziato, cioè
quello in cui il delitto pur fermatosi ad uno stadio di tentativo veda integralmente posti in essere gli elementi
costitutivi della circostanza. L’art.1 inserendosi nella cornice dell’elemento psichico può attingere anche il
delitto arrestatosi allo stadio del tentativo nel quale la direzione dell’azione è già preventivamente disposta.
Art. 1 co. 2 in caso di concorso di più circostanze aggravanti è obbligatorio l’aumento fisso di metà della
pena in via pregiudiziale rispetto alle altre aggravanti.
La ratio dovrebbe essere quella di consentire la determinazione di una base sanzionatoria la più alta
possibile, su cui calcolare poi gli aumenti conseguenti alle altre circostanze aggravanti concorrenti.
In realtà l’indicazione è inutile: in presenza di più aumenti di pena conseguenti a diverse circostanze il
risultato numerico finale è sempre identico, a prescindere dall’operazione di incremento di incremento
sanzionatorio che venga effettuata per prima. Diviene inoltre fonte di difficoltà applicative posto che il
dettato in esame potrebbe essere considerato derogatorio del principio generale dell’art. 63 co. 3 che sancisce
in presenza di una pluralità di circostanze, tra le quali talune contemplanti una pena di specie diversa da
quella ordinaria, l’obbligo dell’aumento o della diminuzione, per le altre circostanze, non sulla pena
ordinaria bensì sulla pena stabilita per la circostanza anzidetta. (nb: per specie diverse si intende ad es.
arresto vs reclusione; multa vs ammenda). Se così fosse l’effetto sanzionatorio aggravante risulterebbe
sostanzialmente annullato: l’aumento della metà sulla pena stabilita per il reato base non produrrebbe nessun
incremento quantitativo finale della sanzione laddove sia seguito dall’applicazione di una circostanza che
stabilisce una pena di specie diversa, che travolgerebbe gli effetti dell’incremento precedente. Appare
pertanto opportuno prediligere un’interpretazione sistematica delle previsioni normative esaminate che
escluda l’applicabilità di tale comma ogniqualvolta la previsione del co. 1 concorra con altra circostanza
aggravante che preveda una pena di specie diversa: dovrà essere applicata per prima e una volta determinata
la nuova pena potrà farsi luogo all’aumento della metà.
Art. 1 co. 3 stabiliva il divieto per il giudice di valorizzazione di eventuali circostanze attenuanti, concorrenti
con l’aggravante terroristico-eversiva o con altre per le quali la legge stabilisce una pena di specie diversa o
ne determina la misura in modo indipendente da quella ordinaria del reato come equivalenti o prevalenti, in
deroga al principio generale dell’art 69 cp. La previsione originaria vietava il giudizio di bilanciamento ex
art. 69 con diminuzione della pena da operarsi su quella determinata in conseguenza dell’applicazione delle
circostanze aggravanti, mentre con la legge di conversione si optò per una predeterminazione normativa del
giudizio medesimo.
Una prima prospettiva, evidenziando la discrasia tra il testo originario e quello risultante dalla conversione,
intese la previsione come limitativa non solo nei confronti del giudizio di comparazione bensì in ordine ad
ogni effetto, da considerarsi azzerato, delle attenuanti laddove concorrenti con le aggravanti in esame.
Alternativamente si è sostenuto che il divieto operava solo nel bilanciamento favorevole o paritario a favore
delle circostanze attenuanti: il giudice avrebbe potuto ritenere prevalenti le aggravanti ma non
obbligatoriamente e laddove non le avesse ritenute prevalenti avrebbe applicato gli aumenti per le aggravanti
e poi la diminuzione per le attenuanti..
La Corte Costituzionale fece proprio quest’ultimo orientamento affermando che la norma consentiva, per il
caso in cui il giudice non ritenesse prevalente l’aggravante, di apportare le diminuzioni di pena per le
circostanze attenuanti da operarsi dopo l’applicazione degli aumenti per le circostanze aggravanti.
Tale tesi fu avallata con la ratifica della Convenzione per la Repressione degli Attentati terroristici mediante
uso di esplosivi, adottata dalle Nazioni Unite nel 1997, eccezion fatta per le attenuanti previste dagli artt. 98
e 114 c.p. per le quali opera la disciplina ordinaria del bilanciamento dell’art. 69 = l’attenuante prevista a
favore del minorenne e per colui che, concorrendo con altri nel reato, presti un contributo di minima
importanza potranno essere ritenute equivalenti o prevalenti rispetto alle aggravanti di specie.
Per quanto riguarda il rapporto tra la circostanza aggravante dell’art. 1 e le altre circostanze comuni degli
artt. 61 e 62 vi è generale incompatibilità, per le circostanze che afferiscono ai motivi dell’azione criminosa:
incompatibilità formale in quanto la finalità di terrorismo è speciale rispetto ai motivi abietti o futili;
incompatibilità sostanziale posto che il giudizio normativo di particolare disvalore sull’aggravante
terroristico - eversivo non può essere contraddetto dal trattamento attenuatore della responsabilità penale,
riconosciuto in relazione ai motivi di particolare valore morale o sociale.
Tale principio è stato ribadito anche in relazione ai fatti di terrorismo internazionale volti ad attirare
l’opinione pubblica attorno al tema dell’oppressione di un popolo nella madre patria; sono stati definiti come
generalmente privi di ogni giustificazione razionale, incongruenza rispetto ai fini perseguiti, in totale
contrasto con la coscienza etica della generalità dei consociati; dottrina e giurisprudenza hanno però
riconosciuto alla circostanza attenuante del particolare valore sociale o morale dell’azione uno spazio di
accreditabilità alla tipologia del delitto politico: quando il delinquente ha agito nell’interesse generale per
l’affermazione di idee che trascendono l’individuo.
La circostanza aggravante dell’art. 1 è stata ritenuta applicabile ad una molteplicità di reati:
- Favoreggiamento personale (art.378 cp) a prescindere dal tempo trascorso rispetto ai fatti per cui
interviene l’ausilio all’elusione delle investigazioni, posto che comunque si favorisce la
sopravvivenza della struttura eversiva di riferimento, anche se non più operativa da tempo;
- Calunnia (art.368 cp) non è necessaria la partecipazione ad una struttura per compiere atti terroristici
o di eversione;
- Rapina (art.628 cp) la finalità di profitto patrimoniale non esclude che il delitto possa essere
finalisticamente diretto e utile allo scopo della sovversione democratica
- Associazione per delinquere di stampo mafioso (art.416 bis cp) ogniqualvolta l’associazione armata
sia dedita anche all’organizzazione e alla realizzazione di reati e atti violenti di natura terroristica ed
eversiva, strumentali alla consumazione e al conseguimento dell’impunità per i reati speculativi;
- Associazione con finalità di incitamento alla discriminazione o alla violenza per motivi razziali,
etnici o religiosi;
- Associazione sovversiva (art.270 cp) non è elemento costitutivo della fattispecie ma elemento
circostanziale eventuale;
- Banda armata (art.306 cp) le prime pronunce si assestarono sull’incompatibilità dell’incriminazione
con la circostanza aggravante in esame, qualificando la band armata quale reato associativo che si
differenzia dalle ipotesi generali di associazione per delinquere per la presenza di una colorazione
particolare delle finalità associative. La giurisprudenza di legittimità ha invece affermato la piena
compatibilità sia in relazione al delitto di costituzione di banda armata che a quello di
partecipazione, argomentando a proposito dell’elemento psicologico sostanziatosi nel dolo specifico
caratterizzato dalla finalità di delitti contro la personalità dello stato;
- Atti di terrorismo con ordigni micidiali o esplosivi (art.280 bis cp).
L’art. 2 dl 374/2001, convertito con modificazioni della l.438/2001, intitolato “aggravante del terrorismo
internazionale” aveva introdotto un nuovo comma4 all’art.1 dl625 in forza del quale doveva ritenersi
Silvia Vettori – Teoria generale del diritto
ricorrente la finalità di terrorismo anche quando essa riguardava uno stato estero, un’istituzione o un
organismo internazionale. Con la l.438 tale art. fu soppresso e fu ripristinata l’originaria formulazione
dell’art.1, ciò perché fu introdotto un nuovo co.3 art.270 bis cp che riproduceva il contenuto del citato art.2
“la finalità di terrorismo ‹o› di eversione dell’ordine democratico ricorre anche quando gli atti di violenza
sono rivolti contro uno stato estero, un’istituzione o un organismo internazionale”. Nell’eliminare la
congiunzione ‹e› il legislatore sembra superare definitivamente il dibattito a proposito della duplicità o meno
della finalità terroristico-eversiva, descrivendo terrorismo e eversione come concetti autonomi e non
dipendenti.
PARTE SECONDA
Gli elementi classificatori del terrorismo sono 3:
- Uso della violenza
- Efferatezza delle gesta
- Perseguimento di un fine politico
VIOLENZA e EFFERATEZZA
L’uso della violenza e l’efferatezza della medesima appaiono riferibili ad una pluralità di forme di
delinquenza e sono quindi incapaci di esprimere una linea di separazione rispetto alle forme di delinquenza
specificatamente terroristiche. La violenza indiscriminata è riferibile alle caratteristiche di una pluralità di
forme di delinquenza come ad es. criminalità organizzata, crimini legati al tifo calcistico.
L’efferatezza non riesce a tracciare una linea di confine tra la delinquenza terroristica e la violenza, anche
terrorizzante, delle forma della guerra convenzionale, anche la guerra comporta un ricorso sistematico alla
violenza per il perseguimento di fini politici. Non è sempre facile distinguere il terrorismo internazionale da
diritto bellico interno. Basti pensare ad es. alla vicenda meneghina a proposito della configurabilità del
delitto di associazione con finalità di terrorismo in capo ad alcuni soggetti dediti ad attività di reclutamento e
addestramento di personale da inviare nel conflitto in Iraq. Alle decisioni dei giudici di merito che avevano
escluso la predicabilità della finalità di terrorismo in relazione a tali attività poiché considerate quali gesta di
guerriglia, si contrappose la decisione del giudice di legittimità che configurò come atto di terrorismo anche
quello diretto contro obiettivi militari se idoneo a cagionare conseguenze gravi nei confronti della
popolazione civile contribuendo a diffondere il panico nella collettività.
Ai fini della comprensione del contenuto della finalità di terrorismo, gli elementi della violenza e
dell’efferatezza sono insufficienti sotto il profilo classificatorio: diviene necessario riconoscere la centralità
della connotazione politica della finalità di terrorismo.
POLITICA IN RELAZIONE ALLE FINALITÀ DI TERRORISMO
Il terrorismo si connota altresì per un uso politico della violenza, posta in essere per il perseguimento di fini
politici e diviene fin’anche una pratica politica. La rilevanza politica del terrorismo si sostanzia nell’idoneità
dello stesso a modificare il comportamento di terzi oppure nell’indirizzarsi direttamente contro il potere
politico per il suo abbattimento o ad una classe o partito o gruppo per la conquista del potere medesimo.
La pratica del terrore può essere assunta come una forma principe della lotta politica, il terrorismo viene
concepito come un metodo necessario, ordinario, della lotta politica, in sostanza come la normalità della
politica, quando essa si esprime attraverso l’uso della violenza.
Il termine “politica” trattandosi di un aggettivo sostantivato porta con sé l’ambiguità caratterizzante ogni
genitivo (= della polis):
- in senso oggettivo concerne i problemi della convivenza comunitaria in una prospettiva globale e
non partigiana, caratterizzata dalla composizione dialettica dei conflitti sociali;
- in senso soggettivo indica tutto ciò che è riferibile o promana dallo Stato, quale entità
autoreferenziale ed autosufficiente.
Le due accezioni non si escludono, ma si implicano strettamente, non essendo però riducibili l’una all’altra:
non si può negare il carattere politico di un gesto per il solo fatto di non promanare dallo Stato ed al
contempo non può definirsi automaticamente politica l’azione dello Stato per il solo fatto della sua riferibilità
soggettiva. Il pensiero politico moderno tuttavia ci ha abituato a ragionare in termini di sostanziale
alternativa dicotomica tra le due.
Nell’età moderna il termine politica perde il suo significato originario d’ispirazione classica inerente alla
natura politica di ogni uomo e di ogni azione individuale per cui la comunità politica è un soggetto che si
costituisce spontaneamente in vista del perseguimento di un bene ed assume il significato di arte del
governo; e comincia ad essere impiegato per indicare l’attività che ha in qualche modo come termine di
riferimento lo Stato. Il soggetto Stato incarna la sfera della politica, è ente sovrastante l’individuo, fornito di
una superiorità ed autorità che l’individuo deve riconoscere come condizione del suo vivere. Divengono fatti
politici soltanto quelli che presentano certi tratti dominanti quali l’autorità, la sovranità, il potere: tutto ciò
che è riferibile allo Stato è politico.
Il potere dello Stato si manifesta nell’uso monopolistico della forza e non può risentire strutturalmente di
limiti, se non quelli autoimposti da cui possa in ogni momento volontariamente liberarsi. Il potere politico
non può tollerare forme alternative ed indipendenti del potere in seno a se stesso ed è l’unico in grado di auto
legittimarsi, come legittimo, in nome della propria effettività. In tale contesto di auto-legittimazione del
potere lo spazio dei giudizi valoriali sullo svolgersi dell’azione politica è interamente obliterato.
Tutto ciò in rigorosa coerenza con la fondazione contrattual-volontaristica dello Stato: la presenza del
pubblico potere, che incarna la soggettività politica, è richiesta dal conflitto dei privati e dalla loro incapacità
autonoma di superamento del medesimo. Il pubblico potere quindi, legittimato dalla privata deficienza
individuale, non può che esprimersi in termini di sovrapposizione, dominio, sopraffazione.
La definizione del potere come rapporto d’impostazione coattiva tra soggetti dei quali uno determina il
comportamento dell’altro, dev’essere integrata con la definizione del potere come possesso dei mezzi che
permettono di conseguire lo scopo del dominio e tali mezzi sono quelli che si fondano sul possesso
monopolistico degli strumenti di esercizio della violenza e della coazione fisica.
Allo stato di natura la violenza è la sola modalità di rapporto intersoggettivo ipotizzabile , il conflitto
interindividuale è il presupposto dell’ordinamento politico della modernità, l’atto costitutivo dello stato
moderno rappresenta l’istituzionalizzazione del conflitto.
Quando il problema politico si risolve in una questione di mero esercizio del potere, le istituzioni politiche
divengono il luogo ed il prodotto della violenza; l’atto costitutivo dello Stato moderno rappresenta
l’istituzionalizzazione del conflitto. La violenza diviene la vera condizione dello Stato moderno.
Lo Stato moderno viene fondato sulla c.d. “istituzionalizzazione del conflitto”: se si fa risalire la fondazione
della comunità politica ad un atto di volontà e di forza, tramite il quale alla forza ed alla violenza della
moltitudine si sostituiscono, mediante reductio ad unum, la forza e la violenza dell’Uno (ossia dello Stato),
quale modo migliore per rovesciare lo status quo se non quello di sottoporre lo Stato esistente alla sua stessa
violenza fondativa, in una spirale ciclica di terrore.
Il pensiero di Carl Smith è quello che meglio considera la cornice teorica del radicalizzazione del conflitto
per studiare la quale emerge una nuova soggettività verso la quale è sistematicamente indirizzata quella
violenza che dà contenuto al potere, a sua volta contenuto della volontà che esaurisce soggettivamente la
politica: la soggettività del nemico.
In tale contesto Carlo Galli afferma come il politico è inteso come aggregazione di conflittualità sin dalla sua
definizione (Polis – politichè – polemos).
L’articolazione teorica di Schmitt parte dalla considerazione che una definizione concettuale della categoria
del politico deve prendere avvio da una distinzione fondamentale, alla quale deve poter essere ricondotto
tutto l’agire politico nel suo complesso:
- amico = freund
- nemico = feind
la politica è la categoria delle relazioni e in tali relazioni la dicotomia amico/nemico è significativa
dell’estremo grado di intensità di un’unione o di una separazione. I popoli, al fine di preservare la propria
identità contro le minacce di chi vuole avversarla, si raggruppano in comunità politiche in base a tale
contrapposizione; ogni raggruppamento politico si costituisce sempre a spese di e contro un’altra porzione di
umanità. La stessa nozione di politica pertanto nasce e si perpetua attorno all’idea della contrapposizione: la
nozione di essa non può che costruirsi attorno alla necessità del conflitto. Il conflitto diviene metro, criterio
di giudizio che consente di distinguere ciò che è politico da ciò che non lo è. Finché ci sarà politica essa
dividerà sempre la collettività in amici e nemici.
Il passaggio dalla prospettiva teorica al piano reale di tali concetti implica la possibilità dell’eliminazione
fisica del nemico, quale condicio sine qua non dell’affermazione del potere; la guerra non è scopo, ma
diviene strumento ammissibile della dinamica politica.
Silvia Vettori – Teoria generale del diritto
Dietro le quinte di tale impostazione appare l’ombra di un’antropologia pessimistica, à la Machiavelli
(“presupporre tutti gli uomini rei”) o à la Hobbes (“bellum omnium contra omnes”).
Il pensiero politico di Schmitt infatti ha un nesso peculiare con la linea hobbesiana di conflittualità
insanabile, totale e assoluta che ha connotato la finzione dello stato di natura: in Hobbes lo stato di natura è
l’artifizio teorico che legittima l’idea di una politica che riesce a superare tale condizione pre-statuale solo se
consiste nell’esercizio monopolistico della forza; in Schmitt la prospettiva del conflitto, della guerra come
possibilità sistematicamente presente, è descritta come realtà incontrovertibile e sempre ricorrente del
politico.
Di tale temperie teorico-culturale appare intrisa altresì la dottrina giuridica che, quando ragiona degli
strumenti normativo-sanzionatori di contrasto al fenomeno del terrorismo, si lascia condizionare da locuzioni
di senso polemiche, quella della guerra, della lotta al terrorismo, le quali implicano un nemico contro il quale
agire, in un diabolico susseguirsi di violenza a violenza, il quale, se privato di ogni spessore assiologico,
finisce per lasciare sfuggire il discrimen valoriale tra violenza terroristica e c.d. “violenza delle istituzioni”.
Prima conclusione: la finalità di terrorismo è tipica della violenza politica, la violenza finalizzata alla
conquista ed alla conservazione del potere politico, nella sua accezione soggettiva offerta dalla modernità.
La finalità di terrorismo può essere considerata tipica della violenza politica a condizione di intendersi per
tale la violenza finalizzata alla conquista del potere, che può essere considerato politico solo nel significato
soggettivo attribuito al medesimo dalla modernità: quello radicato nella logica del conflitto e del nemico, da
conquistare e mantenere.
La centralità del problema del potere emerge con prepotenza, rispetto all’uso smodato della violenza, da
consumarsi all’indirizzo di quel nemico che incarna la teorica del conflitto; emerge una forte nesso tra
politica, conflitto e potere. In questa cornice la proposta politica di Potere Operaio è espressamente definita
come quella del passaggio dalla lotta sul terreno economico-rivendicativo ad una lotta apertamente politica
sul terreno del potere e il processo rivoluzionario della presa del potere non potrà che essere gestito dalla
classe operaia. Nella stessa ottica si muovono i brigatisti “Cosa vogliamo? Vogliamo il potere!E non ne
vogliamo una fetta, ma lo vogliamo tutto”. Per uscire dalla crisi il proletariato non ha alternative rispetto alla
necessità di risolvere la questione centrale del potere in termini di forza, di distruzione.
Il nemico di Schmitt è solo il nemico pubblico = hostis non inimicus – polemios non ekthros.
Nella Repubblica di Platone Socrate rammenta che il fatto che esistano i due nomi di sedizione e di guerra
comporta che esistano anche due realtà diverse, che fanno riferimento a due diversi tipi di discordia: l’una
coinvolge consanguinei e concittadini (= sedizione), l’altra gente straniera (= guerra).
Schmitt definisce guerra solo il conflitto portato nei confronti dello straniero, dell’extraneus mentre le lotte
tra cittadini dello stesso paese restano confinate nei limiti delle discordie. All’interno di una comunità
politica esistono solo rapporti di amicizia, che possono assumere, in caso di discordia, le sembianze del
conflitto ma circoscritto a tollerabili rivalità agonistiche senza mai degenerare nel non riconoscimento
antagonista della guerra, da portarsi contro il nemico che è esterno.
La specificazione che la coppia amico/nemico sia solo quella della proiezione esterna nei confronti di un
nemico straniero, che non si riconosce, attribuisce alla stessa una connotazione internazionalistico – bellica e
tale paradigma teorico non pare applicabile al fenomeno terroristico, il quale assume ontologicamente una
portata tradizionalmente “interna” al sistema politico.
Infatti il terrorista nasce come cellula che scava, dall’interno, il corpo politico, al fine di destabilizzarlo e
rovesciarlo; alle dinamiche terroristiche appare del tutto estraneo il c.d. “diritto di guerra”, il quale regola e
disciplina la dimensione internazionalistico - bellica del conflitto.
Anche il nemico esterno, essendo colui che in origine è marchiato dalla differenza assoluta viene ricondotto
ad una sorprendente dinamica di riconoscimento reciproco. Il concetto schmittiano di hostis da combattere
in ogni caso quale non-io da annientare, è tale solo in virtù di una forma di riconoscimento: devo riconoscere
che anch’egli mi riconosce come nemico e in questo reciproco riconoscimento sta la grandezza del concetto.
Se il nemico dev’essere considerato da un punto di vista politico, esso deve restare un nemico politico = un
avversario che si combatte ma con il quale un giorno si potrà fare pace e poiché la pace si può fare solo con il
nemico, ciò implica che i belligeranti si riconoscano reciprocamente.
Schmitt nel descrivere la proiezione esterna della dialettica amico/nemico riteneva già il nemico dotato di
uno status giuridico: quello di nemico legittimo (e non di semplice delinquente.
In questa prospettiva si parla dell’hostis iustus per la quale anche il nemico di guerra, con l’avvento del
diritto internazionale bellico - umanitario, diventa avversario nemico che in quanto riconosciuto:
- è portatore di ragioni quantomeno equivalenti alle proprie
- condivide e osserva le regole formali del diritto della guerra
- va tenuto distinto dal ribelle, dal criminale e dal pirata.
Il politico impersonificato nella soggettività del nemico esterno non esprime ostilità assoluta e per questo
motivo la prospettiva teorica schmittiana non riesce a spiegare le ragioni della violenza spietata portata dalle
gesta terroristiche all’interno di una comunità politica, se non a costo di trasformare, tramite una torsione
inaudita, l’hostis esterno in inimicus interno. La coppia categoriale amico/nemico si mostra quindi come
inadeguata a spiegare una valida linea di confine tra violenza terroristica e delinquenza non politica.
Non può dimenticarsi come tale prospettiva teorico/bellica sia stata una costante nelle invocazioni del
terrorismo brigatista nei confronti dell’ordinamento italiano mediante la pretesa di essere riconosciuti dallo
stesso non come delinquenti ma come legittimi belligeranti, con conseguente applicazione del codice penale
militare di guerra e non del codice penale comune.
INADEGUATEZZA DELLA PRIMA CONCLUSIONE
La prima conclusione interlocutoria assunta sconta degli evidenti tratti di pericoloso relativismo, posto che la
qualificazione della finalità di terrorismo finisce per essere contingente, in quanto prodotto temporaneo
dell’attribuzione di valore promanante dal soggetto vincente nel conflitto, che afferma la natura politica del
proprio agire e parimenti la natura terroristica dell’azione del perdente. Ciò emerge anche dalla teorica di
Potere Operaio secondo cui “una teoria del terrorismo si definisce perché nasce sempre da una posizione
difensiva, nasce da una linea che riconosce il movimento delle masse come sconfitto”. Tale prospettiva è
evidentemente sempre aperta al rovesciamento di fronte, da cui ne emerge l’inadeguatezza circa il valore
teorico. Su questo tracciato l’insufficienza classificatoria testé denunziata moltiplica i suoi effetti negativi,
poiché apre ad una sorta di indifferenza giuridicamente inaccettabile, a proposito dell’endiadi tra le due
fondamentali categorie terroristologiche del terrorismo di Stato vs il terrorismo contro lo Stato, ed alla
conseguente irrisolvibilità conoscitiva delle accuse reciproche in tal senso.
Secondo Trotzkij “l’unico interrogativo che resta da porsi è se i politici borghesi abbiano o meno il diritto
di versare la loro piena indignazione morale sul terrorismo proletario quando il loro intero apparato
statale, con le sue leggi, polizia ed esercito, non è nient’altro che l’apparato del terrore capitalistico”.
La solo differenza percepibile dipende dal lato in cui si pone.
Seconda conclusione: l’equazione tra violenza politica e violenza terroristica è chiaramente insufficiente ad
evadere lo sforzo di comprensione del contenuto della finalità di terrorismo.
La pretesa di attribuire natura politica alla finalità di terrorismo si è sempre scontrata, nel nostro
ordinamento, con la questione problematica sulla nozione penalistica di delitto politico, come ricostruita
dalla dottrina e dalla giurisprudenza attorno all’ultimo comma dell’art. 8 c.p.: “Agli effetti della legge penale,
è delitto politico ogni delitto, che offende un interesse politico dello Stato, ovvero un diritto politico del
cittadino. È altresì considerato delitto politico il delitto comune determinato, in tutto o in parte, da motivi
politici”.
Si distingue così due categorie di delitto politico:
- delitto oggettivamente politico, quello diretto contro un interesse politico dello stato o de cittadino;
- delitto soggettivamente politico, quello caratterizzato da dolo specifico dell’aver agito per ottenere
un fine politico.
Dietro tale articolo si riscontrano due tradizioni contrapposte:
- la dottrina fascista della ragion di Stato giustifica la nozione molto estesa di delitto politico dell’art. 8
a cui segue una strategia repressiva pervasiva, finalizzata ad ottenere la punibilità di tutti i delitti
politici commessi da cittadini e stranieri, anche in territorio estero, nonché una disciplina
sanzionatoria di particolare rigore quanto ai delitti contro la personalità dello Stato (si estradizione);
- la dottrina delle democrazie liberali che giustifica la scelta costituzionale del divieto di estradizione
per delitto politico, incline a riconoscere un trattamento di favore per il delinquente politico (no
estradizione). La teorizzazione di questa dottrina si trova nella costituzione.
-
Silvia Vettori – Teoria generale del diritto
Bisogna dunque chiedersi se terrorismo sia da parificare al delitto politico.
La risposta negativa è suffragata dalle scelte del diritto positivo, orientate a far valere la sostanziale
inadeguatezza della categoria del delitto politico a comprendere la legislazione antiterrorismo:
Convenzione internazionale di NY per la repressione degli attentati terroristici mediante esplosivo 1997
Indipendentemente dalle finalità perseguite definisce come non politici i delitti terroristici in essa
contemplati, ai fini dell’estradizione.
Convenzione europea di Strasburgo per la repressione del terrorismo 1977
Ha vincolato gli Stati firmatari e ratificanti all’obbligo di non considerare politica, ai fini dell’estradizione,
l’attività delittuosa di chi si fosse reso protagonista di crimini di matrice terroristico – eversiva.
Reati che non sono politici o possono non esserlo sono: reati previsti dalla Convenzione dell’Aja per la
repressione dell’illecita cattura di aeromobili e dalla Convenzione di Montreal per la repressione degli atti
illegali contro la sicurezza dell’aviazione civile; reati gravi che comportino un attentato alla vita, all’integrità
fisica o alla libertà di persone che godono di protezione internazionale, che comportano un rapimento o
cattura di ostaggi, che comportano il ricorso a bombe, granate, razzi, armi automatiche, plichi esplosivi.
Di tale convenzione sono state date due interpretazioni:
- Reati terroristico-eversivi sono certamente politici e la clausola opera solo sul piano dell’estradizione
- Reati terroristico-eversivi non sono politici, la norma è generale.
In qualsiasi caso comunque emerge incontestabile un’opera di depoliticizzazione del delitto terroristico.
Non a caso la scelta della Convenzione europea di negare matrice politica al delitto terroristico non è
sfuggita alle elucubrazioni teoriche del terrorismo brigatista, interessate a rimarcare, in chiave critica,
l’abbandono da parte della borghesia imperialista del concetto di reato politico a favore di una nuova
criminalizzazione assoluta del nemico interno, in capo al quale veniva negato lo status politico: criminale
speciale è sinonimo di criminale assoluto; e a rivendicare il carattere politico della propria ragione
associativa.
ANALISI STORICO - LINGUISTICA
Il termine “terrorismo” si afferma in Francia alla fine del XVIII secolo e viene inizialmente riferito, in un
dizionario del 1976, alla condotta dei Giacobini e successivamente nel 1798 al régime de la terreur. Tutte le
lingue europee successivamente acquisiscono la dizione di terrorismo dall’etimo francese, in modo
equivalente rispetto al significato originario, che faccia riferimento alla lettera della paura, del terrore:
il terrorisme francese ed il terrorismo italiano e spagnolo appaiono immediatamente riconducibili anche
all’etimo latino terror. La novità linguistica del lemma è scoperta in relazione alle altre principali lingue
europee: il tedesco terrorismus non ha alcuna ascendenza rispetto alle radici di furcht = paura e schrenken =
terrore e l’inglese terrorism appare linguisticamente affrancato dalle origini di fear = paura e scare = terrore.
Il riferimento storico del terrorismo è al regno del terrore vale a dire la stagione francese, presente
ideologicamente sin dagli inizi dell’estate del 1789, consumatasi tra il maggio del 1793 e il luglio del 1794,
periodo che affonda le proprie radici storiche negli anni immediatamente precedenti = quelli di esordio della
Rivoluzione Francese. Pertanto il terrorismo, più che al terrore, si ricollega strutturalmente alla cornice
teorica della rivoluzione.
Come indica Giovanni Fiaschi il termine revolutio, ignoto al latino classico, compare nel De Civitate Dei di
Sant’Agostino, per designare il moto circolare e del ritorno ciclico dei tempi (in tal senso nascerà poi
l’originario significato astronomico del termine, che rinvia al moto necessario degli astri). In ambito politico
assume il significato di un ritorno ciclico di forme politiche ricorrenti nella storia quasi a sottolineare che i
mutamenti politici non possono ribellarsi a leggi universali infrangibili.
Invece con la Rivoluzione francese il corso della storia ricomincia improvvisamente dal principio e l’idea
della ciclicità si allontana venendo intesa nella prospettiva di un moto con caratteri specifici di negazione
assoluta e autonoma di un ordine assolutamente nuovo, figlio di un rivolgimento radicale che rovesci sino in
fondo tutto. Seppur agli antipodi rispetto all’idea del ritorno la nuova idea di rivoluzione conserva tuttavia un
tratto peculiare della propria ascendenza astronomica: l’irresistibilità.
Tale mutamento decisivo nel significato del termine rivoluzione era già interamente compendiato nelle
elaborazioni teoriche del pensiero illuminista (es. Rousseau) che aveva nutrito ideologicamente i
velleitarismi rivoluzionari, cancellando l’idea della possibilità di restaurazione dell’ordine giuridico turbato e
sostenendo una volontà di troncamento con il passato completa e radicale.
Alla fine del ‘700, il termine “rivoluzione” si unisce, quasi a creare un’antonomasia, all’esperienza politica
francese e giunge a rappresentare un improvviso e radicale capovolgimento dello status quo. Tale dinamismo
ciclico è caratterizzato sin da subito da una prospettiva autoreferenziale e volontaristica, tipica di un potere
arbitrario che intende imporsi e farsi valere con il solo uso della forza: affermazione della simbiosi tra
volontà, politica e potere in forza della quale la politica, espressione della sola volontà, può tutto.
In nome di tale competenza illimitata dell’azione politica si apre il campo della radicalizzazione dei conflitti
e del fanatismo militante, in funzione dei quali un ruolo nuovo e rafforzato viene attribuito alla violenza, che
incarna l’ideologia strumentale del terrore
L’applicazione del termine “rivoluzione”, implicitamente connesso alla natura necessaria ed irresistibile del
moto astrale, all’ambito politico, conduce a qualificare il fenomeno politico-rivoluzionario in termini di
necessità, invincibilità ed irresistibilità: l’ancient regime non poteva sopravvivere.
TERRORE GIACOBINO 1793-1794
Anche se la violenza che si esprime con il terrore è ideologicamente già presente sin dall’inizio del moto
rivoluzionario è con successiva esperienza del periodo maggio 1793 – luglio 1794 che le figure del terrore,
quali forme della politica, assumono compiutezza e concretezza storica. La Convenzione del 5 settembre
1793 è nota proprio per aver posto il terrore all’ordine del giorno!
La situazione sociale del paese era molto delicata e instabile. Si stava avviando la disfatta della guerra
preventiva, iniziata l’anno precedente, contro l’Austria e la Prussia, l’insurrezione vandeana e la conseguente
coscrizione militare repubblicana stavano generando difficoltà istituzionali e malumori. Inoltre l’espansione
monetaria e il doppio corso legale delle merci aveva determinato un rincaro dei prezzi insostenibile
un’inflazione che aveva ridotto tutti alla miseria. Tale situazione divenne terreno fertile di nuove parole
d’ordine, rilanciate dai c.d. Arrabbiati indirizzate ad impartire una svolta economico-sociale, d’impronta
statalista e collettivista alla rivoluzione politica in corso. I rimedi istituzionali proposti procurarono il resto
del disastro: requisizione dei prodotti agricoli, nazionalizzazione del commercio, fissazione autoritaria dei
prezzi – il commercio legale era inesistente e quello nero eccessivamente costoso.
Emerge così la necessità del governo emergenziale che avvenne nel 1793 con la creazione:
- l’ 11 marzo del Tribunale rivoluzionario per il giudizio sui sospetti;
- il 21 marzo dei Comitati di sorveglianza, incaricati in ogni Comune di sorvegliare i sospetti e
segnalarli al Tribunale;
- il 6 aprile del nuovo Comitato di salute pubblica in sostituzione del Comitato di Difesa generale.
Nel luglio successivo la collocazione nel girone dei sospetti dei protagonisti della vita economica del paese si
dilatò a dismisura, le scorte di materie prime divennero accaparramenti da requisire, tutte le attività
commerciali divennero un crimine e i protagonisti delle stesse additati al sospetto di essere nemici del
popolo. Il 5 settembre il terrorismo diviene il sistema dell’esercizio del pubblico potere.
L’invito di Robespierre per cui tutte le persone sospette dovevano essere considerate come ostaggi e messe
in stato di arresto, ben venne tradotto dalla nuova legge dei sospetti del 17 settembre che riorganizzava il
funzionamento del Tribunale rivoluzionario:
- definizione dei sospetti ancor più dilatata che consentisse di annoverarvi chiunque;
- accelerazione della rapidità dell’istruttoria, con annientamento dello spazio per la difesa;
- previsione della sola pena di morte in caso di condanna.
Tuttavia tutto ciò non si dimostrò sufficiente a cambiare direzione al processo di distruzione economica e
sociale in corso.
La primavera del 1794 è la fase del Grande Terrore, istituzionalizzato amministrativamente con la legge
del 10 giugno (l. 22 pratile) che irrigidì ossessivamente la legge dei sospetti e il Tribunale rivoluzionario:
- istituito per punire i nemici del popolo, tra essi erano annoverati:
a. quelli che avranno lavorato a far mancare gli approvvigionamenti o i servizi;
b. quelli che avranno cercato di provocare penuria di vivere in Parigi o nella Repubblica;
c. quelli che avranno ingannato il popolo per indurli a passi contrari agli interessi di libertà;
d. quelli che avranno cercato di traviare o impedire l’istruzione del popolo, depravandone la
coscienza pubblica e corrompendone i costumi;
- le forme processuali constavano di un’azione penale esercitata sulla scorta della semplice denuncia
della notitia criminis, senza istruttoria, con soppressione delle prove orali;
- cancellazione dell’assistenza difensiva tecnica;
- unica pena prevista per i reati di competenza del Tribunale era la morte.
“Ogni francese poteva considerarsi destinato alla ghigliottina” Gaxotte.
La morte diviene l’unico strumento di neutralizzazione dei conflitti politici; ciò si spiega poiché da quando il
popolo francese ha manifestato la propria volontà, tutto ciò che si oppone a questo è nemico. Rispetto alle
poche centinaia di ghigliottine mensili nel periodo precedente vi sono 2000 esecuzioni a Parigi nel solo mese
Silvia Vettori – Teoria generale del diritto
di giugno dove la ghigliottina funziona ininterrottamente per 6ore al giorno. Il patibolo, come osserva
Camus, diviene strumento che “assicura l’unità nazionale e l’armonia della città”.
Il terrore disseminato con l’uso irrazionale della violenza diviene il modo ordinario di consolidamento del
potere rivoluzionario e quindi di conquista di stabilità politica.
Hegel nel capitolo La libertà assoluta e il terrore della Fenomenologia dello Spirito narra di una morte che
non ha nessun rimpianto e nessun significato se non quella di bere un sorso d’acqua. L’esigenza di libertà
assoluta e di eguaglianza assoluta finirono per confliggere con la realtà che riconosce la libertà tra le
differenze sociali e l’illuminismo volle eliminare questa contraddizione con la violenza.
Il terrore disseminato attraverso l’uso irrazionale della violenza diviene il modo di conquista della stabilità
politica. Una tale teorica del terrore costituisce l’estremo e maturo compimento della radice ideologica
rappresentata nel Contratto sociale di Rousseau nel quale il destino politico dell’individuo consiste
nell’alienazione integrale in favore della comunità politica la quale perviene ad un controllo del corpo sociale
mediante l’esercizio unilaterale del proprio potere.
Infine bisogna ricordare due avvenimenti:
il processo alla regina Maria Antonietta che finisce per essere una lugubre messinscena nella quale
le accuse politiche di alto tradimento della rivoluzione, sfornite di alcuna prova processuale, furono
scavalcate da questioni afferenti la mera personalità della regina accusata di aver trattenuto relazioni
incestuose con il figlio;
- l’estate del 1794 nel quale il terrore da strumento politico si riduce a mera auto alimentazione di sé.
LA COMUNE DI PARIGI DEL 1871
La rivoluzione del 22 febbraio 1848 e le barricate parigine del giorno successivo avevano visto nuovamente
la partecipazione dei democratici, dei socialisti e del proletariato. La proclamazione della Seconda
Repubblica del 24 febbraio aveva portato all’instaurazione di un governo provvisorio che aveva colorato di
istanze socialiste la pianificazione delle attività produttive. Tuttavia i tratti della rivoluzione rimasero
essenzialmente borghesi e la repubblica finì per essere null’altro che, ironizza Marx: “un nuovo costume da
ballo per la vecchia società borghese”. Ma, osserva Marx, fu la sconfitta della classe operaia a convincere il
proletariato che era necessario l’abbattimento della borghesia.
Il fil rouge del terrore, quale essenza della rivoluzione, si ripropone in un evento successivo: la Comune di
Parigi del 1871. La guerra franco - tedesca (Bismarck vs Napoleone III) si concluse con la sconfitta di Sedan
del 1870, Parigi insorse e con l’invasione dell’Assemblea legislativa nacque il Governo repubblicano
provvisorio dell’Hotel de Ville. Il 18 marzo il governo di Thiers fu messo in fuga in direzione Versailles
dopo aver sottoscritto condizioni di pacificazione ritenute oltraggiose: Alsazia e Lorena cedute all’impero
prussiano e Francia in regime di occupazione fino al pagamento integrale di un’indennità di guerra di 5
miliardi di franchi. Il Consiglio comunale di Parigi si trovò padrone del campo e nacque la Comune, retta da
un Governo repubblicano. Le truppe ammassate alle porte della città permisero a Thiers di consumare la
repressione contro-rivoluzionaria con la ferocia della vendetta e l’unità territoriale fu ripristinata.
Tale accadimento è degno di menzione per la caratura delle scelte politico-giuridiche che lo connotarono, di
natura esplicitamente ed interamente socialista:
- soppressione dell’esercito permanente e sua sostituzione con l’armamento generale popolare;
- attribuzione di compiti legislativi ed esecutivi ai consiglieri municipali e riconoscimento di un
salario da operai;
- proclamazione della netta separazione dell’organismo statale dalla Chiesa, dando all’istruzione,
pubblica e gratuita, un carattere puramente laico;
- riduzione della funzione giudiziaria alla stregua di ogni altra PA con magistrati elettivi e revocabili;
- abolizione del lavoro notturno di panetteria;
- requisizione di tutte le fabbriche abbandonate o lasciate inattive a favore delle cooperative operaie
per la ripresa della produzione;
- remissione agli inquilini per 9mesi dei canoni di locazione
La vicenda della Comune ha un’importanza strategica nella comprensione del contenuto della finalità di
terrorismo per la sua iscrizione ideologica ai colori della bandiera rossa del proletariato.
Marx indica la Comune come esempio di azione politica rivoluzionaria e di presa del potere come inizio
dell’emancipazione del lavoro. L’esperienza comunarda non era stata animata da aspirazioni repubblicane
anti-monarchiche o anti-imperiali, ma dall’eliminazione della forma monarchica come dominio di classe
dalla quale si sarebbe dovuti passare poi alla soppressione della stessa idea politica di dominio di classe,
attraverso anzitutto l’eliminazione delle basi economiche e produttive che stanno alla base della formazione
storica delle classi. Nell’esperienza della Comune la conquista del potere e degli apparati dello Stato non
erano più oggetto di interesse possessivo (nel senso di rivoluzione per l’acquisto di un potere) ma distruttivo
(nel senso di rivoluzione per la rivoluzione). In ciò la riflessione marxiana vede l’elemento di novità rispetto
al passato: l’esperienza comunarda trasformava per la prima volta il proletariato in classe operaia che strappa
il potere dalle mani dei capitalisti.
In tale prospettiva teorica la Comune è la prima rivoluzione in cui la classe operaia sia stata apertamente
riconosciuta come la sola classe capace d’iniziativa sociale: fu essenzialmente governo della classe operaia.
Con la Comune i retaggi secolari del primo governo del Terrore assumono nuances socialiste con il
movimento rivoluzionario di carattere proletario, latore di una tensione distruttiva e fine a se stessa, nella
direzione dell’abbattimento del dominio della borghesia e del capitale.
La Comune di Parigi rappresenta il ponte tra Rivoluzione francese e socialismo marxista rivoluzionario per
cui la rivoluzione socialista ha trovato compiutezza nella Comune (secondo Lenin ivi si realizzò la dittatura
del proletariato). La rivoluzione francese e la rivoluzione socialista ci si presentano come modelli per
eccellenza di rivoluzione politica, omogenei e retti da identica struttura teorica.
Marx infatti da ragazzo era stato avido di letture proprio sulla rivoluzione francese, come ricorda
Bongiovanni, e aveva inteso leggere le derive del terrore degli eventi rivoluzionari come il prodotto
inevitabile del processo rivoluzionario che, seppur iniziato dalle classi illuminate della borghesia, si era poi
tradotto in un moto permanente di lotta di classe che aveva sconvolto tutto l’assetto sociale, suscitando le
rivendicazioni e i risentimenti delle classi inferiori. La rivoluzione inizia come rivoluzione borghese, ma la
classe operaia ne condivide il mito originario della mistica dell’anno zero che costituisce il preludio di un
percorso già tracciato verso la rivoluzione futura, proletaria e socialista. Taluni storici sottolineano l’idea
della rinvenibilità nella rivoluzione francese del tratto anticipatore storico della successiva rivoluzione
socialista. Jean Jaures infatti rinviene negli avvenimenti del terrore del 1793 – 1794 l’inizio di presa di
coscienza di classe del proletariato, che seppur non ancora maturo, iniziava a comprendere che il conflitto tra
le classi è il motore della storia.
Karl Marx fondò l’intera propria opera sull’idea dell’inevitabilità storica del processo di conflittualità tra
classi e del trionfo definitivo della classe operaia, con conseguente cancellazione dello stato borghese.
La caratteristica peculiare della lotta di classe è quella di essere necessariamente totalizzante: la lotta di
classe può solo portare ad una trasformazione rivoluzionaria di tutta la società o alla totale rovina delle classi
in contesa. Totalizzante poiché:
- cancella totalmente le condizioni pregresse
- pone in essere un ordine politico totalmente nuovo
- attraverso una violenza ribaltatrice totale
È chiaro che, in una tale prospettiva, non vi sia spazio per alcun giudizio di valore.
La concretezza del socialismo nella società senza classi cessa di essere speranza e trova per la prima volta
espressione nella coscienza della sua propria necessità, cioè nella coscienza di essere l’esito e la soluzione
delle attuali lotte di classe.
Dalla necessità indisponibile ed obiettiva del socialismo a quella della rivoluzione sino all’approdo della
necessità della violenza rivoluzionaria totalizzante il travaso logico appare immediato: anche la violenza
rivoluzionaria diviene una necessità della storia. “Una rivoluzione è certamente la cosa più autoritaria che
vi sia, è l’atto con cui una parte della popolazione impone la sua volontà all’altra con le armi; il partito
vittorioso, se non vuole aver combattuto invano, deve continuare questo dominio col terrore” Marx.
La necessità della collocazione del proletariato al livello più elevato dello scontro rivoluzionario pone il
problema delle forme dell’organizzazione della classe operaia. Il movimento politico della classe operaia ha
come scopo ultimo e naturale la conquista del potere politico per la classe operaia stessa e a questo fine è
necessaria una previa organizzazione la quale non può essere quella sindacale poiché i sindacati operai
compiono un buon lavoro di resistenza contro gli attacchi del capitale ma sono inefficaci perché si limitano
ad una guerra contro gli effetti del sistema esistente invece di tendere alla sua trasformazione;
il partito è la forma più alta di organizzazione classista del proletariato: incarna gli interessi delle classi
popolari e la guida nel percorso rivoluzionario di rovesciamento, totale e violento, dello status quo.
Lo slancio iniziale dell’aggiornamento leninista è marxista ortodosso:
- la sostituzione dello stato proletario a quello borghese è possibile solo attraverso la rivoluzione
violenta che deve determinare la totale estinzione di ciò che è previamente esistente;
- l’idea della funzione rivoluzionaria della violenza non è e non può essere messa in discussione,
essendo secondo Marx “levatrice di ogni vecchia società gravida di una nuova”.
Silvia Vettori – Teoria generale del diritto
Tuttavia tale ortodossia si scontrava con la situazione socio-economica della Russia di inizio secolo che
vedeva il proletariato industriale sostanzialmente inesistente e conseguentemente una totale assenza di
premessa storica per la fondazione del movimento rivoluzionario della classe operaia. L’elaborazione teorica
marxista evidenziava un grosso limite: era in grado di soddisfare il bisogno di certezza nella rivoluzione ma
costringeva al contempo all’impazienza rivoluzionaria, secondo la logica del certus an incertus quando.
I tempi della rivoluzione esigevano che venissero a maturazione quelle condizioni economiche obiettive e
necessarie che la legittimassero e che erano considerate non forzabili arbitrariamente e soggettivamente.
L’inconsistenza strutturale socio-economica e il conseguente dovere attendista tuttavia non avevano impedito
alla Russia di assistere, dalla seconda metà del XIX secolo, al consolidarsi di un’organizzazione
rivoluzionaria strutturata, la Volontà del Popolo, votata ad abbattere, attraverso l’assassinio dello Zar, il
dispotismo e la grande proprietà per rimettere lo Stato nelle mani del popolo, conquistare la terra ai contadini
e le fabbriche agli operai. Di tale struttura fece parte anche il fratello maggiore di Lenin giustiziato per
impiccagione nel 1885 a seguito della repressione zarista avverso la sezione terrorista di San Pietroburgo che
stava organizzando il progetto di assassinio di Alessandro III.
Lenin assume criticamente la Volontà del Popolo a modello del nuovo partito marxista rivoluzionario,
esprimendosi con atteggiamento ambivalente:
- apprezzandola quanto a struttura ed eccellenza d’organizzazione;
- criticandola per l’essersi basati su una teoria che non era per nulla rivoluzionaria, posto che non
avevano saputo o potuto legare indissolubilmente il proprio movimento alla lotta di classe.
Pertanto solo lo stabile sposalizio tra organizzazione rivoluzionaria, puntuale e professionale e rigore
scientifico, nella scelta strategica della lotta di classe, poteva attribuire concretezza ed attualità storica ai
fremiti della rivoluzione socialista.
L’organizzazione rivoluzionaria doveva assumersi l’onere di formare una coscienza rivoluzionaria nel
movimento operaio il quale, abbandonato a se stesso non domina gli strumenti per elaborare la propria
cultura e coscienza di classe; non è in grado di esprimere i propri interessi rivoluzionari poiché è portato ad
assumere tendenze fataliste rispetto allo status quo o a farsi corrompere dalla politica riformista del capitale e
dalle tentazioni della rivendicazione econimico-sindacale tradunionista
Secondo Lenin la deriva naturale e spontanea della classe operaia è quella della coscienza e della
rivendicazione sindacale, l’unica che la classe operaia è in grado di elaborare con le sue forze ma si tratta di
una deriva pericolosissima perché, mirando alla composizione economica del conflitto sulla produzione,
finisce per soffocare la coscienza rivoluzionaria e determinare un asservimento ideologico a favore della
borghesia. Pertanto tale deficit rendeva impensabile un abbrivio rivoluzionario spontaneo da parte del corpo
sociale (vd. BR!). L’organizzazione del socialismo rivoluzionario assume un compito peculiare di contrasto
alla lotta accanita contro la spontaneità: la lotta spontanea del proletariato non diventerà una vera lotta di
classe finché non sarà guidata da una forte organizzazione di rivoluzionari; la coscienza politica di classe non
è il risultato spontaneo del conflitto di interessi tra proletariato e borghesia ma può essere inoculata
all’operaio solo dall’esterno.
Affinché la rivoluzione proletaria possa trionfare sono necessarie due condizioni:
- livello elevato delle forze produttive = dato quantitativo costituito dalla massa operaia;
- preparazione del proletariato = dato qualitativo costituito da un’organizzazione rivoluzionaria
rigorosa e scientifica da parte dell’élite, rappresentata dal partito.
La coscienza e la scienza socialista non sorgono spontaneamente ma possono scaturire solo sulla scorta di
profonde cognizioni scientifiche, che non sono detenute dal proletariato ma dagli intellettuali borghesi.
La natura e la funzione del partito diviene quella dell’avanguardia rivoluzionaria del proletariato, in
posizione autonoma rispetto a quest’ultimo e più alta. L’avanguardia rappresenta una guida rivoluzionaria
del popolo nella lotta ma ben distinto da esso, fondando sostanzialmente una concezione d’elite della
rivoluzione in nome della salvaguardia della purezza scientifica e della cultura marxista. L’esigenza di
valorizzare il più possibile il merito rende il problema della democrazia, nell’organizzazione di partito, una
questione incompatibile con la funzione essenziale di un’organizzazione di rivoluzionari che deve
comprendere prima di tutto uomini la cui professione sia l’attività rivoluzionaria.
Il partito d’avanguardia per poter dirigere e proteggere la rivoluzione socialista deve scatenare la violenza
generalizzata: la tecnica del terrore si palesa come la più appropriata sul piano operativo, mezzo
indispensabile per la liberazione di classe.
Il numero delle vittime ascrivibili al terrore nel periodo tra il 1917 e 1921 sembra compreso tra i 500mila e i
2milioni di persone. Non semplice conquista del potere politico o mutamento di leadership, ma
trasformazione rivoluzionaria della natura del modo di concepire il potere: creazione di una ragion di Stato
unica ed ispirata all’ingegneria sociale per la distruzione di tutte le istituzioni preesistenti.
La ripresa delle parole d’ordine antiche non è casuale: la rivoluzione socialista sovietica è pensata proprio
nei termini di un ritorno al terrore giacobino e di una continuazione della Comune.
Nella trattazione sulla Teoria del partigiano Schmitt osserva come le caratteristiche strategiche della
rivoluzione socialista violenta consentono di dedurre una teoria nuova della guerra assoluta e dell’ostilità
assoluta, come coessenziali al tempo della guerra rivoluzionaria. L’irregolarità della lotta di classe cambia e
non ha più ad oggetto solo le questioni afferenti le linee militari e si passa ad una irregolarità totale, che
coinvolge ed ha per oggetto l’intero edificio dell’ordine politico e sociale per cui il partigiano è sciolto da
ogni tipo di regola. Supera definitivamente il concetto della guerra convenzionale sia quello della guerra
partigiana per approdare alla criminalizzazione totalizzante del nemico di classe: in breve all’ostilità
assoluta. Schmitt evidenzia una contrapposizione tra il partigiano, latore di un concetto reale di nemico, ed il
rivoluzionario professionista nel quale si manifesta la degenerazione assoluta dell’ostilità.
Con la figura del rivoluzionario di professione il concetto di politico viene superato, il nemico squalificato
sotto ogni profilo morale, trasformato in un mostro disumano che non può essere solo sconfitto ma anche
definitivamente distrutto. Schmitt non prende in esame la figura del terrorista ma è evidente che è l’erede del
rivoluzionario di professione.
Il soggetto della rivoluzione leninista è il partito, la cui funzione rivoluzionaria è assoluta. Con i
rivoluzionari di professione vengono meno tutte le regole della guerra convenzionale e il partigiano, che
degenera nel rivoluzionario, diviene il rappresentante dell’ostilità assoluta, contro il nemico assoluto.
Schmitt ascrive a Lenin la responsabilità di trasformazione del concetto di nemico reale in nemico assoluto,
che non riconosce l’hostis iustus quale categoria del politico ma resta vincolato all’irriconoscibilità del
nemico assoluto da eliminare, in quanto tale, ontologicamente. La guerra da totale diviene totalitaria e non
può che esprimersi con il totalitarismo del terrore.
L’elaborazione teorica di Trotzkij è costruita attorno alla categoria della rivoluzione permanente, fondata su
3 essenziali pilastri teorici:
- processo di conquista del potere in un contesto socio-economico di sostanziale assenza della
borghesia capitalista e di prevalenza produttiva agricola. A differenza della predicazione marxista
ortodossa viene affermata la necessità che la rottura rivoluzionaria avvenga prima della completa
maturazione capitalista. L’ineguaglianza dello sviluppo si manifesta con maggior vigore nelle sorti
dei paesi arretrati ed in tale situazione di arretratezza economica il ruolo d’innesto del processo
rivoluzionario resta quello del proletariato industriale e della sua avanguardia organizzata nel partito
comunista che, appoggiandosi alla classe contadina, dovrà instaurare la propria dittatura per dar
corso al processo di trasformazione socialista della società.
- permanenza sul piano temporale in quanto deputata alla trasformazione di tutti i rapporti sociali che
assecondi i progressi dell’economia e della tecnica, è destinata ad estrinsecarsi in una lotta interna di
durata indefinita ergo permanente.
- permanenza sul piano spaziale nel senso di una proiezione internazionalistica della rivoluzione
permanente: una rivoluzione socialista iniziata entro i confini nazionali non può a lungo rimanervi
circoscritta, pena il suo fallimento.
Il partito rivoluzionario è collocato da Trotzkij in una posizione diversa rispetto a Lenin: non ha alcun ruolo
di avanguardia di classe e nemmeno di rappresentanza esclusiva e privilegiata della classe.
Nessuna variante tuttavia attiene al ruolo principe della violenza totalizzante quale motore della rivoluzione
socialista: in tale ottica, “se il terrorismo è inteso come azione che ispiri paura o arrechi danno al nemico,
allora certamente l’intera lotta di classe non è nient’altro che terrorismo. Il conto che noi dobbiamo
sistemare con il sistema capitalista è troppo grande, bisogna dirigere tutte le nostre energie contro il sistema
in una battaglia collettiva”. La centralità del terrore quale essenza della rivoluzione è nuovamente ribadita.
LA STAGIONE DEL TERRORISMO RUSSO DEL XIX SECOLO
Il terrorismo russo preleninista, attraverso l’idea anarchica della propaganda mediante l’azione, entra in fase
attiva con l’innesco dell’esperienza della Comune di Parigi, che contribuisce ad alimentare la verve
rivoluzionaria che ha poi portato alla rivoluzione d’ottobre.
Silvia Vettori – Teoria generale del diritto
In proposito, è significativo riportare una definizione del “rivoluzionario”, fornita da Necaev ne Il
catechismo del rivoluzionario: “Il rivoluzionario è un uomo perduto in partenza. Non ha interessi propri,
affari privati, sentimenti, legami personali, proprietà, non ha neppure un nome. Un unico interesse lo
assorbe e ne esclude ogni altro, un unico pensiero, un’unica passione – la rivoluzione”.
Seppur caratterizzata da una specificità territoriale, la storia del populismo e del socialismo rivoluzionario
russo, quali fenomeni uniti dalla comune accettazione della violenza rivoluzionaria quale unico strumento di
abbattimento dello status quo, costituisce una cerniera tra due epoche: quella segnata dalla Rivoluzione
francese fino alla Comune parigina e quella della rivoluzione bolscevica del 1917.
La terza conclusione: ribadisce la prima conclusione per cui violenza politica equivale a violenza
terroristica, ma in un’ottica totalizzante della rivoluzione. Tale continuità storico-ideologica fu intuita dallo
stesso Marx, il quale ebbe a dire “nella storia ci sono analogie sorprendenti. Il giacobino del 1793 è
diventato il comunista dei nostri giorni”.
L’equazione tra violenza politica e violenza terroristica, nell’ambito della concezione moderna del
soggettivismo politico, per il quale la categoria della politica appare qualificabile solo in funzione della
quantità di potere conquistato e mantenuto con la violenza indiscriminata, risulta compiutamente spiegabile
nella cornice teorica della c.d. “causa rivoluzionaria totalizzante”, finalizzata all’eliminazione totale del
“nemico assoluto” di matrice marxista-leninista.
L’ideologia terrorista funge da propulsore di una fuga in avanti di un processo rivoluzionario che certo nella
sua verificazione, pecca di spontaneità e dev’essere pertanto forzato nei modi e nei tempi.
In nome della necessità politica della forzatura e della direzione di questo processo rivoluzionario violento, il
ruolo dell’avanguardia nella guida delle masse è pensato proprio in termini di riconquista teorica aggiornata
della struttura del partito leninista rivoluzionario: organizzazione d’avanguardia, in particolare
nell’articolazione tra avanguardia, partito e massa: la capacità professionale dell’agitazione politica in capo
al partito d’avanguardia per vincere l’isolamento della classe operaia.
Vi è tuttavia un’impostazione politologica che nega qualsivoglia ascendenza leninista all’ideologia
terrorista, collocando l’ispirazione leninista solo in relazione alla guerra partigiana collettiva e non al
terrorismo individuale. Il rigore critico espresso da Lenin all’indirizzo del terrorismo aveva ad oggetto quello
individualista ottocentesco il cui limite era quello dell’erronea organizzazione, mentre le forme dell’esercizio
della violenza erano ritenute esemplari. L’impostazione di Umberto Curi, di negazione della genesi della
categoria del terrorismo dall’interpretazione leninista del marxismo appare condivisibile.
L’esperienza della lotta armata infatti è riferita alle vicende nazionali delle gesta delle organizzazioni delle
BR e di Prima Linea, quelle vicende che hanno segnato la nascita della categoria giuridica della finalità di
terrorismo in relazione alle quali egli riconosce e ribadisce la sostanziale continuità ideologica e politica con
le vicende storiche del marxismo di Lenin.
Tuttavia sono le riflessioni di Arrigo Cervetto che ci consentono di comprendere quale sia il profilo teorico
più autentico, che impedisce di accettare la conclusione dell’ascendenza leninista della finalità di terrorismo
“Il marxista sa che in certi periodi di acuta crisi economica e sociale la lotta di classe si sviluppa sino a
trasformarsi in aperta guerra civile. Non è il marxista a determinare le forme della lotta di classe ma la crisi
economico sociale determinata da condizioni oggettive. La condanna morale delle forme della lotta di classe
equivale alla condanna morale delle cause che le hanno provocate. Negare la realtà oggettiva è
inammissibile per il marxista”. Viene ribadito che l’ispirazione marxista ammanta la lotta di classe di
necessità storica, di obiettività scientista, esente da giudizi negativi quali sono quelli di cui è intriso il lemma
terrorismo: associare i due termini, marxianamente, è inammissibile.
Riassumendo:
1- vero che Lenin critica il terrorismo, ma solo il terrorismo individuale, non il terrorismo inteso come lotta
armata di gruppo che è invece necessaria!
2- secondo Curi vi è confusione tra la lotta armata (di cui effettivamente parla Lenin) e il terrorismo, ma un
vero marxista non può criticare la forma della lotta perché significherebbe criticare la lotta stessa che è di per
sé necessaria.
PARTE TERZA
STAGIONE DEL TERRORISMO POLITICO ITALIANO CONTEMPORANEO
Il 15 marzo 1972 Giangiacomo Feltrinelli morì dilaniato dall’esplosione di un ordigno dinamitardo che lo
stesso stava collocando alla base di un traliccio per il sabotaggio del servizio di distribuzione dell’energia
elettrica. I suoi scritti furono tra i primi a propugnare l’esigenza di convertire le velleità rivoluzionarie in
lotta armata per una strategia globale, comunista ed antimperialista, attribuendo alle avanguardie marxiste
leniniste un ruolo dialettico tra azioni di avanguardia e lotte di massa, capace di far assurgere la lotta armata
ad un livello più elevato. Tale strategia era terzomondista (: solo le popolazioni del terzo mondo possono
portare ad una rigenerazione della società occidentale) ed internazionalista per cui la rivoluzione si sarebbe
dovuta attuare mediante una colossale unione di forze, tra azioni di avanguardia e lotte di massa, in un
crogiolo internazionale di energie proletarie, provenienti da tutti i continenti: avanguardie strategiche della
guerriglia in Africa, Asia e America latina; eserciti rivoluzionari del Vietnam del Nord, della Corea popolare,
della Cina maoista, dell’Armata Rossa sovietica ed eserciti dei paesi dell’est Europa (vd. forte continuità di
pensiero con Trotzky)
Tale ricostruzione, dunque, era in palese contrasto con l’impostazione rivoluzionaria delle Brigate Rosse e
del Potere Operaio, i quali, a titolo esemplificativo, avevano ascritto l’Unione Sovietica addirittura alla
logica dell’imperialismo mondiale, nelle forme del capitalismo di Stato.
Tale distinguo teorico, tuttavia, non impedì, sin dal 1970, una sostanziale collaborazione dei Gruppi
d’Azione Partigiana - fondati e diretti da Feltrinelli e strutturati come formazione clandestina per la lotta
armata - con Potere Operaio e Brigate Rosse.
Feltrinelli concepisce la rivoluzione socialista come impraticabile senza la critica delle armi e pertanto la
lotta armata come perno di una strategia globale comunista e antimperialista, con le avanguardie marxisteleniniste titolari del compito di sviluppare tattiche dialettiche tra azioni d’avanguardia e lotte di massa.
Il terrorismo italiano trova incubazione proprio nei meandri della sinistra rivoluzionaria, inseguendo l’idea di
un ritorno alla purezza del marxismo-leninismo rivoluzionario, in contrapposizione teorica con il riformismo
moderato che, leninisticamente, era radicalmente rifiutato e opposto, insieme alle linee difensive e legaliste
che propugnava quale emblema dei fattori che potevano impedire il processo storico del socialismo
rivoluzionario in quanto espressione di una “moderata” tendenza al compromesso politico e, dunque, di un
sostanziale tradimento dei principi rivoluzionari. La pericolosità della politica di composizione normativa dei
conflitti sociali si era fatta particolarmente insidiosa negli anni 60-70 ed in particolare nel 1969 vi fu la
stagione del cd. “autunno caldo” che aveva consegnato alla classe operaia una sequela di conquiste sindacali
molto importanti sul versante salariale e normativo, culminante nello Statuto dei Lavoratori del 1970.
Il percorso autonomo di Brigate Rosse e Potere Operaio muove da un’aspra critica delle mistificazioni
ideologiche del terzomondismo di fine anni ’60, per aprire ad un giudizio di piena maturità rivoluzionaria del
proletariato metropolitano considerato luogo sociale principe per la formazione del partito armato ed il lancio
delle strategie di lotta armata nelle città. In questo passaggio la questione centrale diviene quella della
formazione e della funzione del partito armato, premessa storica indispensabile per qualsiasi strategia di lotta
armata. A tal proposito si sedimentano due diversi modi di intendere le ragioni del partito armato
d’avanguardia rivoluzionaria ed il suo rapporto con la classe operaia:
- interpretazione rigidamente marxista-leninista
fedele al Che fare? di Lenin secondo la quale, attesa l’insufficienza del proletariato, schiacciato dagli
opportunismi riformisti che lo rendono incapace di reazione spontanea e autonoma, la priorità e la centralità
nel processo rivoluzionario spetta al partito che assume su di sé il compito professionale della guida e
dell’istruzione delle masse proletarie dall’esterno verso la rivoluzione. Il partito deve instillare nel
proletariato la coscienza di classe, programmare la rivoluzione, calare dall’alto il programma e dirigere le
gesta. È fulcro dell’azione rivoluzionaria.
- impostazione operaista
fondamentali l’elaborazione teorica di Mario Tronti e Toni Negri edificata sul pregiudizio dell’autonomia di
classe per la quale la costruzione del processo rivoluzionario deve muovere secondo un percorso esattamente
inverso, vale a dire dalla classe operaia al partito.
L’avanzamento del capitalismo e il mutamento delle formazioni sociali imponevano la comprensione di una
nuova strategia della lotta di classe, che potesse coniugarsi con il crescente movimento della massa sociale
operaia. L’ottimismo leninista in merito alla sicura riconciliazione, per effetto della rivoluzione, del rapporto
tra capitale e lavoro, non poteva più darsi: tale rapporto doveva ritenersi irrimediabilmente spezzato.
Secondo Lenin infatti nella società comunista i mezzi di produzioni non erano più di proprietà privata
individuale, ma appartenevano a tutta la società la quale, eseguendo un lavoro socialmente necessario,
riceveva uno scontrino con il quale acquistava i prodotti necessari. Solo il movimento dell’autonomia operaia
poteva ricoprire il ruolo di protagonista efficiente del rovesciamento di fronte politico, anche avverso la forza
frenante dei movimenti operai ortodossi, che venivano considerati superati.
L’obiettivo del dominio operaio non può darsi senza la mediazione del partito.
Silvia Vettori – Teoria generale del diritto
Il rapporto da stabilire tra classe e partito tuttavia doveva essere nuovo perché quello vecchio non regge più:
il partito deve possedere la conoscenza scientifica dei movimenti della classe operaia e porsi come organo
teorico della classe che di essa abbia consapevolezza nella sua interezza, dei suoi movimenti, dei suoi
obiettivi; le funzioni puramente intellettuali sono bandite dal partito così come gli uomini di cultura non
potendo più darsi una scienza dei rapporti sociali separata dalla capacità pratica di previsione, direzione e
gestione. La classe operaia possedeva già la strategia spontanea dei propri movimenti rivoluzionari e del loro
sviluppo: il partito aveva il compito di rilevarli, esprimerli e organizzarli tatticamente.
Nel pensiero di Tronti e Negri si sviluppa la dialettica tradizionale tra “classe” e “partito”, tra spontaneità ed
organizzazione, l’autonomismo operaista ricusa qualsivoglia etero-imposizione ed etero-direzione nello
svolgersi del processo rivoluzionario in quanto il partito veniva concepito non più come un corpo estraneo
che, come un deus ex machina, dirigesse la classe operaia, bensì come un tutto organico incastonato nella
classe medesima.
I termini del rapporto pertanto sono problematici e di tensione e da tale tensione problematica sarebbe
derivata un’unica, nuova, entità, costituita dal c.d. “partito di classe”, unico vero soggetto rivoluzionario.
Il rigido rapporto unidirezionale dall’alto verso il basso, tra partito e classe di’ispirazione leninista viene
pertanto rovesciato.
Negli ambienti di Potere Operaio viene affermata la necessità di organizzare l’avanguardia armata attorno
ai “focolai di lotta insurrezionale” costruiti nel “partito dell’insurrezione”, idoneo a guidare la
militarizzazione del movimento. Quando le condizioni oggettive non sono sufficienti ad indurre le masse a
portare avanti la rivoluzione socialista, l'innesco di un piccolo focolaio di guerriglia potrebbe, con relativa
velocità, estendersi come un incendio, giungendo alla sollevazione delle masse e conseguente caduta del
regime. L’avanguardia deve essere organizzata per lottare in modo efficiente e puntuale contro l’impresa
sociale del capitale, trovando nell’organizzazione di massa il proprio referente e il proprio sostegno; tuttavia
l’ascendenza leninista, che portava ad edificare il partito come organizzazione centralizzata che guidasse la
rivoluzione dall’alto viene superata, mediante la progressiva valorizzazione della lotta armata di massa quale
unica strategia vincente del movimento operaio. Viene affermata la necessità del partito dell’insurrezione e
della militarizzazione del movimento, della lotta armata di massa come unica linea strategica vincente e
Potere operaio proposto come avanguardia di tale linea. La ragione fondante tale esigenza rivoluzionaria
violenta è tuttavia leninisticamente fedele e poco rinnovata: il nemico è sempre lo stesso, il tradunionismo,
ossia la capacità e tendenza spontanea di composizione negoziale dei conflitti sociali, sinonimo di sconfitta
operaia. Per evitare ciò era necessario veicolare le esplosioni spontanee di rivolta proletaria in una violenza
di massa preordinata, guidata e diretta: tale ruolo è stato storicamente interpretato dalle allora nascenti BR.
L’inizio degli anni ’70 assiste all’annuncio della nascita delle Brigate Rosse, i cui referenti storicoideologici sono i classici della rivoluzione: la Comune parigina e la rivoluzione bolscevica, descritti come
insegnamenti fondamentali per la causa della rivoluzione comunista in quanto esempi storici di proletariato
insorto in armi. La lotta armata, anche secondo le Brigate Rosse, reca in sé il valore della necessità storica,
dettata dalla più importante delle leggi marxiste: il processo rivoluzionario trova nel marxismo-leninismo la
sua guida insostituibile, sul versante teorico e sul versante organizzativo.
L’ortodossia di riferimento esige che l’esercizio della forza armata sia esente da improvvisazioni esecutive e
spontaneismi e caratterizzata da una rigida organizzazione della capacità miliare: l’organizzazione della
violenza è il primo obiettivo della violenza rivoluzionaria. Senza una pratica politico-militare, la direzione
dello scontro di classe è inevitabilmente quella della pacificazione sociale, esito peggiore delle politiche
antiproletarie e reazionarie, che porterebbe ad una sconfitta storica della classe.
Ezio Tarantelli viene assassinato poiché impegnato in una battaglia sindacale per la riduzione dell’orario di
lavoro dipendente. Lungi dall’essere apprezzata quale politica di tutela operaia viene additata come
dimostrazione di spirito spiccatamente antiproletario in sintonia con i piani confindustriali.
L’attacco rivoluzionario dev’essere rimesso necessariamente nelle mani di una avanguardia comunista
armata. Emerge una chiara debolezza teorica consiste nell’irrisolto parallelismo, in termini talvolta di
distinzione, talaltra di continuità, tra avanguardia e massa:
- da un lato è esplicitamente affermata l’impossibilità di organizzare il movimento di massa, attesa la
sua articolazione molteplice, sul terreno della lotta armata.“Non si tratta di organizzare il movimento
di massa sul terreno della lotta armata, ma di radicare la coscienza politica della sua necessità
storica nel movimento di classe”
- d’altro lato viene percepita la chiara inefficienza militare del processo rivoluzionario, che necessita
per potersi svolgere di essere trasposto dal livello del partito a quello della massa. Lenin diceva che è
un errore pensare che la rivoluzione possa essere fatta solo dai rivoluzionari: un’avanguardia assolve
al suo compito solo dimostrandosi capace di evitare il distacco dalle masse e di condurre avanti tutta
la massa.
L’evidente aporia può essere superata solo approfondendo il rapporto tra Brigate Rosse quale avanguardia
per la formazione del partito comunista combattente e masse nel quale si può assistere ad un ribaltamento
della relazione unidirezionale tradizionale del rapporto tra partito e classe in un processo continuativo di
tensione dialettica tra i due che è parte della classe e che lavora per la costruzione del partito di classe.
Il partito è pensato come componente d’avanguardia del Movimento di massa rivoluzionario è, allo stesso
tempo:
- parte di questo movimento in quanto ne è interno; i suoi militanti costituiscono la spina dorsale di
questo movimento, la sua avanguardia politico-militare
- distinto da esso nel senso che il Partito mantiene una propria autonomia politica, militare,
organizzativa; non si identifica e discioglie col movimento di massa rivoluzionario
Il percorso corretto della maturazione della consapevolezza rivoluzionaria parte dalla classe per arrivare al
Partito e parte dal Partito per ritornare alla classe sotto una forma più matura.
In questo processo le BR si inseriscono in una posizione d’elite, anche rispetto alla soggettività del partito
combattente, non identificandosi con esso: le BR sono un’avanguardia armata che lavora all’interno del
proletariato metropolitano per la costruzione del partito combattente
Il Partito viene al contempo concepito come parte organica della massa ma anche come corpo distinto, in una
sorta di relazione (apparentemente) dialettica che sembra più frutto di una “intuizione di compromesso” che
di una matura e soppesata scelta ideologica. Infatti, nonostante i tentativi volti a conciliare i due aspetti, il
potere rivoluzionario di massa e l’avanguardia organizzata restano due concetti separati e contraddittori, la
cui frizione rappresenta la spia di una più profonda debolezza teorica.
Una lettura incrociata dei due fenomeni
Le Brigate Rosse, reificazione della struttura del partito armato in Italia, si collocano interamente fin dalle
loro origini nel filone di elaborazione teorica dell’autonomia operaia e nelle fondamenta ideologiche e
pratiche di Potere Operaio:
- potenziale rivoluzionario spontaneo della massa
- da conciliarsi, non senza contraddizione, con la scientificità dell’approccio rivoluzionario delle
avanguardie organizzate
- la funzione del partito viene assunta in termini di tendenza, rispetto alla quale BR e Potere Operaio si
pongono come nucleo aggregante e propulsivo al livello più alto del movimento di classe.
I riconoscimenti soggettivi reciproci in tal senso non mancano. Il primo sequestro di persona politico
compiuto dalle BR nei confronti del dirigente Sit Siemens Idalgo Macchiarini è stata descritta come positiva
da Potere Operaio, come anche il sequestro di Michele Mincuzzi, dirigente Alfa Romeo.
L’esperienza di Lotta Continua ha la caratteristica peculiare di essersi sostanzialmente sempre distinta con
critiche, anche aspre, nei confronti dell’evoluzione delle gesta delle Brigate Rosse. Lotta Continua ha come
base teorica il marxismo e riconosce l’autonomia della classe operaia il cui programma è volto al
rovesciamento del dominio della borghesia e dell’instaurazione della dittatura proletaria. Non c’è una presa
di distanza dall’ideologia della violenza indiscriminata quale essenza dell’eversione rivoluzionaria
d’ispirazione marxista: il contesto teorico ed ideologico di riferimento è lo stesso.
Emerge con chiarezza che il metro è sempre il medesimo: violenza risolutrice in coerente continuità teorica
con i dettami del marxismo-leninismo rivoluzionario, quale categoria per eccellenza della politica.
Il metodo invece è proposto in termini critici ed al contempo innovativi:
La critica è sostanzialmente di matrice operaista: il partito di militanti di professione viene considerato
inadeguato in una fase storica che vede una profonda modificazione nella composizione di classe ed il ruolo
del medesimo deve essere di collegamento con la classe operaia. Lungo tale tracciato teorico, Lotta Continua
elabora un’aspra critica nei confronti del militarismo avanguardista di matrice brigatista, che viene accusato
di un indiscriminato ricorso alla “violenza per la violenza”, la quale finisce per perdere l’originario afflato
politico-rivoluzionario, per degradare a patetico e deviante “feticismo del fucile”.
Critica la teoria dell’avanguardia militare di matrice brigatista che lungi dal produrre un effetto di
detonazione della rivoluzione generalizzata finiscono per assumere un ruolo patetico e deviante, che colloca
le avanguardie armate in una posizione meramente militarista.
Silvia Vettori – Teoria generale del diritto
Non esprime un giudizio negativo sul valore necessario della violenza rivoluzionaria - assunta come
irrinunciabile in termini marxisti - ma giudica ridicolo assumere che l’unica violenza accettabile è quella di
massa: la lotta di classe è una lotta feroce e la violenza proletaria non può restare al livello della spontaneità
ma va esercitata in modo organizzato e permanente.
Le Brigate Rosse seppur criticate restano organizzazioni di compagni e la condanna delle loro azioni armate
non può trascinare con sé la rinuncia ad una corretta valutazione della violenza rivoluzionaria e della
violenza d’avangurdia. L’irrinunziabilità della lotta armata è nuovamente e fermamente ribadita, al di là delle
differenti sfumature ideologiche.
Al fine di comprendere la prospettiva terroristica di Lotta Continua, è interessante analizzare la reazione
intellettuale proposta da tale movimento in occasione dell’uccisione del commissario Luigi Calabresi:
da un lato viene precisato che “l’omicidio politico non è certo l’arma decisiva per l’emancipazione delle
masse dal dominio capitalista” dall’altro lato, continua Lotta Continua, “queste considerazioni non possono
assolutamente indurci a deplorare l’uccisione di Calabresi, un atto in cui gli sfruttati riconoscono la propria
volontà di giustizia”.
Ecco, dunque, che i movimenti rivoluzionari italiani, al di là delle divergenze sul quando e sul quomodo,
finiscono inesorabilmente per concordare in merito all’an della violenza, quale unico ed imprescindibile
strumento di affermazione politica; pertanto emerge con chiarezza il minimo comun denominatore del
fenomeno terroristico e la terza conclusione interlocutoria sembra, dunque, sostanzialmente confermata.
Infatti il primo sequestro di persona, eversivo ante litteram, operato dalle Brigate Rosse, viene celebrato da
Potere Operaio e da Lotta Continua in modo entusiastico ed identico, come un momento di avvio del
processo del trionfo della giustizia rivoluzionaria di classe.
L’EVOLUZIONE DELLA STORIA BRIGATISTA
Il 1980 e il 1981 sono due anni cruciali nell’evoluzione della storia brigatista, in particolare in relazione al
percorso della sua frammentazione teorica ed operativa in una pluralità di formazioni e di sigle differenti.
La primavera del 1980 vede iniziare la fase della collaborazione processuale di Patrizio Peci, che in quanto
leader della colonna torinese e componente della Direzione strategica delle BR, fornì all’autorità procedente
importanti contributi investigativi, grazie ai quali vennero avviate importanti operazioni di repressione del
fenomeno. Tra esse particolare rilevanza ha assunto lo smantellamento di un’importante base brigatista
genovese mediante l’irruzione nel covo di via Fracchia. L’irruzione si concluse con il ferimento di un
maresciallo del corpo e l’uccisione di tutti i brigatisti presenti nel covo. Nonostante il comunicato ufficiale
abbia sempre riferito un violento scontro armato le perplessità circa tale versione appaiono fondate.
Nel Luglio 1979 la colonna milanese intitolata a Walter Alasia aveva rassegnato le dimissioni dall’esecutivo
nazionale delle BR, accusato di aver tradito, per eccesso di burocratizzazione, la propria missione di
condurre una lotta d’avanguardia dentro la classe operaia e deciso di gestire autonomamente la propria
campagna militare. Ciò accadde dopo la marcia dei quarantamila, una manifestazione dei colletti bianchi
della Fiat scesi in piazza il 14 ottobre 1980 per protestare contro il protrarsi da oltre un mese dello sciopero
operaio e del picchettaggio aziendale che impediva loro di lavorare.
Tra Settembre e dicembre del 1981 si ha la scissione della colonna napoletana e fondazione delle Brigate
Rosse-Partito della Guerriglia.
Nell’Ottobre 1981 a seguito di una riunione della Direzione strategica in Padova, avveniva la fondazione
delle Brigate Rosse per la costruzione del Partito Comunista Combattente, dimostratasi capace di picchi
d’efficienza aggressiva. Nel 1984 si verificava l’ulteriore scissione in seno a quest’ultima dalla quale si ha la
nascita dell’Unione dei Comunisti Combattenti.
Altre sigle di rilevanza minore furono quella della colonna veneta che assunse il nome di Anna Maria
Ludmann – Cecilia e, sempre in territorio veneto, l’ulteriore colonna 2 agosto.
PARTITO DELLA GUERRIGLIA
Le Brigate Rosse-Partito della Guerriglia, sulla scorta di una asserita conflittualità totale ed insanabile fra le
classi, considerava la società italiana pronta allo scontro di classe sul piano della guerra civile: la presenza
brigatista doveva operare per adeguare le forze rivoluzionarie a tale livello di scontro per rendere le masse
protagoniste dello scontro. Le ragioni della lotta armata apparivano ancora legate alla necessità della
costruzione del “sistema del potere rosso” incardinato attorno agli Organismi di Massa Rivoluzionari che
avevano il compito di agire all’interno del proletariato metropolitano, pensato come un soggetto sociale
collettivo da coinvolgere nella sua totalità all’interno del processo rivoluzionario, attraverso le pratiche della
guerriglia. La funzione dell’avanguardia era di matrice leninista: teorizzata come titolare della funzione di
elaborazione teorica e gestione operativa delle linee più alte dello scontro armato di classe, ma sempre in
relazione dialettica con il proletariato metropolitano, come soggetto della mobilitazione di massa. In
ossequio alla rivoluzione leninista le linee di azione del partito dovevano rimanere esterne alla massa ma in
sintonia politica con essa, il Paritito della Guerriglia, pur rimanendo l’avanguardia del proletariato, doveva
farsi portatore ancora della linea politica della rivoluzione.
L’eredità teorica del successo operativo del sequestro di persona del magistrato Giovanni D’Urso il 12
dicembre 1980 - per ottenere la liberazione del quale fu chiesta e ottenuta la chiusura del penitenziario
dell’Asinara - è sostanzialmente presente nelle collocazioni ideologiche del Partito della Guerriglia.
La gestione brigatista di tale operazione aveva inteso rivendicare la parola d’ordine secondo la quale
impugnare le armi non basta: chi riduceva il problema rivoluzionario all’eliminazione dei nemici del popolo
costruiva nel vuoto. La strategia della lotta armata non veniva ricusata ma a condizione che la stessa
rimanesse radicata all’interno della classe operaia e la guerriglia aveva il compito di conquistare le masse
alla lotta armata per il comunismo; il ruolo del partito rimaneva insopprimibile come soggetto capace di
interpretare i bisogni politici e materiali del proletariato. Professano l’inutilità di una violenza fine a se
stessa, la quale non si facesse latrice dei più profondi e primari bisogni del proletariato - la pretesa
terroristica di agire in nome dei poveri si è rivelata del tutto soccombente innanzi alle dilaganti ed
autoreferenziali istanze rivoluzionarie di matrice leninista, sempre più soverchianti rispetto all’universo di
bisogni e di esigenze maturati in senso alla classe operaia.
BRIGATE ROSSE PER LA COSTRUZIONE DEL PARTITO COMUNISTA COMBATTENTE
La concezione rigidamente leninista del partito rivoluzionario come reparto d’avanguardia collocava le
Brigate Rosse per la costruzione del Partito Comunista Combattente in posizione esterna con le masse
metropolitane: il comunismo non è bisogno espresso o esprimibile dalle masse ma concezione di una
necessità storica. Le masse erano considerate incapaci di iniziativa e di espressione del programma
rivoluzionario per il comunismo, prodotto solo di una necessità storica, scientificamente fondata.
Tale incapacità determinava una frattura tra la programmazione rivoluzionaria armata del partito combattente
e le istanze di massa: solo il primo era chiamato ad individuare ed elaborare gli obiettivi della lotta armata,
con capacità di comprensione autentica delle seconde, comprensione che poteva non coincidere con i bisogni
contingenti delle masse. Era evidente una situazione di crisi del processo rivoluzionario che si stava
consumando in quegli anni, come l’esito fallimentare del sequestro del generale statunitense James Lee
Dozier liberato a Padova dopo 42 giorni di prigionia a seguito di un’operazione della polizia. Data questa
situazione quindi il processo rivoluzionario doveva assumere i caratteri della guerra di classe resistenziale e
di lunga durata, poi denominata “ritirata strategica” a significare il progressivo trasformarsi della lotta in
fenomeno latente e prolungato. Ritirata intesa come mezzo tattico per costruire un nuovo impianto teorico ed
una nuova linea strategica; tale arretramento non implicava di certo la rinuncia all’attacco violento ed
indiscriminato, quale strumento principe per l’affermazione politica.
UNIONE COMUNISTI COMBATTENTI
La teorizzazione della ritirata strategica e il rapporto tra istanze rivoluzionarie d’avanguardia ed istanze
rivoluzionarie di massa determinarono l’ulteriore scissione dell’Unione dei Comunisti Combattenti, sigla
destinata a distribuire lutti (uccisione del Generale Licio Giorgeri) e rimanere sul palcoscenico della lotta
armata non oltre il biennio 1985 - 1987, salvo un estemporaneo ritorno a distanza di 20 anni, positivamente
troncato. Il riferimento è all’operazione di polizia denominata Tramonto che nel 2007 ha portato allo
smantellamento in Padova, Milano, Torino e Trieste della nuova sigla del Partito Comunista Politico-Militare
facente riferimento proprio all’Unione dei comunisti combattenti.
L’ultimo ventennio della storia e della cronaca giudiziaria italiana portano a riconoscere come, soprattutto
per effetto dell’elaborazione teorica delle Brigate Rosse per la costruzione del Partito Comunista
Combattente, si sia consolidata ed abbia trionfato la componente puramente militarista della teoria della lotta
armata, a scapito dell’originaria elaborazione teorica rivoluzionaria. Totale è divenuto il distacco dalle masse
e dai bisogni di liberazione della classe operaia.
In tale prospettiva teorica deve essere compreso il significato della ritirata strategica, concepita come
coessenziale all’idea della lotta di classe di lunga durata. È il riconoscimento dell’impossibilità di un
avanzamento di tipo politico, che determina la scelta della ritirata per la riorganizzazione delle energie
Silvia Vettori – Teoria generale del diritto
rivoluzionarie; tale ritirata viene concepita in nome dell’ideologia di una lotta rivoluzionaria ma di essa non
si scorge il termine finale con la conseguenza che si assume la necessità di uno scontro prolungato con lo
Stato, autoreferenziale e fine a se stesso. La suggestione marxista è sicuramente presente, infatti proprio
Marx descriveva la rivoluzione proletaria come una rivoluzione che critica continuamente se stessa, che
ritorna indietro per ricominciare daccapo.
EVOLUZIONE DEL PROGRAMMA BRIGATISTA
Gli obiettivi dell’originaria elaborazione teorica rivoluzionaria svaniscono e la necessità dell’aggressione
armata viene pensata e praticata nella consapevolezza totale del distacco dalle masse e dai bisogni di
liberazione della classe operaia. L’evoluzione del programma brigatista, nella storia della lotta armata, è
nella direzione dello smarrimento progressivo di ogni velleità di costruzione politica, nella logica della
conquista del potere, verso l’assunzione di un bisogno di disarticolazione e distruzione della realtà quale
unico baricentro della propria azione.
Tale approdo fa emergere una grave aporia del pensiero terroristico-rivoluzionario:
- da un lato l’originaria teorica rivoluzionaria è, sin dalle origini dell’ideologia, profondamente intrisa
di propositi e finalità di carattere politico (pur in senso soggettivistico-volontaristico)
- dall’altro lato l’esito del fenomeno terroristico si sostanzia nell’esercizio di una violenza cieca ed
indiscriminata, del tutto priva di qualsivoglia spessore politico, morale ed assiologico.
In altri termini proprio quei bisogni della classe operaia, che avevano costituito la fonte di legittimazione
della lotta politica armata, finiscono per essere palesemente traditi da un movimento rivoluzionario ormai del
tutto sordo alle esigenze sociali ed accecato da una insaziabile sete di violenza, di potere e di morte.
Le tre azioni esecutive che per ultime hanno contraddistinto le gesta delle Brigate Rosse per la costruzione
del Partito Comunista Combattente appaiono emblematiche in quanto soggetti uccisi perché non facevano
altro che il loro lavoro:
- Roberto Ruffilli senatore democristiano viene ammazzato in casa propria nel 1988;
- Massimo D’Antona giurista e consulente del Ministero del Lavoro viene assassinato durante una
passeggiata nel 1999;
- Marco Biagi viene assassinato sotto la propria abitazione.
La scelta di individuare come obiettivi della lotta armata le persone in funzione del disvalore della propria
professione ha una storia risalente, basti pensare all’omicidio nel 1979 del PM Alessandrini che si era
occupato delle indagini sulla strage di Piazza Fontana. Il volantino di rivendicazione spiegò le ragioni
politiche dell’omicidio affermando “Alessandrini è uno dei magistrati che maggiormente ha contribuito in
questi anni a rendere efficiente la procura della Repubblica di Milano”. Ugualmente il Giudice Istruttore
milanese Guido Galli assassinato da Prima Linea nel 1980 in ragione del fatto che “Galli appartiene alla
frazione riformista e garantista della magistratura”. Lo sconcerto per tali affermazioni ben si riassume nelle
parole della famiglia dell’assassinato “abbiamo letto il vostro volantino: non l’abbiamo capito”.
La rivendicazione teorica di tali gesta criminali colloca le ragioni di tali assassinii in una condizione di fase
espressamente definita difensiva: scopo è quello di creare la ricostruzione e la riaggregazione delle forze
rivoluzionarie, rimanendo tuttavia in quella posizione di retroguardia rivoluzionaria rappresentata dalla c.d.
ritirata strategica.
La teorica brigatista attribuisce a tali omicidi un significato autenticamente finalistico, nel senso di fine
ultimo, e per nulla strumentale a qualsivoglia obiettivo di potere, autoreferenziale e nel pieno riconoscimento
della propria insufficienza rivoluzionaria.
IL VALORE RISOLUTORE ASSOLUTO DELLA VIOLENZA AUTO-REFERENZIALE
La funzionalità della violenza terrorizzante all’obiettivo della conquista violenta, rivoluzionaria e totalizzante
del potere politico, nell’evoluzione della storia brigatista scompare dalla teorica di riferimento e dal piano
operativo. Tuttavia è necessario verificare se tale approdo finalistico possa essere inteso come una
degenerazione patologica del percorso che prende le mosse dalla teoria del socialismo rivoluzionario
violento, o debba essere considerato invece come l’esito di un processo inevitabile e fisiologico.
Non c’è presa di distanza che possa salvare la fondazione teorica brigatista dallo scivolare su quel piano
inclinato che relega la violenza all’assunzione di un ruolo puramente finalistico ed attuale, in quanto priva di
qualsiasi capacità strutturale, poiché viene negata nel suo impianto teorico, di proiezione futura
Alberto Asor Rosa parla di assenza di valori e di conseguente incapacità, da parte del processo di
aggregazione politica della classe in chiave rivoluzionaria, di qualsiasi proiezione propositiva.
Mario Tronti, teorico dell’operaismo degli anni ’60 afferma che nessun operaio che lotta contro il padrone si
chiede “e dopo?”, l’organizzazione della lotta contro il padrone è tutto. “Le profezie sul mondo nuovo e sulla
nuova comunità umana ci sembrano oggi cose sporche come l’apologia di un passato vergognoso”.
Toni Negri sostiene che la lotta armata non può proiettarsi oltre la contingenza distruttiva dell’aggressione al
presente; manca il momento della costruzione e vi è una valorizzazione finalistica e positiva dell’odio che
non possiede strutturalmente proiezione futura e che somministra energia alla violenza in funzione del solo
processo di distruzione.
Così, si passa dal prototipo “romantico” del terrorista come uomo intriso di bisogni ed afflati politici, alla
patologica caricatura del terrorista, quale individuo emarginato, alienato, estraniato, che sfoga la propria
animale vis distruttiva, senza più tenere in considerazione ciò che gli sta attorno: si passa dal terrorismo
politico al distruttivismo a-politico.
- logica di distruzione totale dell’esistente
la lotta politica rivoluzionaria degrada
- assenza di progettualità futura
a puro uso della forza, fine a se stessa
Non è corretto liquidare come un’iperbole liberale il giudizio che ascrive l’essenza del socialismo non
all’idea della costruzione ma a quella della distruzione: i riferimenti metaforici, sistematicamente presenti
nell’insegnamento marxista, sono tutti indirizzati alla fisiologia della dissoluzione, al culto della morte,
inevitabile. La considerazione del valore positivo ed esaustivo del momento della distruzione è riaffermata,
in continuità teorica con la Rivoluzione francese e i suoi sviluppi storici, ove per la prima volta avevamo
assistito al debutto dell’affermazione di un principio distruttivo, che incarnava le sembianze del momento
costruttivo per eccellenza; Saint-Just affermava: “ciò che costituisce la Repubblica è la distruzione totale di
ciò che le si oppone”. L’ossimorico accostamento tra costituzione e distruzione è sintomatico dell’idea
politica fondamentale, secondo la quale:non v’è ordinamento giuridico che non venga costituito mediante
distruzione dell’ordine istituzionale precedente, ma anche non v’è distruzione politica che, prima o poi, non
si consumi, essa stessa, in una tragica autodistruzione. L’esito finale ultimo connota in modo essenziale la
finalità del terrorismo: quello della violenza distruttrice che esprime quale forma di vitalità fine a se stessa
priva di qualsiasi progettualità.
Quarta conclusione: la violenza distruttrice quale forma di vitalità fine a se stessa al di fuori di qualsivoglia
progettualità, è la caratteristica essenziale della categoria del terrorismo.
Il soliloquio della violenza distruttrice appare l’approdo (non la deriva) di un percorso teorico che si sviluppa
nei meandri di quella modernità edificata sul conflitto come presupposto e condizione di essa nella quale la
violenza costituisce la normalità del rapporto tra uomini e la chiave del progresso delle forze produttive.
L’approdo distruttivo risulta essere per nulla deviante rispetto ad uno sviluppo storico del marxismoleninismo rivoluzionario. Benedetto XVI ha affermato infatti: “Marz ha indicato con esattezza come
realizzare il rovesciamento, ma non ha detto come le cose avrebbero dovuto procedere dopo”; l’assenza di
tale proiezione progettuale della violenza costringe quest’ultimo ad uno slancio strumentale che invece si
esaurisce in termini auto-referenziali: l’assenza dello spazio per la costruzione del futuro costringe alla
valorizzazione positiva della distruzione del presente.
Parafrasando Kelsen, “chi voglia girare la medaglia ed osservare l’altro volto del terrorismo, probabilmente
non potrà mai scorgere alcun altro volto construens, ma solo un terrificante vuoto pneumatico”.
La connotazione della violenza, sottratta a qualsivoglia giudizio di valore in quanto necessità storica, come
strumentale all’obiettivo della conquista politica del potere e poi del suo mantenimento, viene superata e
sostituita dalla sua inevitabile evoluzione, cioè quella di una violenza che perde la propria connotazione
strumentale di mezzo al fine del potere, a favore di una essenzialmente finalistica = la violenza diventa
valore di per se stessa, autoreferenzialmente.
Esigenza di rovesciare il totalitarismo illiberale dell’ordine borghese e capitalistico per la costruzione della
liberazione comunista armata rappresenta la concezione moderna della rivoluzione. Il problema della politica
si riduce al problema della gestione strategica dell’esercizio della violenza.
In tale contesto il sistema della lotta armata è andato perdendo di funzionalità rispetto al problema del
perseguimento di un fine politico. Perdutosi cammin facendo ogni criterio di verificabilità razionale della
coerenza dello strumento all’obiettivo del potere, la guerriglia armata è diventata sia mezzo sia scopo.
Non vi è spazio per nessun giudizio di valore, nemmeno di mera idoneità strumentale, divenendo totalmente
essa stessa virtù fine a se stessa. Antonio Chiocci, leader della colonna napoletana delle BR, è stato
condannato all’ergastolo per un duplice omicidio di due guardie giurate che portò sconcerto essendo stato
posto in essere l’omicidio con una brutalità esasperata solo per dare maggior risalto al comunicato di
rivendicazione. In questa confusione di piani che non sa più leggere razionalmente il rapporto tra mezzi e
Silvia Vettori – Teoria generale del diritto
fini, la violenza terrorista finisce per attribuire contenuto ad un momento di ribellione senza futuro, che non
ha nulla di virtuoso: violenza come momento di esaltazione. Tragico e inevitabile è il traguardo di un
percorso che aveva collocato la violenza, a monte, al rango di motore e categoria della politica.
ESPERIENZE DEL TERRORISMO DI DESTRA
Non ci si è soffermati fin’ora sul terrorismo di destra in quanto caratterizzato da un deficit clamoroso di
elaborazione teorica in quanto il terrorismo neofascista, pur mostrando alcuni aspetti metodologici e di
principio rinvianti alla matrice rivoluzionaria, appare essere stato costruito attorno ad una fondazione teorica
perlopiù grossolana e superficiale: il c.d. terrorismo “di sinistra” affonda le proprie radici nella teorica
rivoluzionaria di fine ‘700, poi ampiamente sviluppata, elaborata e contaminata nel corso dei secoli
Il neoterrorismo nero non vanta, nella sua elaborazione contemporanea quella originalità teorica che invece
contrassegna quello rosso.
Il gruppo Lotta di Popolo fu costituito alla fine degli anni ’60 intorno a La disintegrazione del sistema di
Giorgio Freda, opera introduttiva di un’importante frattura rispetto al neofascismo nostalgico e ai vecchi
nazionalismi europei. Le indicazioni teorico-programmatiche del giovane avvocato padovano prendevano le
mosse da una feroce polemica antiborghese: necessità di costruzione di un nuovo ordine politico, capace di
superare il condizionamento borghese dato dalla contingenza mercantile, costruzione di un vero Stato capace
di esprimere un comunismo aristocratico, una sorte di via di mezzo tra Repubblica di Platone, Terzo Reich e
Cina maoista in grado di garantire l’unità organica del corpo sociale.
La lontananza di Freda dall’universo ideologico del neofascismo era abissare: nella direzione di un percorso
più facilmente assimilabile a quello del comunismo asiatico:
- eliminazione totale della proprietà privata,
- isolazionismo anticapitalista,
- amministrazione popolare
- politica della giustizia e dell’educazione
L’appello alla lotta distruttrice non viene rivolto agli uomini che compongono le frange dell’estrema destra
del sistema ma a coloro che si situano oltre la sinistra del regime: coloro che condividono interamente
l’obiettivo politico della distruzione del presente, condizione necessaria per costruire un ordine nuovo.
Lancia quindi un appello agli allievi della scuola del socialismo marxista rivoluzionario: medesimo obiettivo
di lotta, condivisione di un unico fronte operativo per l’eversione del sistema fuori da vincoli legalitari e
riformistici, quindi tramite la violenza = identico percorso distruttivo, identità di strumento operativo.
Il gruppo romano di Costruiamo l’azione aggregatosi verso la fine del 1977 attorno alla pubblicazione
dell’omonima rivista prende le distanze dagli ambienti politici della destra tradizionale e presta attenzione
agli ambienti eversivi dell’estrema sinistra, in particolare dell’autonomismo operaista. Fa proprie le tesi di
Freda e il progetto dell’autonomia operaia viene considerato con grande attenzione. Si afferma
espressamente l’opportunità di evitare lo scontro diretto nella logica di una tregua funzionale all’obiettivo
dell’unità delle forze rivoluzionarie.
Nel coevo movimento politico romano di Terza Posizione ritroviamo: il rifiuto di qualsivoglia suggestione
marxista e la ricerca dell’alleanza e del dialogo con gli ambienti dell’autonomia operaia e della sinistra
eversiva in generale.
La comunanza del nemico e il rilevante contributo dato dalla sinistra eversiva alla diffusione dell’illegalità e
dell’insicurezza fanno della stessa un naturale alleato della destra sul piano tattico, anche in ragione delle
significative convergenze che si registrano sul piano idelogico:
- odio per tutto ciò che appare borghese
- gusto estetico per la lotta e passione per le armi
- mito della rivoluzione
- rifiuto del mondo occidentale
Lo spontaneismo armato, che nasce e si consolida come reazione alla gerarchizzazione dominanti
nell’ambiente della destra politica, finisce per esaltare la violenza criminale come fatto rivoluzionario di per
se stesso, in grado di esprimere finalisticamente e non strumentalmente un valore ed una forza
destabilizzante. Basta prendere in es. l’assassinio di Roberto Scialabba effettuato per celebrare il terzo
anniversario dell’omicidio del militante di destra Mikis Mantakas, dirigente del FUAN.
Tale percorso finisce per perdere progressivamente ogni sostegno ideologico ed ogni capacità di proiezione
futura, in nome di una valorizzazione contingente di una lotta antisistema.
A questo proposito appare emblematica la vicenda criminale riconducibile alla sigla Nuclei Armati
Rivoluzionari con la quale sono state rivendicate una pluralità di gesta delittuose particolarmente efferate,
esaltatrici del valore vitale e positivo della violenza, di per se stessa. Ad es. l’omicidio del sostituto
procuratore di Roma Mario Amato che stava tentando una gestione unitaria dei procedimenti riguardanti il
complesso degli ambienti dell’eversione di destra nella capitale. Questo omicidio appare rispondente solo
alla logica disperante della vitalità della vendetta.
TERRORISMO STRAGISTA & SPONTANEISTA
Il terrorismo stragista fu inaugurato dalla strage di Piazza Fontana a Milano del 1969, proseguito con
l’attentato di Piazza della Loggia a Brescia nel 1974 e l’esplosione del treno Italicus e conclusosi con
l’episodio della stazione di Bologna del 1980. Si tratta di gesta delittuose caratterizzate dall’anonimato e non
possiedono un referente d’elaborazione teorica autenticamente proprio che consenta di coglierne una
peculiarità. Il terrorismo c.d. stragista si ascrive interamente alla logica post-rivoluzionaria del terrore quale
strumento di conservazione del potere: violenza quale contenuto della politica in quanto unico strumento per
la conquista del potere.
Il terrorismo spontaneista è ascrivibile interamente alla logica della violenza vitalistica e autoreferenziale,
esito fisiologico ed inevitabile di ogni percorso politico che limiti all’estrinsecazione della violenza la
propria fondazione ed il proprio contenuto.
Sviluppo cronologico del terrorismo:
- stragismo di fine anni ‘60
- terrorismo di destra più propriamente politico degli anni ‘70
- spontaneismo dei NAR (Nuclei Armati Rivoluzionari) a fine anni ’70 come disperata reazione
esistenziale più che progetto eversivo articolato e cosciente.
Alla luce di ciò, non sembra esserci definizione più icastica della figura soggettiva del terrorista, rispetto a
quella fornitaci da Albert Camus ne L’uomo in rivolta : “i terroristi sono coloro che hanno deciso che si
deve uccidere e morire per essere, poiché l’uomo e la storia non si possono creare se non col sacrificio e
l’omicidio”.
Quinta conclusione: la categoria del terrorismo ci appare come il prodotto di una classificazione di tipo
antropologico, che percorre la sequenza di un’antropologia negativa, alimentata da un istinto di morte,
generata da un odio che produce isolamento, diffidenza, chiusura, disprezzo dell’esistente, della vita e del
futuro: tutto in questa prospettiva può essere odiato e distrutto:
Le sedicenti finalità politiche che avrebbero dovuto dare legittimità etica all’opzione della violenza
indiscriminata, alimentata di odio totale quale unico motore del divenire, si sono smarrite nel corso del
cammino; ciò che rimane è solo una celebrazione inutile, violenta e gratuita del risentimento, del rancore a
fungere da unico ed autentico motore vitale.
L’esperienza terroristica finisce per risolversi nel rovesciamento abbrutente di un itinerario nichilista,
finendo per cancellare le stesse ragioni dell’essere: proprio il desiderio del nulla appare la causa primaria
della riduzione della politica alle gesta del mero terrore. Il terrorismo non ha niente da dire all’uomo vivente
ma diviene pura celebrazione retorica della morte. Nel petto del terrorista non batte più alcun “cuore
politico” e non risiede nemmeno la sete di potere, ma di contro vi albergano l’amore per il nulla e
l’attrazione morbosa per il male, per la morte, per il nihil. Lo stesso Antonio Chiocchi in una riflessione
autobiografica circa la propria responsabilità in relazione al duplice omicidio di sui sopra afferma:
“quell’azione costituisce uno dei punti di massimo sprofondamento nell’abisso”.
IL TERRORISMO INTERNAZIONALE
Estraneo al percorso di ricerca è stato l’ambito delle forme contemporanee del terrorismo internazionale di
matrice islamista (= utilizzo politico dell’Islam) e fondamentalista (= volontà di tornare ai testi fondatori
dell’Islam). Si tratta di un fenomeno terroristico nuovo, operante su scala mondiale, dotato di grande capacità
mimetica, denazionalizzato
- sia soggettivamente, per quanto attiene ai responsabili delle azioni delittuose,
- sia oggettivamente, ossia riguardo ai luoghi di consumazione delle medesime, si ha una potenziale
ubiquità nel mondo intero e sua possibile provenienza dall’interno dei confini di coloro che lo
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subiscono ma riducibile ad unità, in forza della comune aderenza all’ideologismo d’ispirazione
religiosa.
Il nuovo terrorismo si presenta con connotati e caratteristiche compatibili con i risultati conoscitivi sin qui
raccolti, aggiornati storicamente al mutato scenario della società globale.
Infatti sorta all’inizio degli anni ’70, la tendenza jihadista appare come l’esito deviato di una scuola di
pensiero fondamentalista, animata da una nuova generazione di islamisti radicali, che costruiscono
teoricamente la loro battaglia per la restaurazione del califfato (sistema di governo adottato dal
primissimo Islam, il giorno stesso della morte di Maometto che rappresenta l'unità politica dei musulmani
c.d. Umma) e la riunificazione della comunità musulmana universale, attorno al principio secondo cui la sola
modalità di azione possibile per la realizzazione di tale obiettivo è quello della violenza indiscriminata, da
diffondersi su un piano transnazionale.
La manifestazione più evidente della citata tendenza jihadista è quella mujaheddin di origine sunnita,
combattente la guerra santa accanto alla quale possono ricordarsi le varianti:
- hezbollah iraniana, progetto politico ed economico socialmente protezionista e assistenziale, basato
sulla tutela dei diritti fondamentali come istruzione, sanità, lavoro, sicurezza sociale, ma anche sulla
rigida applicazione della Sharia coranica e quindi sulla regolamentazione dei costumi e in generale
un forte conservatorismo religioso applicato alle leggi
- hamas in ambito essenzialmente palestinese, nasce come braccio operativo dei Fratelli Musulmani,
per combattere l'occupazione Israeliana della Palestina storica. Gestisce anche ampi programmi
sociali, e ha guadagnato popolarità nella società palestinese con l'istituzione di ospedali, sistemi di
istruzione, biblioteche.
La tendenza mujaheddin, in particolare nella sua rinnovata dimensione incarnata dalla rete di Al Qaeda,
presenta delle similitudini molto marcate rispetto agli esiti degli approfondimenti svolti: la violenza espressa,
seppur ammantata di sacralità, finisce per essere priva di qualsivoglia progettualità politica circostante,
limitando la propria azione al perseguimento di un obiettivo di radicalizzazione del conflitto con il mondo
occidentale, senza lasciare spazio a mediazione o negoziato.
Si tratta di una forma di ostilità totalizzante e assoluta che della politica è la negazione e che ha per unico
scopo la cancellazione fisica e morale del nemico.
Infatti Walter Laqueur evidenzia la sostanziale estraneità del nuovo terrorismo rispetto al piano della
rivendicazione politica soggettivistica violenta, a favore di una collocazione squisitamente distruttivista e
totalizzante, posto che l’obiettivo trascendente della liquidazione di tutte le forze sataniche viene pensato
come condizione essenziale per la crescita di un ceppo umano migliore o comunque diverso.
Alain de Benoist osserva che una delle prime caratteristiche del terrorismo globale è la mancanza di limiti,
già propria del combattente rivoluzionario, in particolare quello che diviene tale di professione, che debutta
sulla scena politica con l’aggiornamento leninista del socialismo marxista rivoluzionario e che determina,
nell’analisi di Schmitt la metamorfosi dell’ostilità e della conflittualità reale: categoria a priori della politica,
in quella forma di ostilità totalizzante ed assoluta che della politica è la negazione e che ha per unico scopo la
cancellazione fisica e morale del nemico.
L’ispirazione ideologica di tale ostilità assoluta diviene trascendente e non più terrena, ma la differenza non
muta la conseguente degenerazione totalitaria della relazione conflittuale, nella quale non c’è e non può
esserci spazio per la ricomposizione del conflitto vista come pericolosa contaminazione dell’assolutezza
delle ragioni della contrapposizione.
In tale prospettiva è pienamente comprensibile la brillante intuizione di Ludwig von Mises il quale già negli
anni ’20 aveva inteso indicare una significativa convergenza di struttura teorica tra totalitarismo marxista e
“zelantismo islamico”, apparendo quest’ultimo caratterizzato da un elemento missionario e aggressivo,
certamente più forte che in altre religioni, elemento che rende il fondamentalismo islamico convergente nella
tendenza all’assolutizzazione, religiosa invece che scientifica, della guerra distruttiva nei confronti del
mondo occidentale.
La cultura marxista ha inciso nella formazione europea dei vertici attuali del fondamentalismo islamico: alle
patologie politiche europee del XX secolo si imputa di aver contribuito a trasformare i contenuti
dell’assolutismo della jihad, attribuendo ad essa un volto ben diverso rispetto a quello dei tempi del Corano,
in particolare quello della coessenzialità dell’idea e della pratica del terrore alle ragioni della guerra santa.
E non un’idea qualsiasi della categoria del terrore, ma specificamente quello di matrice leninista e
bolscevica.
Quindi se caratteristica anche del terrorismo jihadista è quella della reificazione di tutto il mondo occidentale
nei termini di nemico assoluto, le scansioni del percorso di ricerca tracciato posso essere usate per
comprendere il nuovo fenomeno del terrorismo globale.
L’assolutizzazione del nemico da intendersi quale denominatore comune del fenomeno terrorista: questo
potrebbe essere il punto fermo dal quale muovere in un nuovo percorso di conoscenza. .
DOMANDE D’ESAME
Terrore giacobino (processo, istruttoria, difesa)
Evoluzione del pensiero di Schmitt
La comune di Parigi
Evoluzione del concetto di partito da Marx alle BR
Terrorismo islamico
Normativa sul terrorismo
Gli atti terroristici hanno fine politico?
Lenin e Marz
Terrorismo internazionale
Teoria del nemico assluto
Ruolo della rivoluzione in Marx e Lenin
Terrorismo eversivo di destra
Differenziazione interna alle BR
Art.8 cp
Rapporto tra art.8 e convenzione di Strasburgo
Quadri partizione del terrorismo
Differenza di concezione del partito tra Marx e Lenin
Perché le BR citano la comune come esempio?
Potere operaio
Concezione oggettiva/soggettiva della politica