Attilio Mangano - Capitalismo e immaginario sociale

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Attilio Mangano - Capitalismo e immaginario sociale
Attilio Mangano
Capitalismo e immaginario sociale
Teorie del capitalismo e teorie dell’immaginario
Siamo di fronte alla classica rappresentazione stessa del capitalismo come macchina
totale che ingloba e sussume le parti nel tutto. Da un lato i due autori ricorrono alle metafore
della terminologia biologica, con gli esempi della digestione e del metabolismo e una
rappresentazione della conflittualità sociale in termini di anticorpi da assimilare. Dall’altro
si riconosce molto poco la trasformazione politica del capitalismo stesso del welfare e dello
stato sociale come risultato congiunto e complesso di riforme dall'alto e lotte sociali dal
basso, quasi che lo "spirito' del capitalismo sia onnivoro. Al tempo stesso é evidente che il
concetto stesso di spirito suscita perplessità perché se esso viene usato secondo i parametri
della lezione maxweberiana va più connesso alla sfera della razionalizzazione e meno a
quella del corpo-macchina. Se lo "spirito" del capitalismo non é la pura e semplice ideologia
ma é appunto rappresentazione collettiva, summa di "civilizzazione" e di significati
immaginari del sociale, occorrerebbe andare più a fondo nella sua individuazione delle
"costanti culturali" e delle "variabili".
Teorie del capitalismo e teorie dell’immaginario - Terzo“spirito”(di weberiana memoria) o
immaginario sociale? - Esiste un modello teorico che spieghi le trasformazioni stesse del
capitalismo? - Un passo indietro : Walter Benjamin e il capitalismo come fantasmagoria” Un modo di produzione simbolico? - Dall’economia della produzione all’economia della
conoscenza - Immaginario del dominio totale e dell’apocalisse o di un sogno sociale in
azione ?
Teorie del capitalismo e teorie dell’immaginario
Un libro abbastanza recente di Luc Boltanski e Eve Capello, dal suggestivo titolo "Il nuovo
spirito del capitalismo" (Gallimard, Paris,1999), é stato in grado di suscitare in Francia negli
ultimi anni discussioni e polemiche di cui in qualche modo é arrivata l'eco anche nel nostro
paese. Forse proprio per il suo titolo e per la scelta di alludere alle trasformazioni del
capitalismo globalizzato, ponendo il problema di individuare le caratteristiche di una"
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nouvelle esprit" in grado di spiegare in forma sintetica il tipo di rappresentazione del mondo
che accompagna la globalizzazione stessa.
Non voglio seguire tutte le argomentazioni dei due autori, in larga misura interne alla
tradizione culturale marxista, ma é ragionevolmente accettabile la distinzione operata dai due
studiosi tra un primo spirito, un secondo e un terzo, che corrispondono rispettivamente: 1) alla
fase otto-novecentesca delle rivoluzioni industriali ( ma anche dello stato-nazione, del partito
di classe, delle guerre e dell'imperialismo postcoloniale), 2) alla fase della programmazione
capitalistica e del neocapitalismo ( con nuovo rapporto stato-economia, ruolo dei sindacati,
New deal, riformismo operaio e riformismo del capitale ecc, fino alla " società dei consumi"),
3) alla fase contemporanea della globalizzazione.
Altrettanto persuasiva (ma sarebbe interessantissimo chiedersi perché "sopravviva" una
rappresentazione del mondo anche quando questo mondo é cambiato, se non sia una sorta di
codice obbligato di funzionamento del marxismo-ideologia) é la constatazione critica secondo
cui la cultura di sinistra legge e interpreta il nuovo alla luce di categorie derivate dalla fase
precedente , stenta a scongelare il suo stesso codice. In questo caso, secondo Boltanski e
Capello, la duplice eredità del progressismo (lo sviluppo delle forze produttive, l'innovazione
scientifica e tecnica) e del catastrofismo (guerra, distruzione,crisi della vecchia composizione
di classe, imborghesimento medio) si mescolano nella costituzione stessa di un "terzo spirito"
che dunque echeggia il primo e il secondo. Intervistati da Marco D'eramo su, "Il Manifesto"
("Il capitale si vendica con gli interessi", intervista del 6 giugno 2000, p.12) i due autori si
fanno anche beffe di questo intreccio di catastrofismo e di nostalgia e della sua "idealizzazione
del passato", con le sue" nazionalizzazioni, la sua economia poco internazionalizzata,il suo
progetto di solidarietà sociale, la sua pianificazione di stato, i suoi sindacati influenti". E per
spiegarsi meglio provano a connettere capitalismo e anticapitalismo: ogni fase del capitalismo
ha costruito il suo spirito misurandosi con le cause della "critica anticapitalistica", come se ci
fosse, per usare le parole classiche di questa tradizione, una relazione dialettica tra immagine
del capitalismo e capitalismo immaginato.
Riguardo all'anticapitalismo i due autori vanno alla ricerca di ciò che produce
indignazione, individuando "da un lato il capitalismo come fonte di miseria, sfruttamento,
fonte di oppressione, egoismo. La critica che nasce da queste indignazioni é di tipo sociale.
Dall'altro il capitalismo come fonte di oppressione opposto alla libertà e creatività degli esseri
umani, come fonte di disincanto e di inautenticità. Questa critica trova le sue radici
nell'invenzione ottocentesca della vita bohemienne.". Le differenti basi dell'indignazione
critica non hanno un movimento lineare, prima uno e poi l'altro, in alcune fasi storiche si
intrecciano e possono perfino allearsi. "Gli intellettuali dei Temps Modernes volevano
conciliare l'operaismo e il moralismo del Partito comunista francese con il libertinaggio
aristocratico dell'avanguardia artistica; anche nel '68 sono confluite. Al contrario, in altri casi
possono divergere, entrare in tensione, opporsi violentemente: ognuna delle due critiche
possiede un versante modernista e uno antimodernista. Mentre la critica dell'individualismo
capitalista può degenerare verso forme fasciste (come in molti intellettuali degli anni trenta) la
critica dell'oppressione può comportare l'accettazione supina del liberalismo, come é avvenuto
negli anni ottanta quando molti intellettuali venuti dall'ultrasinistra, per aver fatto del
totalitarismo il loro unico nemico, non hanno saputo o voluto riconoscere la riconquista
capitalista del mondo. Ora, nel dopoguerra il capitalismo aveva risposto alla prima critica, alla
critica sociale,con il compromesso e con il welfare. era il secondo spirito del capitalismo. Ma
così si era esposto alla seconda critica, della spersonalizzazione, dell'autoritarismo, tanto che
negli anni sessanta uno dei bersagli sarà il capitalismo monopolista di stato. negli ultimi
trent'anni invece il capitalismo ha digerito e metabolizzato la seconda critica, la critica
libertaria e antiautoritaria, antistatalista. di fronte a questa nuova versione - il terzo spirito del
capitalismo- la vecchia critica é disarmata".
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Terzo“spirito”(di weberiana memoria) o immaginario sociale?
Pur offrendo vari motivi di interesse il quadro descrittivo offerto da Boltanski e Capello non
persuade e provoca alcune obiezioni,prima fra tutte la rappresentazione stessa del capitalismo
come macchina totale che ingloba e sussume le parti nel tutto ( che é del resto un modello
teorico che, fin dai tempi del Marcuse de “L'uomo a una dimensione” é quasi un luogo
comune della cultura della nuova sinistra). Da un lato i due autori ricorrono alle metafore della
terminologia biologica, con gli esempi della digestione e del metabolismo e una
rappresentazione della conflittualità sociale in termini di anticorpi da assimilare. Dall’altro si
riconosce molto poco la trasformazione politica del capitalismo stesso del welfare e dello stato
sociale come risultato congiunto e complesso di riforme dall'alto e lotte sociali dal basso,
quasi che lo "spirito' del capitalismo sia onnivoro.
Al tempo stesso é evidente che il concetto stesso di spirito suscita perplessità perché se
esso viene usato secondo i parametri della lezione maxweberiana va più connesso alla sfera
della razionalizzazione e meno a quella del corpo-macchina. Se lo "spirito" del capitalismo
non é la pura e semplice ideologia ma é appunto rappresentazione collettiva, summa di
"civilizzazione" e di significati immaginari del sociale, occorrerebbe andare più a fondo nella
sua individuazione delle "costanti culturali" (si pensi alla "modernizzazione" intesa come
secolarizzazione) e delle "variabili" (la modernizzazione nel senso della innovazione tecnicoscientifico e della mutazione continua delle forme di relazione del sociale). Un interesse
particolare merita comunque il rilievo concesso agli strati vecchi e nuovi che comporrebbero
l'anticapitalismo, o - per essere più esatti - l'immaginario anticapitalistico: avremmo da un lato
lo strato morale (il senso di ingiustizia che evoca lo sfruttamento) e dall'altro lo strato estetico
(il bisogno di "creare", di essere, di produrre vita autentica, di chiara derivazione romantica).
L'idea di giustizia che emerge dallo strato morale é una rappresentazione storicamente data o é
trans-storica? Se cambiano le forme dello "sfruttamento" dal capitalismo ottocentesco al
welfare, l'anticapitalismo come anti-sfruttamento é la riproposizione dello strato morale antico
o si ridefinisce in forma sua particolare? E' evidente che a questo punto il tipo di problemi
sollevati tornano a collegarsi con il rapporto fra teoria generale del capitale come
valorizzazione e analisi concreta delle forme diverse in cui la valorizzazione permane o si
trasforma in altro, vale a dire col problema stesso di cosa sia il capitalismo (terzo spirito del
capitalismo o terzo capitalismo?) Tutte le strade riportano a Roma. Abbiamo messo da parte
inizialmente la infelicissima metafora di struttura e sovrastruttura per discutere dello spirito
del capitalismo e tutto ciò inevitabilmente riporta al problema di stabilire quale sia il rapporto
economia/politica/ideologia/cultura/società nel capitalismo e se invece altri concetti derivati a
vario titolo dalle scienze umane, in particolare il simbolico, l'immaginario, non possano
suggerire sintesi interpretative diverse e più fluide, interconnesse. Perché quello che comincia
a emergere é che "il discorso del terzo spirito" é uno dei tanti con cui si tenta di analizzare il
nuovo capitalismo della globalizzazione e con esso si ripropongono questioni di metodo da
parte di studiosi che sviluppano comunque il tentativo di rielaborare nuovi livelli della teoria
marxiana (per sviluppare, col paradigma, nuove forme della cultura politica marxista). E
seppure in brevi note dobbiamo anche noi porre in via preliminare la domanda che fa tremare i
polsi a chiunque: che cosa é il capitalismo?
Esiste un modello teorico che spieghi le trasformazioni stesse del capitalismo?
L'ipotesi é questa, già accennata nella parte precedente: che questo gran parlare di un "nuovo
spirito" del capitalismo esprime il tentativo di approccio al problema di cosa sia il capitalismo
e come sia cambiato senza fare ricorso alla infelice formuletta "struttura-sovrastruttura" del
marxismo ma anzi mettendo a fuoco come luogo centrale qualcosa che é arduo definire in
modo univoco: la "cultura" del capitalismo? Il suo "immaginario"? La sua "ideologia
dominante"?
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D'altra parte il problema é reso ancora più complicato dalla notevole diversità delle
formule-chiave con cui studiosi vari han provato a definire la trasfomazione stessa del
capitalismo: si é parlato infatti di capitalismo post-industriale, di post-fordismo, di postmoderno (ma si noti che questo uso del "post" non produce una definizione se non in negativo,
per differenza, come fine di qualcosa), di "capitalismo culturale", di "capitalismo della
globalizzazione "etc.
Alla fine, se si vuole, é sempre lo stesso tipo di domanda che già tra fine ottocento e
primo novecento cominciarono a porre i "revisionisti": il cambiamento del capitalismo che
vediamo sotto i nostri occhi indica il passaggio a una nuova fase? E per quali caratteristiche
questa nuova fase rappresenta un superamento del modello classico oppure una
trasformazione che investe solo alcuni aspetti ma non investe il funzionamento " in generale"
del capitalismo stesso? Se mi si consente suggerisco un opportuno passo indietro, verso Marx,
quel Marx che in realtà non faceva molto ricorso al capitalismo come sostantivo preferendo
semmai l'uso dell'aggettivo (capitalistico) accanto a concetti come modo di produzione e
formazione economico sociale, per meglio rilevare la specificità storica di quegli stessi
concetti.
Certo il concetto di capitalismo designa esso stesso uno spazio storico, l'epoca del
"processo di valorizzazione", ma Marx era più avventuroso e problematico dei marxisti: era
arrivato a prendere nota che la transizione inaugurata dalla nascita delle " società per azioni"
apriva una fase in cui tendenzialmente il capitalismo avrebbe "oltrepassato" se stesso e i
capitalisti stessi sarebbero diventati i "funzionari "di un meccanismo impersonale. Per non
ricordare anche i famosi passaggi sul general intellect come forza produttiva essa stessa che
apriva una transizione in cui l'aspetto centrale non sarebbe più stato " il tempo di lavoro". Non
si tratta di aprire vecchie ferite e antiche "querelles". Si tratta più semplicemente di sbarazzarsi
di ogni richiamo di tipo profetico a Marx (compreso quello appena citato per le sue novità di
lettura) e di riconoscere come perfettamente legittima la domanda: siamo ancora nel
capitalismo o esso ha dato luogo a un " modo di produzione" che lo ha oltrepassato? In fin dei
conti gioverebbe a tutti partire da una domanda così radicale (e per niente "fantascientifica")
e- sbarazzatisi anche della metafora impossibile della struttura e della sovrastruttura- ritornare
alla domanda su cosa sia il motore della nuova complessità sociale (cosa che non fanno affatto
, ad esempio, i no-global, che leggono la globalizzazione come qualcosa che Marx aveva
profetizzato e che Lenin aveva indicato a proposito dell'imperialismo; non tutti, per fortuna,
perché una parte comincia a interrogarsi senza rete, per pure ipotesi). Se si tiene conto infine
che il concetto di "spirito del mondo" é di origine hegeliana, vale anche per esso l'invito a
farne a meno.
Un passo indietro : Walter Benjamin e il capitalismo come fantasmagoria”
Come si ricorderà siamo partiti prendendo spunto dal libro di Boltanski e Capello sul "nuovo
spirito" del capitalismo per riconoscere che questa linea di ricerca,pur fascinosa,finiva col
porre interrogativi metodologici di ampio respiro sulla questione del materialismo storico
marxiano e sul concetto stesso di capitalismo,che da un lato (nel suo riferirsi a un "modo di
produzione") sembra mantenere una caratteristica generale valida per un'intera epoca e
dall'altro, nel susseguirsi di fasi di crisi e innovazione ha conosciuto tali trasformazioni da
rendere legittima l'ipotesi che non ci sia più un modello teorico che le descriva e le spieghi in
termini adeguati. Perfino la domanda " provocatoria" - siamo sicuri che esista ancora il
capitalismo?- ha una sua legittimità critica e non può essere affatto respinta al mittente. La
verità é anche questa, dunque, che il problema di sapere cosa sia lo spirito del capitalismo é
stato affrontato cercando di mettere da parte la vecchia metafora della struttura e della
sovrastruttura e che l'intero ventesimo secolo é stato caratterizzato da una molteplicità di
approcci al tema del rapporto economia/politica/cultura/società che ha investito sia gli studiosi
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"marxisti" (da Gramsci in poi ) che tutti i principali studiosi di scienze umane e sociali - che
comunque con Marx sono stati costretti a misurarsi.
Si impone pertanto almeno una rivisitazione di alcuni studi che hanno rappresentato un
punto fermo del sapere novecentesco. Il primo a cui fare riferimento é Walter Benjamin, che si
é interrogato a lungo - con originalità profonda- sui rapporti tra materialismo storico e teologia
e ha cercato di offrire una angolazione di lettura del tutto inedita alla domanda " cos'é lo
spirito del capitalismo". "Il capitalismo fu un fenomeno naturale col quale un nuovo sonno
affollato di sogni avvolse l'Europa, dando vita a una riattivazione delle forze mitiche" osserva
infatti Benjamin nella fase di prima progettazione di un'opera come I "Passages" di Parigi.
Affermazione sorprendente che ha bisogno di alcuni chiarimenti: Benjamin infatti adopera
concetti di derivazione " romantica" ( natura, sogno e mito) di cui per? si avvale per coglierne
il limite : il mito ad esempio ha sempre una funzione "negativa", é la violenza della
eteronomia che si impone alla ricerca autonoma della coscienza moderna, e la sua
sopravvivenza in epoca contemporanea é pur sempre conferma di immaturità. In questo senso
il capitalismo introduce dall'inizio “l'evento sensazionale dell'assolutamente nuovo e
moderno" mescolato all'immagine di un "eterno ritorno dell'eguale", mantiene insomma al
moderno una forma mitica, ponendosi come "forma di sogno di ciò che accade", sogno
sognato da una collettività "che non conosce storia".
(Il discorso "teologico" di Benjamin ci porterebbe lontano, ma quanto meno va qui
segnalata la lettura teologica della modernità come "età dell'inferno": " il fatto é che il volto
del mondo, il suo capo macroscopico, proprio in ciò che é "più nuovo" non cambia mai, che
questo " nuovo" in tutti i suoi pezzi rimane sempre lo stesso. Ciò costituisce l'eternità
dell'inferno e il piacere innovativo dei sadici. Determinare la totalità dei tratti in cui si forma
questa "modernità" vuol dire rappresentare l'inferno").
E' noto che il nodo centrale beniaminiano é il riscatto teologico del passato, sua
"salvazione" in quanto risveglio" di un sapere non ancora cosciente di ciò che è stato", sicché
si tratta di applicare alla collettività una " teoria del sapere non ancora conscio". Anche il
capitalismo in quanto storia del passato vede dunque nella forma del sogno l'incontro del
conscio e del non conscio e quando Benjamin descrive il dominio e il trionfo della produzione
di merce introduce il concetto di fantasmagoria. Fantasmagorico é" lo splendore di cui si
circonda ... la società produttrice di merci", fantasmagorie sono " le immagini incantate del
secolo" che sono a loro volta anche " proiezioni del desiderio" della collettività, immagini con
le quali il capitalismo cerca " di eliminare e in uno di trasfigurare l'imperfezione del prodotto
sociale". Fermiamoci un attimo qui: é chiaro che Benjamin usa il concetto di sogno e quello di
mito in funzione parzialmente negativa, quasi un inganno, un miraggio, un 'illusione (in ciò
avvicinandosi alla marxiana teoria del feticismo della merce), ma é chiaro anche che questo
modo di lavorare sui sogni e i miraggi, le proiezioni, le rappresentazioni, si libera una volta
per tutte di ogni meccanicistico rapporto fra struttura e sovrastruttura e fa della cultura stessa
un passaggio essenziale della rappresentazione che il capitalismo fa di se stesso.
Dando a Benjamin quel che é suo non si può scorrettamente interpretare questo " nuovo
sonno affollato di sogni" che é il capitalismo come un giudizio positivo, ma non si può
nemmeno non prendere atto che Benjamin si occupa per primo di luoghi come i "passages" e
gli “interieurs”, i padiglioni espositivi e i panorami definendoli al tempo stesso come " simboli
del desiderio" e "residui del mondo onirico", un sognare in avanti come anticipazione del
futuro.
Benjamin in altri termini introduce senza consapevolezza, o all'interno di un impianto
teorico che coniuga l'archetipo junghiano con la teologia, questioni che oggi chiameremmo
inerenti l'immaginario e il simbolico. Questa sua prima lettura "fantasmagorica" del
capitalismo, punto d'incontro originale di marxismo e simbologia dei sogni, apre la strada a
terreni di ricerca in quel momento nuovi e "semina" qualcosa che non sa bene nemmeno lui.
Ma é un punto di svolta, di cui seguire gli sviluppi é nostro compito.
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Un modo di produzione simbolico?
Ripercorrendo nei suoi tratti più originali i passaggi teorici di Walter Benjamin nella sua
grandiosa ricerca sulla "fenomenologia della merce" abbiamo visto come ci sia una peculiarità
(il legame fra teologia e materialismo storico, un collegamento con la filosofia di Ernst Bloch,
l'eredità del romanticismo tedesco, la concezione del sogno - di derivazione junghiana) di
pensiero che é per certi versi irripetibile, tipica del suo autore. Ciò nonostante é lecito
chiedersi se questa linea di ricerca così originale, a confronto con le interpretazioni dominanti
del capitalismo nella prima metà del secolo XX e con la stessa lezione marxiana, non apra uno
squarcio indicando una possibile e innovativa chiave di lettura. Ne sia stato consapevole o
meno, Benjamin opera una "revisione" dei modelli tradizionali ( pur richiamandosi a una idea
messianica di rivoluzione) pervenendo di fatto a una " grandiosa legittimazione del punto di
vista del feticista" che si distanzia dalla marxiana teoria del feticismo della merce. Siamo
debitori per questa affermazione nei confronti della ricerca condotta da Furio Carmagnola, un
giovane studioso di estetica, nella sua recente opera "La triste scienza" (il
simbolico,l'immaginario, la crisi del reale) " (Meltemi, 2002). Egli infatti confronta la teoria
marxiana del feticismo della merce ( per cui dal feticismo come " parvenza,falsità, fake,
alienazione" si può uscire tramite la presa di coscienza - della contraddizione fra valore d'uso
e valore di scambio- innescata dalla critica dell'economia politica) con la teoria benjaminiana
della fantasmagoria della merce. In quest'ultima l'uscita dalla trivialità della merce é resa
possibile estremizzando" una radicale e misconosciuta promessa di felicità, prendendo in
parola la merce stessa e la sua apparenza e liberando nel consumo stesso il suo tratto
fantasmagorico. L'opera di Benjamin si presenta dunque come "una gigantesca fenomenologia
onirica della merce" sicché gli studi antropologici e filosofici che caratterizzano "l'attuale
economi ia del simbolico" non fanno altro che riprendere le intuizioni benjaminiane, "con
minore radicalità utopica e un opportunismo infinitamente maggiore". Benjamin apre dunque
una nuova linea di ricerca utilizzando due figure concettuali: ' un'idea utopica del feticismo e
una concezione neoromantica del simbolico e dell'immaginario come condizione collettiva,
sociale. Da questo punto di vista Benjamin ,che desidererebbe essere un marxista,é in realtà
romantico e junghiano". Non si tratta di accettare o respingere il progetto benjaminiano, si
tratta di comprendere che il doppio innesto da lui effettuato ( la fenomenologia da un lato, il
tema del sogno dall'altro) sovrappongono alla marxiana critica dell'economia politica la
dimensione del simbolico e dell'immaginario come percorso autonomo di conoscenza
rivelando implicitamente in Marx proprio l'assenza del ruolo specifico dell'immaginario nella
conoscenza. Ancora più illuminante un altro passaggio di Carmagnola: "Tutta la sua strategia
consiste nel prendere in parola l'apparenza- e l'apparenza più vistosa, come anche Marx aveva
mostrato, è proprio quella del feticismo. Qui però il feticismo diventa godimento
(immaginario, nel lessico dI Lacan) del lato onirico della merce, che porta al di là
dell'opposizione marxiana tra valore di scambio e valore d'uso per accedere a un terzo stadio:
lo stadio del sogno e del simbolo come enigma, arcano, visto dall'interno e vissuto come
Erlebnis. All'esperienza sociale e pubblica (Erfahrung) legata alla materialità concreta delle
relazioni e teorizzata da Marx, Benjamin contrappone l'esperienza poetica, singolare e
individuale: Erlebnis nella quale la merce non é più né valore di scambio né valore d'uso ma
'fantasmagoria di chi é dedito all'ozio […] correlato intenzionale dell'esperienza vissuta".
Fermiamoci un istante. Senza ripercorrere da Enzo Paci in poi la vasta letteratura sul rapporto
tra fenomenologia e marxismo, senza voler nemmeno aprire un contenzioso di fondo sulla
teoria della conoscenza nel materialismo storico, rimane il fatto che questo percorso
dell'esperienza poetica singolare e individuale o Erlebnis aggiunge o contrappone, scelga il
lettore, alla conoscenza pratico-sociale , alla marxiana Erfahrung, una possibilità di
conoscenza individuale e poetica, un “correlato intenzionale” dell'esperienza vissuta .
"Insomma nelle mani di Benjamin il feticismo stesso si trasfigura, cambia la sua natura: da
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potenza del falso a straordinario esito dell'applicazione sociale di una delle varianti del modo
simbolico. In questa visione , più che l'esito del processo di nascondimento delle relazioni
sociali il feticismo viene a rappresentare il residuo dell'utopia dell'infanzia come stadio
creativo e immaginifico trasportato nella vita adulta". Non seguiremo Benjamin nella sua
meravigliosa linea di ricerca sull'infanzia, quel che adesso vale la pena mettere in evidenza é
che egli ci spiega, in anticipo rispetto ai tempi posteriori in cui ce lo spiegherà l'antropologia,
che le merci "hanno un 'anima" (vedi Franco La Cecla, Non é cosa. Vita affettiva degli oggetti,
Eleuthera, 1998), che la conoscenza é risonanza della memoria e trasfigurazione simbolica
sempre, anche quando appare come conoscenza "falsa" fondata sull'apparenza. Se infatti per
Benjamin da un lato il simbolico é,junghianamente,archetipo, coscienza infantile perenne
dell'umanità, dall'altro esso é "un modo...ovvero un trattamento del reale che lo trasfigura,
l'esercizio di una attività onirica collettiva e sociale che mantiene una distanza, una sporgenza
e una opacità ( indecifrabilità, rebus) che nessuna critica materialistica può sciogliere".
Diremmo dunque che il simbolico e l'immaginario sono una diseconomia celata nel cuore
dell'economico. E' con questa "diseconomia' (che compare come sporgenza e come scarto che
nessuna critica materialistica può sciogliere che si gioca il destino stesso della marxiana critica
dell'economia politica e la sua lettura strutturale e sistemica del capitalismo come modo di
produzione, della merce come feticcio, della contraddizione fra valore d'uso e valore di
scambio come molla critico-pratica per la conoscenza e il superamento del capitalismo.)
Si tratta solo di un " di più" da aggiungere, dulcis in fundo, alla conoscenza criticopratica del sistema, o essa disfunzionalizza il presunto senso conoscitivo totale della
"coscienza politica di classe", re-introducendo una soggettività che era stata messa da parte
nella visione del mondo? Dire che il capitalismo produce ( e riproduce) rapporti sociali non
basta, bisogna capire come questi rapporti sociali siano sempre anche rapporti di mediazione
simbolica , che questa simbolizzazione consente di riprodurre una immagine del mondo come
processo che investe al tempo stesso la memoria ricostruita e il futuro immaginato come
possibile.
Cosa c'entra tutto questo con l'indagine su cosa sia il capitalismo? C'entra ovviamente
per il fatto di introdurre anche per il capitalismo il concetto di modo di produzione simbolico,
di far comprendere che il capitalismo e il suo "spirito" sono tutt'uno non più nel senso di fare
dello spirito il condensato ideologico dell'economia politica ma di pensare l'unità del
capitalismo e della sua rappresentazione come un intreccio di verità ed enigma, sogno e
trasfigurazione simbolica, che sfugge alla categorizzazione tradizionale. Anticipo già
l'obiezione: vorremmo forse dire che il capitalismo é solo una metafora, una simbolizzazione
iniziale? Ma alla luce della verità pratica " i padroni" esistono davvero, non sono un sogno. Il
fatto che il capitalismo esista come realtà oggettiva non può tuttavia mai essere separato dalla
rappresentazione collettiva e questa rinvia a sua volta ai singoli soggetti perché una società é
“società degli individui”(Norbert Elias)
Dall’economia della produzione all’economia della conoscenza
Se possiamo intravedere nella ricerca di Walter Benjamin il segnale di una svolta che
introduce il campo dell'immaginario come problema di lettura del capitalismo (lasciando
intendere come d'ora in poi non sarà più sufficiente il solo richiamo alla marxiana critica
dell'economia politica) , dobbiamo al tempo stesso prendere atto che nello stesso periodo é il
passaggio all'epoca del fordismo a costituire l'altra faccia della medaglia dello stesso
problema. Si pensi all'interrogativo posto allora da Antonio Gramsci con lo scritto su "
Americanismo e fordismo" e con il concetto di "rivoluzione passiva": siamo in presenza
appunto di una "rivoluzione" che legittima la domanda se il capitalismo sia ancora e sempre lo
stesso, un modo di produzione fondato sull'estensione del processo di valorizzazione, o se in
realtà dobbiamo cominciare a ragionare in termini di "mutazione antropologica", ipotizzando
la formazione di una moderna civiltà di massa i cui requisiti riguardano dei processi di
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"addomesticamento" sul lavoro e delle regole di consumo che vanno indagati con altre lenti.
Ma il sistema fordista ( col decisivo apporto complementare del taylorismo) appare pur
sempre come il sistema della "grande fabbrica" e confermare in questo senso il codice
interpretativo del marxismo: intensificazione del ritmo e quindi sfruttamento come
sottomissione non più "formale" ma "reale" del lavoro al capitale, poco importa ancora se il
processo di valorizzazione in fabbrica e quello sociale complessivo non sono la stessa cosa, se
adesso il sapere, i mass-media, la scienza sono "forza produttiva" e questa tende a sfondare la
valorizzazione fondata sul tempo di lavoro, liberando tempo, estendendo la massa dei consumi
e con esso il consumo di tempo. Per qualche tempo ancora le discussioni sulle caratteristiche
diverse del neo-capitalismo si conciliano con il discorso tradizionale sulla fabbrica, la classe
operaia e via discorrendo. In realtà ,per rimanere al linguaggio marxiano, il concetto di "forza
produttiva" si estende adesso al nuovo sapere tecnico ma anche ad elementi immateriali, alle
"rappresentazioni" e ai mezzi linguistici necessari ad esprimerle ; il concetto di sussistenza e
quello di povertà si allargano , comprendendo nel "consumo" anche i prodotti immateriali e
simbolici. Chi comincia a prenderne atto, scoprendo nei Grundrisse marxiani i passaggi
necessari a intravedere un capitalismo che non si basa più sul tempo di lavoro, é Panzieri con i
"Quaderni rossi": " i rapporti di produzione sono interni alla forze produttive e queste sono
plasmate dal capitale". Benissimo. Ma che capitale é un capitale autonomizzato dal vecchio
"rapporto di capitale" e divenuto soggetto totale che incorpora la società e la plasma.
L'analisi "operaista" si ferma pur sempre ai cancelli della fabbrica e giura che la società
é ormai un'enorme fabbrica. Non é così. Per tornare al Marx dei Grundrisse , " il sapere
sociale generale é diventato forza produttiva immediata, e quindi le condizioni del processo
vitale stesso della società sono passate sotto il controllo del general intellect e rimodellate in
conformità ad esso". Si può parlare di un capitalismo che tende dunque a superare se stesso
passando dall'economia della produzione all'economia della conoscenza, il tempo di lavoro
non é più l'unità di misura. Ma si deve parlare anche di una modificazione dei modi di
"vivere" lo spazio e il tempo, poiché lo spazio concentrato della produzione cede il campo allo
spazio molteplice senza più centro, il tempo " lineare" fondato sul calcolo cede il campo a un
tempo multiverso. L'episodio classico che condensa anche sul piano simbolico questa svolta é
quello della crisi Fiat col contrasto tra vecchi operai e giovani operai,alla fine degli anni
settanta. Avevamo scritto a suo tempo che " per la cultura politica del movimento operaio,
così strutturata sul tempo lineare e sullo spazio produttivo, così ancorata alle figure
dell'operaio in tuta blu e della fabbrica come centro, é uno strappo lacerante. Prima la '"guerra
di classe" era combattuta da due eserciti sullo stesso campo e il centro era la posta in gioco,
adesso c'é una miriade di bande e tribù, di movimenti e di gruppi, che si sciolgono e si
ricompongono con mobilità non prevedibili e ridiscussione delle appartenenze".
Sono antropologi e sociologi a coniare il concetto di economia del simbolico per tentare
di riconoscere appunto la trasformazione del capitalismo e della sua "economia" in un sistema
in cui , paradossalmente, la legge del valore non funziona più ma si é al tempo stesso
generalizzata estendendosi al simbolico. Una parte di studiosi si richiama comunque a Marx
per spiegare il passaggio: é come se fosse sparita "l'economia" nel senso però della sua
diffusione estrema, di un "allargamento del potere dell'equivalente generale" (Carmagnola).
C'é chi, coniugando insieme Marx e Foucault, descrive e riassume i nuovi processi di
pervasività della valorizzazione, la loro estensione fino alla sfera del privato e alla sfera del
consumo con la efficace formula "la nuda vita messa al lavoro" (Aldo Bonomi). E chi
analizzando la rivoluzione digitale e il postfordismo contemporaneo descrive una situazione
complessiva i cui " il territorio [...] i l linguaggio ( inteso come totalità dei codici di
comunicazione della specie ), il corpo ( o meglio il corpo-mente come totalità di elementi
biologici e culturali che costituiscono il soggetto umano) sono oggetto di un processo di
sussunzione capitalistica di tipo nuovo" (Carlo Formenti) Ci sono invece altre definizione e
ipotesi che fanno a meno del marxismo e sono però più descrittive che globalmente analitiche
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: si pensi alla definizione di “ Economia” culturale (A. Appadurai) , ad altre come economia
delle esperienze,industria delle esperienze (Pineii, Gilmore) o a quelle dell'ormai celeberrimo
Jeremy Rifkin (capitalismo culturale). Personalmente, al di là delle molteplici suggestioni che
sembrano derivare dai modelli teorici neo-marxisti, mi sembra poco persuasiva l'ipotesi di un
capitalismo che ha talmente superato se stesso da essere diventato un super-capitalismo in cui
la legge del valore fondata sul "tempo di lavoro" non esiste più ma la valorizzazione della
merce-equivalente generale si é estesa al mondo intero, il capitale non esiste più come
rapporto di sfruttamento ( plusvalore) ma esiste come feticismo generalizzato ed estensione di
un dominio impersonale, di una grande macchina globale. Sotto certi aspetti siamo di fronte a
un capitalismo immaginario, a una rappresentazione sociale interiorizzata, a un fantasma ( il
dominio globale) che pone il tema centrale della catastrofe, quasi una variante messianica del
vecchio tema della "crisi finale". E tuttavia é fin troppo evidente che mentre per tutto un
periodo il concetto di capitalismo ineriva processi materiali reali e il concetto di immaginario
ineriva a facoltà e disposizioni utopiche non reali, accettando per comodo che si possa e si
debba mantenere il concetto stesso di capitalismo- quanto meno perché nessuno é in grado di
definire il suo oltrepassamento se non con il trattino post-capitalismo che non dice niente definire non più quale sia il suo "spirito" ma appunto il suo immaginario comporta il
riconoscimento permanente del processo di simbolizzazione come interno al "rapporto
sociale" e forza produttiva esso stesso. Anche introducendo positivamente il marxiano general
intellect come soggetto e sintesi sociale, di esso l'immaginario é costitutivo, non collaterale.
Immaginario del dominio totale e dell’apocalisse o di un sogno sociale in azione ?
Mentre la lettura originale del feticismo capitalistico in Benjamin apriva la strada al
riconoscimento della " promessa di felicità" interna all'immaginario e al suo pensare l'altrove,
nella cultura di sinistra della seconda metà del secolo prendeva corpo, in connessione al
tentativo di spiegare la trasformazione stessa del capitalismo e al riconoscimento ormai
doveroso della comunicazione simbolica e del nuovo consumo di massa dei media, una lettura
estrema, di tipo apocalittico, che ripropone l'immaginario come luogo del dominio e quindi
luogo del falso, schermo sociale mediato dal potere nella sua auto-rappresentazione. Si
mescolano e si sovrappongono infatti due piani di analisi, uno più tipicamente legato al
dibattito sul capitalismo da parte marxista, l'altro più sociologico ed estetico inerente
l'industria culturale e i suoi prodotti.
La nuova " grande trasformazione" del capitalismo viene individuata in prima istanza
nell'integrazione sociale dell'antagonismo innescata dall'estendersi del dominio capitalistico
dalla fabbrica alla società, dalla produzione alla circolazione. I documenti dell'Internazionale
Situazionista, che raggruppa artisti d'avanguardia e filosofi, sono espliciti nel denunziare una
forma di alienazione generalizzata che non dipende più dallo sfruttamento della forza-lavoro
ma i servizi dello stato sociale, il consumismo che porta al dominio estremo del feticismo
della merce e a una forma di società " stregata" e capovolta in cui l'apparenza domina i
soggetti. Il testo più celebre in proposito è del francese Guy Debord, il cui titolo suggestivo
"La società dello spettacolo" condensa il tipo di metamorfosi in corso: il dominio del capitale
è in questa stessa metamorfosi, il processo di produzione si smaterializza perché l'immane
produzione di merci diviene produzione sociale di immagini. E' insomma un capitalismo che
esteriorizza nelle immagini la forma di relazione in modo tale che i corpi e le menti sono
padroneggiati dal dominio della comunicazione simbolica e quindi il dominio viene
interiorizzato estendendosi alle fantasie. Lo spettacolo è il rito di riproduzione della
smaterializzazione, dell'essere dominati da un immaginario che sostituisce la realtà con la
copia, col simulacro. Qui l'analisi dell'immaginario come veicolo della società stregata e
l'analisi della spettacolarizzazione permanente e infinita che il sistema dei media riproducono
convergono, l'omologazione delle culture e delle merci induce un sistema di valori
passivizzanti in cui tutti sono omologati dallo stesso consumo di produzione spettacolarizzata.
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La televisione si costituisce come moderno panottico, meccanismo spettacolarizzato di
controllo sociale, sulla scia del racconto orwelliano del Grande Fratello (con una singolare
inversione, Orwell scrive 1984 per denunziare il controllo totale del modello " comunista", qui
invece è il capitalismo, non quello del libero mercato e della concorrenza ma quello dei
monopoli e delle multinazionali - in cui mercato e concorrenza comunque sussistono- a
divenire veicolo del totalitarismo nella misura in cui la rappresentazione che il Capitale
produce si fa pervasiva dell'intera rappresentazione sociale). Tende a riprodursi quel modello
bipolare che già Umberto Eco aveva individuato, il contrasto fra una visione apocalittica degli
effetti devastanti della cultura di massa spettacolarizzata e una visione apologetica e integrata.
E, come allora, lo spazio per una terza posizione , critica, tende a essere annullato o a
comparire come una variante della tesi integrazionista. L'introduzione del computer e delle
tecnologie elettroniche è presentata come una conferma ulteriore del nesso causale che si
instaura tra tecnologia e contenuto del sapere sociale: una tecnologia incorpora al suo interno i
modelli cognitivi che la orientano, l'attività immaginativa è essa stessa una parte del tutto. Ma
in questo modo lo schema globalizzante torna a ridurre l'immaginazione a predicato di
qualcosa e a disconoscere la sua dinamica creativa, il suo stesso essere soggetto.
L'immaginario sociale non è un continuum lineare e omogeneo dei flussi di rappresentazione
che il sistema dell'informazione-merce riproduce, la sua frontiera è mobile, reagisce con altri
codici nel senso di interagire e rielaborare i codici ufficiali. Anche il nuovo immaginario della
fine secolo e degli inizi del duemila, la globalizzazione, sembra riprodurre e ripresentare i
problemi fin qui segnalati, una sorta di cristallizzazione ideologica che risente sia degli effetti
di uno scontro politico reale sia delle grandi paure collettive dell'apocalisse.
Il concetto e la formula della globalizzazione nascono infatti dentro un dibattito sul
capitalismo di fine millennio e gli effetti della tendenza alla unificazione economica che il
mercato mondiale induce. Poiché tra i molteplici effetti della globalizzazione viene colto e
individuato con attenzione crescente quello dello svuotamento dei poteri di decisione,
nazionali e statali, da parte di poteri più complessi, multinazionali e sovranazionali, lo scontro
delle decisioni tende a configurarsi come scontro fra la tendenza a un vero e proprio impero
sovranazionale e le singole potenze. E poiché, 1) la logica della decisione " in tempo reale"
del mercato sembra orientata da una filosofia generale che marchia di sé le rappresentazioni
del mondo, 2) il moltiplicarsi dei meccanismi di conflitto e di decisionismo accelerato si
contrappone ai tempi della mediazione e del progetto, 3) la fine dell'organizzazione fordista
della produzione ha dato a luogo a fenomeni di decentramento, flessibilizzazione dei ritmi e
dei modi di lavorare, nuova mobilità del lavoro etc. si forma un preciso scenario
interpretativo.
Esso é basato sull'accentuazione da un lato dei fenomeni di insicurezza e di rischio
sociale e dall'altro su processi e movimenti di nuova omologazione, uniformizzati dalla
globalità della logica economica, Nascono le teorie del cosiddetto pensiero unico ,
dell'appiattimento della rappresentazione sociale sulla logica del mercato. Siamo dunque in
presenza di un "immaginario politico" che condensa la transizione in atto unificandone il
processo e le forme e che va incontro in tal senso alle stesse obiezioni sollevate a proposito
della società dello spettacolo. Ciò conferma in ogni caso la straordinaria potenza simbolica
che il nuovo immaginario delinea e fa comprendere una volta di più come la produzione e
l'uso dell'immaginario sia oggi il nodo centrale delle società contemporanee, che concorrono
alla sua stessa elaborazione e alle forme della sua istituzionalizzazione come codice simbolico
dominante e come non si tratti solo di demistificarne gli aspetti più vistosamente
propagandistici e unidimensionali ma di riconoscere la portata stessa della simbolizzazione
politica ripercorrendo l'intreccio di vecchio e nuovo, gli aspetti archetipi e quelli nuovi di un
immaginario, il fiume di simboli in cui scorrono i significati e convergono le domande di
senso.
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Il "nuovo spirito" del capitalismo é lo svuotarsi del reale a puro spettro, sulla scia della
lezione di Lacan, né pare possibile distinguere tra realtà e finzione perché la finzione é realtà.
Ma occorre chiedersi seriamente e criticamente se questa rappresentazione dominante non
nasca da frustrazioni e sconfitte della sinistra stessa dopo il crollo del comunismo (questo si
dominio totale mascherato da ideologia dell'alterità) e la difficoltà di fare i conti davvero con
un capitalismo ormai posteriore a se stesso, metafora della mutazione proteiforme, simbolo
vivente di una "modernizzazione" permanente che svuota i legami sociali e accentua i processi
di individualizzazione fino al limite della non identità. Non c'é solo l'immaginario che il
potere proietta come la sua stessa ombra, c'é sempre accanto a esso la funzione creativa, dal
basso, radicale, di una immaginazione dell'altrove che la società re-inventa. Non c'é solo
l'immaginario passivizzante, c'é un continuo processo di simbolizzazione sociale che é
riproposto dalla società. Non c'é solo l'immaginario istituito, la proiezione di un mondo
manipolato ad hoc ,il suo agire da codice di orientamento; c'é ancora e di nuovo l'immaginario
istituente, che buca lo schermo del " capitale totale" e rivela lo scarto, la soggettività, il
dubbio, la critica, la speranza, la lotta, la solidarietà che si ricostituisce nei movimenti che si
strutturano come soggetti del cambiamento. Paradossalmente lo insegnano alla rovescia i
movimenti no-global, che da un lato descrivono la macchina " infernale" del dominio globale
e dall'altro ricostruiscono le reti, i fili di una comunicazione libera dal dominio, la trama di
una "democrazia" che - per quanto usurata come parola dalla retorica multi-uso- ripropone con
forza l'altro, il diverso, il plurale sociale, il conflitto, la verità che nel conflitto si ripropone
diversa. Ma riconoscere la funzione attiva dell'immaginario sociale e connetterla a un modello
critico interpretativo é un compito tutto da sperimentare, che va oltre i vecchi orizzonti e
indica tutta l'importanza di un progetto di nuove libertà e di nuove socialità, ponendo fine alle
ideologie del XX secolo e lavorando per addentrarsi davvero in quella "foresta dei simboli"
che é alla base del legame sociale e che il capitalismo non ingloba affatto ma prova a
riassettare a sua immagine e somiglianza senza mai poterci riuscire.
Attilio Mangano
Bibliografia dei testi citati di riferimento
Luc Boltanski Eve Capello, Il nuovo spirito del capitalismo,Gallimard, Paris,1999
Marco d'Eramo, Il capitale si vendica con gli interessi, "Il Manifesto" 6 giugno 2000
Herbert Marcuse, L'uomo a una dimensione, Einaudi, Torino, 1964
Walter Benjamin, Parigi capitale del XIX secolo, Einaudi, Torino, 1986
Ernst Bloch, Il principio speranza, Garzanti, Milano, 2005
Fulvio Carmagnola, La triste scienza, Meltemi, 2000
Franco La Cecla, Non è cosi, vita affettiva degli oggetti, Eleuthera, 1990
Raniero Panzieri, Lotte operaie nello sviluppo capitalistico, Quaderni rossi, n,1,1964
Guy Debord, La società dello spettacolo, Baldini e Castoldi, 2001
Attilio Mangano
Capitalismo e immaginario sociale
Prima edizione – Storia & Storici - 2012
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