Consenso informato persone fragili

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Consenso informato persone fragili
Giornata di restituzione dei Gruppi di studio del centro interdipartimentale delle cure palliative
dell’Università degli Studi di Milano
Gruppo di studio sui diritti delle persone fragili con relativi argomenti bio-etici, medico legali e
giuridici
TRACCIA per l’intervento elaborata da:
Irene Pellizzone, Antonella Piga, Barbara Rizzi, Raffaella Speranza
Il consenso della persona fragile, con particolare riguardo alle cure palliative
17 ottobre 2015, Cascina Brandezzata
1. INTRODUZIONE: SCOPO DEL LAVORO E METODO
Con questo lavoro ci si prefigge di dare un quadro delle regole che dovrebbero orientare l’operatore
sanitario nell’acquisizione del consenso informato della persona fragile alla somministrazione delle
cure palliative (secondo la definizione che si darà nel par. 2).
Si tenterà, in altre parole, di descrivere i criteri cui l’operatore sanitario deve attenersi nel suo
difficile compito.
Questo non solo in vista delle esigenze della persona malata, ma anche in vista delle esigenze
dell’operatore stesso.
Il lavoro prende in considerazione anche le problematiche che devono affrontare i familiari, le
persone che hanno un legame affettivo col malato, coloro che sono investiti formalmente del
compito di vigilare e sostenere la persona (es. tutore, curatore, amministratore di sostegno).
Come si sa e come si vedrà meglio dopo, infatti, questi soggetti possono fungere da catalizzatori del
consenso, sia perché conoscono il malato e possono riferire informazioni importanti agli operatori
sanitari, sia perché possono aiutarli a relazionarsi col paziente. Allo stesso modo, tuttavia, non sono
affatto rari i casi in cui i parenti, pur in assenza di qualsiasi delega1, espandono il loro ruolo al punto
di sostituirsi al paziente nel dialogo col medico (o altro operatore sanitario) ed escluderlo dalle
scelte che lo riguardano, al fine, mosso da desiderio di protezione, di tenerlo all’oscuro da notizie
infauste.
Trovare un equilibrio in questo frangente è quanto mai difficile: non sempre il malato vuole essere
davvero informato (o essere informato nel dettaglio dell’evoluzione della malattia) e a volte vuole
davvero delegare ad un’altra persona le scelte che riguardano le sue cure.
Sarà possibile raggiungere l’obiettivo solo al termine di una disamina dei principi costituzionali,
della legislazione, delle norme deontologiche, che regolano il consenso informato della persona
capace, nonché della giurisprudenza, fondamentale per quanto concerne il consenso dell’incapace.
In assenza di una disciplina ad hoc e data l’incertezza che ne deriva per gli operatori, infatti, è parso
fondamentale cercare, per quanto possibile, di “fare chiarezza” sui principi, prima di scendere
nell’ambito più specifico del consenso alle cure palliative.
Il metodo seguito nell’elaborazione di questo scritto è interdisciplinare: lo studio della tematica è
avvenuto grazie a un costante confronto tra medici e giuristi, specializzati in varie materie, tra cui
bioetica e medicina legale, medicina delle cure palliative, anestesia, diritto costituzionale.
Grazie a questa collaborazione, accanto allo studio delle norme e della giurisprudenza è stato
possibile porre al centro dell’attenzione i problemi che si pongono concretamente a operatori
sanitari, pazienti, familiari e persone altrimenti implicate nelle scelte delle cure, in modo da
affrontare i nodi che con maggiore frequenza e dirompenza si trova davanti chi opera nel settore
1
Anche su questo punto si tornerà più avanti.
1 delle cure palliative.
2. PRESUPPOSTI DEL LAVORO
i) LA DEFINIZIONE DI PERSONA FRAGILE
i) Nell’esaminare la problematica, si è deciso di prendere in considerazione non tanto il malato in
quanto tale, ma piuttosto il malato in quanto persona fragile.
Malattia e fragilità, infatti, non sempre vanno di pari passo.
La malattia è una causa di fragilità, ma a questa se ne affiancano o sommano altre, che rendono la
situazione del malato ancora più delicata.
Si è ritenuto allora utile allargare il campo dell’indagine a tutti i fattori che rendono una persona
fragile, perché si ritiene indispensabile tenerne conto quando ci si accosta al tema del consenso
informato di chi, oltre che trovarsi nella fase terminale della vita, è fragile anche per altre specifiche
ragioni.
Fragile può essere definita la persona che per una situazione, spesso indipendente dalla propria
volontà, si trova a vivere e gestire una condizione di mancanza o perdita dell’autonomia e quindi di
dipendenza per la realizzazione del sé.
L’avvento di una malattia nel corso della vita di una persona, quindi, pone l’individuo di fronte a
una nuova condizione di vita che spesso lo rende dipendente da terzi sotto molti aspetti: fisico,
economico, sociale, psicologico, relazionale, spirituale ecc. Ed è la somma di tutti questi fattori che
fanno precipitare la persona in una condizione di fragilità temporanea, quando la malattia ha una
prognosi benigna, oppure permanente, quando la malattia ha un decorso cronico e una prognosi
infausta a lungo termine. L’eventuale assenza del nucleo familiare o di una rete di supporto amicale,
infine, cui la persona possa fare riferimento e da cui possa essere sostenuta complicano
ulteriormente il quadro e pongono una domanda alla società che tuttavia sembra essere impreparata,
in molti casi, e incapace di dare risposte efficaci.
Un approccio che tenga conto di tutti i fattori che rendono una persona malata ancora più fragile
dovrebbe permettere di acquisire una maggiore sensibilità rispetto all’ampio ventaglio di situazioni
che possono rendere più difficile al malato stesso, per motivi specifici ed ulteriori rispetto alla
patologia di cui soffre, avere un dialogo con gli operatori sanitari, comprendere le informazioni che
gli sono date ed esprimere la sua reale volontà.
ii) LA NOZIONE DI CONSENSO INFORMATO
Secondo presupposto del lavoro, forse scontato, ma che, per rimarcarne l’importanza, è bene
mettere in rilievo, riguarda la nozione di consenso informato: il consenso informato non si realizza
con la sottoscrizione di un modulo, che di per sé non prova nulla, e non può essere associato, in
modo limitante, all’esaurimento di un semplice colloquio, fatto dall’operatore sanitario una volta
per tutte.
È invece il frutto di un percorso, di un dialogo, quindi di domande e risposte, che conduce
all’informazione, rivolta da parte dell’operatore sanitario all’assistito, della situazione in cui
l’assistito si trova e di quello cui va incontro a seconda delle cure che accetta.
La lunghezza del percorso, l’intensità e la profondità dei colloqui, variano a seconda della capacità
del paziente a ricevere le notizie che lo riguardano, del suo stato d’animo, del suo livello culturale.
iii) IL CODICE DEONTOLOGICO E IL SUO VALORE
Terzo punto di partenza è costituito dal valore del codice deontologico medico. Il codice
deontologico infatti contiene alcune importanti regole per il tema che ci si accinge ad affrontare,
ancora più preziose per il fatto che si inseriscono in un contesto di vuoto legislativo.
Ma quale valore giuridico ha il codice di deontologia medica?
È risaputo che non ha lo stesso valore della legge e che la sua inosservanza di per sé non dà luogo a
responsabilità giuridica, ma disciplinare.
2 Tuttavia, occorre tenere presente che alcune sentenze della Corte di Cassazione, anche delle Sezioni
Unite, hanno riconosciuto che, in certi casi (tra l’altro proprio in tema di consenso informato e
accanimento terapeutico) anche la violazione dei codici deontologici, che non si pongono in
contrasto con la Costituzione o la legge, ma si pongono con esse in linea di continuità, può dare
adito a responsabilità giuridica, non necessariamente penale2, e che tali codici hanno dunque effetto
normativo.
3.
IL QUADRO GIURIDICO
A causa del vuoto normativo sul tema del consenso informato nel momento del fine vita, il tema
che ci si appresta ad affrontare è ancora più problematico di quello che già non sarebbe per le
motivazioni esposte sopra.
Può essere utile partire proprio dalla disciplina del consenso informato della persona competente,
per poi passare ad esaminare il caso più complesso del consenso dell’incapace e dell’erogazione di
cure palliative ad assistiti capaci ed incapaci.
3.1. IL CONSENSO ALLE CURE DELLA PERSONA CAPACE: CENNI
Se il paziente è capace, i principi costituzionali (artt. 23, 34, 135, 326 Cost.), l’art. 33 della legge n.
833 del 1978 (Istituzione del servizio sanitario nazionale), la legge n.180 del 1978 sui trattamenti
sanitari obbligatori, la Carta dei Diritti fondamentali dell’Unione europea (artt. 1, 2, 3 e 20),
convergono verso la prevalenza della volontarietà delle cure, senza distinzioni in merito
all’avanzamento della patologia, sul dovere di essere curato o di curare.
L’affermazione della libertà di scelta e il divieto dell’accanimento terapeutico non risolvono tutti i
problemi: una scelta, per essere effettivamente libera, presuppone che chi la compie sia consapevole
di rischi e benefici.
In questa premessa affonda le sue radici il principio costituzionale del consenso informato. Come ha
affermato la Corte costituzionale, nella sent. n. 438 del 20107, “La circostanza che il consenso
informato trova il suo fondamento negli artt. 2, 13 e 32 della Costituzione pone in risalto la sua
funzione di sintesi di due diritti fondamentali della persona: quello all'autodeterminazione e quello
2
Cfr. Sez. un., sent. 18 dicembre 2008, n. 2437, Giulini, in Cass. pen., 2009, 1803, con nota di Viganò F, “Omessa
acquisizione del consenso informato del paziente e responsabilità penale del chirurgo: l’approdo (provvisorio?) delle
Sezioni unite”; v. inoltre Cupelli C., “Responsabilità colposa e accanimento terapeutico consentito”, nota a C ass. sez.
IV., 13.1.2011 (dep. 7.4.2011), n. 13746, in www.penalecontemporaneo.it, 24 maggio 2011, a commento di una
sentenza della Cassazione che ha ritenuto penalmente responsabile di omicidio colposo i medici, i quali avevano
eseguito un intervento chirurgico, voluto dalla paziente, che costitutiva accanimento terapeutico, in quanto vietato dal
codice deontologico.
In questa sede ci si limita a prendere atto di questa giurisprudenza, tralasciando di soffermarsi sui suoi profili critici.
3
“La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo (…) e richiede l’adempimento dei doveri
inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”.
Tra i diritti inviolabili riconosciuti dalla Costituzione vi è la libertà del proprio corpo da costrizioni di tipo fisico, che
possono essere legittimamente poste in essere solo se previste dalla legge e per ordine di un giudice (come specifica
l’art. 13 Cost., di cui v. sotto, nota 4).
4
Da questa norma, che sancisce anche il principio di uguaglianza, si ricava il principio della dignità umana.
5
Tutela la libertà personale, intesa come libertà fisica, definendola inviolabile. L’esempio principale di sua limitazione
è l’arresto. Le limitazioni alla libertà personale possono avvenire, ma solo se previste dalla legge in modo tassativo e se
ordinate da un giudice. Anche le cure mediche coattive, dal momento che incidono sulla sfera fisica dell’individuo, ne
limitano la libertà personale (es. contenzione di un malato psichiatrico; la Corte costituzionale ha ritenuto anche i
prelievi ematici trattamenti che, se eseguiti in modo coattivo, costituiscono misure incidenti sulla libertà personale, nella
sent. n. 471 del 1990).
6
È l’articolo che tutela la salute, come diritto individuale e interesse collettivo. Inoltre, prevede che i trattamenti sanitari
obbligatori debbano essere previsti dalla legge e comunque non possano mai violare il rispetto della persona umana.
7
Sebbene il consenso informato sia stato esplicitamente assurto dalla Corte costituzionale a principio costituzionale solo
nel 2010, occorre precisare che esso trova riconoscimento nella legislazione italiana da ben prima, sebbene in
riferimento a interventi medici particolari. Cfr. oltre nel testo del presente paragrafo.
3 alla salute, in quanto, se è vero che ogni individuo ha il diritto di essere curato, egli ha, altresì, il
diritto di ricevere le opportune informazioni in ordine alla natura e ai possibili sviluppi del
percorso terapeutico cui può essere sottoposto, nonché delle eventuali terapie alternative;
informazioni che devono essere le più esaurienti possibili, proprio al fine di garantire la libera e
consapevole scelta da parte del paziente e, quindi, la sua stessa libertà personale, conformemente
all’art. 32, secondo comma, della Costituzione”.
Questo diritto è espresso anche dal diritto internazionale, trovando riconoscimento nell’art. 5 della
Convenzione per la protezione dei Diritti dell’Uomo e della dignità dell’essere umano nei confronti
dell’applicazioni della biologia e della medicina: Convenzione sui Diritti dell'Uomo e la
biomedicina, firmata ad Oviedo, il 4 aprile 1997, e ratificata dall’Italia nel 2001.
Ebbene, è risaputa la difficoltà di attuare concretamente questo diritto e la tendenza, per vari motivi,
anche legati all’assenza di tempo che i medici possano dedicare alle spiegazioni al paziente, a
ridurre il consenso ad un atto formale, anziché renderlo il risultato di un percorso volto
all’informazione reale del paziente.
D’altra parte, la legge non specifica nulla intorno alle concrete modalità con cui raccogliere il
consenso, ma questa lacuna forse è ineluttabile e, anzi, opportuna.
Si è detto infatti nella premessa che il percorso necessario per l’acquisizione del consenso informato
è imprevedibile, deve essere adattato in base alle caratteristiche del singolo soggetto e dunque non è
facilmente immaginabile una disciplina che dia all’operatore sanitario le regole necessarie per tutti i
casi.
Mancano tuttavia disposizioni legislative che indichino principi direttivi cui l’operatore sanitario si
possa ispirare nella raccolta del consenso.
Il codice di deontologia medica (2014), invece, prevede alcune regole di fondo molto importanti,
ovvero che:
“Il medico garantisce alla persona assistita o al suo rappresentante legale un’informazione
comprensibile ed esaustiva sulla prevenzione, sul percorso diagnostico, sulla diagnosi, sulla
prognosi, sulla terapia e sulle eventuali alternative diagnostico terapeutiche, sui prevedibili rischi e
complicanze, nonché sui comportamenti che il paziente dovrà osservare nel processo di cura.
Il medico adegua la comunicazione alla capacità di comprensione della persona assistita o del suo
rappresentante legale, corrispondendo a ogni richiesta di chiarimento, tenendo conto della
sensibilità e reattività emotiva dei medesimi, in particolare in caso di prognosi gravi o infauste,
senza escludere elementi di speranza.
Il medico rispetta la necessaria riservatezza dell’informazione e la volontà della persona assistita
di non essere informata o di delegare ad altro soggetto l’informazione, riportandola nella
documentazione sanitaria. Il medico garantisce al minore elementi di informazione utili perché
comprenda la sua condizione di salute e gli interventi diagnostico terapeutici programmati, al fine
di coinvolgerlo nel processo decisionale”.
Le uniche norme legislative vigenti, invece, si limitano a intervenire al fine di richiedere la forma
scritta di consenso.
Si noti che la forma scritta diventa necessaria o perché vi è una legge dello Stato che la rende
obbligatoria; in alcuni casi, inoltre, il Codice di Deontologia Medica la richiede in situazioni
particolari.
Al di là di queste ipotesi, l’informazione e il consenso possono essere dati dunque oralmente.
Anzi, nella generalità dei casi avviene proprio così ed il consenso viene raccolto dunque in uno o
più colloqui, a seconda del grado di complessità della situazione.
3.2. QUANDO E A COSA SERVE LA FORMA SCRITTA PER IL CONSENSO INFORMATO
La richiesta della forma scritta avviene in relazione a particolari e specifici casi, aventi come
comune denominatore risvolti etici molto delicati, perché il paziente dispone del proprio corpo in
favore di altri (donazione di rene tra viventi), perché il paziente si assume particolari rischi
4 (sperimentazione scientifica o uso di medicinali off label), per tutelare in modo ancora più
pregnante la riservatezza del paziente (in materia di AIDS), per indurre ad una scelta
particolarmente meditata e rendere più formale l’atto, al fine di tutelare soggetti terzi ritenuti
meritevoli di protezione (es. il feto in caso di interruzione volontaria della gravidanza o il futuro
embrione nelle tecniche di fecondazione assistita).
Tra le Leggi dello Stato che rendono necessaria la forma scritta si segnalano le seguenti:
- Legge n. 468 del 1967 sul trapianto di rene tra viventi, cui si richiamano anche la legge n. 167 del
2012 sul trapianto parziale di polmone, pancreas e intestino tra persone viventi e la legge n. 483 del
1999 sul trapianto parziale di fegato tra viventi, richiede l’intervento di un’autorità giudiziaria che
certifichi (ovviamente per iscritto) la genuina volontà del donante;
- Legge n. 194 del 1978 in materia di interruzione volontaria della gravidanza;
- D. lgs. n. 211 del 2003 in materia di sperimentazione scientifica dei medicinali;
- Legge n. 40 del 2004 in materia di procreazione assistita.
Il Codice di Deontologia Medica, invece, richiede la forma scritta “nei casi previsti
dall’ordinamento e dal Codice e in quelli prevedibilmente gravati da elevato rischio di mortalità o
di esiti che incidano in modo permanente sull’integrità psico-fisica” (art. 35).
Richiede inoltre la forma scritta in casi specifici ritenuti molto delicati, come per esempio ipotesi di
prescrizione di farmaci non autorizzati (art. 13), di sperimentazione umana (art. 48), interventi al
genoma umano (art. 45), indagini predittive (art. 46).
Come si vede, il codice di deontologia rispecchia il principio di cautela cui tendono anche le norme
vigenti a livello legislativo.
Onde evitare confusione, si ritiene opportuno specificare che nulla vieta al medico, che lo ritenga
opportuno, di procedere, a chiusura del percorso volto all’acquisizione del consenso, con la
sottoscrizione da parte del paziente di una dichiarazione in cui attesta di essere stato debitamente
informato e di acconsentire ai trattamenti sanitari.
Ciò può avvenire quando il medico, in sua scienza e coscienza, lo ritenga utile.
Effettivamente, al fine di provare in giudizio che il consenso è stato correttamente raccolto (prova
che spetta al medico raggiungere) può essere utile aver prescelto la forma scritta.
Tuttavia, non si deve incorrere nell’equivoco, lo si ripete ancora, che la forma scritta sia un
passpartout per esentare il medico dalle proprie responsabilità, se non è stata preceduta da una
corretta illustrazione della diagnosi e di rischi e benefici della cura o dell’intervento chirurgico.
Si tenga conto che la forma scritta non dà vita nemmeno ad una presunzione che il medico abbia
agito correttamente. Insomma, se il percorso che porta alla corretta acquisizione del consenso non è
stato realizzato, non serve a nulla.
In particolare, vi è una giurisprudenza che chiarisce questo aspetto, ritenendo il medico responsabile
per mancanza del consenso informato del paziente, quando ha fatto sottoscrivere al paziente moduli
per l’acquisizione del consenso del tutto generici.
Come ha affermato la Corte di Cassazione, sez. III civile, sent. 8 ottobre 2011, n. 24791, il “medico
viene meno all’obbligo di fornire un valido ed esaustivo consenso informato al paziente non solo
quando omette del tutto di riferirgli della natura della cura cui dovrà sottoporsi, dei relativi rischi
e delle possibilità di successo, ma anche quando ritenga di sottoporre (…) al paziente, perché lo
sottoscriva, un modulo del tutto generico, dal quale non sia possibile desumere con certezza che il
paziente abbia ottenuto in modo esaustivo le suddette informazioni”.
Ancora, secondo il Tribunale di Bologna, sez. III civile, sentenza 19 marzo 2013, n. 849, “la prova
di aver ottenuto il consenso informato non può ritenersi raggiunta mediante la mera produzione del
modulo del citato consenso firmato, proprio perché, vista la delicatezza della materia, il consenso
deve essere attuale e parametrato allo specifico e concreto intervento da eseguire”.
O, per il Tribunale di Roma, sez. XIII civile, sentenza 12 settembre 2012, n. 17119, “Il medico
viene meno all’obbligo di fornire un valido ed esaustivo consenso informato al paziente non solo
quando omette del tutto di riferirgli della natura della cura cui dovrà sottoporsi, dei relativi rischi
e delle possibilità di successo, ma anche quando ritenga di sottoporre al paziente, perché lo
5 sottoscriva, un modulo del tutto generico, dal quale non sia possibile desumere con certezza che il
paziente abbia ottenuto in modo esaustivo le suddette informazioni” (in questo senso si è espresso
anche il Tribunale civile di Trieste, sentenza 15 marzo 2011, n. 269).
D’altra parte, dinanzi a un modulo dettagliato, ci si può porre il problema se il paziente sia stato in
grado di recepire davvero il suo contenuto, che potrebbe essere “troppo tecnico” per essere
compreso.
Da ultimo, si tenga conto che, secondo la Cassazione, la forma scritta del consenso, ancorché
abbinata all’elevato livello culturale del paziente, non dimostra di per sé che il paziente stesso sia
stato correttamente informato: come è stato affermato, “Con riferimento alla esecuzione di un
intervento chirurgico su paziente avvocato, cui il corrispondente modulo del consenso informato
sia stato fatto sottoscrivere nell'imminenza dell'operazione, spetta al medico dimostrare - a fronte
dell'allegazione di inadempimento da parte del paziente - di aver invece adempiuto all'obbligazione
di fornirgli un'informazione completa ed effettiva sulla natura dell'intervento medesimo, sulla sua
portata ed estensione, sui suoi rischi, sui risultati conseguibili e sulle possibili conseguenze
negative, essendo irrilevante la qualità personale del paziente al fine di stabilire se vi sia stato o
meno consenso informato nel senso sopra evidenziato, e potendo tale qualità incidere solo sulle
modalità di informazione, che deve sostanziarsi in spiegazioni dettagliate ed adeguate al livello
culturale del paziente, con l'adozione di un linguaggio che tenga conto del suo particolare stato
soggettivo e del grado di conoscenze specifiche di cui dispone” (Cassazione civile sez. III 20
agosto 2013 n. 19220).
Uno strumento per provare la corretta acquisizione del consenso è la testimonianza, che può
consentire di ricostruire la esecuzione del reale rapporto tra operatore sanitario e paziente.
3.3. LA DELEGA AI SENSI DEL CODICE DEONTOLOGICO E L’ESPRESSA VOLONTÀ DI
NON ESSERE INFORMATO
Altro problema molto delicato attiene al carattere personale del consenso.
Che cosa accade se la persona assistita che è ancora capace non vuole essere informata e/o chiede
che l’informazione sia delegata ad un altro soggetto?
Non stiamo parlando dei casi di minore, di interdetto o inabilitato, per cui intervengono, in base alla
legge, genitori, tutore e curatore, nominati secondo le norme del codice civile, o della persona
divenuta incapace che ha delegato un fiduciario8, bensì di casi in cui la persona assistita, capace di
comprendere la situazione e esprimere la propria volontà, vuole deliberatamente essere lasciata
fuori dalle scelte sui propri trattamenti.
Questa decisione può essere dettata da una volontà consapevole o da una condizione di fragilità: la
subalternità ad un parente, ad esempio, dovuta a motivi pregressi o al carattere molto grave della
patologia, che rende la persona più vulnerabile a livello psicologico (senza averne minato
8
Art. 346 ss. cod. civ.
Si tratta di casi delicatissimi e talvolta laceranti, se minore o interdetto sono in grado di comprendere anche solo in parte
la situazione; cfr. l’art. 6 della Convenzione di Oviedo, per cui “Il parere di un minore è preso in considerazione come
un fattore sempre più determinante, in funzione della sua età e del suo grado di maturità” e “Allorquando, secondo la
legge, un maggiorenne, a causa di un handicap mentale, di una malattia o per un motivo similare, non ha la capacità di
dare consenso ad un intervento, questo non può essere effettuato senza l’autorizzazione del suo rappresentante, di
un’autorità o di una persona o di un organo designato dalla legge. La persona interessata deve nei limiti del possibile
essere associata alla procedura di autorizzazione”. Ma in questo senso vanno anche i principi costituzionali posti a
tutela della libertà di scelta nelle cure.
Cfr. poi l’art. 37 del codice deontologico, che configura in capo al medico un obbligo di intervento nell’immediato,
anche contro la volontà di minore e rappresentante legale, per poi devolvere la soluzione del caso al giudice, se ritiene
le cure indispensabili e indifferibili.
Sul consenso alle cure palliative nei bambini, v. Benini F, Po’ C, Ferrante A, Scarani R, Jankoic M, “Gestione di fine
vita nei bambini con patologia oncologica in Italia: un’indagine retrospettiva”, Riv. It. cure palliative, fasc. 2 del 2012,
p. 29 ss. Gli Aa. notano che i genitori hanno bisogno di più tempo ad accettare lo stato terminale della malattia e per
questo può essere utile iniziare a informarli della possibilità di somministrare cure palliative e di supporto anche prima e
indipendentemente dalla maturazione della prognosi da parte loro.
6 completamente la capacità di comprendere la situazione e di decidere in merito alle cure
necessarie).
Solitamente, in questi casi la persona fragile si rivolge ad un parente.
Si tratta di una situazione non infrequente nel momento del fine vita, in cui spesso il familiare o i
familiari si propongono come interlocutori dell’operatore sanitario per proteggere il malato, e con
cui il medico palliativista si trova non di rado a fare i conti.
La legge tace e l’unica norma cui fare riferimento è l’art. 34 del codice di deontologia medica, per
cui il “medico rispetta (…) la volontà della persona assistita di non essere informata o di delegare
ad altro soggetto l’informazione, riportandola nella documentazione sanitaria”.
In questo contesto normativo così scarno, per l’operatore sanitario il terreno è davvero instabile.
La delega, la cui funzione è ben comprensibile, specialmente nei casi in cui il progredire della
malattia rende particolarmente doloroso e afflittivo per il malato ricevere le informazioni, non è
infatti regolamentata da fonti legislative.
È dunque una delega impropria, se si sta esclusivamente ai dettami della legge.
Naturalmente, il rispetto della volontà del paziente, che non vuole più essere informato, è
fondamentale.
Da un punto vista etico e giuridico, l’operatore sanitario infatti non può obbligare la persona
assistita ad essere coinvolta e informata, se non vuole, e deve fare capo al delegato indicato dal
malato stesso.
Tuttavia, dovrà prestare particolare attenzione a possibili campanelli d’allarme che possano indurre
a ritenere venuta meno la volontà di non essere informato.
L’operatore sanitario deve quindi usare estrema cautela nell’affrontare queste situazioni, chiedendo
quale è il motivo della delega, e verificando, per quanto possibile, che la volontà di non ricevere
informazioni e delegare un altro soggetto a riceverle sia frutto di una decisione consapevole e libera
e non sia venuta meno dopo un certo periodo, o a ridosso di importanti interventi o cambiamenti
nelle cure, o non sia subentrata la volontà di coinvolgere e delegare altri soggetti.
Si tratta di situazioni estremamente complesse, che aprono problemi davvero delicati, perché, come
si intuisce immediatamente, ricevere informazioni infauste potrebbe essere per la psicologia del
paziente devastante.
Se viene meno il dissenso a ricevere le informazioni, l’operatore sanitario dovrebbe tuttavia
riprendere a fare riferimento alla persona assistita e non più al delegato, informando quest’ultimo di
quanto sta accadendo.
Più complesso è il fronte della delega alla scelta delle cure, cui ovviamente la delega a ricevere le
informazioni è strettamente intrecciata.
Se si sta alla lettera del codice deontologico, è in realtà possibile delegare le informazioni, ma non il
consenso.
In questa sede si tenterà di descrivere brevemente il problema, senza alcuna pretesa di darvi una
soluzione.
Ad un primo esame, non si sono reperite indicazioni nella giurisprudenza, che sembrerebbe non
aver ancora risolto controversie civili o affrontato procedimenti penali facendo riferimento a questa
norma del codice deontologico.
Giuridicamente, la delega del consenso informato alle cure di una persona capace di intendere e di
volere pone notevoli problemi.
In assenza di una legge ad hoc, vigono i principi generali del diritto civile in merito agli atti
personalissimi, cioè attinenti alla sfera più intima e soggettiva: si tratta di matrimonio,
riconoscimento di figli illegittimi, testamento, donazione, confessione e giuramento. Questi atti non
possono essere delegati.
Ciò per tutelare la persona dall’imposizione di deleghe contro la propria volontà, o che
semplicemente potrebbero portare all’adozione di atti personalissimi non interamente voluti. Si
vuole, insomma, che nulla possa interferire con la volontà del soggetto cui fa capo l’atto
personalissimo.
7 Inoltre, non sussistono in questo caso le ragioni che hanno visto la giurisprudenza valorizzare, per
l’espressione del consenso dell’incapace, il ruolo del tutore, del curatore speciale,
dell’amministratore di sostegno (su cui cfr. il prossimo paragrafo).
Tuttavia, ad un primissimo esame sembra di potersi affermare che il principio costituzionale del
consenso informato possa ricomprendere nella propria sfera di applicazione anche la scelta
volontaria della persona malata di accettare le cure che una terza persona, debitamente informata
dagli operatori sanitari, decide per lei di fare.
Quanto alle modalità di conferimento della delega a ricevere le informazioni, la forma scritta non è
essenziale e può aiutare da un punto di vista probatorio, ma quello che conta sul serio è che alla
base vi deve essere una genuina volontà della persona assistita.
Come si è visto sopra, l’art. 34 del codice deontologico richiede che il medico registri nella
documentazione sanitaria che la persona non intende essere informata. Naturalmente, questa
disposizione deve essere osservata.
Nella prassi, questo strumento viene utilizzato spesso in presenza di malattia terminale in fase
avanzata, quando interviene l’équipe che somministra le cure palliative, per ovviare, evidentemente,
al vuoto legislativo che caratterizza il nostro ordinamento.
In questi casi, la delega viene data perché si sta perdendo la capacità di comprendere la situazione e
di decidere o per la gravità della situazione.
Si tornerà sul tema nel par. 6, dedicato al consenso alle cure palliative, in cui verrà affrontato
tenendo conto anche dei possibili conflitti che possono generarsi fra parente o altro soggetto dotato
di delega e parenti che ne sono privi.
4. CURE E INCAPACITÀ DI INTENDERE E DI VOLERE: COME ATTUARE IL PRINCIPIO
DEL CONSENSO INFORMATO?
È noto che la persona assistita, chiamata al consenso, può trovarsi in tre diverse situazioni: a)
capacità; b) semincapacità; c) incapacità (anche temporanea).
Come noto, nei testi legislativi richiamati sopra non si specifica nulla del modo in cui è possibile
dare valore giuridico alle volontà espresse dalla persona incapace quando era in grado di esprimere
la sua volontà o della possibilità di delegare in via preventiva un altro soggetto ad esprimere il
consenso nel caso in cui sopravvenga l’incapacità.
Solo la Convenzione di Oviedo, del 4 aprile 1997, ratificata dall'Italia con legge n. 145/2001,
specificamente all’art. 6, prevede che nessuna cura possa essere effettuata ad una persona incapace,
senza il consenso di un suo rappresentante, un’autorità, una persona o un istituto designati a questo
scopo dalla legge. Questa disposizione, senza un’attuazione da parte della legge italiana, non risolve
però tutti i problemi.
Tuttavia, la giurisprudenza ha chiarito che i principi costituzionali vigenti portano nella loro
sommatoria a tutelare la libertà di scelta del paziente divenuto incapace, anziché il dovere di essere
curato o il dovere di curare dei medici.
La Corte di Cassazione ha affermato che il dissenso o rifiuto delle cure (ad esempio di trasfusioni di
sangue per motivi religiosi) deve essere: espresso, inequivoco, attuale e informato (Cassazione
civile, terza sezione, 15 settembre 2008, n. 23676).
Ci si riferisce, poi, alla sentenza della Cassazione sul noto caso Englaro (sent. 21748 del 2007),
ripresa interamente più di recente dalla sent. n. 4460 del 2014 del Consiglio di Stato.
In questa importante pronuncia, i giudici hanno affermato che la persona incapace di esprimere la
sua volontà deve comunque poter rifiutare le cure, anche se ciò porta alla fine della vita, alle
seguenti condizioni:
“(a) quando la condizione di stato vegetativo sia, in base ad un rigoroso apprezzamento clinico,
irreversibile e non vi sia alcun fondamento medico, secondo gli standard scientifici riconosciuti a
livello internazionale, che lasci supporre la benché minima possibilità di un qualche, sia pure
flebile, recupero della coscienza e di ritorno ad una percezione del mondo esterno; e
8 (b) sempre che tale istanza sia realmente espressiva, in base ad elementi di prova chiari, univoci e
convincenti, della voce del paziente medesimo, tratta dalle sue precedenti dichiarazioni ovvero
dalla sua personalità, dal suo stile di vita e dai suoi convincimenti, corrispondendo al suo modo di
concepire, prima di cadere in stato di incoscienza, l’idea stessa di dignità della persona.”La Corte di Cassazione ha affermato che questo può avvenire con l’autorizzazione di un giudice e
se lo richiede il tutore, sentendo anche un altro soggetto (il curatore speciale), che si ponga in
contraddittorio col tutore.
Ciò in forza del principio costituzionale del consenso informato ai trattamenti sanitari, il quale come
si è visto trova riconoscimento negli artt. 2 (che tutela i diritti inviolabili dell’uomo), 13 (per cui la
libertà personale è inviolabile e dunque spetta alla persona e solo a questa disporre del proprio
corpo: cfr. la sent. n. 471 del 1990 della Corte costituzionale) e 32 (per cui la salute è un diritto
della persona e si ammettano trattamenti sanitari obbligatori in via eccezionale e comunque sempre
nel rispetto della persona umana).
Questo principio non può essere limitato a tutela di coloro che sono capaci di intendere e di
manifestare il loro consenso, ma deve essere esteso anche a chi non è più in queste condizioni.
La Corte di Cassazione specifica che il diritto di rifiutare le cure deve essere garantito anche se la
persona non ha espresso precedentemente dichiarazioni anticipate di trattamento, con questo
implicando che le dichiarazioni anticipate sono non solo possibili, ma costituiscono una
fondamentale guida per l’attività degli operatori sanitari.
Nonostante questo importante contributo della giurisprudenza, la situazione rimane molto confusa.
La Cassazione non ha ovviamente potuto (come è giusto che sia) disciplinare in modo esaustivo la
materia e introdurre una regolamentazione organica del settore.
Il Parlamento è rimasto inerte e solo a livello locale (comunale9 o regionale10) sono stati messi a
punto alcuni interventi, che consistono semplicemente nella istituzione di registri cui possono
iscriversi coloro che hanno depositato dichiarazioni anticipate di trattamento.
Il fine di simili interventi è facilitare il reperimento delle direttive e dare al cittadino un supporto
nella attestazione di una loro esistenza. L’iscrizione al registro può essere inoltre senz’altro utile per
provare in giudizio l’esistenza delle dichiarazioni anticipate di trattamento.
Molto interessante è il caso del Friuli Venezia Giulia, che con la legge n. 4 del 2015 ha previsto la
possibilità di far inserire dall’ASL in una banca dati regionale la dichiarazione e di registrarla sulla
propria Carta regionale dei servizi, nonché, in forma codificata, sulla tessera sanitaria personale.
Questa legge prevede inoltre la possibilità di indicare, nella dichiarazione, il nome di un fiduciario,
“per l’interlocuzione e il contraddittorio” con il Servizio Sanitario regionale in merito alla
dichiarazione medesima.
La legge è stata però impugnata dal Governo davanti alla Corte costituzionale, in quanto la regione
avrebbe legiferato in un ambito esulante dalla sua competenza11. Occorre quindi attendere la
pronuncia della Corte costituzionale, per capire se questa normativa rimarrà in vigore.
Come si diceva, l’assenza di una legge nazionale ad hoc che disciplini le direttive anticipate di
trattamento e la figura del fiduciario crea incertezza e confusione. Anche per questo, una reale
cultura del consenso informato alle cure dei malati nell’ultimo stadio della vita fatica ad affermarsi
in Italia.
Ma quali sono, oggi, i diritti del paziente totalmente o parzialmente incapace?
E quale dovrebbe essere il comportamento corretto del medico e degli altri operatori sanitari?
9
Ad esempio, si ricorda qui l’iniziativa del Comune di Milano, che nel 2013 ha adottato un regolamento comunale per
la raccolta delle dichiarazioni in merito al deposito in luoghi diversi dal Comune di dichiarazioni anticipate di
trattamento (Istituzione del registro per il deposito delle attestazioni anticipate di volontà sui trattamenti sanitari, in
materia di prelievi e di trapianti di organi e di tessuti, nonché in ordine alla cremazione ed alla dispersione delle
ceneri). I comuni intervenuti in questo modo sono più di 80.
10
Il Friuli – Venezia Giulia è per esempio intervenuto. Cfr. oltre nel testo.
11
Si tenga presente che la legge in questione è stata modificata con la l. regionale n. 16 del 2015, adottata per far fronte
al ricorso governativo, eliminando o modificando le parti della legge ritenute maggiormente a rischio di cadere sotto la
scure della Corte costituzionale. 9 Primo punto di partenza è costituito dal codice di deontologia medica, per cui “Il medico non
abbandona il paziente con prognosi infausta o con definitiva compromissione dello stato di
coscienza, ma continua ad assisterlo e se in condizioni terminali impronta la sua opera alla
sedazione del dolore e al sollievo dalle sofferenze tutelando la volontà, la dignità e la qualità della
vita. Il medico, in caso di definitiva compromissione dello stato di coscienza del paziente, prosegue
nella terapia del dolore e nelle cure palliative, attuando trattamenti di sostegno delle funzioni vitali
finché ritenuti proporzionati, tenendo conto delle dichiarazioni anticipate di trattamento” (art.
39)12.
Inoltre, usando la sentenza Englaro come secondo punto di partenza, è possibile compiere
importanti considerazioni che possono tornare utili per gettare un po’ di luce sulla zona grigia di cui
si è detto, anche se in conclusione si delineeranno alcuni elementi distintivi del caso del malato
terminale con il caso di Eluana Englaro.
Partiamo dalla persona assistita divenuta incapace di intendere e di volere.
Questa ha diritto di rifiutare le cure e tra queste vanno incluse l’alimentazione e l’idratazione
artificiale13.
Gli strumenti con cui far valere questo diritto sono i seguenti.
In primo luogo, si hanno le dichiarazioni anticipate di trattamento, un atto in cui sono indicate le
volontà in materia di cura da utilizzare nel caso di sopravvenuta incapacità.
Possono essere redatte in qualunque momento, sia quando la persona è sana, in previsione di una
malattia o incidente che renda impossibile esprimere il consenso o dissenso, sia da una persona
malata, che è a conoscenza di una patologia il cui decorso le renderà impossibile manifestare il
proprio consenso o dissenso.
Possono (ma non devono) essere redatte davanti a un notaio o solo depositate presso un notaio;
possono essere anche redatte con forma di scrittura privata e conservate privatamente; si è già detto
dei registri comunali o regionali, alcuni dei quali le raccolgono (Friuli Venezia Giulia), altri ne
attestano solo il deposito presso un luogo diverso dal Comune (Milano).
Il notaio certifica la autenticità del contenuto delle dichiarazioni, se redatte in sua presenza. In
questa sede, può anche dare al dichiarante informazioni legali e consigliarlo, rifiutando di
raccogliere dichiarazioni contrarie alla legge o non attuabili perché non chiare14. Diversamente, se
la dichiarazione è già stata redata, il notaio attesta solo che il deposito presso il suo archivio,
attribuendovi data certa.
L’intervento del notaio è dunque utile perché dovrebbe garantire qualcosa in più, in termini di
veridicità del contenuto e/o della data dell’atto, rispetto alla scrittura privata depositata dalla
persona, ad esempio, nella sua dimora.
Il ricorso al registro comunale o regionale consente alla persona di provare che in una certa data ha
depositato (o dichiara di avere depositato, se l’ente pubblico non le raccoglie) le dichiarazioni
anticipate.
Ciò non significa che per l’operatore sanitario la scrittura privata, non registrata in alcun ente
pubblico, sia priva di valore giuridico.
Oltre alle dichiarazioni anticipate in forma scritta, possono essere riferiti all’operatore da parte di
parenti o amici colloqui con la persona quando era capace di intendere e di volere, da cui si ricavi lo
stile di vita della persona. Anche questi possono essere utili all’operatore stesso per orientarsi.
Veniamo al secondo strumento.
Nelle dichiarazioni anticipate di trattamento, è possibile nominare un fiduciario, attribuendogli il
potere di intervenire nel caso di sopravvenuta incapacità esprimendo il consenso al posto della
12
In senso analogo si esprime il codice deontologico degli infermieri.
Così v. da ultimo la sent. Lambert and others v. France del 25 giugno 2015: la Corte europea dei diritti dell’uomo
(Grand Chambre) – con una maggioranza di 12 giudici su 17 - ha statuito in questa decisione che la sospensione dei
trattamenti di nutrizione e di idratazione artificiali non comporta una violazione dell’art. 2 CEDU (diritto alla vita).
14
Cfr. D’Errico M, “Il testamento biologico e il ruolo del notaio”, in Bianca M, “Le decisioni di fine vita”, Milano,
2011.
13
10 persona divenuta appunto incapace.
Può trattarsi di un parente, di un amico, di un soggetto con particolari competenze professionali,
scelto per la conoscenza e la capacità di rispettare al meglio la volontà di chi lo nomina, e
preferibilmente più giovane. Si rinvia al par. 5 per un’analisi del profilo del fiduciario e delle
competenze che deve avere (ci si chiederà, in particolare, se un medico possa efficacemente
svolgere questo ruolo o meno).
È difficile dire quali siano oggi i reali poteri del fiduciario, data la carenza di norme. Certamente, il
fatto che sia stato nominato è molto rilevante e l’operatore sanitario dovrebbe fare riferimento a lui
e non ad altri soggetti.
Può essere utile ricordare che oggi esiste anche un’altra figura molto importante ai nostri fini,
ovvero l’amministratore di sostegno, introdotto nel nostro ordinamento con la l. n. 6 del 200415.
Questo soggetto, che, come suggerisce la parola “sostegno”, non dovrebbe sostituirsi all’assistito
ma affiancarsi ad esso, nasce per supportare nella gestione della amministrazione ordinaria, della
vita quotidiana, chi si trova in stato di infermità e non è in grado di provvedere ai propri interessi.
È nominato dal giudice tutelare, in seguito ad un colloquio con il futuro beneficiario, anche su
richiesta di quest’ultimo. La richiesta può poi provenire dal coniuge, dalla persona stabilmente
convivente, dai parenti entro il quarto grado, dagli affini entro il secondo grado, dal tutore o
curatore ovvero dal pubblico ministero.
Inoltre, ai sensi dell’art. 406 cod. civ., “I responsabili dei servizi sanitari e sociali direttamente
impegnati nella cura e assistenza della persona, ove a conoscenza di fatti tali da rendere opportuna
l’apertura del procedimento di amministrazione di sostegno, sono tenuti a proporre al giudice
tutelare il ricorso” per la nomina dell’amministratore medesimo.
Il ricorso volto alla nomina deve essere presentato all’ufficio del giudice tutelare del tribunale (non
essendo specificato quale, si ritiene quello competente nel territorio in cui il futuro beneficiario si
trova) e deve essere corredato da alcune informazioni: deve indicare le generalità del beneficiario,
la sua dimora abituale, le ragioni per cui si richiede la nomina dell’amministratore di sostegno, il
nominativo ed il domicilio del coniuge, dei discendenti, degli ascendenti, dei fratelli e dei
conviventi del beneficiario se conosciuti da chi presenta il ricorso (art. 407 cod. civ.).
È importante ricordare che il giudice, nel decreto con cui nomina l’amministratore di sostegno, gli
attribuisce dei compiti, che possono essere più o meno ampi a seconda dei casi e delle necessità.
Il giudice nomina per questo ruolo, “ove possibile, il coniuge che non sia separato legalmente, la
persona stabilmente convivente, il padre, la madre, il figlio o il fratello o la sorella, o il parente
entro il quarto grado” (art. 408 cod. civ.).
Per queste sue caratteristiche e per la flessibilità dei suoi compiti, l’amministratore di sostegno si
presta quindi anche a subentrare gradualmente in ulteriori funzioni che il beneficiario non è più in
grado di assolvere.
Ma può l’amministratore di sostegno manifestare il consenso o dissenso alle cure, al posto del suo
assistito, che non è più in grado di farlo? In assenza di una legge, si può volgere lo sguardo a questa
figura?
Normalmente, nei decreti di nomina degli amministratori di sostegno, è specificato che non rientra
tra i compiti di questi manifestare il consenso ai trattamenti sanitari, così come compiere altri atti
personalissimi, tra cui il matrimonio ad esempio.
Tuttavia, sebbene l’amministratore di sostegno nasca per compiere atti di ordinaria amministrazione
e non gli atti personalissimi, come le scelte in materia di cura, non vi sono nella l. n. 6 del 2004
preclusioni esplicite.
Anzi, apre verso questa torsione del ruolo l’art. 408 cod. civ., secondo cui “l'amministratore di
sostegno può essere designato dallo stesso interessato, in previsione della propria eventuale futura
15
In tema v. Vimercati B, “Dai requisiti di attivazione dell’amministrazione di sostegno alla necessità
dell’interposizione del legislatore in materia di decisioni di fine vita (sulla sentenza di Cassazione civile, sez. I, 20
dicembre 2012, n. 23707”, Osservatorio AIC, luglio 2013; della stessa A., “Consenso informato e incapacità. Gli
strumenti di attuazione del diritto costituzionale all’autodeterminazione terapeutica”, Milano, 2014.
11 incapacità, mediante atto pubblico o scrittura privata autenticata”. Questa norma, come si vede,
ben si presta ad essere utilizzata per nominare una amministratore di sostegno che svolga le
funzioni del fiduciario nell’attuazione delle dichiarazioni anticipate di trattamento.
Si è così assistito a casi di attribuzione da parte del giudice di specifici poteri in materia di cure e a
pronunce giurisdizionali che hanno ammesso la possibilità di assegnare, su richiesta della persona
inferma ed in previsione (del tutto astratta) di un suo stato di incapacità, all’amministratore di
sostegno anche la facoltà di rifiutare determinati interventi medici (rianimazione cardiopolmonare,
dialisi, trasfusioni di sangue, terapie antibiotiche, ventilazione, idratazione e alimentazione forzata e
artificiali16) o di accettare le cure palliative.
La Corte di cassazione, tuttavia, con la sent. n. 23707 del 2012, ha negato che sussista il diritto a
vedersi nominare, da parte del giudice tutelare, un amministratore di sostegno con poteri in materia
di consenso informato ai trattamenti sanitari in previsione di una propria futura incapacità.
Questo perché si tratta di una figura che può essere abilitata assistere l’infermo quando ciò si rivela
necessario.
Significativo però che la Cassazione non neghi che, quando invece la necessità sussiste al momento
della nomina, ciò sia possibile, in quanto lo stato di incapacità è attuale.
Oggi l’amministratore di sostegno può quindi svolgere un fondamentale ruolo e fungere da punto di
riferimento per il medico palliativista.
Per comprendere di quali poteri sia titolare, questi dovrebbe chiedergli se il decreto di nomina gli
attribuisca o meno il compito di prestare e rifiutare il consenso a determinate cure ed
eventualmente, in caso di dubbio, prenderne visione.
Rimangono aperti però alcuni problemi di fondo.
Non essendo stato previsto per far fronte a situazioni straordinarie, come possono essere quelle
legate agli sviluppi, talvolta improvvisi, di una patologia, non è prevista una procedura d’urgenza
per la nomina.
Si pensi che il giudice è chiamato a nominare l’amministratore entro 60 giorni dalla presentazione
del ricorso in cui ne è fatta richiesta.
Ciò non toglie che, segnalando le esigenze di tempestività all’ufficio del giudice, sia possibile avere
la nomina nel giro di una settimana circa, lasso di tempo che, comunque, può rivelarsi eccessivo.
Nemmeno è previsto un dovere specifico di reperibilità, sebbene si specifichi che l’amministratore
deve intervenire tempestivamente.
L’unica norma che può tornare utile per risolvere il problema delle emergenze è l’art. 405 cod. civ.,
in cui è previsto che: “Qualora ne sussista la necessità, il giudice tutelare adotta anche d’ufficio i
provvedimenti urgenti per la cura della persona interessata e per la conservazione e
l’amministrazione del suo patrimonio. Può procedere alla nomina di un amministratore di sostegno
provvisorio indicando gli atti che è autorizzato a compiere”.
Potrebbe (anzi dovrebbe) essere quindi lo stesso giudice a intervenire, non appena investito del
ricorso, su segnalazione dei motivi di urgenza.
Secondo problema deriva dal fatto che, essendo l’amministratore di sostegno una figura che nasce
per assistere chi non è capace di provvedere da solo alle esigenze di vita quotidiana e non a far
fronte e situazioni straordinarie, come quelle legate alle scelte di cure, la legge non richiede requisiti
per essere nominati amministratori di sostegno, tali da proteggere il beneficiario in modo sicuro da
abusi, inerzie, incompetenza dell’amministratore.
16
Trib. Modena, decreto del 5 novembre 2008.
Si veda anche il decreto del Trib. di Reggio Emilia del 24 luglio 2012, che aveva attribuito all’amministratore di
sostegno il potere di rifiutare il consenso alla ventilazione artificiale e di prestarlo invece alle cure palliative. In quel
caso la beneficiaria dell’amministratore di sostegno era però affetta da sclerosi multipla avanzata e diabete mellito,
allettata e nutrita tramite PEG. Nella fattispecie quindi l’amministratore non viene nominato in previsione astratta di
una futura incapacità.
12 5. IL FIDUCIARIO
In un articolo pubblicato nell’aprile 1991 sul New England Journal of Medicine, una delle più
importanti e diffuse riviste di Medicina interna al mondo, il bioeticista della Boston University
Gorge J. Annas commentava la decisione del Congresso e del Presidente degli Stati Uniti
d’America di introdurre l’obbligo – per ospedali, servizi infermieristici, hospice ed organizzazioni
sanitarie facenti capo a Medicare o Medicaid (i due programmi governativi che erogano assistenza
sanitaria negli Stati Uniti) – di informare per iscritto, a far tempo dal 1° dicembre dello stesso anno,
tutti i pazienti adulti nuovi assistiti del loro diritto di prendere decisioni sulle proprie cure,
compreso il diritto di redigere un “living will”17.
Gli ordinamenti degli Stati americani erano all’epoca già giunti alla seconda generazione di norme
sul “testamento biologico”, promulgate per correggere limiti e carenze dei primi dispositivi: tra
questi, il fatto di richiedere a una persona di prevedere (e prevedere in modo accurato) la propria
condizione patologica terminale, considerando i trattamenti medici eventualmente disponibili per
procrastinarne la morte, ed ai medici di prendere decisioni sulla base della loro interpretazione di un
documento, piuttosto che dopo una discussione delle opzioni terapeutiche con il diretto interessato.
La soluzione a questi problemi era stata trovata nell’identificazione di un “health care proxy”,
termine traducibile con “delegato per la cura della salute”, altrimenti detto “avvocato”, “agente”,
“decisore surrogato” o “fiduciario”.
Si tratta, appunto, di una persona di fiducia che il paziente sceglie perché prenda le decisioni in sua
vece, quando lui stesso non sarà più in grado di farlo perché divenuto incapace, una persona che
avrà la stessa autorità che avrebbe avuto il paziente nel consentire o rifiutare un trattamento, una
persona con la quale il Medico potrà discutere le diverse opzioni, invece di dover decifrare un
documento scritto.
L’obbligo (morale, prima ancora che giuridico) del fiduciario sarà quello di prendere decisioni
coerenti con i desiderata del paziente, se questi desideri sono noti, o nel migliore interesse del
paziente, quando i desiderata rispetto alla situazione concreta non siano invece conosciuti.
L’articolo riportava in allegato un modello di modulo per la nomina del fiduciario, in uso in
Massachusetts, così traducibile:
17
Annas GJ, “The health care proxy and the living will”, The New England Journal of Medicine 1991; 324:1210-1213.
13 Io sottoscritto, ________________________________________________________,
(nome dell’adulto capace)
residente in ____________________________________________________________,
(Comune, via, numero civico)
nomino mio fiduciario per le questioni di salute ________________________________, residente
(nome della persona scelta)
in ___________________________,
(Comune, via, numero civico)
telefono n. __________ .
Facoltativo:
Se il designato non fosse disponibile o si trovasse impossibilitato a prestare il suo servizio, nomino in sostituzione
______________________________________,
(nome della persona scelta come alternativa al primo fiduciario)
residente in _____________________________,telefono n. __________ .
(Comune, via, numero civico)
Il mio fiduciario avrà l’autorità per prendere in mia vece tutte le decisioni mediche che mi riguardano, con le
limitazioni specificate sotto, nel caso io fossi incapace di prendere autonomamente decisioni. Il potere del mio
fiduciario diventerà effettivo nel momento in cui il mio Curante attesterà per iscritto che avrò perso la capacità di
prendere o comunicare decisioni mediche. Il mio fiduciario avrà da quel momento la stessa autorità di prendere
decisioni che avrei io se avessi ancora la capacità di prenderle, eccetto (inserire qui l’elenco delle limitazioni, se ve ne
sono, che si intende porre all’autorità del fiduciario):
________________________________________________________________________________________________
________________________________________________________________________________________________
________________________
Stabilisco che il mio fiduciario prenda le decisioni sulla base della sua valutazione di quelli che sarebbero i
miei desideri. Se i miei desideri fossero sconosciuti, il mio fiduciario prenderà le decisioni sulla base della sua
valutazione del mio miglior interesse. Fotocopie di questo documento avranno la stessa efficacia ed effetti
dell’originale.
Firmato_______________________________________________________________
Da completare solo nel caso il delegante sia fisicamente incapace di firmare:
Il sottoscritto _____________________________, residente in ________________________ , dichiara di aver
compilato il presente modulo per
(Comune, via, numero civico)
conto del delegante, seguendone le istruzioni, alla sua presenza ed alla presenza di due testimoni.
Dichiarazione dei testimoni
I sottoscritti attestano che il presente documento è stato firmato personalmente dal delegante o sotto la sua
direzione e dichiarano che il delegante appare nel pieno possesso delle sue capacità mentali e libero da
condizionamenti. Nessuno dei sottoscritti è stato nominato come fiduciario o suo sostituto in questo documento.
Luogo e data
Testimone n. 1________________________ Testimone n. 2___________________
(firma)
(firma)
Nome (in stampatello) _________________ Nome (in stampatello) ____________
Indirizzo
_____________________________
Indirizzo
_______________________
14 Si è voluto riportare per esteso questo esempio per sottolineare la scelta di privilegiare la natura di
“scrittura privata” di questi documenti, piuttosto che richiedere l’intervento di un certificatore
pubblico (il notaio nel nostro ordinamento). Ma sulla questione si rimanda a quanto già espresso a
p. 10.
Tornando invece ora all’articolo del New England Journal of Medicine, le osservazioni del prof.
Annas si appuntavano sull’opportunità di prevedere limitazioni al potere decisionale del fiduciario,
sul ruolo delle istituzioni sanitarie rispetto alla formazione degli operatori e sulla responsabilità dei
medici, sull’identificazione del miglior formulario per la nomina, sui limiti intrinseci di questo
strumento rispetto a tante tipologie di pazienti (quali bambini o soggetti con infermità mentali), per
i quali le decisioni terapeutiche sarebbero comunque state governate dall’incerto standard del
“miglior interesse” che dovrebbe valere indistintamente per tutti, o dal riferimento ai concetti di
“cure mediche appropriate” o “idonee” o “ragionevoli”.
La nomina di un fiduciario è inoltre destinata ad avere scarsa utilità nelle situazioni di emergenza,
quando può mancare il tempo per contattarlo, informarlo e consultarlo.
Né questo strumento può risolvere il problema della richiesta di trattamenti “futili”, non
diversamente però da quanto potrebbe avvenire se la richiesta venisse presentata dal diretto
interessato.
La questione fondamentale, in ogni caso, quella sulla quale è importante focalizzare l’attenzione,
come si sottolinea nelle righe conclusive dell’articolo, è rappresentata dalla scelta della persona cui
delegare questo compito: designare un decisore in nostra vece per le questioni di salute richiede
infatti di capire chi tra i nostri amici o familiari vogliamo che ci rappresenti quando avremo perso la
capacità di autodeterminazione, chiarendo a noi stessi l’eventuale ambiguità su cui è costruita una
relazione personale.
Diverse “Guide” sono state scritte per aiutare i pazienti in questo difficile compito18 e i consigli che
se ne ricavano possono essere sintetizzati come di seguito.
La prima preoccupazione dovrebbe essere la fiducia; la persona designata potrebbe dover affrontare
situazioni difficili ed è necessario poter confidare sul fatto che svolgerà il suo compito con
responsabilità e serietà e che prenderà le decisioni mediche che noi stessi avremmo preso, non
quelle che corrispondono al suo pensiero o a quello di altri membri della nostra famiglia;
naturalmente, per poter adempiere al proprio compito, il fiduciario deve aver chiaro, per averne
discusso con noi, quali trattamenti vorremmo o non vorremmo ricevere in determinate condizioni
cliniche (fase avanzata o terminale di varie patologie degenerative o neoplastiche o infettive,
demenza avanzata, stato vegetativo, dolore altrimenti intrattabile, ecc.) ed è importante che, nel
caso qualcuna di queste patologie fosse già in atto, sia informato delle nostre condizioni di salute e
del nostro quadro sintomatologico.
Altri aspetti da tenere in mente nella scelta del delegato sono poi le sue capacità di comunicazione e
la sua assertività (la persona designata non deve sentirsi disturbata dall’idea di non trovarsi in
accordo con i nostri familiari o amici o con i Medici e deve accettare l’idea di dover ricorrere a un
Giudice per far rispettare i nostri desideri), la vicinanza (il fiduciario deve poter dialogare con i
nostri medici in modo continuativo, se necessario, cosa che potrebbe non essere agevole per
qualcuno che non vive vicino a noi), la longevità (piuttosto che i propri genitori, potrebbe essere più
opportuno scegliere il proprio compagno/a o marito o moglie o il proprio figlio/a maggiore invece
di questi ultimi) .
L’esperienza dei clinici insegna che i conflitti tra familiari nelle questioni di fine vita, quando
devono essere prese decisioni gravi, sono piuttosto frequenti: tenuto conto del fatto che la nostra
decisione di nominare un decisore interno o esterno alla famiglia può urtare i sentimenti di qualche
18
Solo per citarne alcune: “Giving someone a power of attorney for your health care. A guide with an easy-to-use,
multi-state form for all adults”, consultabile al sito www.americanbar.org (disponibilità verificata il 15.08.2015);
“Selecting your health care agent”, consultabile al sito estate.findlaw.com/living-will (disponibilità verificata il
15.08.2015); “How to choose a health care proxy”, consultabile al sito www.everplans.com (disponibilità verificata il
15.08.2015).
15 familiare, è importante esplicitare e spiegare la propria scelta all’interno della cerchia familiare.
Altrimenti detto, le dinamiche familiari sono una questione da prendere in considerazione. Infatti,
se l’obiettivo della nomina è di far sì che l’autonomia e l’autodeterminazione delle persone possano
continuare ad esistere anche oltre il tempo della capacità clinica e giuridica, semplificando le
decisioni mediche, tutto ciò che può ostacolare o complicare le cose dovrebbe essere prevenuto.
Tra le obiezioni poste alla figura del delegato (ad esempio, l’eccessiva responsabilizzazione della
persona nominata e, per contro, la deresponsabilizzazione dei rimanenti familiari o di altre persone
affettivamente importanti)19, ci si vuole qui soffermare su quella relativa ad un divieto introdotto
dalle leggi di molti Stati nord-americani: l’impossibilità per un cittadino di scegliere quale
fiduciario il proprio Curante.
Riflettere su questo divieto, infatti, consentirà di approfondire lo sguardo su difficoltà e
responsabilità di questo ruolo, da chiunque svolto, e di effettuare una comparazione con la
normativa italiana sull’amministrazione di sostegno, già introdotta in questo scritto.
Tornando quindi alla legislazione statunitense, le ragioni del divieto di scegliere il proprio Medico
quale fiduciario vengono ricondotte al pericolo che i valori professionali di questi possano essere
fatti prevalere su quelli del paziente e, in definitiva, al problema dei conflitti di interesse: conflitti di
natura finanziaria, ad esempio, perché il sistema dei rimborsi a prestazione erogata (fee-for-service
reimbursement arrangements in Nord America e DRG nel nostro sistema sanitario, pensando a un
curante ospedaliero) potrebbe condurre un Medico a non limitare le cure contro il desiderio del
Paziente; ma anche conflitti non finanziari, quali l’adesione a richieste diverse della famiglia, al fine
di evitare un contenzioso giudiziario, o quelli che possono sorgere per la necessità di allocare
risorse scarse (ad esempio un letto in Terapia Intensiva), controbilanciando le richieste di quel
singolo Paziente con i bisogni di altri Pazienti.
Nella letteratura bioetica sul tema, però, la scelta dei legislatori statunitensi è stata criticata in
quanto chiara limitazione al principio di autonomia e di libertà di scelta degli interessati (e dunque
in aperta contraddizione con lo spirito della stessa legge sulle direttive anticipate di trattamento) e
perché tradirebbe una visione distorta e pregiudiziale del rapporto medico-paziente20.
Un argomento forte contro il divieto è senz’altro quello che fa osservare come la nomina del
fiduciario sia una scelta morale e se un Paziente sceglie un Medico come proprio delegato significa
che riconosce a quel Medico l’autorità morale per decidere in sua vece.
Se è vero che la Medicina è un’attività relazionale profondamente asimmetrica, che si presta a
venire subordinata alla logica del potere, è anche vero che proprio questa consapevolezza ha portato
i Medici fin dall’antichità ad elaborare un codice di esigenti ideali etici, le regole della deontologia
professionale, cui il Medico deve rendere omaggio nella propria attività quotidiana: il divieto
sembra ignorare, invece, questa componente della professionalità medica.
Si considerano abitualmente fiduciari ideali i familiari del Paziente, ma è ben noto come diversi
fattori influiscono sulle loro decisioni, che possono finire con l’essere più basate sui propri bisogni
e valori che non su quelli dei loro congiunti deleganti21,22.
Va detto, peraltro, che gli studi che hanno tentato di valutare l’accuratezza delle decisioni prese “al
posto di” (studi, come è intuitivo, metodologicamente difficili da costruire) non giungono a
conclusioni univoche: per alcuni l’impatto della discussione delle sue preferenze con il diretto
interessato (che la prassi considera, come mostrano le linee-guida richiamate sopra, pre-requisito
per l’assunzione del ruolo) è assai dubbio23; per altri, invece, questi dialoghi sono effettivamente in
19
Orsi L, “Obiezioni e contro-obiezioni alle Direttive Anticipate”, La Rivista Italiana di Cure Palliative, no. 1 (2007):
21-24
20
Rai A, Siegler M., Lantos J., “The Physician as a Health Care Proxy”, Hastings Center Report 29, no.5 (1999): 14-19
21
Shalowitz DI, Garrett-Mayer E, Wendler D, “The accuracy of surrogate decision makers: a systematic review”, Arch
Intern Med 2006; 166 (5): 493-7
22
Tejwani V, WuY, Serrano L, Bannon M, Qian Q, Issues surrounding end-of-life decision-making, Patient Preferences
and Adherence 2013:771-5
23
Coppolino M, Ackerson L, “Do surrogate decision makers provide accurate consent for intensive care research?”,
Chest 2001; 119: 603-612
16 grado di aumentare l’aderenza delle decisioni future alle preferenze espresse dal Paziente quando
era capace24,25.
Ma se la scelta del decisore surrogato ha a che vedere con la fiducia in questa persona, possiamo
permetterci meno enfasi sulla capacità del delegato di interpretare accuratamente i desideri del
delegante26.
Così, rispetto alla scelta del Medico come fiduciario, l’argomentazione porta a concludere per la
non ragionevolezza del divieto.
Tuttavia: le dichiarazioni anticipate, come molto bene è scritto nel Parere del Comitato Nazionale
per la Bioetica sul tema27, “hanno … il compito, … delicato e complesso, di rendere ancora
possibile un rapporto personale tra il medico e il paziente proprio in quelle situazioni estreme in cui
non sembra poter sussistere alcun legame tra la solitudine di chi non può esprimersi e la solitudine
di chi deve decidere. La finalità fondamentale delle dichiarazioni è, quindi, quella di fornire uno
strumento per recuperare al meglio, nelle situazioni di incapacità decisionale, il ruolo che
ordinariamente viene svolto dal dialogo informato del paziente col medico…”.
È ormai diffusa e condivisa (da diritto e deontologia) la convinzione “dell’inaccettabilità di un
modello di relazione medico-paziente in cui a un solo soggetto, il medico, sia riservato il ruolo di
centro di valutazione e di decisione degli interventi da porre in atto nella gestione della malattia,
mentre all’altro soggetto, il paziente, competa soltanto il ruolo di destinatario – forse sarebbe
meglio dire di oggetto passivo – di decisioni e di interventi rispetto ai quali non è richiesta, per lo
più, una sua partecipazione consapevole”28.
È vero che gli stessi giuristi affermano che “la centralità … riconosciuta alla volontà del malato …
non viene smentita dall’attribuzione al medico del tradizionale ruolo di unico centro decisionale e
operativo nel caso in cui il malato abbia rinunciato a essere autonomo centro di decisioni,
delegando magari al medico stesso il potere di decidere per lui”29 (e – come visto – anche l’art. 33
del vigente Codice di Deontologia Medica afferma che “Il Medico rispetta … la volontà della
persona assistita di non essere informata o di delegare ad altro soggetto l’informazione…”), ma
ricorrere ad uno strumento (facoltativo) pensato per risolvere l’inevitabile approssimazione delle
volontà consegnate ad un documento scritto (necessariamente generiche, ampie, imprecise),
quell’approssimazione che finirebbe col far dipendere ancora una volta il processo decisionale dal
Medico curante, per nominare proprio il curante quale decisore surrogato, sembra un illogico cortocircuito.
Il ruolo dei Curanti rispetto alle dichiarazioni anticipate dei Pazienti è certamente importante,
perché chi intende sottoscrivere una dichiarazione anticipata di trattamento possa ricevere, in modo
personalizzato, tutte le informazioni tecniche mediche necessarie per la piena consapevolezza delle
volontà che andrà ad esprimere. La classe medica dovrebbe, anzi, farsi parte attiva nell’incoraggiare
la sottoscrizione di documenti quali i “living wills”. Si può evincere dal contributo fornito dalla
Federazione Nazionale degli Ordini dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri30 alla Commissione
Igiene e Sanità del Senato in occasione della trattazione, tra il 2006 ed il 2007, dei disegni di legge
in materia di dichiarazioni anticipate di volontà sui trattamenti sanitari sia la generale, piena
disponibilità in questo senso (“…riteniamo indispensabile un dispositivo di legge che inserisca nel
24
Sulmasy DP, Haller K, Terry PB “More talk, less paper: predicting the accuracy of substituted judgments”, Am J Med
1994; 96: 432-8
25
Silveira MJ, Kim SYH, Langa KM, “Advance directives and outcomes of surrogate decision making before death”, N
Engl J Med 2010; 362(13): 1211-8
26
Shalowitz DI, cit.
27
Comitato Nazionale per la Bioetica, “Dichiarazioni anticipate di trattamento”, Presidenza del Consiglio dei Ministri,
18 dicembre 2003
28
Borsellino P, “Bioetica tra <morali> e diritto”, Raffaello Cortina Editore, 2009, p. 115
29
Borsellino P, cit., p. 116
30
Senato della Repubblica, Documentazione di commissione n. 5, “Dichiarazioni anticipate di volontà sui trattamenti
sanitari. Raccolta di contributi forniti alla Commissione Igiene e Sanità”, marzo 2007, p. 227. La FNOMCeO era
rappresentata da Amedeo Bianco, presidente, e Roberto Lala, segretario. Audizione del 23 gennaio 2007.
17 nostro ordinamento positivo il valore giuridico delle cosiddette disposizioni anticipate quando
espresse da persona capace in forma scritta successivamente ad una informazione medica di cui
resta idonea documentazione…”), sia l’avvertita necessità di salvaguardare la dimensione dialogica
della propria professione (“…l’eventuale individuazione della figura del <delegato/fiduciario>
richiede una puntuale definizione del suo ruolo, che noi auspichiamo sia di vigilanza sulle
applicazioni delle direttive esercitando una funzione di cooperazione con il medico curante…”).
La delicatezza della questione sembra emergere, almeno a parere di chi scrive, anche da una critica
formulata dal mondo giuridico rispetto all’utilizzo dello strumento dell’amministrazione di sostegno
rispetto al consenso informato all’atto medico.
Ha scritto infatti Giuseppe Gennari, GIP presso il Tribunale di Milano: “qualora il medico curante,
ritenendo opportuno effettuare un certo atto diagnostico o terapeutico sulla persona del disabile, si
rivolge ad uno dei soggetti legittimati ad instare per la nomina dell'amministratore di sostegno
affinché egli si attivi alla bisogna; il legittimato ricorre al giudice e, forte del parere del medico,
ottiene la nomina di quel soggetto legalmente capace di autorizzare l’intervento sanitario da
compiere ... Si realizza in tal modo un percorso perfettamente circolare che parte dal medico per
restituire al medico stesso il potere di scelta. In questo sistema chiuso l’interessato non entra in
alcun modo”31.
Tale obiezione consente di riprendere l’accenno alla possibilità che l’amministrazione di sostegno
possa rappresentare lo strumento alternativo, in assenza di una norma specifica, per rispondere alle
esigenze dei singoli che vogliano assicurarsi che le proprie disposizioni vengano rispettate in
previsione di una propria eventuale futura incapacità.
Commentando la già citata sentenza della Cassazione che ha escluso l’ammissibilità della nomina
giudiziale dell’amministratore di sostegno in favore del soggetto che, al momento della relativa
domanda, sia psichicamente capace e non affetto da alcuna patologia che ne determini
l’impossibilità di provvedere ai propri interessi, Mariassunta Piccinni dell’Università di Padova
osserva che “Tra <direttiva anticipata> ed <amministrazione di sostegno> persiste … una tensione
che solo un intervento legislativo ad hoc potrebbe sanare. L’amministrazione di sostegno è, infatti,
un ufficio attribuito dall’autorità giudiziaria, da svolgersi nei limiti preventivamente individuati dal
giudice e sotto il suo costante controllo successivo. Quando un soggetto, invece, nell’esercizio della
propria autonomia privata, procede alla stesura formale di dichiarazioni anticipate di cura con
contestuale nomina di un fiduciario, la soluzione più opportuna sembrerebbe che l’attuazione dei
suoi interessi sia direttamente ed esclusivamente affidata alla persona nominata, con un controllo
solo successivo ed eventuale da parte dell’autorità giudiziaria. In questo caso l’amministrazione di
sostegno potrebbe risultare ultronea o addirittura inadeguata rispetto alla tutela degli interessi del
disponente”32.
L’appesantimento della via giudiziaria limiterebbe, con certezza, la diffusione delle dichiarazioni
anticipate, a danno della sempre più avvertita centralità della soggettività del malato.
Una legge, però, d’accordo con la FNOMCeO, è indispensabile, perché, come continua la Piccinni:
“Allo stato attuale dell’ordinamento, peraltro, validità ed efficacia di una procura, che rimetta alla
mera autonomia privata l’attuazione degli interessi del disponente divenuto incapace, sono molto
dubbie”33.
6. IL CONSENSO ALLE CURE PALLIATIVE: L’IMPORTANZA DEL DIALOGO E DELLA
COMUNICAZIONE
È ora possibile addentrarsi più a fondo nel tema del consenso informato alle cure palliative.
31
Gennari G, “La protezione dell'autonomia del disabile psichico nel compimento di atti di natura personale con
particolare riferimento al consenso informato dell'atto medico", Familia 2006, I, p. 733
32
Piccinni M, Roma U, “Casi amministrazione di sostegno e disposizioni anticipate di trattamento: protezione della
persona e promozione dell’autonomia”, Rivista Trimestrale di Diritto e Procedura Civile, fasc. 2, 2014, p. 727
33
Piccinni M, cit.
18 La legge n. 38 del 2010, in materia di cure palliative, all’art. 1 prevede che l’autonomia del paziente
e la sua dignità debbano essere il più possibile preservate.
Se il dettato legislativo è certamente condivisibile, non per questo risulta facile da mettere in
pratica.
Siamo infatti, come si è già detto, in un ambito in cui ottenere il consenso informato è operazione
molto complessa e delicata.
Quando si avvicina il momento di iniziare le cure palliative, spesso il paziente è ancora in grado di
comprendere la sua grave situazione e compiere delle scelte in merito alle cure, nonostante un
quadro molto grave.
Anche dopo che le cure sono iniziate e il paziente, avendole accettate in un primo momento,
continua a riceverle e trarne beneficio, può essere ancora capace di comprendere almeno in parte
cosa accade e che effetto hanno su di lui.
Le informazioni sul significato delle cure palliative, volte a migliorare la qualità della vita, cui è
legata la accettazione della inguaribilità, gli devono essere comunicate in modo graduale e non
traumatico, come si dirà meglio poi ed è importante coinvolgere i familiari il prima possibile in
questo processo, sia perché possano stare vicino alla persona fragile, sia perché possano prepararsi a
intervenire consapevolmente quando verrà meno la capacità 34.
Tuttavia, come si diceva, non di rado il paziente è tenuto all’oscuro del suo stato patologico o,
comunque, la consapevolezza della reale situazione è scarsa. Questo accade solitamente perché i
suoi familiari intendono tutelarlo da notizie infauste che potrebbero condurlo ad uno stato di
depressione.
Pertanto, non è il malato a essere informato ed esprimere il consenso alle cure: la famiglia si
sostituisce a lui nel rapporto col medico e gli altri operatori sanitari.
La situazione può derivare da un accordo con la persona che soffre, anche tacito, o da una iniziativa
della famiglia.
Un familiare può chiedere di omettere di dire al malato tutto quello che sta accadendo, come le
notizie più difficili da accettare e anche meno certe, tra cui ad esempio la sua aspettativa di vita.
Altre volte decide che al malato vengano date informazioni parzialmente o totalmente diverse da
quelle reali. Si tratta del fenomeno delle “menzogne pietose”.
Sebbene in certi casi questa scelta dei parenti può rivelarsi benefica, talvolta se tenuto all’oscuro
della situazione il malato può sentirsi “solo” e non comunicare ciò che prova, avendo compreso che
gli viene nascosto il suo reale stato di salute35.
Spesso, lo specialista in cure palliative entra in azione proprio quando questo tipo di situazioni si è
consolidato36 e, ad esempio, gli può venire chiesto di non utilizzare nemmeno il termine “cure
palliative”.
Nella prassi, si assiste talvolta alla presentazione all’assistito di moduli per lo più molto generici per
il consenso alle cure che possano migliorare la qualità della vita del malato, sia erogate a domicilio
sia al momento di ingresso nell’hospice, affinché li sottoscriva (lui, oppure in sua vece, se è
incapace, un tutore o familiare).
A questo punto, è utile soffermarsi brevemente sulla necessità della forma scritta del consenso alle
cure palliative, all’inizio del percorso che porta alla loro somministrazione.
Si è visto che il consenso deve essere scritto se la legge lo richiede e può essere scritto in tutti gli
altri casi.
Si sono inoltre evidenziati i limiti del consenso scritto, che non deve essere inteso come la
sostituzione di un reale processo informativo e del dialogo con l’assistito.
Ebbene, la legge n. 38 del 2010 non richiede la forma scritta.
34
Turriziani A, “Terapie di supporto, cure palliative e oncologia: un contributo alla chiarezza”, in Riv. It. cure
palliative, fasc. n. 2 del 2012, p. 5 ss.
35
Cfr. Comitato etico Fondazione Floriani, Carta dei diritti dei morenti, Milano, maggio 1999.
36
Morino P, “La SICP attiva un gruppo di lavoro sul consenso informato in cure palliative”, Rivista italiana di cure
palliative, fasc. 1 del 2014, p. 47 e 48.
19 La forma scritta è richiesta invece, come si è visto, se si somministrano cure sperimentali.
Per questo, è corretto che il medico riporti semplicemente nella cartella di avere informato il
paziente, senza bisogno di una sua sottoscrizione.
Invece, non è obbligatorio che il paziente sottoscriva moduli per il consenso alle cure palliative, che
tra l’altro di per sé non costituiscono una efficace risposta ai problemi specifici che incontra il
palliativista nel suo difficile compito.
Occorre a questo punto distinguere alcune ipotesi che possono verificarsi all’inizio della
somministrazione delle cure palliative.
a) Se il malato è ancora capace, vista la gravità della situazione, occorrerebbe cercare di capire se il
malato desideri essere informato.
Nel caso non lo desideri, se possibile è molto importante l’individuazione, insieme a lui, di un
familiare o un altro soggetto di riferimento in cui ripone la sua fiducia.
Qualora il malato intenda proprio in quel momento designare un delegato, può essere utile
segnalargli che ha la possibilità di indicare la persona scelta per questo delicato compito come
fiduciario in una scrittura privata, o, se i tempi lo consentono, di attivare la procedura per la sua
nomina come amministratore di sostegno, chiedendo al giudice che sia dotato del potere di dare o
rifiutare il consenso a certe cure. In questo ultimo caso, sarà possibile avvalersi di un decreto del
giudice che attribuisce simile potere all’amministratore dinanzi agli operatori sanitari o ad altri
familiari che non accettano il ruolo dato alla persona designata dal malato.
b) Se invece l’assistito è capace e vuole essere informato, è comunque utile e importante il
coinvolgimento o la presenza di un parente che conosce la persona, in modo che possa aiutare il
medico e gli altri membri dell’équipe a comprendere alcune sue reazioni e comportamenti con
prontezza37.
Inoltre, naturalmente, essendo il consenso il frutto di un processo, in cui si danno alla persona
assistita informazioni in modo graduale e non traumatizzante, non basta intrattenere un colloquio in
un momento in cui il malato è capace di comprendere la situazione.
Occorrerà ripetere questa operazione e instaurare un costante dialogo, anche perché le cure
necessitano di essere costantemente adattate agli sviluppi della malattia.
Proprio perché si tratta di un dialogo, se il paziente non vuole ricevere le informazioni in un dato
momento, occorrerà posticipare il singolo colloquio ed evitare così il rischio, da non sottovalutare,
di essere troppo invasivi.
Si ricordi che, infatti, il codice di deontologia medica richiede che il medico adegui la
comunicazione alla capacità di comprensione della persona assistita e che tenga conto della sua
“sensibilità e reattività emotiva”, “in particolare in caso di prognosi gravi o infauste, senza
escludere elementi di speranza” (art. 33).
Pertanto, il medico 38 deve cercare di non usare termini traumatizzanti e spesso può essere
necessario informare l’assistito in modo graduale.
Una comunicazione graduale è bene che sia usata, ad esempio, in riferimento agli effetti della
sedazione (sul punto cfr. oltre).
Occorre dunque che il medico sia capace di gestire la comunicazione e vi dedichi molto tempo e
attenzione. Per dare atto di avere adempiuto a questo importante compito (si tenga conto che ai
sensi dell’art. 20 del cod. deont. il tempo della comunicazione è tempo di cura), il medico può
scrivere nella cartella clinica che ha informato il paziente. Anzi, questa è una prassi molto utile
anche per la collaborazione e il coordinamento di tutti gli altri specialisti o operatori chiamati ad
intervenire, che sono aspetti fondamentali da tener presente se si vuole instaurare un dialogo
corretto col paziente e non turbarlo con informazioni diverse e contraddittorie.
c) Se il malato, per motivi diversi dalla malattia, non è capace, ed ha già un tutore, il punto di
37
Orsi L, “Sedazione terminale/palliativa. Dossier n. 4”, Riv. It. cure palliative, fasc. n. 2 del 2012, p. VII.
Stesso discorso vale per gli altri operatori sanitari (cfr. il codice deontologico degli infermieri).
38
20 riferimento sarà quest’ultimo per le scelte di cura. Allo stesso modo, potrebbe esserlo un
amministratore di sostegno già nominato, cui il giudice tutelare ha attribuito poteri in materia di
cure, sempre che il malato non sia più in grado di comprendere la situazione e decidere, perché
diversamente il malato che lo desidera deve essere informato. Infatti, si è visto che l’amministratore
di sostegno dovrebbe “sostenere” il beneficiario e non sostituirsi a lui e che può intervenire con
poteri speciali in materia di trattamenti sanitari solo quando la necessità della sua azione è attuale.
d) Occorre ora interrogarsi sui casi in cui la capacità è venuta meno per il progredire della malattia.
È bene non assimilare interamente questi casi da quelli in cui la capacità di intendere e di volere è
venuta improvvisamente e completamente meno, ad esempio a seguito di un incidente (come nel
caso Englaro).
In questi frangenti si è visto che a certe condizioni è possibile rifiutare anche l’alimentazione e
l’idratazione artificiale e le cure “salvavita”. In assenza delle condizioni richieste dalla Corte di
Cassazione, si presume invece che la persona vada tenuta in vita e dunque il medico dovrebbe
erogare tutte le cure necessarie, nonché alimentazione e idratazione artificiali.
Nel caso in esame, invece, la situazione si inserisce in un processo che la persona ha vissuto,
almeno nelle sue prime tappe, consapevolmente, comprendendo che gli sono somministrate delle
cure palliative, volte a migliorare la qualità della sua vita, ed eventualmente rifiutando altri
interventi (a meno che non sia stato interamente tenuto all’oscuro della situazione). Proprio per
questo, quando l’incapacità sopraggiunge, si presume che la volontà espressa precedentemente dal
paziente debba continuare ad essere rispettata, senza interrompere le cure palliative
precedentemente concordate e senza iniziare a somministrare cure prima rifiutate o alimentare
artificialmente il paziente che non lo voleva.
Si esamineranno ora alcuni problemi specifici che si incontrano nella prassi della somministrazione
delle cure palliative.
Un primo problema specifico del medico palliativista, di cui si è già detto più volte, deriva dalla
scarsa consapevolezza, da parte del paziente, non solo dei precisi termini della situazione in cui si
trova, come ad esempio le sue aspettative di vita, ma anche della diagnosi e della prognosi.
Si assiste talvolta al fenomeno delle doppie cartelle, una vera, che hanno i parenti, e una falsa, che
ha il paziente.
Siamo nell’ambito delle menzogne pietose.
Questo fenomeno, pur comprensibile, pare alquanto problematico.
Presuppone infatti che i familiari abbiano scelto di frapporsi al rapporto tra malato e medico o
operatore sanitario e impedire al malato, che è ancora capace, leggendo la cartella, di capire cosa gli
sta accadendo e di ricevere le informazioni sul suo reale stato di salute.
Sullo stretto piano del diritto penale, si consideri che la presenza di una cartella falsa può dare adito
a responsabilità penale anche dei medici che hanno avuto in carico la persona in precedenza e
hanno svolto interventi diversi da quelli comunicati al malato, perché presuppone l’assenza di
consenso.
Sia consentito da ultimo di ricordare su questo punto l’art. 3 della Carta dei morenti, elaborata a
cura della fondazione Floriani nel 1999: “Chi sta morendo ha diritto a non essere ingannato e a
ricevere risposte veritiere”.
Connesso a quanto appena riportato, è un secondo problema che rende spesso molto difficile il
dialogo col paziente. Ci si riferisce ai conflitti tra i parenti dell’assistito in merito alle scelte da
tenere, sia quando il malato è capace, ma non informato adeguatamente, sia quando è incapace.
Si tratta di situazioni molto complesse da gestire e anche da risolvere su un piano giuridico.
Certamente, se il malato è capace e desidera essere informato, dovrebbe essere lui a dare o rifiutare
il consenso.
21 Potrebbero però insorgere problemi tra parenti anche sulla scelta di informare o meno il malato
della situazione in cui si trova. In questo caso, sarebbe importante capire se è stato lui a voler essere
tenuto all’oscuro della situazione o meno e comportarsi di conseguenza. In ogni caso, è
fondamentale che la situazione gli sia comunicata gradualmente e in modo il meno possibile
traumatico, raccomandandolo anche dai parenti.
Se è incapace, si possono avere due alternative: se sono stati nominati un amministratore di
sostegno, un fiduciario o un tutore, questi prevalgono su altri familiari che intendono compiere
scelte di cura, eventualmente presentando al medico altre forme di delega; se non sono stati
nominati ed è in corso un conflitto su come gestire le ultime fasi della vita del malato, ci si rende
conto che la situazione per il medico è oltremodo complessa ed è molto difficile individuare regole
di condotta e soluzioni soddisfacenti. Ci si limita a ricordare che in questi ultimi casi si dovrebbe
cercare di rispettare il più possibile la volontà espressa dal malato quando era capace, avvalendosi
se ci sono delle direttive anticipate di trattamento, e fare riferimento, se esiste, al parente da lui
consapevolmente delegato, sia pure in modo giuridicamente improprio, e agire nel rispetto delle
regole deontologiche39.
Un terzo problema molto delicato si incontra in particolare nell’acquisizione del consenso alla
sedazione40. Si è visto che è importante usare una modalità di comunicazione graduale, che può
favorire l’accettazione dei rischi in modo meno traumatico.
Naturalmente, occorre cercare di comunicare col paziente il più possibile prima dell’inizio della
sedazione, data la difficoltà di relazionarsi col paziente sedato, potendo portare la sedazione ad una
anticipata interruzione della comunicazione per l’uso di farmaci che possono ridurne lo stato di
coscienza41. L’argomento deve essere tema di dialogo con il malato per potere comprenderne le
opinioni e le scelte, ed in egual misura con i familiari. La sedazione può essere vissuta dai familiari
come anticipazione della morte, proprio per l’interruzione del contatto con il proprio caro. A questo
proposito il familiare deve essere anticipatamente informato ed adeguatamente sostenuto da
un’équipe di operatori in grado di affrontare i dubbi sull’ipotetica anticipazione della morte.
Riveste particolare importanza sottolineare con il paziente, se possibile, sempre con i familiari e con
gli operatori dell’équipe curante, che la sedazione non modifica la sopravvivenza, non accorcia, né
prolunga la vita. L’operatore in questo caso è sostenuto dalle conoscenze scientifiche su questo
aspetto42.
Inoltre è importante chiarire la differenza tra eutanasia e sedazione ed essere disponibili nel delicato
percorso della sedazione a supportare tutte le eventuali problematiche e richieste insorte nel nucleo
familiare a partire dal processo decisionale e dalla gestione organizzativa fino all’elaborazione del
lutto4344.
39
Cfr. gli artt. 38 e 39.
Secondo quest’ultimo, in particolare, “Il medico non abbandona il paziente con prognosi infausta o con definitiva
compromissione dello stato di coscienza, ma continua ad assisterlo e se in condizioni terminali impronta la sua opera
alla sedazione del dolore e al sollievo dalle sofferenze tutelando la volontà, la dignità e la qualità della vita. Il medico,
in caso di definitiva compromissione dello stato di coscienza del paziente, prosegue nella terapia del dolore e nelle cure
palliative, attuando trattamenti di sostegno delle funzioni vitali finché ritenuti proporzionati, tenendo conto delle
dichiarazioni anticipate di trattamento”.
40
In tema v. Raccomandazioni della SICP
sulla
Sedazione Terminale/Sedazione Palliativa, a cura del gruppo di studio
su cultura ed etica al termine della vita coordinato da Speranza R, in Rivista italiana di cure palliative, fasc. n.1 2008,
p.13-36.
41
Sykes N., Thorns A., “Sedative use on the last week of life and the implications for end of-life decision making.”,
Arch Int Med 2003, 162:341-344.
42
Maltoni M, Scarpi E et al., “Palliative sedation in end-of-life care and survival: a systematic review”, J Clin Oncol
2012; 30: 1378-83. 43
Materstvedt L J, Clark D, Ellershaw J, Fsrde R, Gravgaard A-M, Mùller-Busch H C, Portai Sales J, Rapin C-H,
“Eutanasia e suicidio assistito dal medico: il punto di vista di una Task force sull’etica dell’EAPC”, Rivista italiana di
cure palliative, fasc. n. 1 del 2004, p. 42 ss. (versione italiana a cura di A. Caraceni, T. Campa, E. Fagnoni, G. Gorni, A.
Magni, M. Maltoni, C. Martini, A. Rognoni, E. Zecca); v. inoltre, per una distinzione nei casi pratici, nonchè
22 Un quarto problema che deve affrontare il medico palliativista deriva dalla difficoltà di spiegare
certi concetti, molto importanti però per acquisire il consenso. Ci si riferisce, in particolare, al
concetto di accanimento terapeutico. Si tratta tuttavia di un aspetto molto importante, che coinvolge
decisioni cruciali, come l’interruzione dell’alimentazione artificiale. A proposito di quest’ultima,
può essere sicuramente fondamentale spiegare che alcuni studi dimostrano come in certi casi, come
ad esempio nella demenza senile, la alimentazione artificiale non allunghi necessariamente la durata
della vita ed inoltri come il sondino naso-gastrico possa portare disagi al paziente45.
Inoltre l’idratazione in fase terminale sia all’estero, sia in Italia, è utilizzata secondo il luogo di
ricovero anche per il differente comportamento degli operatori che si devono talvolta confrontare
con le richieste dei familiari45.
I dati di letteratura non dimostravano prove di efficacia sull’uso dell’idratazione fino a quando un
recente studio americano di Bruera ha dimostrato che l’idratazione in fase terminale non porta alcun
beneficio sul controllo dei sintomi, non migliora la qualità di vita né la sopravvivenza 46.
In conclusione, si ricorda che la Società italiana di cure palliative ha avviato nel 2014 un gruppo di
lavoro che dovrà presentare un importante documento su questo tema nel congresso del prossimo
novembre 2015. Si auspica quindi di trovare in questo futuro contributo degli operatori sanitari
coinvolti nelle cure palliative alcune delle risposte che diventano sempre più ineludibili nella nostra
società e che, in assenza di una legge, purtroppo ancora ben lontana dal venire alla luce, spetta agli
operatori sanitari ed alla giurisprudenza tentare di dare.
sull’importanza dell’informazione corretta al paziente, Paci E, Miccinesi G, Cecioni R, Gruppo di Ricerca Eureld,
“Decisioni di fine vita in sei paesi europei: studio descrittivo”, Riv. It. cure palliative, fasc. n. 1 del 2004, p. 46 ss.
44
Sykes N, Thorns A “The use of opioids and sedatives at the end of life”, Lancet Oncology 2003, 4:312-318. 45
Cai S, Gozalo P, et al. Do patients with advanced cognitive impairment admitted to hospitals with higher rates of
feeding tube insertion have improbe serviva? J Pain Sympt Manag 2013; 45:524-33
45
Monti M, Pinna I, Fasser N, Damini M, Liguori S, Castagnini G., “L’idratazione artificiale in hospice e a domicilio:
uno studio multicentrico”, Riv. It. cure palliative, fasc. 3 del 2012, p. 1
46
Bruera E1, Hui D, Dalal S, Torres-Vigil I, Trumble J, Roosth J, Krauter S, Strickland C, Unger K, Palmer JL, Allo J,
Frisbee-Hume S, Tarleton K., “Parenteral hydration in patients with advanced cancer: a multicenter, double-blind,
placebo-controlled randomized trial”, J Clin Oncol. 2013 Jan 1;31(1):111-8.
23