La magia del disincanto

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La magia del disincanto
La magia del disincanto
Roberto Dall’Olio
Noi cerchiamo l’assoluto e troviamo sempre e soltanto cose
- Novalis Le carte del maestro Claudio Benghi possono cadere sotto la cifra di quello che io definisco la magia
del disincanto. Una definizione ossimorica come ossimorica è l’arte di Benghi, al di là della sua
apparente dimensione fiabesca e unitaria, di quell’aria sulla quarta corda che pare accompagnare,
in una gioia surreale uno dei quadri emblematici di tale tratto, a mio avviso, essenziale: “La porta
del paese dei balocchi”. Luogo quest’ultimo per eccellenza dell’illusione e del successivo disincanto.
Tuttavia il disincanto di Benghi invece di mostrarsi “fuori” in una cornice esterna, magari dissacratoria e
dissacrante, esso ti prende “dentro” ti fagocita e ti parla. Infatti dove prevale l’ ineffabile surreale magia
del pittore è proprio “dentro”. Quel misterioso “dentro” come ne “Il gioco degli angeli” o in tutti i testi
pittorici in cui compaiono le scatole simbolo del mistero che ci portiamo “dentro” e della femminilità
fragile e forte origine del mondo. Il tutto in uno sforzo di ordinare le cose belle su uno sfondo caotico, o
una irruzione del caos, dell’imponderabile, una freccia che ferisce de “Due nuvole sulle scatole”. Ma la
magia è anche la leggera e felpata protezione che Benghi erge seppure labilmente, a difesa di ciò che è
più prezioso per la sua ricerca estetica, per la sua vita: la femminilità appunto, l’archetipo del femminile
variamente ripercorso in opere quali tra le altre; “La farfalla equilibrista” in cui viene rappresentata
l’elegante fragilità della condizione femminile alla quale il maestro rende splendido omaggio ne “La
sposa in bianco”, un pezzo di stoffa in un sipario. Sipario. Certo. Perché la dimensione teatrale è
fisicamente dipinta, oltre che essere simbolicamente prevalente, in questo ciclo benghiano. Un ciclo che
si afferma, seppure delicatamente, come una ferma adesione e immedesimazione nella vita, non in una
sua descrizione. Benghi è tra le cose, ma non è nelle cose, sa che non può entrarci. Gli oggetti ci sono
nella poetica di Claudio Benghi, ma sono posti in un’ottica surreale, sideralmente lontana da ogni forma
di realismo. Poichè come si diceva dianzi la realtà vera è “dentro”, dietro il sipario della vita esterna
ed esteriore, dietro la magia teatrale dell’apparenza. Così gli oggetti si mostrano quasi sollevati come
ne “La casetta sospesa” e in “Un caffè alto e solitario” anche in un gioco di rimandi apparentemente
disimpegnato, in un divertissment abilmente messo in scena come ne “Casa di bambola” titolo dal netto
sapore strindberghiano. Fuga dal mondo? Assolutamente no! Essere nel mondo senza avere la pretesa
di cambiarlo col potere solo della nostra piccola vita racchiusa in un sonno (Shakespeare), eppure
denunciandone le storture con lievità drammatica, si veda in particolare “Tutti hanno sete” leggibile su
più e varie dimensioni di realtà. Tutto appare e si cela scomparendo nel teatro dell’essere di cui Benghi
finge di interpretare il mago, ma in verità è “solo” colui che apre e chiude il sipario.
Parole per Claudio e le sue carte
Matteo Bortolotti
Hermann Hesse e Gesualdo Bufalino la pensavano allo stesso modo quando parlavano di sogni.
Ognuno di noi, dicevano, sogna solo quel che non gli è estraneo. Ognuno sogna i sogni che si merita.
Se è vero che il Novecento col suo sfrontato materialismo sembra aver dato loro ragione, seppellendo
così le ultime tracce del romanticismo con guerre mondiali e strategiche tensioni, con freddezze tra
popoli e bolidismo tiranno, è altrettanto vero che le parole di questi due straordinari (diversissimi) autori
non rappresentavano altro che semplici provocazioni.
Hesse e Bufalino erano infatti la negazione stessa di quelle parole.
L’artista è sempre stato e sarà sempre un fabbricatore di sogni. Tesse le trame su cui si muovono le
coscienze degli uomini, cerca nel suo inconscio e indaga i nodi inesplorati dell’interiore, insinuandosi tra
le pieghe dei simboli, costruendo barchette di carta per navigare sulle onde della possibilità, scivolando
stremato tra le lenzuola dell’alterità e dormendo col Mondo. L’artista è un amante dell’infinito che ne
assorbe le energie e le processa con la forza della sua mente allenata, instancabile - oscena anche, e lo fa con l’inevitabile ausilio della sua mano che ‘muta la spola passa e ripassa’, sempre a tessere,
proiettata in una dimensione senza tempo. Senza morte.
Eppure non c’è arte senza confini, si direbbe parlando del rapporto che c’è tra il sogno e la realtà.
L’artista conosce questi confini, la sua missione è quella di esplorarli, di camminarvi e tessere in bilico
sulla linea tra ciò che è, e ciò che sarebbe. Confini di una scatola che è più grande dentro di quanto lo
sia di fuori.
É qui che casca l’asino, che sarei poi io, e che mi ritrovo mulo sospinto dall’intelletto, appesantito
dalle parole e stanco di cercare spiegazioni, di fronte allo straordinario tesoro di Claudio Benghi, che
mi alleggerisce e mi porta dentro questi piccoli gioielli. Sogni racchiusi in uno scrigno. Un artista che
regala a tutti - non solo a chi ha la capacità di vederli, - mondi da abbracciare in unico sguardo. Pensate
alla generosità che c’è in questo spontaneo slancio. Piccoli mondi che osservati alla distanza giusta
- distanza che ciascuno deve trovare da se, esplorando i confini di cui s’è già detto, - esplodono e
diventano universi immaginifici eppure così concreti, quotidiani e immateriali nello stesso tempo senzatempo.
Ecco allora la forza della materia entrare nella produzione di queste ‘scatole’, cornici che son finestre,
abbaini che Benghi apre su - forse! - altri mondi. La scoperta poi che questi mondi siano estremamente
familiari ci fa capire quanto il sogno che ci viene consegnato dall’artista ci ‘completi’, permettendoci di
fare un passo oltre noi stessi, dentro noi stessi, verso noi altri.
La forza del materiale utilizzato detta le forme, gli squarci; le carezze delle linee verticali che slanciano,
i graffi delle linee orizzontali che allargano lo sguardo incosciente di chi si tuffa in questi bicchieri colmi
d’infinito. E noi, come circensi dopo il rullo di un tamburo ci buttiamo. Eccoci. Oltre i pochi centimetri
di uno scorcio, tra gli oggetti intravisti di una scatola - sul palcoscenico o dietro le quinte, - siamo il
guardaroba abbandonato di un mago provvisorio.
Temi differenti per periodi differenti, in queste “carte” che non sono studi, semplici esplorazioni formali,
non son ‘stanze tutte per se’ che l’artista ha lavorato negli anni, sono avventure invece, narrazioni
attraverso il quotidiano del sogno, dove i lacci animati d’una scarpina, la solitudine di un giocattolo vivo
(personaggio che ricorre in queste storie chiuse tra i ritagli degli anni) ci conducono alle porte del Paese
dei Balocchi, ma non ci fanno entrare. Lì ci si perde, la nostra guida, invece, ha una furbizia che non ha
pari. Ci mostra l’infinitezza, ci apre mappe ancora da scrivere, ma ci costringe ad avere il suo punto di
vista. Che regalo, che privilegio che ci da l’artista.
Ci fa vedere le cose dalla stessa distanza a cui lui le ha rivelate. Osservando queste “carte”, noi
guardiamo col suo occhio, dalla stessa finestrella che lui ha aperto sul tavolo da lavoro. Non ha fatto
un passo indietro per pensare a come noi ci avremmo poi guardato attraverso. No, ci ha consegnato le
chiavi del suo sogno, ci ha dato nuovi sogni da sognare. E qualcosa mi dice che questo viaggio sarà
lungo come il sorriso di un primo amore. Riscoperto e da riscoprire in ogni nuova finestra che lui ci
consegnerà, e mai esaustivo.
Per questo, le mie parole non sono di presentazione, ma di ringraziamento.
Grazie, Claudio.